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UNA FAMIGLIA IN ASCESA: i CAVALLARO
Il notaio Angelo Maria Cavallaro
Nella seconda metà del XVIII secolo si afferma una nuova
grande famiglia a Racalmuto, i Cavallaro. Muore giovanissimo, ma in tempo per
lasciare ampie tracce di sé Angelo Maria Cavallaro, notaio.
All’archivio di stato di Agrigento diversi tomi di atti notarili
lo riguardano ed al contempo forniscono un quadro della vita paesana
racalmutese, particolarmente suggestivo.
Era il 1767 e con bella calligrafia viene chiosato l’esordio
del repertorio del Cavallaro. «Jesus Maria Joseph – abbiamo nell’intestazione –
Nota minutarum mei D. Angeli Mariae Cavallaro Notarii Racalmuti, anni primae
inditionis 1767 et 1768 Regnante Serenissimo Invictissimo et Potentissimo D.no
Nostro Ferdinando, Dei gratia, inclito Siciliane, Hyerusalem Regi Infante
Hispaniarum, Duce Parmae, Placentiae Castri etc. Magno Haereditario, Etruriae
Principe etc.» [1]
Il 12 novembre del 1767 don Francesco Vinci bussa alla porta
del giovanissimo notaio; ha da redigere un atto con mastro Stefano Rizzo e,
come dicevasi allora, “consorti”; oggetto una compravendita di tre mondelli ed
una quarta di terre bonificate (vi sono venti alberi diversae speciei intus).
Il podere è sito nello “stato” di Racalmuto, in contrada “Perdicis” (Pernici)
vicino a certe terre di Calogero Barberi. Censi ve ne sono: tarì 1 e grana 17
annuali da corrispondere al feudatario, al conte di Racalmuto iure proprietatis.
Il valore del cespite è di 5 onze e tarì uno, giusta la stima effettuata
dall’estimatore mastro Giuseppe Maria Fusco.
Il notaio Cavallaro è diligente; raccoglie persino un
certificato di buona fede redatto dall’arciprete del tempo don Strefano
Campanella.
Il successivo giorno 15 è la volta di un notabile ancora più
in vista, il barone dr Nicolaus Antonius Grillo. Questa volta si tratta di un
complesso inventario a titolo di eredità. Il de cuius è il quondam D. Nicolaus
Tirone; gli eredi: D. Rosa Spinola e Tirone vedova di d. Stefano Tirone ed il
figliolo di questa d. Nicolò Tirone. E’ il gota dell’epoca. Oggetto
dell’eredità: «in primis, due muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra
femina di pilo bajo, che trovansi in società con Gaetano e Salvatore Pillasi;
un baldoino pizzato, due maratarazzi di linazza, due coltre di lana sfiloccate,
una allarama di Genova e l’altra alla stella; salmi quattro e tumuli dieci di
frumento; salmi quattro di tomminia; salmi dodici di orzo; salme sette di fave;
cinque stipe con duodeni botte di vino d’entro; sei vombari; uno zappollore;
due zappolle; una cascia di legname segata; tre bisaccie longhe di lana; una
pegnata di ramo; un palo di ferro; due piconi; un ferraiolo; una giammerosa; un
cappello e finalmente dieci e nove resti di fico.»
Nello stesso giorno viene stilato un documento di grosso
risalto per la storia feudale del paese. Actus gravaminis, viene denominato ed
è redatto a richiesta ed a tutela di un gabelloto dell’epoca, don Gaspare
Farrauto. «Io sottoscritto D. Gaspare Farrauto – possiamo tra l’altro leggere –
offerisco alla gabella del mosto che si sta bandiando nella piazza di questa
terra di Racalmuto con tutte le sue pertinenze, annessi e connessi, onze 150 da
pagarsi cioè l’incirca medietà dopo che si termina la cima del mosto, che si
dovrà fare in questa terra casa per casa, e l’altra incirca medietà all’ultimo
di agosto venturo prima ind. 1768. Col patto che la cima del musto la devo fare
io gabellato immediate, dopo che stipulerò il contratto di d.a gabella in
depondenza casa per casa col patto che qualora a Dio piacendo verrà l’ora
dell’esigenza che sarà al primo di luglio venturo prossimo 1768, io
infrascritto gabelloto dovrò esigere la detta gabella secondo la cima che o
fatto ora, servendomi del braccio baronale senza alcuna dipendenza. Col patto
che la Segrezia di questa mi deve difendere la sudetta gabella, ed io la
cautelo colle chiuse di terre che ho in questo stato ed altre pleggerie. E mi
sottoscrivo: D. Gaspare Farrauto.» Racalmuto, all’epoca, apparteneva all’ill.ma
donna Raffaela Gaetani e Buglio, duchessa di Val Verde. Suo governatore
risultava D. Antonio Grillo.
Un altro Farrauto, il sacerdote don Lorenzo, frattanto (21
novembre 1767) riusciva ad aggiudicarsi dal Principe di Pantelleria il vicivo
feudo di Nadorello. Uno scambio di terre (appena un tumulo ed un mondello in
contrada Pernice) avveniva tra Francesco Vinci e Stefano Lo Brutto. Si cercava
di razionalizzare la proprietà terriera, molto frazionata. Così, don Francesco
Pomo si accaparra da Maria Magno «modium unum et quartas tres terrarum cum
duobus centum sexaginta sex vitibus vineae et 4 arboribus amigdalarum in c/da
Mentae.» Il piccolissimo appezzamento di terra era gravato da un censo di tarì
1 e grana 10, spettante, iure propietatis, al venerabile Convento di S. Maria
del Monte Carmelo. Antonino Fucà ne fu il pubblico estimatore del valore in
linea capitale (3 once, tarì 6 e grana 10).
Gli eredi del quondam Giuseppe Martorana e Salvo Sentinella
hanno bisogno del notaio, il 29 novembre 1767, per una divisione di asse
ereditario. Calogero d’Ippolita dismette delle terre (due tumoli) in contrada
Lago, in farore di D. Francesco Vinci. Il 5 del successivo mese di dicembre,
mastro Calogero Romano acquista da Maria Rao e Russo «domum et catodium cum
antro parvo intus, contigua et collateralia existentia in hac predicta terra et
quarterio della Lavanca, quibus cohesent domus ipsius de Romano, domus Calogeri
Avarelli, domus Philippi Rizzo et aliis.»
L’8 dicembre 1767, Antonino Tornabene viene messo a bottega
presso il ciabattino (cerdo) mastro Pietro Picone. Se ne redige atto pubblico
in questi termini: viene affidato a «magistro Petro Picone cerdoni
[perché usufruisca dell’] opera et servitia personalia» il minorenne Antonino
Tornabene di soli quindici anni. Il ragazzo «adiuverit artem cerdonis et hoc
pro annis 4 ab hodie numerandum … et hoc pro mercede granorum quorum singulis
diebus tam festis quam pro festis pro primo anno; pro secondo granorum trium,
pro terbio granorum quatuor; pro quarto tandem granorum quinque.» Il Tornabene
è però svincolato da ogni rapporto per i mesi di luglio ed agosto: ovviamente
dovrà seguire i suoi nella “campagnata”.
I La Matina, gente facoltosa, ha problemi di divisione di
terre facenti parte dell’asse ereditario del quondam Francesco La Matina. Si
tratta, fra l’altro, di «tumuli septem et modium unum terrarum cum quibusdam
terris rampantibus in eis inclusis in c/da S. Martae.» Vi insiste un censo di
23 tarì e 9 grana. Nella parte scoscesa «fuit constructm calcatorium sive
palmentum». Era l’ultimo atto del 1767 cui si accingeva il notaio Angelo Maria
Cavallaro.
Il 1768 si apriva con un atto dotale che val la pena di
riportare per lo spaccato che vi traspare. Filippa La Licata si fidanza con
Vincenzo Schillaci ed ecco il “piazzo” della futura sposa:
«Item bona mobilia scilicet un matazarro ed un sacco di
letto novo, un paro di linzoli grossi novi, un lenzuolo sottile ingroppato
novo, una culta bianca usata, un vantiletto usato ingroppato, un spongiatore
ingroppato novo, due para di piomazzi, cioè un paro usati ed un paro novi, due
para di piumazzelli novi, due para d’ imbesti di facciletti ingroppati novi, un
padiglione usato ingroppato, una cascia usata, tre tovagli di faccia novi, una
culta di lana e filato novi, un paro di cervelli d’oro prezzo ventiquattro
tarì, quali si trova all’orecchi sud.a sposa, un chippone in tocco di lilla, un
manto di scotto novo, una falcetta per la messa in tocco di canni due di saja, tre
camicie di donna novi, tre bocciatori cioè due di filodente, ed uno d’Olanda
ingroppato novi, un spito ed una candela di ferro e finalmente la zita vestuta
per la casa, come si trova.» Deliziosa quella «zita vestuta per la casa, comu
si trova».
Vi sono pure dei beni immobili, poca cosa, che comunque
rendono un poco più giustificabile il ricorso al notaio per una dote che oggi
neppure verrebbe presa in considerazione. Alla sposa va «medietas vineae cum
terris uti vulgare dicitur “lavorativi” … in contrada Perdicis, [nonché] domus
terranea in quarterio Ss. Crucifixi pauperum apud domum Filippi d’Ippolita,
domum d.i Ignatii dotantis et alios ..»
Un «domunculum terraneum existentem in quarterio S.i Joseph»
compra il 16 gennaio 1767 Calogero Taibi Corbo da Giuseppe Milazzo Sorcillo: i
soprannomi – molti dei quali ancor oggi in uso – sono consuetudinari, come si
vede.
In contrada Noce - anche all’epoca, prestigiosa – Francesco
Scimé riesce a farsi vendere dal notabile d. Francesco Pomo «tumulos sex et
quartas duas terrarum cum quinque millibus rt bis centum vitibus vineae et
erboribus diversae speciei in contrada Nucis.» L’atto, schematicamente,
precisa: «omnes vero summae harum terrarum de lordo ascendunt ad dictas uncias
septuaginta novem et tarinos sexdecim.»
Dove e come abbia potuto il popolano Francesco Scimé
raggranellare quella enorme cifra, non sappiamo. Da lì, una nuova famiglia
assurge a vette di rispetto nell’angusta società racalmutese: nell’Ottocento e
nel Novecento gli Scimé sono di varia levatura economica. Un filone, però,
svetta, e domina sino ai nostri giorni.
Seguiamo, ora, quest’altro atto dotale: Nicoletta Bufalino
fa promessa matrimoniale a Francesco Salvo. Il suo “pitazzo” annovera:
«item due matarazzi nuovi pieni di resca, tre para di piomazzi,
tre para di faccioli, due para di lenzuoli grossi, una cultra rossa alla gioia,
un giraletto rosso, un cortinaggio novo alla gangitana, una cultra con un
giraletto tessuti all’onda sfiloccati, un paio di lenzuoli sottili, un paro di
piomazzi con suoi faccioli sottili inguarnazionati, sei tovagli di faccia
sottili, canni quattro di tovagli grossi, un sponziatore sottile con
guarnigizione, un manto, due falcette, una di giambollottino nero, ed una altra
rossa nova, un panno novo, quattro gipponi, cioè uno di perpetecello azzolo,
uno di pepeticello verde, uno di benforte, ed un altro di spinno, cinque veli
cioè tre di filindente, e due d’Olanda, una cassa nova alla genovesa, e
finalmente la zita vestita come si trova.» Oltre alla “robba” alla sposa spettano
4 tumoli di terra con 700 viti ed alberi, siti nel feudo di Gibillini.
Don Francesco Vinci riesce a fare una permuta di terre con
Paolo Salemi. Antonino Scimé può permettersi di comprare da Filippo Castiglione
solo «modium unum terrarum cum biscentum quadraginta tribus vitibus vineae et
arboribus fici in c/da Fanarae.»
Un contratto dotale avviene tra Rosalia Franco e mastro
Carmelo Napoli. Rosalia Franco viene data in isposa a soli 14 anni. La
fidanzatina si distingue per un anello d’oro, un paio di circelli d’oro ed una
collana d’ambra. E’ il 30 gennaio 1768.
Il successivo 9 febbraio Ciro Rizzo compra da Lorenza Galifa
una casa a S. Giuliano per il prezzo di onze 4.13.14. Giovanni Carbone acquista
da Giovanni Capitano e consorti un mondello di terra ed una quarta. Francesco
Lauricella da Lorenzo Salvo una casa; Giovanni Tirone da Francesco Lo Brutto e
consorti, tre mondelli di terra a Rocca Russa; Francesco Marsala di Grotte
scende a Racalmuto per un contratto con Mario d’Arnone.
Siamo a fine marzo del 1768: Anna Tulumello pensa all’anima
sua e dona alla Cappella di S. Maria del Suffragio «intus matricem» un tumulo
di terra da estrapolare dai 5 che possiede alla Menta. In cambio, i
responsabili della Venerabile Cappella debbono «celebrare facere missam
solemnem cum interventu et assistentia totius cleri et semel capere duas bullas.»
In quel marzo qualche strana tassa sulle professioni
dovettero inventare i Borboni: ecco che Don Francesco Savatteri «nolle amplius
exercere officium aromatarii». L’avrà fatto dopo abusivamente.
Salvatore Piccione compra da Giuseppe Milazzo una casa sita
a S. Nicola per il prezzo di onze 10.16.10; Filippo d’Ippolita la compra per
onze 5.4.0 da Luciano Morreale Campanella: è casa però diruta ed è posta in
quartiere ut dicitur della Rocca della za Betta.
Don Calogero Tirone ottiene da Rosa Spinola e consorti domus
terranea existens in S. Maria Montis. Filippo Rizzo compra da Calogero La
Mendola e consorti tumoli 1 et quarte 2 con 800 viti e 2 alberi di pero in
Gibillini, contrada di Gargilata «apud terras dicti d. Rizzo, terras Calogeri
Palermo, terras Batoli Scimé. Dette terre sono soggette a onze 3 «singula salma
iure proprietatis debitis Ill.° Baroni d. feudi Gibillinorum». Il prezzo: onze
5.5.
