Nell’intricata controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac. Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate vertenze giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di proprietà «primitivo veluti jus pheudi et proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone - «in quei tempi Mercanti». Del resto aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un triennio, ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile del 3 settembre 1659, redatto innanzi a quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc. Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488». Ma qualche chiarimento lo troviamo in quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo collaterale dei locali conti) si obbliga di corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro .. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann. cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et contractus solutionis donationis et assignationis in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum contractum in eis calendatorum.» inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g. tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la chiesa di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio 1650.[11]Successivamente alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Altri dati sui Savatteri del ‘700
Le numerazioni delle anime della Matrice di Racalmuto riprendono a metà del settecento. Spigoliamo questi dati sui Savatteri di quel secolo.
1) Giuseppe Savatteri di Giacomo, di anni 32; Rosa, sua madue di anni 70.
2) Vincenzo Savatteri di Giacomo di anni 48; Giovanna, moglie di anni 38; Domenica, figlia di anni 20; Nicola figlia di anni 18; Giuseppa figlia di anni 15; Calogera figlia di anni 12; Stefana figlia di anni 10; Giacomo figlio di anni 2.
3) Francesco Savatteri di Giacomo di anni 32; Angela moglie di anni 24; Maddalena figlia di anni 3; Calogero figlio di anni 5.
4) Vincenzo Savatteri di Ignazio di anni 44; Rosa moglie di anni 33; Giovanna figlia di anni 13; Carmela figlia di anni 11; Grazia figlia di anni 9; Mariano figlio di anni 8.
5) Antonia Savatteri vedova d’Ignazio di anni 66.
6) Mastro Antonino Savatteri di anni 59; Maria moglie di anni 56; Sr. Angela Maria figlia di anni 27; chierico Giuseppe figlio di anni 22.
7) Giuliano Savatteri d’Ignazio di anni 34; Antonia moglie di anni 21; Sebastiana figlia di anni 1.
8) Francesco Savatteri di anni 39; Dorotea moglie di anni 28; Giuseppa figlia di anni 15; Filippa figlia di anni 11; Vincenzo figlio di anni 9; Gaspare figlio di anni 6; Stefano figlio di anni 2.
9) Don Sac. Michel’angelo Savatteri di anni 55; Francesca Maria sorella di anni 41; Cruci serva di anni 52.
Francesco Savatteri di Giacomo di anni 28; Angela moglie di anni 22; Maddalena figlia di anni 8; Giuseppa figlia di anni 1; Calogero figlio di anni 4.
Vincenzo Savatteri di Giacomo di anni 52; Giovanna moglie di anni 42; Giuseppa figlia di anni 19; Calogera figlia di anni 16; Stefana figlia di anni 14; Giacomo figlio di anni 6; Angela figlia di anni 4.
Giuseppe Savatteri di anni 36; Maria moglie di anni 30; Antonia figlia di anni 4; Calogera figlia di anni 1.
Antonino Savatteri di anni 44; Rosa moglie di anni 43; Carmela figlia di anni 17; Grazia figlia di anni 13; Mariano figlio di anni 12.
Giuliano Savatteri di anni 38; Antonina moglie di anni 30; Raffaele figlio di anni 3; Carmela figlia di anni 1.
mastro Antonino Savatteri di anni 63; Maria moglie di anni 50; don Giuseppe figlio di anni 28.
Don Francesco Savatteri di anni 43; donna Dorotea moglie di anni 39; Giuseppa figlia di anni 20; Vincenzo figlio di anni 13; Gaspare figlio di anni 10; Stefano figlio di anni 6; Calogero figlio di anni 4; Giuseppe figlio di anni 2; Leonardo figlio di anni 1; Antonia serva di anni 39.
Reverendo don Michelangelo Savatteri di anni 65; Mita sorella di anni 50; Apollonia serva di anni 40.
Nicolò Savatteri [parte del foglio abrasa]; Grazia moglie; Vita figlia; Calogero figlio.
1. Don Stefano Savatteri; donna Catarina moglie.
2. Don Gaspare Savatteri; Donna Angelica moglie; Concetta figlia di anni 16; Gaetano figlio di anni 12; Leonardo figlio di anni 5; Antonia di anni 10.
