Leggendo questo passo di Sciascia in Nero su nero (pag. 794 e segg.) non posso fare a meno di pensare al mio figlio 'selettivo' Alfredo Sole. Non ho l'autorevolezza di uno Sciascia per commentare quanto talora Alfredo mi scrive. Un certo suo amico d'infanzia torna a insolentirlo nel mio Diario. Sono irato da collerico quale sono. Questa la mando per posta anche al mio diletto figlio selettivo. Non so se risponderà a questa mia provocazione.
-----------------------
" .... Mi creda, ho conosciuto Alberti nel processo di Catanzaro e le confesso che non può avere la stoffa del grande mito che gli hanno creato: è un povero diavolo, ma fa comodo e quindi bisogna adoperarlo per scudo, Incriminare Gerlando Alberti, per loro è chiudere la partita: come sempre'. Così mi scriveva da Linosa, nel giugno del 1972, Giuseppe Sirchia. Sei anni dopo, la sera del 22 maggio, Sirchia e sua moglie cadevano, davanti al carcere dell'Ucciardone, sotto i colpi - secondo la polizia e secondo i giornali - del clan capeggiato da Gerlando Alberti. Sirchia aveva commesso un fatale errore di valutazione nel considerare, sei anni prima, Gerlando Alberti 'un povero diavolo'?
"Il problema non è di sapere se Gerlando Alberti aveva o no la stoffa, se Sirchia sbagliava a compatirlo o a disprezzarlo come 'povero diavolo'; il problema sono ancora e sempre 'loro': coloro che di Alberti - e di Sirchia - facevano mito e si facevano schermo. Sirchia non è mai andato, scrivendomi, al di là di questo generico 'loro': ma ammetteva che c'erano, che ci sono; e per uno come lui, che dell'omertà si faceva regola dichiarata, l'ammetterlo era molto - forse anche troppo, a giudicare da come è finito. 'In Sicilia, - mi diceva nella stessa lettera, - l'omertà bisogna rispettarla in qualsiasi settore: politica, polizia, giustizia, ecc. Io ancora ho molti guai e spero un giorno ne uscirò fuori con la speranza di potermi rifare una vita; non per me, ma per le mie figliole che studiano e spero che, almeno loro, riscatteranno il marchio dello schiavismo di cui sono stigmatizzato'. E concludeva così quella lunga lettera: ' Ora smetto, pregandola che le mie confidenze siano solo sue, perché voglio vivere in pace, voglio rifarmi una vita, non potrò essere io a cambiare qualcosa. Io sono una piccola tessera di un grande mosaico (che è la Società) e se non voglio essere schiacciato, bisogna che mi sia incastronato nella mia casella'. Incastronato; più da presa che incastonato. E la Società: quella che poteva schiacciarlo, che l'ha schiacciato.
"Le sue confidenze! Si riducono oggettivamente nel senso dei fatti, a ben poco: solo una volta mi fece il nome di un uomo politico, per un fatto che non riguardava lui ma un compagno di confino. Ma più delle confidenze che non mi faceva, per me era interessante la sua confidenza: il suo rivolgersi a me in quanto siciliano che, diceva, rispecchiava nei libri la 'cruda verità' della Sicilia, una vita 'non sempre coerente alla vita civile e morale'. E appunto questa era stata la base della confidenza sua nei miei riguardi: la rappresentazione che trovava nei miei scritti della 'cruda verità' in cui lui era vissuto e viveva. 'Per mia mala sorte, ho accumulato buona parte di conoscenza delle sofferenze umane'. Rimpiangeva di non saperle scrivere ma si confortava del fatto che io le scrivessi.