«Calogero La Mendola e Venera Diana, marito e moglie,
campano poveri», attesta l’arciprete D. Stefano Campanella; sono quindi
facoltizzati a vendere quel po’ di beni immobili che possiedono a titolo
dotale.
Data all’11 aprile 1768 «testamentum Christophalae Baeri,
uxor Raimondi Borsellino». Angelo Tulumello compra terre da d. Gioacchino Lo
Brutto per l’esorbitante cifra di onze 7. E giungiamo al 22 di aprile del 1768
quando un antenato di Leonardo Sciascia spitula un contratto societario di
grosso momento. Si tratta del padre del «nonno del nonno» dello scrittore, che
non solo non viveva, come vorrebbe il celeberrimo pro nipote, a Bompensiere, ma
operava come conciatore di pelli nelle nostre lande. L’atto [2] descrive la singolare societas tra
mastro Giuseppe Alfano e mastro Carmelo Bellavia che conferivano «uncias
quadraginta unam et tarenos decem et octo» per comprare 24 cuoi di bue e
lavorarli, «in pretio vigenti quatuor coriorum bovum.» Da una parte affiancava
mastro Giuseppe Alfano mastro Pietro Picone, dall’altra era proprio mastro
Leonardo Sciascia che si associava a mastro Bellavia.
Non va però oscurato il fatto che già alla fine del ‘600 i
Cavallaro erano emersi dal grigiore paesano. Attorno al 1660 nasce il sacerdote
don Calogero Cavallaro; questi assurge a collegiale e quindi ha rendite più che
notevoli. Fatto sta che quando muore, invero tutto preso dal terrore dell’al
dilà, lascia un testamento tutto carico di legati per le chiese. Abbiamo visto
sopra come anche la confraternita del SS.mo Sacramento, alloggiata in 70
scranni di legno nell’oratorio di S. Tommaso d’Aquino, beneficia di tali
lasciti, alcuni dei quali veramente singolari, pecore e fuscelli d’api. Il
Cavallaro, morto il 12 gennaio 1730, qualche bene però alla famiglia dovette
lasciarlo: si dà il caso che da quel momento quel ceppo passa tra i notabili di
Racalmuto. Il notaio è il primo di una serie che darà lustro e decoro ad
una nuova sciatta di “galantuomini” che perdurano ancor oggi.
Nel 1664 due sole famiglie Cavallaro c’erano a Racalmuto:
entrambi i capi dei “fuochi” si chiamavano Pietro e, per distinguerli, uno
veniva denominato Maiuri e l’altro Minuri; Calogero Cavallaro apparteneva al
nucleo di quest’ultimo, come si evince dalla seguente registrazione
nell’apposita “numerazione delle anime”.
CAVALLARO MINURI
|
PETRU
|
C.
|
|
PAULA
|
M.
|
C.
|
|
CALOGGIARU
|
|||
GRATIA
|
F.
|
Nessuna aggettivazione riscontriamo in ordine all’eccellenza
della famiglia, che dunque era ancora attestata ai livelli dei piccoli
proprietari locali.
Un oscuro chieri, Orazio Cavallaro, muore attorno al 1715
(v. LIBER n° 182). Muore nel 1784, all’età di 46 anni, un altro ecclesiastico
di spicco, anche questo chiamato Calogero Cavallaro, che nel LIBER (n° 288)
viene indicato genericamente come “abbate”. Ma è solo nei primi decenni
dell’Ottocento che tornano i preti autorevoli in quella famiglia. Il nostro
LIBER (n° 360) ci informa che don Emmanuele Cavallaro fu arciprete di Realmonte
e là morì il 21 febbraio 1836.
Ma già, ai primi dell’Ottocento, i Cavallaro sono degli
ottimati locali soprattutto per la professione notarile, ove contemporaneamente
eccellono vari comoponenti della famiglia, come dimostra quest’ultima
numerazione delle anime del 1822.
5671
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE ELIA SAC.
|
SAC. D.
|
|||
5696
|
CAVALLARO
|
GABRIELE
|
NOTARO D.
|
|||
5697
|
CAVALLARO
|
M. GIUSEPPA
|
MOGLIE
|
DONNA
|
||
5698
|
CAVALLARO
|
BERNARDO SAC.
|
F.O
|
SAC. D.
|
||
5699
|
CAVALLARO
|
GIOVANNI
|
F.O
|
30
|
D.
|
|
5700
|
CAVALLARO
|
ROSA
|
16
|
|||
5701
|
CAVALLARO
|
CALOGERA
|
F.A
|
9
|
||
5703
|
CAVALLARO
|
GIROLAMO
|
VEDOVO
|
D. NOT.
|
||
5704
|
CAVALLARO
|
ANTONINA
|
F.A
|
2
|
||
5705
|
CAVALLARO
|
PIETRO
|
NOTAR D.
|
|||
5706
|
CAVALLARO
|
CALOGERA
|
MOGLIE
|
DONNA
|
||
5746
|
CAVALLARO
|
FELICE
|
NOTAR D.
|
|||
5747
|
CAVALLARO
|
DOMENICA
|
MOGLIE
|
DONNA
|
||
5748
|
CAVALLARO
|
CALOGERO SAC.
|
F.O
|
SAC. D.
|
||
5749
|
CAVALLARO
|
IGNAZIO SAC.
|
F.O
|
SAC. B.LE D.
|
||
5750
|
CAVALLARO
|
ROSALIA
|
F.A
|
D.
|
||
5751
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE DI D. FELICE
|
D.
|
|||
5752
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPA
|
MOGLIE
|
DONNA
|
||
5753
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE
|
F.O
|
M. 1
|
||
Ben 19 membri ormai dominano il paese con quattro
notai e quattro sacerdoti. I maschi sono ora segnati in Matrice con l’orpello
di “don”, le donne con quello di “donna”.
Nel Settecento, i Cavallaro si erano socialmente irrobustiti
con matrimoni d’alto livello, che li avevano imparentati con le più cospicue
schiatte del notabilato locale.
Un matrimonio che segna un salto nella scala sociale fu di
sicuro quello che nel primo quarantennio del ‘700 contrasse don Emanuele
Cavallaro con donna Melchiorra Lo Brutto: costei apparteneva ad una famiglia
che a quel tempo dominava Racalmuto, anche se con toni sempre più sommessi, per
il fatto che aveva gravitato su un arciprete molto intimo dei del Carretto.
Attorno al 1754, il Cavallaro abita in un’ampia casa, sita nell’esclusivo
quartiere della Piazza, come ci attesta un rogito:
Tiene ed esige di don Emmanuele Cavallaro tt. 10.10 sopra
n.° 4: casi consistenti in quattro stanzi in questa Terra quartieri della
Piazza confinante con casa di don Giuseppe Bellavia e strata che ragionati al
5% il capitale importa onze setti ....................................................................
-/ 7
I Cavallaro risultano, in atti del 1715, proprietari, sia
pure con i vincoli feudali all’epoca esistenti, di fondi
nella contrata di Bovo confinanti con li terri di Onofrio
Cavallaro, con li terri di Geronimo Macaluso, e d'altri confini. Suggetti in
gr: cinque dovuti ogn'anno per raggione di proprietà all'Ill.e Conte di
Racalmuto
Ma, alla fine del ‘600, erano ancora in ristrettezze tanto
da essere costretti ad alienare case di proprietà, come dal seguente rogito:
A 21 settembre X4^ Ind. 1690
Venditione fatta da Pietro Cavallaro al venerabile Convento
di S: Maria del Carmine di questa d'una casa terrana sita e posta in questa
terra e quarterio di S: Margaritella confinante con la casa di Santo d'Agrò et
altri confini. La posessione ci la diede la medesima giornata per lo prezzo di
-/ 2:21:10: di contanti come meglio per detta venditione il di di sopra.
Del resto, lo zio sacerdote aveva avuto fondi per acquistare
terre dai fratelli Savatteri, che stavano attraversando un momento
economicamente difficile. Eccone gli estremi
A 28 dicembre 7^ ind. 1698
Vendizione fanno Vincenzo e Michel'Angelo Savatteri di
Racalmuto al Sac. d: Calogero Cavallaro di una pianta di vignia consistenti in
migliaro uno e viti quindici con sue alberi limiti, e altri existente nello
fego di Racalmuto, e nella contrata di Bovo confinanti con la vignia di Santo
Calello con li terri dell'heredi del quondam Notaro Carlo Pumo e d'altri
confini. Suggetta in tt. uno grana due e piccioli trè dovuti pre raggione di
proprietà all'Ill.e Conte di Racalmuto. La posessione della quale ci la diedero
lo stesso giorno per lo prezzo di onze deci e tt. vinti quattro quale secondo
la stima fatta per Marco Ristivo, e Marco Falletta quali prezzo li sù detti
Savatteri lo confessorno de contanti, e come meglio per detta vendizione si
legge.
E subito dopo è la volta di una casa che allarghi quella già
posseduta:
A 15 ottobre 8^ Ind. 1699
Venditione fatta da Baldassaro Scibetta e Giovanna La Calci
vidua relicta del quondam Stefano al r.do Sac. D. Calogero Cavallaro d'una casa
terrana posta in questa terra di Racalmuto nel quartiero di S. Margaritella
confinante con la casa di detto di Cavallaro e con la casa di Michael Angelo e
Antoni Burgio. La posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo di
onze 2: come meglio per detta venditione il di di sopra.
Il reverendo ora vuole aumentare l’estensione delle sue
terre. Intanto compra quest’appezzamento:
A 26 novembre 8^ ind. 1699
Venditione fatta da m.° Pietro e m.° Giachino Facciponti
patre e figlio al sac: d. Calogero Cavallaro d'una vigna consistente in
645 viti incirca con suoi arbori posta nel fego di questa nella nontrata di
Piomentisi confinante con la vigna di detto di Cavallaro e confinante con la
vigna di Filippo di Costa. La posessione la diede la medesima giornata per lo
prezzo di onze 6.25. come meglio per detta venditione il di di sopra.
E l’anno successivo quest’altra casa:
A 19 agosto 8^ ind. 1700
Venditione fatta da Francesco e Beatrice d'Alaimo Sciortino
Giugali al Sac.te d. Calogero Cavallaro d'una casa terrana posta in questa
terra nel quartero di S: Margaritella confinante con la casa di detto d. di Cavallaro
e altri confini. La posessione della quale la diede la medesima giornata per lo
prezzo di onze 4: come meglio per detta venditione il di di sopra.
Non disdegna il nostro sacerdote di dedicarsi all’acquisto
di case a scopo speculativo, per darle in affitto, come sicuramente sarà
successo per questa nuova proprietà immobiliare:
A 23 Marzo 13^ Ind. 1705
Venditione fatta da Catarina e Stefano Pitrotto matre e
figlio al sac. d. Calogero Cavallaro d'una casa terrana posta in questa,
quarteri dello Castello seu Fontana confinante con Giuseppe Salvaggio e via
publica. La posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo secondo sarà
la stima e meglio in detta venditione il di di sopra.
Inizia la corsa alla terra:
A 7 ottobre 14^ Ind. 1705
Venditione fatta da Stefano, Giovanne, Anna e Angela
Milisensa madre e figli al Sac. d. Calogero Cavallaro d'una chiusa consistente
in salme -.4.1. di terra posta nel fegho della Menta contrata etc. confinante
con Mariano La Fichera e con heredi di notaro Carlo di Puma e altri confini.
Soggetta in tt. 2.27. annuale per ragione di proprietà all'Ill.e Conte di
questa. La posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo di -/ 8.14.
de netto e meglio in detta venditione il di di sopra.
Compera cui si aggiunge la seguente:
A 10 Settembre 4^ Ind. 1710
Venditione fatta da Vincenzo Cullura Polito al Sac. d.
Calogero Cavallaro di tummina dui, e mondella tre e quarte due di terre poste
nel fegho della Menta e contrata di Fico Amara confinante con Paulino di
Nicastro, e d' Andria Tulumello ed altri confini. Soggetti in tt. 2 per ragione
di proprietà all'Ill.e Conte di questa. La posessione la diede la medesima
giornata per lo prezzo di -/ 6.8 de contanti e come meglio in detta venditione
il di di sopra.
E quel sacerdote passa da una compera all’altra. Ecco
quest’altro significativo rogito:
A 13 novembre Prima Ind. 1707:
Venditione fatta da Santa Biundo relicta del quondam
Melchiorre e Francesco Grillo suo genero vendorno al R.do d: Calogero Cavallaro
tummina dui mondelli dui e quarti dui di terri in questo fego e contrata della
Nuci confinante con li terri del Sac: d: Giovan Battista Baera ed altri
confini. La posessione la medesima giornata per lo prezzo di onze 5:23: di
contanti come meglio per detta venditione il di di sopra.
E quest’altro:
A 18: Dicembre Prima Ind. 1707
Venditione fatta da Mariano Burrugano al detto R.do Sac: d:
Calogero Cavallaro tummina dui e mondelli dui di terre in questo fego
confinante conli terri di Paulino di Nicastro ed altri confini. Suggetti in
tt.1.17.3. per ragione di proprietà all'Ill.e conte. Il posesso la medesima
giornata per lo prezzo di -/ 4:17:3: di contanti come meglio per detta
venditione il di di sopra.
Ed ancora:
A 11: Gennaro Prima Ind. 1708
Venditione fatta da Nicolò Castilluzzo al R.do Sac. d.
Calogero Cavallaro di tummina dui di terre in circa in questo fego e contrata
della Nuci confinante con li terri del detto di Cavallaro ed altri confini.
Sogetti in tt. 2:5: per ragione di proprietà all'Ill.e Prencipe Conte. La
posessione la medesima giornata per il prezzo di -/ 5:14:10: di contanti come
meglio per detta venditione il di di sopra.
Insaziabile la fame di terra di don Calogero Cavallaro. Il
suo fondo alla Noce, forse proprio quello che ancora la famiglia possiede, di
estende in data:
A 9: ottobre 2^ Ind. 1708
Venditione fatta da Sor: Maddalena Chiumbino al R.do sac. d.