3. Calogero Savatteri libero; Giuseppa sorella libera.
4. Mariano Savatteri; Vincenza moglie; Domenica figlia di anni 8; Santa figlia di anni 14; Rosa figlia di anni 6; Santo figlio di anni 19; Antonio figlio di anni 17.
5. Giuseppe Savatteri; Antonia moglie; Biaggio (sic) figlio di anni ...
6. Don Giuseppe Savatteri; Giuseppa; Rev. Don Nicolò figlio; Raffaela figlia di anni 23; Fidela figlia di anni 21; Luiggi (sic) di anni 17.
7. Don Vincenzo Savatteri.
Rev. Don Giuseppe Savatteri; donna Dorotea madre; D. Giachino Brutto; donna Giuseppa di anni 46; Rosa nipote di anni ...; Pasquala serva.
La storia della famiglia Savatteri appare, davvero, uno spaccato della media borghesia racalmutese, quale si va configurando nel secolo dei lumi per consolidarsi nell’Ottocento, come meglio vedremo a suo tempo.
Racalmuto del Settecento nelle carte del fondo Palagonia.
Tra le carte del fondo Palagonia – pervenute all’Archivio di Stato di Palermo dalla famiglia dei Gaetani [12] - ricaviamo questo documento che ci pare illuminate per la storia feudale racalmutese, nel suo dteriorarsi settecentesco:
[f. 5]
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E. che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni, il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li creditori suggiogatarijnon hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità, anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché consistendo la maggior parte delli introiti da ... molini situati in parte di lavanchiki ricercano ogni anno spese considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto 1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggiodi ogni anno, che non hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij .. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche cje la minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il medesimosenza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se li possa dare, a riflesso del consenso forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per l’altre deputazioni fin oggi abolite; vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che in contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed individuale menzione quale s’habbia .. per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Item ista comm.do .., ac consensi maioris partis creditorium, tollatur deputatio de qua agitur, solutis prius juribus officialibus deputationis status .. penes acta
per sp. de Joanni, Xileci, Paternò.
Copia Don Joannes Marchisi ..
Lo stato dei “naturali” di Racalmuto, e cioè le loro disponibilità in frumento e legumi, ci pare esaustivo in questo quadro statistico:
f. 302
Rivelo de naturali di Racalmuto e di alcuni delle Grotte di tutti i generi e novali della Ricolta X.ma Ind. 1762 prodotti nello Stato e territorio di detta terra, nel fego de’ Gibbellini e feudi d’Aquilìa e Cimicìa de RR. PP. Benedettini de Scalis:
forti
|
orzi
|
Fave
|
lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 1123:3
|
salme 578:2
|
salme 367
|
salme 113:19
|
salme 126:7
|
salme 133:3
|
Rivelo fatto da’ Reverendi Sacerdoti di detta terra Jorati della SS.ma Inquisizione del Tribunale del Santo Officio di tutti li prodotti come trova in detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 47
|
salme 36
|
salme 14:4
|
salme 0:3
|
salme 1:8
|
salme 4:1:3
|
Riveli de’ Chierici di detta Terra fatto d’ordine di Monsignor Vescovo di Girgenti emanato sotto li 20 Agosto 1762 per li prodotti di detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 344:15
|
salme 154:14
|
salme 137:18
|
salme 7:4
|
salme 28:9
|
salme 26:9
|
A fine secolo i fuochi erano saliti a 1961. In altra sede abbiamo scritto a lungo sull’evoluzione demografica di Racalmuto. Qui ci limitiamo ad osservare che la popolazione si era assestata a fine del Seicento intorno alle cinquemila unità. Dopo sarebbe scesa, ma davvero essa si è notevolmente contratta sino a toccare la quota di 4.757 nel 1713 (o secondo Maggiore-Perni nel 1714)[13]?
Noi francamente pensiamo che quel rivelo sia scarsamente veridico. La documentazione dell’Archivio di Stato di Palermo (Deputazione Regno, Inv. n.° 5 - RIVELI ANNO 1714 vol. n.° 1682) testimonia che a Racalmuto funzionari del censimento operarono dal ventotto maggio ottava ind. 1715 sino al “ primo Junii Millesimo septimo decimo quinto 1715”. Si era dunque in pieno interdetto religioso. Plausibile dunque che, se non il sabotaggio, almeno il disinteresse del clero locale abbia facilitato le diffuse omissioni del censimento di tanti racalmutesi, come sempre preoccupati delle conseguenze fiscali del rivelo.