"La sua prima lettera diceva: è venuto qui a Linosa un giornalista tedesco, mi ha parlato dei suoi libri; vorrei leggerli, ma non so come fare per averli. Gliene feci spedire alcuni non dimenticando il GIORNO DELLA CIVETTA. Tornò a scrivermi per ringraziarmi e per dirmi le sue impressioni, ma mi diceva anche dell'ingiustizia di cui era vittima, del disagio suo e dei suoi compagni in quell'isola. Gli risposi forse un po' duramente, riguardo all'ingiustizia, all'illegalità di cui si lamentava. Dalla sua risposta, e poi da altre lettere, ebbi chiaro il concetto che lui si faceva del giusto e dell'ingiusto: avrebbe accettato come giusta la sua condanna se altri fosse stato accanto a lui, nel confino di Linosa, nelle carceri. Perché io sì e 'loro' no? Perché aver comprato un certo terreno è cosa mafiosa per Mancino e non lo è per l'uomo politico che l'ha comprato assieme a lui? Perché se i giudici in Corte d'Assise ci assolvono altri giudici ci condannano al confino?
"Debolmente tentavo di rispondere a quest'ultima domanda: ma nulla avevo da opporre alle altre due: non potevo, anzi, che dargli ragione. Soltanto cercavo di esortarlo a dire, davanti ai giudici che lo condannavano, ai giornalisti che lo intervistavano, a me come uomo che scriveva sui giornali, le cose cui alludeva i nomi che faceva. Una volta, che mi rivelò certi maneggi che le famiglie di alcuni confinati facevano affinché la pena dei loro congiunti venisse ridotta, gli scrissi che, se mi autiorizzava, avrei fatto un articolo. Mi rispose: 'Nella sua lettera mi dice che gli episodi da me raccontati bisognerebbe renderli pubblici per una battaglia giusta. In merito, le voglio raccontare un aneddi sant'Aonio di Padova. Sant'Antonio era di origine portoghese e, un giorno che si trovava in viaggio per predicare la sua fede, gli giunse un messaggio dove lo informavano che suo padre era stato accusato di omicidio. Subito il santo ri recò in Portogallo e si presentò agli uomini di legge che avevano imprigionato suo padre e gli disse: 'mio padre è innocente e ve lo posso provare'. Così recatosi al cimitero dove era seppellito il morto disse: 'su, parla: è stato mio padre a ucciderti?' Il morto . alzandosi dicce: 'no, non è stato tuo padre a uccidere'. Gli uomini di legge, rivolgendosi al santo, dissero: 'giacché hai fatto dire che non è stato tuo padre ad assassinarlo, chiedigli chi è l'assassino': e il santo rispose loro: 'a me interessava dimostrare l'innocenza di mio padre, scoprire l'assassino è compito vostro'.
"Sono sposato da sedici anni e sono stato assieme a mia moglie solo trenta mesi in varie riprese'. Perché questa pena, si domandava, se era vissuto in Sicilia da siciliano, dentro il solo Stato che conosceva, dentro leggi e regole precise e scrupolosamente Rispettate? E poteva essere folgorato dalla rivelazione dell'altro Stato, se soltanto per lui e per altri come lui - 'pesci piccoli' - si materializzava nel carcere, nel confino? Eccoli i pesci grossi, ben liberi nel mare dei delitti e degli affari, che nuotavano intorno all'Italia-medusa, all'Italia-piovra che soltanto muoveva i suoi tentacoli per afferrare i piccoli. Ne disegnò l'allegoria: dell'Italia, della commissione antimafia. Mi mandò il disegno da Linosa; poi, dall'Ucciardone, tramite il suo avvocato, il dipinto. Gli proposi una mostra dei suoi disegni, dei suoi quadri. Ma non volle: desiderava essere dimenticato, andarsene al nord o restare a Linosa. 'L'unica cosa che desidero è essere lasciato in pace e vivere assieme alla mia famiglia: lontano dalla Sicilia, anche se amo la mia terra più di ogni altra cosa al mondo'.
"Non c'è riuscito; e non poteva. La sua vita resta, negli annali della mafia, come precisa dimostrazione della tesi di Henner Hess: che la mafia è uno Stato in cui si vive come nella propria pelle, senza sapere che è uno Stato ed essendone, senza saperlo, perfetti cittadini.