Calogero Cavallaro di tummina quattro di terre in circa in questo fego e
contrata della Nuci confinante con li terri del detto di Cavallaro. Sugetti in
tt. 2:2:3: per ragione di proprietà all'Ill.e Conte etc. La posessione la
medesima giornata per lo prezzo di -/ 9:18:10: di contanti come meglio per
detta venditione il di di sopra.
Ed ora la voglia di case:
A 22 Gennaro 2^ Ind. 1709
Vendizione fatta da Salvatore Pitrozzella al Reverendo Sac.
D. Calogero Cavallaro d'una casa in questa terra e quarterio di S: Margaritella
confinante con li casi di Giovanne Capobianco ed'altri confini. La posessione
la medesima giornata per il prezzo di -/ 7: di contanti come meglio per detta
venditione il di di sopra.
E’ la stessa nobiltà dei Del Carretto che ora vende a quel
sacerdote con disponibilità liquide davvero inesauribili:
A 10 Febraro 2^ Ind. 1709
L'Ill.e D. Maria del Carretto, e Montaperto fece venditione
al rev.do sac: d.Calogero Cavallaro di questa di tummina tre, e mondella dui, e
quarta uno di terra existente el fegho della Menta confinante colle terre del
suddetto di Cavallaro, e colle terre del Marcato del sudetto fegho. Soggetti in
tt. dui, grana tredici, e piccoli tre annuali dovuti ogn'anno all'Ill.e Conte
di Racalmuto per ragione di proprietà in virtù di suoi contratti. Per lo prezzo
di -/ undici tt. setti grana dui e piccoli tre come furono existimate per
Ippolito Fucà. Quale prezzo lo confessò de contanti. La posessione d'hoggi
innante.
L’anno successivo è la volta di una nuova casa:
A 27 Febraro 3^ Ind. 1710
Soro Giuseppa Macaluso di questa terra di Racalmuto fece
vendittione al Rev.do Sac: d. Calogero Cavallaro di questa d'una casa in questa
terra, contrata di S. Margaritella confinante colle case del sudetto di
Cavallaro di questa - franca di censo. La posessione d'hoggi innante per lo
prezzo di onze tre e tt. ventinovi come fù estimata per m.° Alessandro Picone.
Quale prezzo lo confessa de contanti.
Ed ancora nuove terre:
A 16 ottobre 4^ Ind. 1710
Soro Perpetua di Nolfo di questa terra di Racalmuto
fece vendizione al Sac. d. Calogero Cavallaro di questa d'una chiusa
consistente in tumolo uno e monnella tre di terra incirca existente in questo
Stato contrata della Nuci e Menta confinante con la chiusa del supradetto di
Cavallaro. Soggetta in tt. uno e grana cinque annuali dovuti all'Ill.e Conte di
Racalmuto per ragione di proprietà in virtù di suoi contratti. La posssione
d'hoggi innante per lo prezzo di onze quattro tt. venti grana dudici e piccoli
tre a ragione ad'onze quaranta salma. Quale prezzo lo confessa de contanti.
Siamo nel 1712, altro acquisto:
A 17 ottobre 6^ Ind. 1712
Venditione fà Sebastiano Cullura di Racalmuto al Sac. don
Calogero Cavallaro anche di questa d'una vigna nel fegho di Racalmuto e nella
contrata della Montagna confinante con la vigna di Geronimo di Giglia, e
confinante con la vigna e chiusa di Vincenzo Cullura. Sogetta in tarì sei e
grana uno cioè tarì uno e grana uno all'Ill.e Sig. Conte di questa e tarì
cinque alla Venerabile chiesa di S: Michele anche di questa sudetta terra. La
posessione ci la dona il medesimo di per lo prezzo di onze cinque quale onze 5.
detto confessa haverli ricevuto di contanti come meglio per detta venditione
appare sotto il di di sopra.
La voglia di terra spinge il sacerdote ad accollarsi canoni
e censi pur di venire in possesso fondi coltivabili, come questo caratteristico
atto di “renuncia e relaxito”, da parte di un facoltoso notaio. Attesta:
A 9 novembre septima ind. 1712
Notar Giachino Spinola di questa terra di Racalmuto fece
renuncia e relaxito al Rev. sac: d. Calogero Cavallaro pure di questa di salma
una, tummina quattro e monnelli dui di terra existente in questo Stato
confinante colla chiusa di Petro Farrauto la Pupara e via publica ed'altri
confini. Soggetta nella rata del censo dovuto a questo Stato per ragione di
proprietà. La posessione d'hoggi innante etc. lo relaxito per lo medesimo
censo.
Sono proprio inesauribili le risorse finanziarie di d.
Calogero Cavallaro, non riconducibili certo alle sole consistenze del
“patrimonio” di cui fu dotato per accedere al sacerdozio. Ne è conferma questo
rogito di un paio di anni dopo:
A 16 ottobre ottava ind. 1714
Notar Isidoro Lo Brutto, Nicolao Puma, Notaro Calogero
Alferi e Geronimo Grillo Jar.° e mastro Pietro, ed Ignatio Facciponti
patre e figlio in solido fecero venditione al rev. sac. d. Calogero Cavallaro
di questa di un Palmento collo terreno suggetto a detto palmento posto in
questo Stato contrata di Bovo confinante con la vigna di detti Facciponti, e
vigna di Caetano Cammalleri - franco di censo. La posessione d'hoggi innante.
Per lo prezzo di onze venti come fu stimato per mastro Alessandro Picone Capo
Mastro, quale lo confessa de contanti.
Nella seconda metà del Settecento i Cavallaro sono davvero
affermati a Racalmuto. Vediamo ad esempio questo matrimonio:
31/7/1768
|
CAVALLARO D. GIUSEPPE DELLI FURONO D. EMMANUELE E
|
BRUTTO D. MELCHIORRA
|
BIONDI D. CALOGERA DE.LLI FURONO D. FRANCESCO
|
SOLDANO D. ROSA
|
Don Giuseppe Cavallaro, figlio di quei coniugi che abbiamo
citato sopra, può sposare donna Calogera Biondi, che seppure orfana di entrambi
i genitori, è pur sempre un membro di una notevolissima famiglia racalmutese di
quel periodo.
Il fratello, un notaio, sposa una Savatteri, donna Domenica
figlia di Francesco e di Lo Brutto Dorotea: famiglie importantissime che fanno
quadrato con vincoli matrimoniali:
27/8/1780
|
CAVALLARO NOT. D. FELICE DELLI Q. D. EMANUELE
|
BRUTTO D. ELENORA
|
SAVATTERI D. DOMENICA DEL Q. D. FRANCESCO E
|
BRUTTO D. DOROTEA
|
PER D. JOSEPH SAVATTERI ET BRUTTO: TESTI D. PAOLO TIRONE E
ISIDORO AMELLA
|
Ed un terzo fratello, un medico, convola a nozze sempre con
una Biondi:
18/11/1786
|
CAVALLARO Dr D. GABRIELE DELLI Q. EMANUELE E
|
BRUTTO D. LEONORA
|
BIONDI D. MARIA DI D. VINCENZO E
|
RINALDI D. ROSARIA
|
PER D. JOSEPH SAVATTERI E BRUTTO
|
A fine secolo, abbiamo due Cavallaro che sono sacerdoti:
CAVALLARO
|
EMMANUELE SAC. DON
|
36
|
SAC. DON
|
GIUSEPPE ELIA SAC. DON
|
28
|
SAC. DON FRATELLO
|
Un altro con moglie, zia settantenne e serva:
CAVALLARO
|
PIETRO
|
36
|
DON
|
|
CALOGERA
|
M
|
28
|
DONNA
|
|
GIUSEPPA
|
70
|
D: ZIA
|
||
RINCIGLIO
|
MARIA
|
50
|
SERVA
|
Il capostipite, notaio, con un nucleo familiare assortito:
CAVALLARO
|
FELICE NOT. D:
|
60
|
NOTAIO D:
|
|
DOMENICA D:
|
M
|
40
|
||
CALOGERO D:
|
22
|
|||
IGNAZIO D:
|
18
|
|||
ROSA D:
|
12
|
|||
GIUSEPPE D:
|
10
|
|||
CALOGERA
|
19
|
Cui non è da meno il fratello cinquantaduenne, anche lui
notaio:
CAVALLARO
|
GABRIELE D:
|
52
|
NOTARO DON
|
|
MARIA GIUSEPPA D:
|
M
|
32
|
DONNA
|
|
BERNARDO CL:
|
F
|
18
|
CLERICO
|
|
MARIA ROSA
|
F
|
4
|
||
MARIA NONA
|
F
|
1
|
||
ANGELA
|
F
|
12
|
||
GIROLAMO
|
F
|
15
|
||
GIOVANNI
|
F
|
13
|
||
ONOFRIO D:
|
56
|
D:
|
||
ROSALIA
|
22
|
Recluse al Monastero di Santa Chiara ben cinque religiose
tra monache, novizie ed educande:
CAVALLARO
|
Sr. MARIA CARMELA
|
SUORA
|
|||
CAVALLARO
|
Sr. MARIA RAFFAELLA
|
SUORA
|
|||
NOVIZIE
|
|||||
CAVALLARO
|
Sr. MARIA TERESIA
|
||||
EDUCANDE
|
|||||
CAVALLARO
|
CARMELA D:
|
||||
CAVALLARO
|
NORA D:
|
||||
Superiora a quel tempo era una loro zia:
BIONDI
|
Sr. MARIA DI GESU'
|
ABBADESSA
|
La crisi del feudalesimo a Racalmuto faceva emergere i
notabili della nuova alta borgesia, cui affluivano gli incarichi pubblici. Don
Giuseppe Cavallaro assurge alla carica di Sindaco negli anni che vanno
dal 1784 al 1787. E nel 1793 ce lo ritroviamo tra i deputati. Nell’esercizio
successivo, accede tra i giurati don Raffaele Cavallaro. Negli anni seguenti, è
don Felice Cavallaro che sovrintende all’intero patrimonio comunale.
L’eminente famiglia mantiene, ed anzi accresce, il ruolo
egemone nella vita della locale comunità nel successivo secolo: cosa che
vedremo più dettagliamente, dopo, quando accenneremo alle vicende
dell’Ottocento.
SI APPANNANO I CASUCCIO
Una commovente lettera dei Casuccio del Settecento.
Emblematica del travaglio dei tempi, è questa lettera
scritta da un Casuccio all’arciprete Campanella: lo stile sarà impacciato ma il
mittente mostra una consuetudine con la parola scritta che per l’epoca è
apprezzabile; la mortalità infantile è drammatica, le ristrettezze economiche
diffuse.
Ill.mo Signore e Reverendissimo Colendissimo.
L’afflizioni che hà recato a mè e a tutta questa mia
picciola famiglia rimasta, per la morte di quel benedetto, sfortunato figlio d:
Bartolomeo, non possono esagerarsi con la lingua, né esprimersi con la penna;
tutta lascio considerare a V. S. Ill.ma, pensando, che dietro le morti di
quelli anco altri premorti figli, il Signore mi hà tolto questo, restandomi
solamente una figlia, e don Ignazio, i quali sbigottiti di quest’ultimo caso,
campano in cura di medicamenti, ma tutti impauriti. Mentre ringrazio il suo
affetto di quest’Ufficio sacro passato, prigandola di raccomandarmi al Signore
e di onorarmi con li suoi comandi, mi soscrivo di V.S. Ill.ma Ill.mo Signor d:
Stefano Campanella – Racalmuto. - Dato li 15 dicembre 1770
Ma tanto non è solo il grido di dolore di notabile in
decadenza, quanto il segno di un declino di una famiglia che un tempo era stata
localmente egemone: trattasi di un declino che durerà un secolo; alla fine
dell’Ottocento ritornerà in auge, prima con un intraprendente burgisi che
lascia la vanga per il piccone e scava con successo nelle viscere della
contrada Ciaula alla ricerca del nuovo oro, lo zolfo, e poi con un arciprete
che dominerà Racalmuto per tutto il periodo fascista e, soprattutto, nella prima
era democristiana.
I Casuccio, invero, affondano le loro scaturigini familiari
nei primordi della storia locale: nei registri parrocchiali della Matrice - una
grande miniera di dati, sinora sostanzialmente negletta – si riscontrano già
agli albori di quella documentazione [risalenti al 1564 e cioè al tempo della
prima attuazione della Controriforma Tridentina] ben undici ceppi familiari con
il cognome “Casuccio”, in grafia più o meno corretta. Sono tutti appartenenti
alla buona borghesia del luogo e portano spesso un doppio cognome che si rifà
nientemeno ai DORIA.
Quella famiglia può oggi vantare veri e propri nobili lombi,
e sono i soli a Racalmuto. Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli
di Dante e quelli della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino
Doria di Palermo del tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri
della celeberrima prosapia - possono essere considerati nobili.
N°
|
Cognome
|
Nome
|
Coniuge
|
1
|
Casuccia
|
Francesco
|
Maruzza
|
2
|
Casuccia
|
Gioseppe
|
Bastiana
|
3
|
Casuccia
|
Jacobo
|
Ioannella
|
4
|
Casuchia
|
Joanni
|
Rosa
|
5
|
Casuccia
|
Michele
|
Beatrice
|
6
|
Casuccia
|
Nardo
|
Minichella
|
7
|
Casuccio
|
Petro
|
Cartherina
|
8
|
Casuccia
|
Salvaturi
|
Juannella
|
9
|
Casuccia
|
Silvestro
|
Angela
|
10
|
Casuchia
|
Simuni
|
Contissa
|
11
|
Casucci
|
Vincenzo
|
Betta
|
Comprovano il doppio cognome questi atti parrocchiali:
10
|
9
|
1585
|
Geronimo
|
1
|
Antoni
|
Gulpi
|
Agata
|
Casuchia Doria Joanni
|
24
|
9
|
1586
|
Leonardo
|
Vincenzo
|
Parla
|
Solemia
|
Cimbardo cl. Angilo
|
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.
|
8
|
7
|
1585
|
Jannuccio
|
Nicolao
|
Antonuccio quodam
|
Angila
|
Fuca'
|
Agata
|
Gasparo quondam
|
Betta
|
Casucia Doria Giovanni
|
4
|
1591
|
Maruzza
|
2
|
Antonino
|
Muriali
|
Francesca
|
Doria Jo:
|
4
|
1591
|
Santo
|
1
|
Antonino
|
Vento
|
Paola
|
Doria Jo:
|
10
|
6
|
1591
|
Jacopo
|
1
|
Francesco
|
Rizzo
|
Vittoria
|
Casuccia Doria Jo:
|
1.8.1616
|
CASUCCIO DORIA
|
FILIPPA
|
Emergevano, alla fine del Seicento, don Giuseppe Casucci e
don Pietro Casucci, contro i quali si affilavano le armi giuridiche del conte
Girolamo del Carretto, che li accusava di usurpazione di privilegi terrieri ed
indebite esenzioni fiscali.