Nel primo quindicennio del ‘700 non risultano epidemie di rilievo a Racalmuto. Gli indici di mortalità sono quelli della norma (allegato 5). Le nascite come sempre sono cospicue e per di più l’immigrazione è documentabile (famiglie come quelle degli Sciascia, dei Taverna etc., che erano emigrate intorno al 1660, ritornano a Racalmuto proprio a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo). Quella drastica contrazione della popolazione che vorrebbe il rivelo del 1714-15 non appare per nulla attendibile. Quel che è certo è che proprio al tempo del rivelo (1713-1715) il tasso di mortalità di Racalmuto era tra i più bassi della sua storia sino all’unità d’Italia (2,59% della popolazione media di quel tempo). E tale popolazione nel 1714, doveva, secondo le nostre stime, aggirarsi sui 5.370 abitanti (contro gli appena 4.757 che segnala il Maggiore-Perni con un divario del 12,89%).
Il XVIII secolo si chiude con una flessione della popolazione: i dati disponibili (quelli della Matrice e quelli dei censimenti ufficiali confermano) il repentino contrarsi della densità abitativa. Eccone alcuni elementi significativi:
Anno
|
Popolazione di Racalmuto
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fonte
|
1748
|
6.063
|
Maggiore-Perni pag. 352
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1795
|
7.620
|
Matrice Racalmuto - arc. Mantione
|
1798
|
7.630
|
Maggiore-Perni pag. 352
|
1801
|
7.138
|
Matrice Racalmuto - L’arc. Mantione appone questa annotazione: «terminata detta numerazione a 20 maggio 4^ Ind. 1801 Si vede che il popolo trovasi diminuito considerevolmente rispetto all'anno scorso»
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Dagli archivi di Stato di Palermo ricaviamo qualche notizia sull’amministrazione del Comune di Racalmuto, una volta affrancato dal giogo feudale. Negli anni dal 1784 al 1787, il razionale del luogo è don Francesco Perrone, il notaio ufficiale: d. Antonino Picataggi; manca il tesoriere: in sua assenza c’è un ”collettore ed esattore di tutte le tasse” sostituto; i giurati sono: d. Giuseppe Amella, Francesco Grillo e Pistone, Marco Matrona, Calogero Fucà; il sindaco è il Magnifico don Giuseppe Cavallaro. Vene pagata un’onza a Bonaventura Brutto per il pubblico panizzo; a m° Pietro Castrogiovanni tarì 1 e 8 grani “per avere acconciato la porta della chiesa di S. Rosalia”; altre spese per riparazione e manutenzione dell’orologio cui accudisce m° Vincenzo Terrana. Nel successivo esercizio del 1785-86 abbiamo i seguenti giurati: Bonaventura Lo Brutto, Giuseppe Scibetta Letizia, Salvatore Gambuto e Giuseppe Tulumello. Sindaco: Antonino Grillo. Collettore: don Giuseppe Amella.