Forse Sirchia aveva cominciato a sentire la pelle bruciare, a non esser più un perfetto cittadino",
Calogero Taverna
-----------------------
" .... Mi creda, ho conosciuto Alberti nel processo di Catanzaro e le confesso che non può avere la stoffa del grande mito che gli hanno creato: è un povero diavolo, ma fa comodo e quindi bisogna adoperarlo per scudo, Incriminare Gerlando Alberti, per loro è chiudere la partita: come sempre'. Così mi scriveva da Linosa, nel giugno del 1972, Giuseppe Sirchia. Sei anni dopo, la sera del 22 maggio, Sirchia e sua moglie cadevano, davanti al carcere dell'Ucciardone, sotto i colpi - secondo la polizia e secondo i giornali - del clan capeggiato da Gerlando Alberti. Sirchia aveva commesso un fatale errore di valutazione nel considerare, sei anni prima, Gerlando Alberti 'un povero diavolo'?
"Il problema non è di sapere se Gerlando Alberti aveva o no la stoffa, se Sirchia sbagliava a compatirlo o a disprezzarlo come 'povero diavolo'; il problema sono ancora e sempre 'loro': coloro che di Alberti - e di Sirchia - facevano mito e si facevano schermo. Sirchia non è mai andato, scrivendomi, al di là di questo generico 'loro': ma ammetteva che c'erano, che ci sono; e per uno come lui, che dell'omertà si faceva regola dichiarata, l'ammetterlo era molto - forse anche troppo, a giudicare da come è finito. 'In Sicilia, - mi diceva nella stessa lettera, - l'omertà bisogna rispettarla in qualsiasi settore: politica, polizia, giustizia, ecc. Io ancora ho molti guai e spero un giorno ne uscirò fuori con la speranza di potermi rifare una vita; non per me, ma per le mie figliole che studiano e spero che, almeno loro, riscatteranno il marchio dello schiavismo di cui sono stigmatizzato'. E concludeva così quella lunga lettera: ' Ora smetto, pregandola che le mie confidenze siano solo sue, perché voglio vivere in pace, voglio rifarmi una vita, non potrò essere io a cambiare qualcosa. Io sono una piccola tessera di un grande mosaico (che è la Società) e se non voglio essere schiacciato, bisogna che mi sia incastronato nella mia casella'. Incastronato; più da presa che incastonato. E la Società: quella che poteva schiacciarlo, che l'ha schiacciato.
"Le sue confidenze! Si riducono oggettivamente nel senso dei fatti, a ben poco: solo una volta mi fece il nome di un uomo politico, per un fatto che non riguardava lui ma un compagno di confino. Ma più delle confidenze che non mi faceva, per me era interessante la sua confidenza: il suo rivolgersi a me in quanto siciliano che, diceva, rispecchiava nei libri la 'cruda verità' della Sicilia, una vita 'non sempre coerente alla vita civile e morale'. E appunto questa era stata la base della confidenza sua nei miei riguardi: la rappresentazione che trovava nei miei scritti della 'cruda verità' in cui lui era vissuto e viveva. 'Per mia mala sorte, ho accumulato buona parte di conoscenza delle sofferenze umane'. Rimpiangeva di non saperle scrivere ma si confortava del fatto che io le scrivessi.
"La sua prima lettera diceva: è venuto qui a Linosa un giornalista tedesco, mi ha parlato dei suoi libri; vorrei leggerli, ma non so come fare per averli. Gliene feci spedire alcuni non dimenticando il GIORNO DELLA CIVETTA. Tornò a scrivermi per ringraziarmi e per dirmi le sue impressioni, ma mi diceva anche dell'ingiustizia di cui era vittima, del disagio suo e dei suoi compagni in quell'isola. Gli risposi forse un po' duramente, riguardo all'ingiustizia, all'illegalità di cui si lamentava. Dalla sua risposta, e poi da altre lettere, ebbi chiaro il concetto che lui si faceva del giusto e dell'ingiusto: avrebbe accettato come giusta la sua condanna se altri fosse stato accanto a lui, nel confino di Linosa, nelle carceri. Perché io sì e 'loro' no? Perché aver comprato un certo terreno è cosa mafiosa per Mancino e non lo è per l'uomo politico che l'ha comprato assieme a lui? Perché se i giudici in Corte d'Assise ci assolvono altri giudici ci condannano al confino?