Secondo il conte, don Giuseppe Casucci possedeva sine titulo
un fondo in contrada Bovo e cioè:
clusae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo
Racalmuti et in contrata nominata di Bovo, confinaneis cum clusa Joseph
Torretta, cum vineis Stephani Bruno et cum clusa Augustini de Beneditti, nulliter
possessae per dictum reverendum sacerdotem d. Joseph Casucci.
Del pari, ciò valeva per l’altro sacerdote don Pietro
Casucci:
clusae cum terris scapulis cum vineis, arboribus et
alijs exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata di Bovo seu
Montagna confinantes ex una parte cum vineis et terris ditti de Signorino, cum
clusa notarij Francisci de Puma et cum clusa don Antonini Bartholotta, nec non
cuiusdam vineae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in
contrata nominata della Fontana della Fico confinaneis cum vineis quondam
Antonini Vassallo, cum vineis Isidori Lauricella Erarij et cum vineis Pauli
Bucculeri alias Gialì, indebité possessarum per dictum Sacerdotem don
Petrum Casucci.
Sappiamo che don Pietro Casucci finì i suoi giorni terreni
il 7 dicembre 1713 all’età di 55 anni. Era un “collegiale” e cioè un
mansionario di quella Comunia che aveva istituito l’arciprete Lo Brutto. Don
Giuseppe Casucci visse più a lungo (decede il 15 gennaio 1728) ed era anche lui
“collegiale”.
Ma al di là del patrimonio a suo tempo costituito non ci
pare che i due sacerdoti abbiano avuto poi grosse disponibilità finanziarie per
allargare le loro possidenze. Ci risulta solo quest’atto in favore di Pietro
Casucci, che comunque ha tutta l’aria di una sistemazione di pendenze
familiari:
A 5: Aprile Prima Ind. 1708:
Venditione fatta da Brigida Casucci relicta del quondam d.
Ignatio al R.do sac: d. Pietro Casucci migliara sei di vigna con il suo
palmento, albori, limiti ed'altri nel fego delli Giardinelli confinante con la
vigna di Michael Angelo Callega ed altri confini. Sogetta nel suo solito censo.
La posessione la medesima giornata per il prezzo di onze cento di contanti come
meglio per detta venditione il di di sopra.
Un altro paio di sacerdoti, don Gaspare Casucci e don
Vincenzo Casucci, ne mantengono ancora il prestigio ecclesiastico e quindi
sociale sino alla prima metà del Settecento. Don Gaspare, collegiale
beneficiale di S. Antonio, muore il 26 gennaio 1756; don Vincenzo, beneficiale
semplice, muore il 26 settembre 1757 all’età di 62 anni. Poi abbiamo P. Carlo
Casucci che è un frate e non può certo operare in disprezzo del voto di
povertà. Anche questi comunque muore in quel torno di tempo, attorno al 1763.
Nel LIBER i Casuccio tornano un secolo e mezzo dopo con la
morte del chierico D. Paolino Casuccio di Calogero mato in Racalmuto il 10 maggio
1892 e morto in guerra il 12 Agosto 1016 (n° 457.)
La rarefazione di sacerdoti in famiglia attesta proprio
questo declino economico di cui la lettera che abbiamo riportata è eco e
testimonianza.
L’ascesa di una nuova grande famiglia: i Tulumello.
La grande famiglia Tulumello è un antico nucleo familiare,
ma sino alla prima metà del Settecento non vanno al di là delle solite
annotazioni anagrafiche nei libri parrocchiali della Matrice. Il ceppo che avrà
nell’Ottocento ruoli di risalto nella vita pubblica e, addirittura finirà nei
testi araldici, parte da questo Giuseppe Tulumello – pare un gabelloto – che
nel 1741 sposa una canicattinese:
Giuseppe Trumello Sch: figlio Legittimo e naturale d'Ignazio
e Anna Tulumello Jugali di questa terra di Racalmuto con Paula Cuva sch. f.
leg. e naturale di Pietro e Gratia Jugali della terra di Canicattì. Pubblic:
1741 5^ ind. ottobre 22.28.29.
Un sacerdote, don Nicolò Tulumello, frattanto si stava
affermando a Racalmuto, ma cessò di vivere ad appena 30 nel 1748 (il 21 luglio)
quando era già collegiale. Risulta dai fondi di Palagonia che nel 1763 diversi
Tulumello spiccavano per consistenze patrimoniali e denunciavano quantità di
grano ben al di là delle misure consuete, oltre a possidenze ed a
proprietà di ovili:
1. Tulumello Calogero rivela s. 110
f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra s.
35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture
di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
2. Tulumello Giuseppe, rivela s.70
..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s.
10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni;
3. Tulumello Giovanne, rivela s.70
..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s.
10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni.
Nei riveli troviamo, dunque, quel Giuseppe che sarà il
capostipite di quello che sarà il ceppo nobiliare per le vicende di fine
Settecento. Nel censimento del 1753 Giuseppe Tulumello ha 33 anni; la moglie 28
; i figli: Rosa di 11 anni, Vincenzo di 6 anni e Nicolò di quattro (che sarà
sacerdote ed acuisterà per persona da nominare il titolo baronale di
Gibillini). Vicino abita il fratello Giovanne Tulumello di Ignazio di 27
anni, sposato con Santa. Assieme c’è la mamma, Anna Cuva di anni 60 e già vedova
di Ignazio Tulumello.
Annotiamolo: fino al 1753 i Tulumello non vengono
contraddistinti con titoli di risalto come don; d’altronde non fanno parte
delle locali maestranze: sono però grossi gabelloti.
Nel 1785 i Tulumello hanno però fatto il salto nella
gerarchia sociale racalmutese: don Giuseppe Tulumello ora siede accanto ai
giurati; nel 1791 sarà la volta di don Vincenzo Tulumello, il quale può persino
permettersi di divenire l’arrendatore del patrimonio urbano per onze 1.126 e
tarì 15.18. Tra i giurati del 1794 vi troviamo don Ignazio Tulumello.
Fu in quell’epoca che si fece valere il sacerdote don Nicolò
Tulumello. Ecco quello che di lui dice il LIBER (n° 334): «collegiale, vicario
foraneo e direttore del Collegio di Maria e fondatore del medesimo, pochi mesi
prima di morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in Girgenti dove morì il
5 Marzo 1814 di anni 65 e per ordine di Monsignor Granata Vescovo di Girgenti
si trasportò il cadavere di lui nella Chiesa di questo Collegio di Maria.»
La famiglia Matrona
In un rivelo del 1752 che fa don Giuseppe d’Agrò, quale
beneficiale della chiesa di S. Nicolò di Bari, troviamo per la prima volta un
personaggio: don Pietro Matrona. Ci appare, già, tra i maggiorenti di
Racalmuto.
Dobbiamo attendere il 2 settembre 1802 per avere notizie su
un sacerdote locale appartenente a tale grande famiglia: si tratta di don
Calogero Matrona che nel LIBER (n° 313) viene così contrassegnato: «morì in
Montaperto il 2 Settembre 1802 d’anni 49».
In effetti, nella numerazione delle anime del 1762 troviamo
il nucleo familiare di don Pietro Matrona (segnato all’età di 32 anni, e quindi
nato nel 1730, a nostro avviso non a Racalmuto) che oltre alla moglie donna
Rosalia di anni 32 è composto, appunto, da Calogero di anni 6 (nato quindi
attorno al 1756) e da Francesco di anni 3, e Marco di anni .
Quando nel 1784 si fanno le pubblicazioni per l’accesso agli
ordini maggiori di don Calogero Matrona, questi ci tiene a farsi indicare con
un doppio cognome: Matrona-Moncada; non sappiamo con quale fondamento, arguiamo
comunque che i Matrona discendono, per via collaterale, dai Moncada.
In un libro degli “sponsali” della Matrice abbiamo questa
notizia su un Matrona che non crediamo abbia messo radici a Racalmuto. Là viene
annotato quanto segue:
19/7/1741 - MATRONA E SPINACCIOLO D. PIETRO DELLA
CITTA' DI SUTERA PARR. DI S. AGATA DEL Q. D. MARCO E LA VIV. DOROTEA [si dovrà
sposare con] SFERRAZZA D. CALOGERA DEL QUONDAM D. DOMENICO E LA VIVENTE
SANTA.
Una cosa comunque è certa: la madre di don Calogero Matrona
non era una Moncada. Sappiamo con precisione che questa, donna Rosalia, era di
elevata famiglia, essendo una La Lumia di Naro, ma nulla ha ache vedere con i
Moncada. Possiamo solo congetturare che una Moncada fosse la nonna del
sacerdote.
Don Pietro Matrona, il padre del Sac. Calogero,
giunge a Racalmuto già vedovo. La prima moglie era una tale Calogera non meglio
precisata negli atti della Matrice, ove si riscontrano gli estremi del secondo
matrimonio del Matrona. Questo è almeno quanto emerge dalle pubblicazioni che
qui trascriviamo:
../10/1750 – PIETRO MATRONA E MONCADA, VED: REL. DELLA Q. D.
CALOGERA OLIM GIUGALI DI Q. TERRA [intende contrarre matrimonio con] LA
LUMIA D. ROSARIA DI D: MICHELE E D: ELISABETTA GIUGALI DELLA CITTA' DI
NARO PARR. DI S. ERASMO 1750 XIIIJ IND. DIE 11/8BRIS/18.25. [1750]
L’ultimo dei figli di don Pietro, Marco Matrona, sposa
nel 1787 con donna Francesca Baeri, la cui famiglia è omai a Racalmuto
oltremodo affermata. La rimarchevole importanza di padre e madre della nubenda
si coglie appieno in questa trascrizione degli atti dello sposalizio.
11/3/1787 - MATRONA D. MARCO DI D. PIETRO E LUMIA [intende
contrarre matrimonio con] D. ROSALIA BAERI D.NA VINCENZA FRANCESCA DI D.
GIUSEPPE E LA FU BELMUNTI D. MELCHIORA OLIM DI QUESTA.
Don Francesco Matrona sposa l’anno dopo ma con una vedova,
tale Giovanna Petruzzella, vedova di don Giuseppe Salvaggio, come dal seguente
atto:
21/3/1798 - MATRONA D. FRANCESCO FU D. PIETRO E LUMIA
[intende contrarre matrimonio con] D. ROSARIA PITROZZELLA D. GIOVANNA VED. DEL
FU D. GIUSEPPE SALVAGGIO.
Nell’anno che intercorre tra i due matrimoni cessa di
vivere don Pietro Matrona, il capostipite della famiglia tanto celebrata da
Sciascia. Tutti e tre i figli maschi ne ereditano il prestigio ed il notabilato
a Racalmuto. Uno come sacerdote beneficiale (come abbiamo visto) e gli altri
due in vetta alle maggiori cariche amministrative del paese. Ma sarà nel secolo
successivo che i Matrona domineranno incontrastati, almeno fino a quando, nella
parte terminale dell’Ottocento la ruota girerà e la decadenza sarà
inarrestabile. In tempo. Comunque, per meritarsi queste impareggiabili chiose
del grande scrittore racalmutese: «Pare che.. la sua [della contrada Noce]
fortuna come luogo di villeggiatura [le sia venuta] dal fatto che una grande
famiglia vi abbia costruito, alla fine del settecento, quando venne di moda la
fuga dalla citàà nell’estate, una casa grande come un castello … Ma nei primi
anni del nostro secoloquella grande famiglia si estingueva, così come si
estinguono in Sicilia le grandi famiglie.»[3] E per giunta: «Dall’unità d’Italia in
poi, direttamente o per interposte persone, l’amministrazione comunale era
stata nelle mani di una famiglia che appunto per amministrare il comune
disamministrava il proprio patrimonio o, più esattamente, andava travasandolo
nel patrimonio pubblico: la famiglia Matrona. Non nobile – e del resto nel
paese una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che
fu rivale ai Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo – ma di
grane e vera nobiltà nel comportamento, negli intendimenti, nelle opere. A
loro, ai Matrona, si devono scuole, uffici comunali, strade selciate,
fognature, macello, fontanelle rionali, teatro. … E non solo i Matrona si occuparono
di sanare e abbellire urbanisticamente il paese, di dargli uno splendido teatro
e di farlo attivamente funzionare, ma anche della sicurezza sociale. …
Naturalmente i Matrona avevano dei nemici: ma si scoprirono più tardi,
aggregandosi alla famiglia Tulumello. … E si capisce che nel giro di
mezzo secolo i Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari
batterli: col conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della
mafia, delle usurpazioni e prevaricazioni. » [4]
Dinamica sociale in seno agli ottimati sel settecento
racalmutese.
Il Cinquecento a Racalmuto si era chiuso con amministratori
che o erano familiari del conte (vedi il Russo) o suoi strettissimi affiliati.