Ecco alcune annotazioni relative al 1790: d. Giuseppe Amella è l’arrendatario che paga a m° Melchiorre Lo Cicero onze 11.7.14 “per altrettante dal medesimo pagate e distribuite a diverse persone per la santa solennizzazione della festa della gloriosa S. Rosalia, patrona di questa università, il 4 di settembre e cioè: a m° Francesco Galeano e compagni per n° 3900 maschi che si sparano nel corso della festa, onze 1.28. 0; a don Calogero Grillo per sei rotoli di cera a tarì 10 per rotolo, che si consumò in detta festa, onze 1; al m° Mariano Busuito per fatiche per avere apparato la chiesa tarì 14; a d. Antonio Grillo per regalia per avere suonato l’organo, tarì 2; al rev. D. Morrino per avere rappresentato il panegirico della Santa, tarì 2; tamburi n° 4, tarì 21; trombi 4, tarì 25; piffaro: tarì 6; per il trionfo nel corso dell’ottavo: tarì 6; messe celebrative n° 13 tarì 19.10; figure n° 200 tarì 2.10; spese a minuto tarì 9,14; corsa: onze 1: che in tutto fanno onze 11.7.14.» Per l’esercizio 1790-91, Giuseppe Amella «pagava per patrimonio urbano per la nona indizione onze 1.126 . 15 - 18
Nel 1791 “arrendatario” di Racalmuto figura don Giuseppe Amella; d. Calogero Amella risulta il “fisico” locale. I giurati sono: Calogero Tirone, Giuseppe Scibetta, Vincenzo Tulumello e Calogero Fucà. Il 20 gennaio 1791 sono «pagate da Amella al sac. D. Nicolò Pantalone tarì 11.10 per il prezzo di due corde di canape necessarie per la mappera dell’orologio; a m° Lorenzo d’Agrò tarì 2 in prezzo di chiodi e pezzi di tavola necessari per l’acconcio dell’orologio». 21 maggio 1791: «Amella paga tarì 4 per eligersi dai giurati un barbiere più adatto ed abile per apprendere il metodo dell’innesto del vaiolo, giusta la pratica insegnata a diversi barbieri chiamati in Palermo per apprendere la suddetta maniera di eseguire il suddetto innesto a norma delle istruzioni». Il 16 giugno 1791 viene eletto m° Giuseppe Romano.» Il 31 di agosto Giuseppe Amella corrisponde a Nicolò Pantalone “onze 9 per onorario di tutto l’anno per avere la cura dell’orologio di questa Università.
1791-92: «Viene nominato procuratore del tesoriere Giuseppe Tulumello, don Croce di Napoli. A Francesco Restivo onze 4 per loero della bottega della neve e sue fatiche per la vendita di detta neve come da mandato.»
1792-1793: «viene esposta la reliquia di S. Rosalia per la serenità del tempo e penuria della fame. Tarì a Cicero per averli erogati per formare una sepoltura fuori la terra per la quantità di morti in questo sterelissimo anno 11a indizione.»
Nel 1793 cambia il quadro amministrativo: Pietro Scimonelli diviene maestro razionale; giurati sono: Antonio Grillo e Brutto, Francesco Pomo, Girolamo Grillo Alessi. Vengono eletti deputati a norma di una circolare del 1793: Antonino Sferrazza, Salesio Vinci, Angelo Gabriele Mannarà, Antonino Grillo e Mattina, Giuseppe Cavallaro. Don Giuseppe Tulemello è il tesorerie.
L’anno successivo, nel 1794, il razionale è Santo Impellizzeri; deputati: Francesco Vinci (che, se non andiamo errati, deve essere quello che nel 1760 scrisse la storia di M. SS. del Monte e fu chierico nel seminario di Agrigento), Giuseppe e Bernardo Grillo, nonché i magnifici Onofrio d’Amico, Giuseppe Monserrato e don Calogero Amenti. Arrendatore del patrimonio urbano: don Vincenzo Tulumello per la somma di onze 1.126.15.18.
Per l’esercizio 1794-1795, abbiamo: razionale, don Carlo Calabrese; deputati: Calogero Ferrante, notaio Antonino Picataggi, notaio Cristofaro Pomo. I giurati sono: Giuseppe Baeri, Girolamo Gambuto, Raffaele Cavallaro, Raffaele Grillo e Addamo. Collettore è il notaio Ignazio Tulumello.
Per il 1797 e 1798 il razionale è Domenico Impellizzeri; i deputati locali sono: il barone d. Girolamo Grillo, Giuseppe Mattina, Raffaele Grillo e Belmonte; i giurati: Salesio Vinci, Vincenzo Bellavia, Paolo Baeri e Giuseppe Matrona. “L’intero civico patrimonio si gabella a d. Raffaele Bisanti, procuratore di d. Felice Cavallaro”.
Il secolo si chiude con queste cariche: razionale, Francesco Pirrone; deputati: Salvatore Gambuto, Giuseppe Mattina. Calogero Farrauto assume la carica di regio proconservatore. I nuovi giurati: Marco Matrona, Gaspare Savatteri, Antonio Bellavia, d. Vincenzo Grillo e Ingrao. Come collettore figura d. Vincenzo Bellavia. Tesoriere è ora don Antonio Grillo ed Alessi.