"Debolmente tentavo di rispondere a quest'ultima domanda: ma nulla avevo da opporre alle altre due: non potevo, anzi, che dargli ragione. Soltanto cercavo di esortarlo a dire, davanti ai giudici che lo condannavano, ai giornalisti che lo intervistavano, a me come uomo che scriveva sui giornali, le cose cui alludeva i nomi che faceva. Una volta, che mi rivelò certi maneggi che le famiglie di alcuni confinati facevano affinché la pena dei loro congiunti venisse ridotta, gli scrissi che, se mi autiorizzava, avrei fatto un articolo. Mi rispose: 'Nella sua lettera mi dice che gli episodi da me raccontati bisognerebbe renderli pubblici per una battaglia giusta. In merito, le voglio raccontare un aneddi sant'Aonio di Padova. Sant'Antonio era di origine portoghese e, un giorno che si trovava in viaggio per predicare la sua fede, gli giunse un messaggio dove lo informavano che suo padre era stato accusato di omicidio. Subito il santo ri recò in Portogallo e si presentò agli uomini di legge che avevano imprigionato suo padre e gli disse: 'mio padre è innocente e ve lo posso provare'. Così recatosi al cimitero dove era seppellito il morto disse: 'su, parla: è stato mio padre a ucciderti?' Il morto . alzandosi dicce: 'no, non è stato tuo padre a uccidere'. Gli uomini di legge, rivolgendosi al santo, dissero: 'giacché hai fatto dire che non è stato tuo padre ad assassinarlo, chiedigli chi è l'assassino': e il santo rispose loro: 'a me interessava dimostrare l'innocenza di mio padre, scoprire l'assassino è compito vostro'.
"Sono sposato da sedici anni e sono stato assieme a mia moglie solo trenta mesi in varie riprese'. Perché questa pena, si domandava, se era vissuto in Sicilia da siciliano, dentro il solo Stato che conosceva, dentro leggi e regole precise e scrupolosamente Rispettate? E poteva essere folgorato dalla rivelazione dell'altro Stato, se soltanto per lui e per altri come lui - 'pesci piccoli' - si materializzava nel carcere, nel confino? Eccoli i pesci grossi, ben liberi nel mare dei delitti e degli affari, che nuotavano intorno all'Italia-medusa, all'Italia-piovra che soltanto muoveva i suoi tentacoli per afferrare i piccoli. Ne disegnò l'allegoria: dell'Italia, della commissione antimafia. Mi mandò il disegno da Linosa; poi, dall'Ucciardone, tramite il suo avvocato, il dipinto. Gli proposi una mostra dei suoi disegni, dei suoi quadri. Ma non volle: desiderava essere dimenticato, andarsene al nord o restare a Linosa. 'L'unica cosa che desidero è essere lasciato in pace e vivere assieme alla mia famiglia: lontano dalla Sicilia, anche se amo la mia terra più di ogni altra cosa al mondo'.
"Non c'è riuscito; e non poteva. La sua vita resta, negli annali della mafia, come precisa dimostrazione della tesi di Henner Hess: che la mafia è uno Stato in cui si vive come nella propria pelle, senza sapere che è uno Stato ed essendone, senza saperlo, perfetti cittadini.
Forse Sirchia aveva cominciato a sentire la pelle bruciare, a non esser più un perfetto cittadino",
Calogero Taverna
Nessun commento:
Posta un commento