giovedì 13 aprile 2017

Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»


Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.


Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]

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