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Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio trigesimo nono”[14], così descrive Racalmuto:
«Recalmutum: Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36. Animae 5.012.»
Vigilavano dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da 36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti vaticani.
Nelle città – precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti: Racalmuto: viene incluso tra gli oppida; le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. [15] l’oppidum continua a venire designato erroneamente Recalmutum. Ignoriamo quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre 1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici, insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito questionario.
Scarna anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur[16]). Ma il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa controversa con il Regio Fisco: «completam victoriam obtinui.[17]» Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum [18]). Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo – pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario, et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr. f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini, militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene) che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [19] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [20] Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e Gayarre, de consilio sacrae catholicae majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti don Francesco Ramirez intimato d’ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l’animo di S.E. concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M. (che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d’osservare le prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d’essere lesa la libertà ecclesiastica, e d’aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di tal potestà economica fosse enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l’evidente nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de’ divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo, ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de’ sacri canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana, non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e prerogative del regio exequatur, secondo si prescrive dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno, ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti, alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata, assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la citazione ad dicendum causam quae, secondo precettò la stessa Verità increata.» [21]
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae, edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto. Nella Controversia ironizza: «ingastone … Era inevitabile che nascesse il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo di carestia. perlongo L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio di niente. ingastone Proprio così …A Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote, ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto ad allontanarsi da Agrigento […] Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce, carceri, esili, confische e vessazioni, scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti, in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni. Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e piuttosto ondivago. [22]
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St. Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune misure.» [23] Ma il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’ inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [24] che «due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa, diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo 1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di scomunica a sé riservata di più riputare il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì, ed altri luoghi … Ella vi proveda a tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo vacante. Il Ramirez muore – per così dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per studi linguistici di portata anche sociologica.
Il Mongitore – integrando il Pirri - ci ragguaglia sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede vacante la Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo della Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale della congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2 febbraio 1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9 novembre del medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone, protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario, cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [25]
Succede Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI. Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730, trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore [26]- per doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione, nel pubblico costume, e nel commercio.» [27] Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre Elia Lauricella. Il padre Morreale ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal 20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene – scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio ad limina al papa.
Dopo, per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal 15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per l’irrigazione delle piante.»
Il 1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
[1] ) Archivio di Stato di Agrigento – Distretto Notarile – Notaio Angelo Maria Cavallaro – Inventario n. 6 – n° 10632.
[2] ) Archivio di Stato di Agrigento – Atti Notarili – notaio Angelo Maria Cavallaro – inv. N° 6 - fasc. 10632, f. 165 ss.
[3] ) Leonardo Sciascia – Contrada Noce, in Gli amici della Noce, Fondazione Sciascia Racalmuto 1997, p. 7
[4] ) Leonardo Sciascia Prefazione al libro di Tinebra Martorana, Racalmuto – Memorie e tradizioni – Racalmuto 1986, pp. 11-13
[11]) Secondo l’elenco della Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52 anni (cfr. col. 3 n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio sulla data di morte può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
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5
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1650
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Todaro
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Giuseppe Sacerdote
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sepolto nella chiesa di S. Maria del Monte
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gratis
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Sull’età del Sacerdote Todaro è da precisare che era già chierico nel 1598 come risulta del tuo elenco:
4
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1598
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GIUSEPPE
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TODARO
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CHIERICO
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12
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1600
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GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
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9
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1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
| |
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
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e nella visita del 1608 è già sacerdote abilitato alle confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote sia morto settantenne e questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
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12
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1580
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Todaro
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Joseppi
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Vincenzo Mastro
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Violanti
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[12] ) Archivio di Stato di Palermo - FONDO ARCHIVISTICO PALAGONIA - SERIE ARCHIVI PRIVATI – UNITA’ ARCHIVISTICA: 694 - ANNI 1736-1752
[13]) Nel Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico, tradotto e aggiornato da Gioacchino Di Marzo, si afferma che a Racalmuto si erano registrati «nell’anno 1713, 1175 fuochi e 4757».
Francesco Maggiore-Perni ne’ “La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo” colloca il censimento nel 1714 (cfr. Tavola I pag. 527).
[23] ) Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
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