Taluni di tali notabili resistettero nel Seicento, altri sparirono. L’esordio
del secolo dei lumi vedeva in declino i Del Carretto (sino alla loro totale
estinzione) e di conseguenza il diradamento delle famiglie della locale orbita
comitale. Con l’avvento dei Gaetani, l’amministrazione comunale, le pubbliche
funzioni, gli incarichi esattoriali, quelli dell’amministrazione della
giustizia e della tutela dell’ordine pubblico, e simili passano a funionari di
fiducia del nuova padrone di stanza a Naro. Sono soprattutto notai forestieri
che scendono in Racalmuto, sposano qualche figlia del locale notabilato e vi
mettono le radici. Notai come i Vaccaro, i Picataggi, i Vinci prendono il posto
di ceppi d’eccellenza che si disperdono o decadono come i Piemontesi, gli
Afflitto, gli Alaimo, i Monteleone, gli Ugo, gli Amella, i Tudisco, i
Salvaggio, i Promontori, i Chiccarano, i Fanara, i Catalano, i Justiniano.
A metà secolo, i maggiorenti sono ora tutti raccolti in una
famiglia baronale – i Grillo – scomparsa nell’ottocento, quando il relativo
patrimonio trasmigra ad una famiglia collaterale, i Bordonaro di
Canicattì. A fianco, abbiamo i Gambuto, i Pomo, i Vinci, i Bellavia, i Matina
ed i Picataggi. Lo scenario di fine secolo sarà ancora diversificato. Gente
forestiera come gli Impellizzeri, i Perrone, gli Scimonelli, i Mannarà, fanno
una fugace apparizione e poi ritornano nei loro luoghi dìorigine senza lasciare
traccia a Racalmuto. I nuovi quadri dirigenti restano però contrassegnati dagli
ottimati locali quali i Picataggi, gli Amella, i Grillo e Pistone, i Matrona, i
Fucà, i Cavallaro, i Lo Brutto, gli Scibetta, i Gambuto, i Tulumello, i Tirone,
i Grillo e Brutto, i Pomo, i Grillo-Alessi, gli Sferrazza, i Vinci, i Baeri, i
Mattina, i Bellavia, i Farrauto, i Savatteri, i Grillo-Ingrao, i Grillo ed
Alessi.
Ma sono le fortune che cambiano. Ad inizio del secolo, le
famiglie di maggior reddito non erano molte e gravitavano attorno ai cospicui
patrimoni di taluni sacerdoti come il Signorino, don Santo La Matina, i
Casuccio, i Baera (per non ripetere quanto detto sulle acquisizioni terriere e
immobiliari dei Cavallaro).
A metà del secolo, la locale crestomazia è molto più estesa
ed investe patrimoni notevolissimi come quelli dei Grillo, dei Pumo, dei
Savatteri, degli Sferrazza, degli Scibetta, degli Spinola e dei Vinci. Da un
documento contabile del 1763 i proprietari terrieri con una disponibilità di
frumento oltre le 20 salme non superano i 29 nominativi, come dal seguente
quadro:
Denominazione
|
Salme
|
Alfano m.° Giuseppe del quondam Bartulo
|
65
|
Alfano sac. d. Filippo
|
30
|
Avarello sac. d. Alberto
|
75
|
Burruano Giuseppe del quondam Marcello
|
28
|
Busuito Grispino
|
26
|
Campanella sac. d. Stefano arciprete
|
100
|
Conti sac. d. Gerolamo
|
26
|
Di Franco m.° Agostino
|
40
|
Farrauto sac. d. Santo
|
220
|
Gambuto don Francesco Antonio
|
50
|
Grillo don Antonio
|
802
|
Grillo don Antonio come Governadore di Racalmuto dice
avere nelli magazini della Segrezia di detta terra a nome di detta
|
703
|
Grillo don Antonio Maria
|
91
|
Grillo don Gaetano
|
306
|
Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò
|
132
|
Grillo sac. d. Salvadore Maria
|
160
|
La Licata Paulo
|
25
|
Mantione sac. d. Antonino
|
27
|
Nalbone sac. d. Benedetto
|
360
|
Picone Chiodo Nicolò
|
42
|
Pomo fra' Giuseppe Priore del venerabile convento del
Carmine
|
26
|
Rizzo don Vincenzo
|
24
|
Savatteri sac. d. Michel'Angelo
|
21
|
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe
|
30
|
Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe
|
70
|
Scibetta m.° Stefano
|
160
|
Tulumello Giovanne
|
70
|
Tulumello Giuseppe
|
70
|
Vinci don Calogero
|
26
|
Certo la distribuzione è tutt’altro che omogenea: i Grillo
appaiono su un livello del tutto eccezionale e si discostano enormemente dalle
possidenze degli altri. Sono tre soli quelli che, a distanza, emergono: don
Benedetto Nalbone, don Santo Farrauto, mastro Stefano Scibetta ed infine
l’arciprete Campanella.
R La famiglia Savatteri
Grande è sta l’importanza della famiglia Savatteri:
emergente nel Cinquecento, notevolissima nel Seicento, ebbe splendori nel
Settecento, ma fu nell’Ottocento che fu dominante, specie dopo l’unità
d’Italia, per eclissarsi alla fine di quel secolo. Qui ci intratteniamo
sul filone settecentesco. Sono, ovviamente, gli ecclesiastici della famiglia ad
avere lasciato tracce storiche. Iniziamo da don Francesco Savatteri.
Sac. Francesco Savatteri (1654-1712)
Appena diacono nel 1677, svolge poi un ruolo di un qualche
rilievo il sacerdote Giuseppe Savatteri. Lo incontriamo per la prima volta così
contrassegnato:
1
|
1677
|
FRANCESCO
|
SAVATTERI
|
DIACONO a 23
|
Nel registro della Matrice “in quo adonata reperiuntur
nomina plurorum sacerdotum” vi sono queste altre scarne notizie:
n.° 170 della c. 8: D. Francesco Savatteri, collegiale obiit
8 7bris 1712 di anni 58.
Nasce dunque nel 1654 e dopo il marzo del 1676 dovette
venire consacrato sacerdote come risulta da un libro della Matrice intestato: "Liber
Denunciationum in hac Matrici Eccl.a Racalmuti XII. ind. 1673 - S.T. D.re D.
Vincentio Lo Brutto Archipresbitero" . Nel marzo del 1676 vi è annotato:
s'havi da ordinare in sacris nella prossima ordinazione di
marzo cl. Francesco Savatteri; cl. Vincenzo Castrogiovanni; cl. Davide Corso;
cl. Antonino d'Amico; cl. Vincenzo Casuccia.
Nel 1686 è di sicuro confessore “adprobatus”; per lo
meno dal 1693 è uno dei cappellani della matrice. Quando, nel 1690, l’arciprete
d. Vincenzo Lo Brutto riesce ad organizzare l’istituto delle celebrazione delle
messe per i morti, la cosiddetta “communia”, il nono dei dodici “mansionari” è
appunto don Francesco Savatteri: la sua famiglia, nel contesto della società contadina,
esce dall’opaco burgisato per cominciare ad aspirare al ruole eminente dei
“galantuomini”.
I documenti della istituzione della “communia” li abbiamo
rinvenuti nell’archivio vescovile di Agrigento e sono riportati nell’allegato
n. 6. Il padre Morreale nel suo libro sulla Madonna del Monte s’imbatte per due
volte - pag. 43 e pag. 44 - nel nostro padre Francesco Savatteri: come
“dirigente” della confraternita della Madonna del Monte (bolla vescovile del
1679) e come coadiutore del sac. Lo Sardo nella rettoria della chiesa
sacramentale di Maria SS. Del Monte.
In un atto datato: A 29 ottobre X^ Indizione 1687 [rectius
1686], il sac. Francesco Savatteri risulta proprietario di vigne in contrada
Bovo, giusta il passo seguente:
Vendizione di una vignia con sue alberi ed altri existente
nello fego di questa Terra di Racalmuto e nella contrata di Bovo confinante con
la vignia di d: Francesco Savatteri e con la vignia dell'infrascritto d.
Gio:Battista Baeri che fà mastro Pietro Facciponti di Racalmuto al su detto di
Baera di Racalmuto: Suggetta in tt. quattro per raggione di proprietà dovuta
all'Ill.mo Conte di Racalmuto. La possessione della quale ci la diede lo stesso
giorno, per lo prezzo di -/ novi giusta la stima fatta per Isidoro Pitrozzella
e Marco Ristivo presente etc. il prezzo della quale il detto di Facciponti lo
confessò de contanti.
Un fugace accenno nel Liber in quo ... di tal chierico
Stefano Savatteri, qui obiit primo februarii 1742. Disponiamo anche dei
seguenti altri dati:
1736
|
STEFANO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO LICENZIATO
|
Nel liber prima citato troviamo (n.° 255 c. 13) D. Michele
Savatteri, obiit 24 7bris 1756.
E’ personaggio di spicco. Ecco come viene anotato nel Liber
n.° 274 - c. 14: D. Michelangelo Savatteri, collegiale, obiit die 28 7bris 1765
- d’anni 65. Nel rivelo del 1763 non è indifferente la rispondenza patrimoniale
del Savatteri che dispone di ben 11 salme di frumento come dalla seguente
specifica:
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5
per soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in
accordo e s. 10 per mangia e commodo di casa.
Su 125 dichiaranti è il 29° anche se è ben lontano da quello
che rivela il sac. Don Benedetto Nalbone (360 salme): è ancora lontana la
competizione tra le due grandi famiglie, competizione che toccherà l’acme alla
fine dell’Ottocento. Ma è già un sintomo il fatto che rispetto a Giovanni
Nalbone (salme 10) il sac. Michelangelo Savatteri appaia facoltoso più del
doppio.
Risulta altresì che nel 1736 il Savatteri fosse confessore
approvato per il monastero:
1736
|
MICHELANGELO
|
SAVATTERI
|
ANNI 4O CONFES.DEP.MONASTERO
|
Nei riveli del 1754, don Michelangelo Savatteri figura come
un magistrato locale:
Die 13 Maij 1754 Presentat. deci. que. d.
Michael. Savatteri Mag. ...
Un paio d’anni prima v’era stato l’ordine di denunciare
tutti gli atti di compravendita aventi per protagonisti i religiosi locali,
preti secolari compresi. Tanto doveva avvenire:
nell'Officio di questa Deputazione locale per ordine
dell'Ill.mo Monsignor Vescovo di Girgenti per sua significat.a sotto li setti
Maggio. In virtù di bando di S.E. promulgato in questa sotto li 10 dicembre
1752..
In un inciso, c’imbattiamo nel sac. Michelangelo Savatteri,
definito “magister notariorum”:
Presentatione de ordine quo supra D. Michel. i
Savatteri Mag. Not.
Nel corpo di quegli atti, affiorano, incidentalmente, alcune
proprietà del Savatteri come una bottega in piazza:
E più tarì 6 da don Giuseppe Bellavia sopra la speziaria
nella piazza confinante colla bottega di d. Michelangelo Savatteri, e case del
d.o Bellavia ............................ -/ 4
terre in contrada Bovo:
Esigo di più da Soro Angela La Matina tt. tre e gr. 6 e
piccioli tre sopra terre contrada Bovo confinanti con terre del Rev. Sac. don
Michelangelo Savatteri d'ogni parti che ragionati al 5% il capitale importa -/
due e tarì se e grana tre, d.o
................................................................ -/2.6.3
Il Liber annota: n.° 289 c. 15 D. Giovanni Savatteri -
predicatore, morì a Palermo il giorno 1° maggio 1778 - anni 65. In un registro
delle pubblicazioni parrocchiali, l’ascesa agli ordini sacri è seguita passo
passo con i seguenti bandi:
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo patrimonio,
pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio sia simulato,
fiduciario o che non sia bastante o di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di
SAVATTERI sia di mali costumi, inquisito, querelato,processato, o
che habbia altro impedimento canonico per non
potere ascendere all' ordine del Suddiaconato, come se
fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo
patrimoniouna Cappella di onze 10 annuali con l'onere di Messi dieci
fondata nell'altare di. S. Leonardo in Serra di Falco come appare per
contratto di fundat.e ed elettione stipulato per l'atti di
N.o Simone BONI' sotto li 14 Gennaro 1732 ed in Supplimento una Vigna
consistente in migliara cinque con Tumuli due e Mondelli due di
terre vacue confinata con la Vigna di N.o Michael
Vaccaro, e altri confini nella contrada di BOVO e numero cinque
case conlaterali confinati con le casi di d. Vincenzo La Matina nel
quarteri del Monte in virtu' di donatione stipulata per l'atti di
N.o Nicolo' Pumo. pertanto se alcuno sapesse che il d.to
patrimonio sia simulato fiduciario o che non sia bastante o
di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di SAVATTERI
sia di mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che
habbia altro impedimento canonico per non potere ascendere
all' ordini sacri, come se fosse irregolare,
illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
24 31 AGOSTO, 4 SETTEMBRE 1732
Il Sudiacono Giovanni SAVATTERI di questa
terra di Racalmuto desiderando ascendere all' ordine
Diaconale si ha costituito il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse
che il d.to patrimonio non essere bastante o di realta'dal detto
Suddiacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di mali costumi,
inquisito, querelato, processato, o che habbia
altro impedimento canonico per non potere ascendere al
Diaconato, come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo
venghi a rivelare.
30 NOVEMBRE, 7 DICEMBRE XI Ind. 1732
Il Diacono Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all' ordine Sacerdotale si ha costituito il suo
patrimonio, pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio non essere
bastante o di realta' del detto Diacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di
mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che habbia altro
impedimento canonico per non potere ascendere al d.o Ordine Sacerdotale,
come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
Il Liber lo ignora, ma di lui si hanno notizie sin dal 1731
allorché era un chierico tonsurato:
16
|
1731
|
FRANCESO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO TONSURATO
|
E’ però presente nel rivelo frumentario del 1763 ove, con le
sue 8 salme di frumento dichiarate, è alla pari con il celebre sacerdote d.
Elia Lauricella:
Savatteri don Francesco, rivela s. 4 per raccolto f.f per
1763, quali f.f. li bisognano s. 3 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.°
e s. 3 a comp. di dette s. 8 per mangia
Il servo di Dio p. Lauricella aveva infatti dichiarato:
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind.
1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per
mangia almeno di dieci persone
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante -
quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della
famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di
dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni
storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio,
cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo
potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del
beneficio del Crocifisso, su cui ci diffonderemo altrove.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile
consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del
paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario -
che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte
private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile
ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese
dell’Amministrazione comunale.
Quello su cu il Tinebra trama è un carteggio del Caracciolo
su cui abbiamo avuto modo di effettuare nostre personali ricerche. Iniziano dal
16/2/1785 gli appunti del Caracciolo sulla questione[5]:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia,
onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li
naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore
ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo
dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti
li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza
di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando
molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi
pur troppo soverchiati.»
E, quindi, in data 12.3.1785:
«32. [6]L’avvocato fiscale Vagginelli proceda
quel che convenga ed avendo di riferirlo, dica- A 12 Marzo detto - Li singoli
di Racalmuto: V. E. rimise le pendenze loro col barone all’avv.to sig.re
Vagginelli. Innanti a costui facendosi dui contraddittorij vi interviene il
Cav.e fratello del principe di Pantelleria, che ha procura. E poiché per
rispetto che vuole esigere molte cose bisognano trovarsi e li
professori concepiscono qualche timore, prega V.E. di ordinare che tal
Cav.e non intervenga più nei contraddittori ma con i singoli e il Barone.»
«12 - L’avv.to fiscale barone Vagginelli informi col parere
- 22 marzo - Li singoli di Racalmuto. Il suggello della verità lo tiene in
potere il governatore baronale, ed occorrendo di suggellarsi l’investitura
questa si deve suggellare dal Barone e si suggella quando a costui piaccia. Ciò
essendo un inconveniente molto più quando occorre a singoli di suggellare
scritture contrarie al ripetuto Barone.
«Pregano l’E.V. di ordinare che il suggello si riformi con
il ricorso al Re, e che debba riservarsi al mastro notaro della Corte
Giuratoria.»
«4. L’avvocato fiscale Barone Vaggianelli disponga perché
urgendo le provvidenze che siano convenienti per la superiore, che riferisca
col parere - 29 marzo 1785 - Don Stefano Campanella arciprete di
Racalmuto - Dietro un raccolto sterilissimo ed una tirannica esazione fatta
dall’arrendatario di questa terra don Giuseppe Savatteri ... trovasi in oggi
questa Popolazione in somma necessità a segno che non si può riparare, e si
teme di qualche tumultuazione per la fame, e dal ricorrente e da altri preti si
à soccorso per quanto debolmente si è potuto, ma si prevede maggior necessità
in questi mesi che sono li più poveri.
«E’ perciò da credere opportuno che dovendo dal amministrare
pagare per maggio onze 1000 al Principe della Pantelleria gliene paghi medietà,
e l’altra medietà distribuirsi per aiuto a poveri, che si obbligano in agosto
pagare; prega V.E. di ordinare l’esecuzione di tale distribuzione a quattro
persone elette da chi invochi, dapoiché quei Giurati son poveri e senza veruna
abilità.»
Il dato di maggior risalto è quello contenuto nel biglietto
datato 11 aprile 1785:[9] abbiamo questo richiamo storico:
«13 - L’avvocato faccia quel che convenga per l’accertamento
della giustizia e della legalità. - 11 aprile 1785 - Li singoli di
Racalmuto. - Nel 1559 don Giovanni del Carretto ebbe venduto il mero, e misto
impero dal viceré don Giovanni della Cerda sopra la Baronia di Regalmuto per il
prezzo di onze seicento, cioè cinquecento l’ebbe allora il Governante, e le
onze 100 le dovea dare qualora veniva continuata la vendizione da S. M. fra il
termine di un anno.
«Sino al presente giorno non è stato possibile dimostrarsi
detta rattifica, o confirma; ed è segno evidente che la M.S. non l’abbia
concessa. Che perciò li ricorrenti .. pregano l’E.V. di ordinare che il Barone
di Ragalmuto che è oggi il Principe di Pantellaria, che per esercitare il mero,
e misto dimostri all’E.V. il titolo.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per
fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte
del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e
del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque,
compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento
e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe
Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo
Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun
approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia[10]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della
Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i
poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera
anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete
Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato
le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso. Per una di quelle
strane coincidenze storiche, il Busuito era parente stretto della moglie del
notaio Nalbone.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto]
“di far restituire ai borgesi tutti gli oggettiche il sacerdote Savatteri aveva
ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata
davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto
più complesse e coinvolgono la poltica dei re Borboni di Napoli, che è quanto
dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il
Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giusppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802
d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il
Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare
molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i
confrati defunti: subisce delle sanzioni. Vediamole:
GIUSEPPE SAC. D.
|
SAVATTERI
|
n. undeci messe cioè n. 9 per l' ... e n. 2 per pena
d'essere stato negligente in scrivere le d. messe.
|
Così risulta annotato in registri della confraternita. Dopo
di lui, i religiosi della famiglia Savatteri appaiono come scialbe figure.
Eccole.
Viene così annotato nel liber: n.° 323 c. 20 D. Gaetano
Savatteri, Diacono - obiit 21 7bris 1809 - d’anni 23.
Viene così annotato nel liber: n.° 374 c. 22 D. Nicolò
Savatteri - obiit 16 7bris 1842 - d’anni 80, mesi 8. E’ varie volte citato nei
registri della Mastranza come sacerdote celebrante. Aliunde, apprendiamo che:
30
|
1807
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.46 CONFESSORE PRO UTROQUE
|
6
|
1830
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.68 MANS.CONF.UTROQUE ORDINARIO
|
Il Liber non accenna ai religiosi carmelitani della famiglia
Savatteri. Il primo è appunto il padre Carmelo che fu priore del locale
convento, come si apprende dalle seguenti annotazioni:
51
|
1807
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.42 PRIORE CONVENTO CARMELO
|
44
|
1830
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.60 CARMELITANO PRIORE
|
4
|
1839
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
BENEF. CONFES.PRO UTROQUE
|
Valgano anche per lui le precedenti note. Sappiamo,
inoltre:
54
|
1807
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.38 CONVENTUALE CARMELO
|
34
|
1839
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
CARMELITANO,PRIORE.CONF.UTROQUE
|
38
|
1847
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.70 CARMELITANO CONF.UTROQUE
|
36
|
1851
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.72 CARMELITANO
|
Nell’intricata controversia giudiziaria del beneficio del
Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri vi entrano prepotentemente per due volte:
nella prima, è attore il sac. Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso
dell’Ottocento; nella seconda un patetico personaggio: Giuseppe Savatteri,
sposato con una Matrona. Siamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. In
entrambi i casi i Savatteri finirono soccombenti e gabbati. Ma procediamo con
ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga,
tortuosa ed intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate
vertenze giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei seguenti
beni:
in oppido praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam
diruta cum Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor
terrarum in pheudo Mentae Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6.
aliam clausuram terrarum salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius
cum dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere
proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti
Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i
coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione
della provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659,
la Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un
canone di proprietà «primitivo veluti jus pheudi et proprietatis su terre della
Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che si desume da altri
atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre ubicate nel feudo
Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone - «in quei tempi
Mercanti». Del resto aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e
Mercanti andiede in disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un triennio,
ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS.
Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del fondo per
distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed abbandono delle
terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa
nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del
tempo con atto notarile del 3 settembre 1659, redatto innanzi a quattro
testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che intercorsero
tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca la dotazione
dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc. Tirone il ruolo
sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago
accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce
Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS. Crocifisso
- reg.tro 1669-70, pag. 488». Ma qualche chiarimento lo troviamo in
quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della
«recognitio pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam
del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo collaterale
dei locali conti) si obbliga di corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro
.. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae
in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann.
cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio
et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco
qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci
celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et
contractus solutionis donationis et assignationis in actis not. Simonis
de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum contractum in eis calendatorum.»
inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter
obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus
in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g.
tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet
facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et
sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum
retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem inclusive
, ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae super dicta
vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la chiesa
di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe
Todaro che muore il 7 maggio 1650.[11]Successivamente alla morte del
sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui sopra; dopo
dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che si sia
estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di quel
sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo
Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei
beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8
luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un
successivo beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870,
è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi si
legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo
Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice
in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso
ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione,
dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il
Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui
si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di
lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio
1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac.
Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di
Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e
facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per
adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di
Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia
Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo
Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al
beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri
che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa
Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra
quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate
alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del
Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel
1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone
anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente
all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le
debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in
essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza
ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in
simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o
deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità
ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso
presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13
Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che
pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto
delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo
Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi
conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac.
Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata
fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a
rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di
Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d.
Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento
dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per
parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo
l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei
fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi
pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il
Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti
della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di
moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata,
e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava
soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi
discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804.
[...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico
avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò
dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello
adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede
l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote
(figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor
Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si
rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona,
con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello
scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato
che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una
bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi
assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo.
Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Altri dati sui Savatteri del ‘700
Le numerazioni delle anime della Matrice di Racalmuto
riprendono a metà del settecento. Spigoliamo questi dati sui Savatteri di quel
secolo.
1) Giuseppe Savatteri di Giacomo, di anni 32; Rosa,
sua madue di anni 70.
2) Vincenzo Savatteri di Giacomo di anni 48; Giovanna,
moglie di anni 38; Domenica, figlia di anni 20; Nicola figlia di anni 18;
Giuseppa figlia di anni 15; Calogera figlia di anni 12; Stefana figlia di anni
10; Giacomo figlio di anni 2.
3) Francesco Savatteri di Giacomo di anni 32; Angela
moglie di anni 24; Maddalena figlia di anni 3; Calogero figlio di anni 5.
4) Vincenzo Savatteri di Ignazio di anni 44; Rosa
moglie di anni 33; Giovanna figlia di anni 13; Carmela figlia di anni 11;
Grazia figlia di anni 9; Mariano figlio di anni 8.
5) Antonia Savatteri vedova d’Ignazio di anni 66.
6) Mastro Antonino Savatteri di anni 59; Maria moglie
di anni 56; Sr. Angela Maria figlia di anni 27; chierico Giuseppe figlio di
anni 22.
7) Giuliano Savatteri d’Ignazio di anni 34; Antonia
moglie di anni 21; Sebastiana figlia di anni 1.
8) Francesco Savatteri di anni 39; Dorotea moglie di
anni 28; Giuseppa figlia di anni 15; Filippa figlia di anni 11; Vincenzo figlio
di anni 9; Gaspare figlio di anni 6; Stefano figlio di anni 2.
9) Don Sac. Michel’angelo Savatteri di anni 55;
Francesca Maria sorella di anni 41; Cruci serva di anni 52.
Francesco
Savatteri di Giacomo di anni 28; Angela moglie di anni 22; Maddalena figlia di
anni 8; Giuseppa figlia di anni 1; Calogero figlio di anni 4.
Vincenzo
Savatteri di Giacomo di anni 52; Giovanna moglie di anni 42; Giuseppa figlia di
anni 19; Calogera figlia di anni 16; Stefana figlia di anni 14; Giacomo figlio
di anni 6; Angela figlia di anni 4.
Giuseppe
Savatteri di anni 36; Maria moglie di anni 30; Antonia figlia di anni 4;
Calogera figlia di anni 1.
Antonino
Savatteri di anni 44; Rosa moglie di anni 43; Carmela figlia di anni 17; Grazia
figlia di anni 13; Mariano figlio di anni 12.
Giuliano
Savatteri di anni 38; Antonina moglie di anni 30; Raffaele figlio di anni 3;
Carmela figlia di anni 1.
mastro
Antonino Savatteri di anni 63; Maria moglie di anni 50; don Giuseppe figlio di
anni 28.
Don
Francesco Savatteri di anni 43; donna Dorotea moglie di anni 39; Giuseppa
figlia di anni 20; Vincenzo figlio di anni 13; Gaspare figlio di anni 10;
Stefano figlio di anni 6; Calogero figlio di anni 4; Giuseppe figlio di anni 2;
Leonardo figlio di anni 1; Antonia serva di anni 39.
Reverendo
don Michelangelo Savatteri di anni 65; Mita sorella di anni 50; Apollonia serva
di anni 40.
Nicolò
Savatteri [parte del foglio abrasa]; Grazia moglie; Vita figlia; Calogero
figlio.
1. Don Stefano Savatteri; donna Catarina moglie.
2. Don Gaspare Savatteri; Donna Angelica moglie;
Concetta figlia di anni 16; Gaetano figlio di anni 12; Leonardo figlio di anni
5; Antonia di anni 10.
3. Calogero Savatteri libero; Giuseppa sorella
libera.
4. Mariano Savatteri; Vincenza moglie; Domenica
figlia di anni 8; Santa figlia di anni 14; Rosa figlia di anni 6; Santo figlio
di anni 19; Antonio figlio di anni 17.
5. Giuseppe Savatteri; Antonia moglie; Biaggio
(sic) figlio di anni ...
6. Don Giuseppe Savatteri; Giuseppa; Rev. Don
Nicolò figlio; Raffaela figlia di anni 23; Fidela figlia di anni 21; Luiggi
(sic) di anni 17.
7. Don Vincenzo Savatteri.
Rev. Don Giuseppe Savatteri; donna Dorotea madre; D.
Giachino Brutto; donna Giuseppa di anni 46; Rosa nipote di anni ...; Pasquala
serva.
La storia della famiglia Savatteri appare, davvero, uno
spaccato della media borghesia racalmutese, quale si va configurando nel secolo
dei lumi per consolidarsi nell’Ottocento, come meglio vedremo a suo tempo.
Racalmuto del Settecento nelle carte del fondo Palagonia.
Tra le carte del fondo Palagonia – pervenute all’Archivio di
Stato di Palermo dalla famiglia dei Gaetani [12] - ricaviamo questo documento che ci
pare illuminate per la storia feudale racalmutese, nel suo dteriorarsi
settecentesco:
[f. 5]
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano possessore del Stato e
terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E. che il sudetto stato
si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni, il cui giudice
deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre Preside d.
Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato si trova
nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li creditori
suggiogatarijnon hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità, anziche
nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti da ... molini situati in
parte di lavanchiki ricercano ogni anno spese considerevoli per riparo di esse
lavanche oltre le vacature che si bonificano alli gabelloti di detti molini;
per quei tempi che non macinano, motivo che riflettendo oggi il supplicante ed
anche le grosse spese di salarij ed altri che cagionando da detta deputazione,
ed amministrazione onde ha considerato l’esponente come possessore di detto
stato di Regalmuto, intervenendo prima che la maggior parte dei creditori
suggiogatarij sopra detto stato gradualmente fare abolire che a detta deputazione
ed amministrazione in circostanza anche di non potere questa sussistere a
tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto 1735 per il quale si stabilì come
la deputazione che non possono pagare a creditori l’annualità ed offerire a
detti creditori suggiogatarij per conto delle di loro respettive suggiogazioni,
di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per l’importo di anni dieci; nel qual tempo
però si devono consentire che l’amministrazione di detto stato resti e si
faccia per l’esponente, con che per il consenso prestando dalla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij non se li possa dare nè inserire per detti
dieci anni dalla minor parte di detti creditori suggiogatarij veruna sorte di
molestia talmente che li detti creditori suggiogatarij in siffatta maniera
vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale
amministrazione dell’esponente non solamente l’intiera mezza annualità in due
.. di decembre e maggiodi ogni anno, che non hanno mai conseguito, ma anche
vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed
inoltre tengono la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale
amministrazione maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza
deputazione il sudetto stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente
invigilare all’augumento delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi
creditori, onde in vista di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la
sudetta deputazione ed amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti
creditori suggiogatarij .. samministri su detto stato di Recalmuto per detti
anni dieci del .. con l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60
per 100 come sopra ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione
dell’esponente viene à resultare anche in beneficio delli sudetti creditori
suggiogatarij. Pertanto ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere
ed ordinare che prestandosi prima il consenso della maggior parte delli
creditori suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma
anche cje la minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non
interverrà a prestare il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a
concorrere colla maggior parte di detti creditori suggiogatarij dalli quali si
presterà il consenso nel modo e forma di sopra espressati, ed acquiescerà e
starà alla decennale amministrazione in persona del supplicante con
l’obligazione come sopra per il medesimosenza che dalla detta minor parte di
detti creditori suggiogatarij se li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite; vel ... si vorrà ordonare che sopra
l’abolizione suddetta interverrà il consenso della maggior parte delli
creditori suggiogatarij ed obbligare a detta minor parte delli creditori
suggigatarii di concorrere ed acquiescere come sopra, come il tribunale della
R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi provvedere vocatis creditoribus
e in vista del consenso che si presterà per publici documenti della maggior
parte dei creditori suggiogatarij, per resultare in beneficio delli medesimi. E
ciò non ostante quasivoglia cosa che in contrario l’ostasse o potesse ostare,
etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed individuale
menzione quale s’habbia .. per la sussistenza della presente, qualmente
al tutto disponendo V.E. de plenitudine potestatis et ex certa scientia ...
Datun Primo Junij 1736 ex parte G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Item ista comm.do .., ac consensi maioris partis
creditorium, tollatur deputatio de qua agitur, solutis prius juribus
officialibus deputationis status .. penes acta
per sp. de Joanni, Xileci, Paternò.
Copia Don Joannes Marchisi ..
Lo stato dei “naturali” di Racalmuto, e cioè le loro
disponibilità in frumento e legumi, ci pare esaustivo in questo quadro
statistico:
f. 302
Rivelo de naturali di Racalmuto e di alcuni delle Grotte di
tutti i generi e novali della Ricolta X.ma Ind. 1762 prodotti nello Stato e
territorio di detta terra, nel fego de’ Gibbellini e feudi d’Aquilìa e Cimicìa
de RR. PP. Benedettini de Scalis:
forti
|
orzi
|
Fave
|
lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 1123:3
|
salme 578:2
|
salme 367
|
salme 113:19
|
salme 126:7
|
salme 133:3
|
Rivelo fatto da’ Reverendi Sacerdoti di detta terra Jorati
della SS.ma Inquisizione del Tribunale del Santo Officio di tutti li prodotti
come trova in detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 47
|
salme 36
|
salme 14:4
|
salme 0:3
|
salme 1:8
|
salme 4:1:3
|
Riveli de’ Chierici di detta Terra fatto d’ordine di
Monsignor Vescovo di Girgenti emanato sotto li 20 Agosto 1762 per li prodotti
di detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 344:15
|
salme 154:14
|
salme 137:18
|
salme 7:4
|
salme 28:9
|
salme 26:9
|
A fine secolo i fuochi erano saliti a 1961. In altra sede
abbiamo scritto a lungo sull’evoluzione demografica di Racalmuto. Qui ci
limitiamo ad osservare che la popolazione si era assestata a fine del Seicento
intorno alle cinquemila unità. Dopo sarebbe scesa, ma davvero essa si è
notevolmente contratta sino a toccare la quota di 4.757 nel 1713 (o secondo
Maggiore-Perni nel 1714)[13]?
Noi francamente pensiamo che quel rivelo sia scarsamente
veridico. La documentazione dell’Archivio di Stato di Palermo (Deputazione
Regno, Inv. n.° 5 - RIVELI ANNO 1714 vol. n.° 1682) testimonia che a Racalmuto
funzionari del censimento operarono dal ventotto maggio ottava ind. 1715 sino
al “ primo Junii Millesimo septimo decimo quinto 1715”. Si era dunque in pieno
interdetto religioso. Plausibile dunque che, se non il sabotaggio, almeno il
disinteresse del clero locale abbia facilitato le diffuse omissioni del
censimento di tanti racalmutesi, come sempre preoccupati delle conseguenze
fiscali del rivelo.
Nel primo quindicennio del ‘700 non risultano epidemie di
rilievo a Racalmuto. Gli indici di mortalità sono quelli della norma (allegato
5). Le nascite come sempre sono cospicue e per di più l’immigrazione è
documentabile (famiglie come quelle degli Sciascia, dei Taverna etc., che erano
emigrate intorno al 1660, ritornano a Racalmuto proprio a cavallo tra il XVII
ed il XVIII secolo). Quella drastica contrazione della popolazione che vorrebbe
il rivelo del 1714-15 non appare per nulla attendibile. Quel che è certo è che
proprio al tempo del rivelo (1713-1715) il tasso di mortalità di Racalmuto era
tra i più bassi della sua storia sino all’unità d’Italia (2,59% della
popolazione media di quel tempo). E tale popolazione nel 1714, doveva, secondo
le nostre stime, aggirarsi sui 5.370 abitanti (contro gli appena 4.757 che
segnala il Maggiore-Perni con un divario del 12,89%).
Il XVIII secolo si chiude con una flessione della
popolazione: i dati disponibili (quelli della Matrice e quelli dei censimenti
ufficiali confermano) il repentino contrarsi della densità abitativa. Eccone
alcuni elementi significativi:
Anno
|
Popolazione di Racalmuto
|
fonte
|
1748
|
6.063
|
Maggiore-Perni pag. 352
|
1795
|
7.620
|
Matrice Racalmuto - arc. Mantione
|
1798
|
7.630
|
Maggiore-Perni pag. 352
|
1801
|
7.138
|
Matrice Racalmuto - L’arc. Mantione appone questa
annotazione: «terminata detta numerazione a 20 maggio 4^ Ind. 1801 Si vede
che il popolo trovasi diminuito considerevolmente rispetto all'anno scorso»
|
Dagli archivi di Stato di Palermo ricaviamo qualche notizia
sull’amministrazione del Comune di Racalmuto, una volta affrancato dal giogo
feudale. Negli anni dal 1784 al 1787, il razionale del luogo è don Francesco
Perrone, il notaio ufficiale: d. Antonino Picataggi; manca il tesoriere: in sua
assenza c’è un ”collettore ed esattore di tutte le tasse” sostituto; i giurati
sono: d. Giuseppe Amella, Francesco Grillo e Pistone, Marco Matrona, Calogero
Fucà; il sindaco è il Magnifico don Giuseppe Cavallaro. Vene pagata un’onza a
Bonaventura Brutto per il pubblico panizzo; a m° Pietro Castrogiovanni tarì 1 e
8 grani “per avere acconciato la porta della chiesa di S. Rosalia”; altre spese
per riparazione e manutenzione dell’orologio cui accudisce m° Vincenzo Terrana.
Nel successivo esercizio del 1785-86 abbiamo i seguenti giurati:
Bonaventura Lo Brutto, Giuseppe Scibetta Letizia, Salvatore Gambuto e Giuseppe
Tulumello. Sindaco: Antonino Grillo. Collettore: don Giuseppe Amella.
Ecco alcune annotazioni relative al 1790: d. Giuseppe Amella
è l’arrendatario che paga a m° Melchiorre Lo Cicero onze 11.7.14 “per
altrettante dal medesimo pagate e distribuite a diverse persone per la santa
solennizzazione della festa della gloriosa S. Rosalia, patrona di questa
università, il 4 di settembre e cioè: a m° Francesco Galeano e compagni per n°
3900 maschi che si sparano nel corso della festa, onze 1.28. 0; a don Calogero
Grillo per sei rotoli di cera a tarì 10 per rotolo, che si consumò in detta
festa, onze 1; al m° Mariano Busuito per fatiche per avere apparato la
chiesa tarì 14; a d. Antonio Grillo per regalia per avere suonato l’organo,
tarì 2; al rev. D. Morrino per avere rappresentato il panegirico della Santa,
tarì 2; tamburi n° 4, tarì 21; trombi 4, tarì 25; piffaro: tarì 6; per il
trionfo nel corso dell’ottavo: tarì 6; messe celebrative n° 13 tarì 19.10;
figure n° 200 tarì 2.10; spese a minuto tarì 9,14; corsa: onze 1: che in tutto
fanno onze 11.7.14.» Per l’esercizio 1790-91, Giuseppe Amella «pagava per
patrimonio urbano per la nona indizione onze 1.126 . 15 - 18
Nel 1791 “arrendatario” di Racalmuto figura don
Giuseppe Amella; d. Calogero Amella risulta il “fisico” locale. I giurati sono:
Calogero Tirone, Giuseppe Scibetta, Vincenzo Tulumello e Calogero Fucà. Il 20
gennaio 1791 sono «pagate da Amella al sac. D. Nicolò Pantalone tarì 11.10 per
il prezzo di due corde di canape necessarie per la mappera dell’orologio; a m°
Lorenzo d’Agrò tarì 2 in prezzo di chiodi e pezzi di tavola necessari per
l’acconcio dell’orologio». 21 maggio 1791: «Amella paga tarì 4 per eligersi dai
giurati un barbiere più adatto ed abile per apprendere il metodo dell’innesto
del vaiolo, giusta la pratica insegnata a diversi barbieri chiamati in Palermo
per apprendere la suddetta maniera di eseguire il suddetto innesto a norma
delle istruzioni». Il 16 giugno 1791 viene eletto m° Giuseppe Romano.» Il 31 di
agosto Giuseppe Amella corrisponde a Nicolò Pantalone “onze 9 per onorario di
tutto l’anno per avere la cura dell’orologio di questa Università.
1791-92: «Viene nominato procuratore del tesoriere Giuseppe
Tulumello, don Croce di Napoli. A Francesco Restivo onze 4 per loero della
bottega della neve e sue fatiche per la vendita di detta neve come da mandato.»
1792-1793: «viene esposta la reliquia di S. Rosalia per la
serenità del tempo e penuria della fame. Tarì a Cicero per averli erogati per
formare una sepoltura fuori la terra per la quantità di morti in questo
sterelissimo anno 11a indizione.»
Nel 1793 cambia il quadro amministrativo: Pietro Scimonelli
diviene maestro razionale; giurati sono: Antonio Grillo e Brutto, Francesco
Pomo, Girolamo Grillo Alessi. Vengono eletti deputati a norma di una circolare
del 1793: Antonino Sferrazza, Salesio Vinci, Angelo Gabriele Mannarà, Antonino
Grillo e Mattina, Giuseppe Cavallaro. Don Giuseppe Tulemello è il tesorerie.
L’anno successivo, nel 1794, il razionale è Santo
Impellizzeri; deputati: Francesco Vinci (che, se non andiamo errati, deve
essere quello che nel 1760 scrisse la storia di M. SS. del Monte e fu chierico
nel seminario di Agrigento), Giuseppe e Bernardo Grillo, nonché i magnifici
Onofrio d’Amico, Giuseppe Monserrato e don Calogero Amenti. Arrendatore del
patrimonio urbano: don Vincenzo Tulumello per la somma di onze 1.126.15.18.
Per l’esercizio 1794-1795, abbiamo: razionale, don Carlo
Calabrese; deputati: Calogero Ferrante, notaio Antonino Picataggi, notaio
Cristofaro Pomo. I giurati sono: Giuseppe Baeri, Girolamo Gambuto, Raffaele
Cavallaro, Raffaele Grillo e Addamo. Collettore è il notaio Ignazio Tulumello.
Per il 1797 e 1798 il razionale è Domenico Impellizzeri; i
deputati locali sono: il barone d. Girolamo Grillo, Giuseppe Mattina, Raffaele
Grillo e Belmonte; i giurati: Salesio Vinci, Vincenzo Bellavia, Paolo Baeri e
Giuseppe Matrona. “L’intero civico patrimonio si gabella a d. Raffaele Bisanti,
procuratore di d. Felice Cavallaro”.
Il secolo si chiude con queste cariche: razionale, Francesco
Pirrone; deputati: Salvatore Gambuto, Giuseppe Mattina. Calogero Farrauto
assume la carica di regio proconservatore. I nuovi giurati: Marco Matrona,
Gaspare Savatteri, Antonio Bellavia, d. Vincenzo Grillo e Ingrao. Come
collettore figura d. Vincenzo Bellavia. Tesoriere è ora don Antonio Grillo ed
Alessi.
**********************
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le
relazioni che ogni triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della
loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche sulle vicende
laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia pure con
annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703
che produce “pro triennio trigesimo nono”[14], così descrive Racalmuto:
«Recalmutum: Item Archipresbiter gerit ibidem curam
animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia Matrice quotidie dicunt horas canonicas.
Adestque Monasterium Monalium et quatuor Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16,
Sacerdotes quadraginta, Clerici 36. Animae 5.012.»
Vigilavano dunque su una popolazione di appena 5.012 anime
ben 40 sacerdoti coadiuvati da 36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui
non viene detto l’organico. La notizia sciasciana sugli ottanta preti può
essere l’eco di questi riferimenti vaticani.
Nelle città – precisa il vescovo – in cui si dice «quod
animarum curam gerit archipresbiter” bosogna intendere che questi è
beneficiario perpetuo ed ha per lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto,
aveva un arciprete così beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci
consente questi riferimenti: Racalmuto: viene incluso tra gli oppida; le
ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes
in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. [15] l’oppidum continua a venire designato
erroneamente Recalmutum. Ignoriamo quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è
l’eco dei trambusti politici e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo
quindi a quella del 15 settembre 1728 ove di specifico per Racalmuto non
riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove
in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre
feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è
necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il
sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i
fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici,
insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era premurato
di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale
Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc
specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde
bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè
credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione
prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be
sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis
abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum
paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il
popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli
neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità
la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in
termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a
quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso
vescovo Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un
nutrito questionario.
Scarna anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma
alcune note di costume la rendono particolarmente interessante. Per esperienza
il vescovo sa che i negozianti di frumento, per smodata avidità di lucro,
sogliono spesso all’inizio dell’inverno nascondere partite di grano per vendere
dopo a caro prezzo. Donde il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi,
tempi calamitosi: pestilenza e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia
(mala quibus tota Italia afficitur[16]). Ma il sesso è il chiodo fisso del
presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi juvenes puella virgines sub spe
matrimonii seducentes, carnaliter cum eis conversentur: exinde vero vel
alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis intuitu, dum coram meam Curiam
conventi super promissione matrimonij stuproque illato causa exagitur, Parochum
vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac coram eo testibusque a se
conductis, cum altera clandestinè contrahunt per evrba de presenti, cum maximo
deceptae mulieris paeiudicio, honestarum familiarum dedecore, ac episcopalis
auctoritatis contemptu.» Scene davvero manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione
datata 6 gennaio 1765.
Il Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per
discutere un’annosa controversa con il Regio Fisco: «completam victoriam
obtinui.[17]» Si trattava di canonicati: forse uno
riguardava quello delle rendite racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex
Sanctae Agatae dictum [18]). Questione intricata quella che
periodicamente ritorna: la competenza del Tribunale Apostolico della Legazia.
«Nullum est oppidum – scrive il vescovo – pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti
Officii cum eius Magistro notario, et saepe cum uno vel duobus librorum
revisoribus non existat: et in aliquibus etiam consultores et qualificatores
electi reperiuntur.» Naturalmente anche a Racalmuto. V’è quindi un salto
trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad Agrigento:
gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La prima
relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio Granata.
E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr. f. 619)
in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex Massa
Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium percipiunt..»
Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum gregorianum juxta
Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini, militantis Ecclesiae
psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante Thorum Dei emulari, et
ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa horas canonicas recitare
debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel presule ad esigere dai
mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne durante il canto delle ore
canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene) che avvenisse secondo il più
rigido cerimoniale, quello del Graduale e dell’Antifonario. Non ne abbiamo
tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente
per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale
potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre
che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano
d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa
recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [19] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713:
il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili
chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il
chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio.
Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa
vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre
una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia
liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi
esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano
ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai
sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette
in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa
Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un
bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed
ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad
esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che
a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne
fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa
Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono
avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi
protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché
l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare
c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico
documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma
poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei
giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si
riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano
d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa
recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [20] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713:
il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili
chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il
chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio.
Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa
vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre
una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia
liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi
esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano
ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai
sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette
in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa
Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un
bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed
ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad
esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che
a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne
fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile.
Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti,
ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò,
vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era
stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il
governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il
loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché
l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati …
[…] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero
pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al
papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che
è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza
doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e
regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e
Gayarre, de consilio sacrae catholicae majestatis – che essendo stato il
reverendissimo arcivescovo di Girgenti don Francesco Ramirez intimato d’ordine
di S.E. a partirsi da quella diocesi e da questo fedelissimo regno, per li
giusti motivi che mossero l’animo di S.E. concernenti al real prestigio e
pubblico bene e quiete del regno, valendosi con matura riflessione et evidente
giustizia della potestà economica contro il nomato prelato, quello, abusandosi
del titolo specioso di consigliere di S.M. (che la divina guardi) e del proprio
giuramento di fedeltà e d’osservare le prerogative regie e del regno, facendosi
scudo, benché ideato, d’essere lesa la libertà ecclesiastica, e d’aver patito
violenze dal capitano Ochoa, dottor don Giovanni Battista Guzzardo, chierico
don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre persone generalmente, specialmente
e individualmente nominati, passò a scomunicarli; e supponendo che l’esercizio
di tal potestà economica fosse enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale
e tutte le chiese della diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real
servizio e la potestà economica di S.E. Per la totale elevazione del quale
interdetto, per l’evidente nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese
con la continuazione de’ divini offici ed amministrazione di sacramenti, si
stan spedendo, per via del Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso
riflettendo che la riferita censura fulminata contro le persone, così come in
specie riferite, ha processo, ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato,
contro la forma de’ sacri canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo,
evidente perturbazione dei popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed
esercizio della potestà economica, ed in esecuzione di supposta potestà
concessagli dalla Corte Romana, non esecuta né presentata nel regno, in grave
pregiudizio delle regalie e prerogative del regio exequatur, secondo si prescrive
dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati in evidenti ragioni,
avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai interrotta nel lungo
corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno, ma anche per tutto
il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti, alli sacri canoni,
concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed accrescendosi i motivi di
suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili eccessi ed evidenti aggravi:
resta la suddetta censura, come sopra fulminata, assolutamente nulla ed
ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non avendo né tampoco
precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la citazione ad dicendum
causam quae, secondo precettò la stessa Verità increata.» [21]
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che
definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla
Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae,
edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab
episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta
fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac
poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è
il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di Racalmuto.
Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno che non
riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto.
Nella Controversia ironizza: «ingastone … Era inevitabile che nascesse il
contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo di
carestia. perlongo L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice di
mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non
scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi
dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più
conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non
voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo
a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio
di niente. ingastone Proprio così …A Girgenti, a una donna cui
stavano battezzando il nipote, ho domandato se sapeva che il prete officiante
era uno scomunicato. Lo so, mi ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo
faremo ribattezzare. E il bello è che sanno benissimo quanto siano stati
cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata
presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al
loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a
confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo
espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva
tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare
particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto
ad allontanarsi da Agrigento […] Cominciò allora un periodo assai
turbolento in cui clero e popolo si divisero tra favorevoli e sfavorevoli
all’interdetto: tra scomuniche minacce, carceri, esili, confische e
vessazioni, scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando
l’interdetto venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu
generalmente osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità
civili, non solo in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la
forza e i sacerdoti, in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono
le sacre funzioni. Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari
alla violazione dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare
imbarazzato e piuttosto ondivago. [22]
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata
con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore
le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe
mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro paese
è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro i
contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St.
Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e
sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le
cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza
de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune
misure.» [23] Ma il 5 dicembre 1713 il re deve
inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice della R. Gran Corte, in
quanto occorre «metter il dovuto freno a que’ inconvenienti ch’ancor succedono
in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per assolvere dall’interdetto.
Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di Cammarata”, giusta quel che si
legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [24] che «due stampe sono divalgate a Roma:
l’una che contiene un Brebe del Papa, diretto al Capitolo della Cattedrale di
Girgenti: e l’altra che consiste in una scrittura intitolata «Lettera di
disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi di Catania e di Girgenti». La data
del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo 1714] e la sua sostanza si riduce
a dolersi che [taluni] canonici riconoschino per Vicario Generale il Canonico
Formica [per cui si ordina] sotto pena di scomunica a sé riservata di più
riputare il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il
disinganno … potrebbe probabilmente essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il
canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De
St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo
Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero
colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui
nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì,
ed altri luoghi … Ella vi proveda a tenore de’ precedenti ordini di S. M.
con mandarvi dei Religiosi ben affetti tanto Secolari, che Regolari per far
riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato
furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo
vacante. Il Ramirez muore – per così dire, esule – il 27 agosto 1715, ma
la sede agrigentina viene raggiunta da un presule riconosciuto da Roma solo il
24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è Anselmo della Penna (Peña): quello che fa
tradurre il catechismo in siciliano ed esige che siano educati i fanciulli
inculcando loro le nozioni rudimentali della fede in perfetto dialetto
siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per studi linguistici di portata
anche sociologica.
Il Mongitore – integrando il Pirri - ci ragguaglia
sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede vacante la
Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto
nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe
Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che in quella sede viene precisato su La Peña è così
traducibile: «Anselmo della Penna, ispano, nato in una località denominata
Rabaderia della diocesi auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di
S. Benedetto ed era laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto
dell’ordine ed abbate generale della congregazione benedettina di Spagna. Fu
eletto vescono di Crotone il 2 febbraio 1715. A quattro anni della nomina di
Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della
chiesa agrigentina con bolla pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723,
registrata in Palermo il 9 novembre del medesimo anno. Prestò giuramento
solenne nelle mani dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11
novembre 1723 in forza di breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’
U.I.D. Antonino Zavarrone, protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da
zelo pastorale e si distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729,
allorché ebbe un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco
prezzo distribuì ai poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave
febbre mentre visitava Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse
trasportato nella città di Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti
religiosi; qui, ottuagenario, cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [25]
Succede Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su
presentazione di Carlo VI. Investito con bolla pontificia di Clemente XII
dell’11 dicembre 1730, trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per
il Mongitore [26]- per doti d’animo e per virtù. Sotto
di lui viene redatto un volume di tutti i benefici e cappellanie della
cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il Picone, «fu uno di quegli
uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi rigeneratori di una città, ed
egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione, nel pubblico costume, e nel
commercio.» [27] Il che sarà vero per Agrigento,
ma dubitiamo fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che
fece a Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro
e bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre
Elia Lauricella. Il padre Morreale ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione
lui.
Succede Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4
ottobre 1768). Nobile dei principi di Campofranco, fondò la celebre omonima
biblioteca che interessò Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario
anche per Sciascia.
Dal 20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile
Antonio Lanza della celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta
Melchiorra Lanza la moglie dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta
immortalato, e non tanto gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore
inglese Brydone. «Appartiene – scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle
prime famiglie dell’isola ed è fratello del principe di …. È un omettino onesto
e una persona piacevole, e questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni,
ed è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane,
essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato,
profondamente erudito sia cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto
intelligente che colto. […] Tra i commensali abbiamo trovato parecchi massoni,
che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo,
durato invero poco, non ebbe tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio ad
limina al papa.
Dopo, per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del
1786, regge la diocesi Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e
forse, al di là del suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il
Picone annota: al magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza e Branciforti,
i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria. »
Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura
più di un biennio (dal 15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il
Picone: «succedeva il nostro concittadino … che tentò di rendersi benemerito
della patria, ma la morte il prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789
dirigeva al re un memoriale per lo quale chiedeva che gli si concedesse a
titolo di vendita, o di enfiteusi il conventino dei Riformati (già da tre anni
abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse piantarvi un orto
botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già indotto un valente
botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato un convenevole
stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per l’irrigazione delle
piante.»
Il 1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio
Granata, il suo magistero durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato
che si proietta nel secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
[1] ) Archivio di Stato di Agrigento –
Distretto Notarile – Notaio Angelo Maria Cavallaro – Inventario n. 6 – n°
10632.
[2] ) Archivio di Stato di Agrigento – Atti
Notarili – notaio Angelo Maria Cavallaro – inv. N° 6 - fasc. 10632, f.
165 ss.
[3] ) Leonardo Sciascia – Contrada Noce, in Gli
amici della Noce, Fondazione Sciascia Racalmuto 1997, p. 7
[4] ) Leonardo Sciascia Prefazione al libro di
Tinebra Martorana, Racalmuto – Memorie e tradizioni – Racalmuto 1986, pp. 11-13
[11]) Secondo l’elenco della
Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52 anni (cfr. col. 3
n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio sulla data di morte
può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
|
5
|
1650
|
Todaro
|
Giuseppe Sacerdote
|
sepolto nella chiesa di S. Maria del Monte
|
gratis
|
Sull’età del Sacerdote Todaro è da precisare che era
già chierico nel 1598 come risulta del tuo elenco:
4
|
1598
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
12
|
1600
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
e nella visita del 1608 è già sacerdote abilitato alle
confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote sia morto settantenne e
questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
|
12
|
1580
|
Todaro
|
Joseppi
|
Vincenzo Mastro
|
Violanti
|
[12] ) Archivio di Stato di Palermo - FONDO
ARCHIVISTICO PALAGONIA - SERIE ARCHIVI PRIVATI – UNITA’ ARCHIVISTICA: 694 -
ANNI 1736-1752
[13]) Nel Dizionario Topografico della Sicilia di Vito
Amico, tradotto e aggiornato da Gioacchino Di Marzo, si afferma che a Racalmuto
si erano registrati «nell’anno 1713, 1175 fuochi e 4757».
Francesco Maggiore-Perni ne’ “La popolazione di Sicilia e di
Palermo dal X al XVIII secolo” colloca il censimento nel 1714 (cfr. Tavola I
pag. 527).
[23] ) Il Regno di Vittorio Amedeo II di
Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti
raccolti e stampati per ordone della Maestà del re d’Italia Vittorio Emanuele
II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
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