domenica 25 febbraio 2018

ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA



Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni  arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([67]) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione  dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo  (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, ribadisce, come abbiamo visto quella diceria. Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto ebbe a sostenere Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.). Comprensibile, quindi, se ancor oggi su Internet, compulsando i siti a carico della collettività, siamo tenuti a credere:



 Nell'827 d.C. sulle rovine di Casalvecchio, i saraceni che avevano conquistato gran parte della Sicilia, edificarono Rahal-Maut. Sotto il dominio arabo Racalmuto progredì rapidamente, s'intensificò l'agricoltura mentre le miniere di zolfo e le saline diedero un impulso maggiore al commercio della città. Nel 1038 Racalmuto fu conquistata dal generale bizantino Maniace e nel forte di Minsciar (l'attuale Castelluccio), sventolò per quattro anni la bandiera di Costantinopoli.



Se quanto abbiamo sinora dibattuto ha una qualche attendibilità, queste chiose di pretesa storia locale rasentano stadi di demente visionarietà – ben diversa da quella romantica, alla Sciascia – e attestano solo lo sperpero del pubblico denaro. Il generale Maniace che sta a fare sventolare il vessillo bizantino al Castelluccio (la cui esistenza in quel tempo si dà per certa, ed il cui toponomo è mutuato dall’Edrisi di oltre un secolo dopo), dovrebbe destare beffardo sorriso, se il parto letterario non fosse a carico del contribuente: le miniere di zolfo e le saline – attive e proficue dall’IX al XI secolo, non ci vien detto in quale landa racalmutese – sono presenze che sconvolgono ogni attuale conoscenza storica.



Sciascia, purtroppo, è drastico nell’assegnare il toponimo Rahal-Maut al locale Ottocento arabo: ne lima scaramanticamente la portata funerea; il richiamo agli inferi, sotteso al “Paese dei morti”, si stempera nel più attendibile “paese distrutto dalla peste”. Invero Racalmuto ebbe consuetudine con le epidemie: «a peste fame et bello, libera nos Domine» era litania cantilenata nei millenni, con accoramento, con atavico terrore contadino. Erano davvero malanni con cui si doveva avere familiarità.



I nostri excursus storici sono contrappuntati di desolazioni endemiche. Peste nel IV secolo, peste nel 1355, morte e sgomento per peste dal 1374 al 1375, tentativo di sfruttare l’epidemia del 1576 per pietire qualche sgravio fiscale; famigerata fu quella del 1624 ove si prodigò il medico racalmutese Marco Antonio Alaimo; contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo;  e fu iattura per tanti versi: da quella economica a quella sociale; da quella dell’umano vivere a quella del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; d. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; un temendo cataclisma era stato il colera del 1837. Un fraticello del Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa agghiacciante testimonianza [68]: «Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone particolari; poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo, che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.» Alla fine del XIX secolo altra morìa endemica, e per sovrappiù la “spagnola” nel 1919.





Se Sciascia, dunque, si concede la licenza storica di fari derivare il toponimo del apese da un’impressionante peste, ha le sue brave ragioni letterarie. E come tali, finiamo per accettarle e rispettarle. Ma non sono verità storiche né narrabili né adombrabili.

Il toponimo si diffonde in Sicilia nel 1178 e riguarda una località, che, sia chiaro, nulla ha a che fare con Racalmuto e che riguarda addirittura la lontana Polizzi Generosa.

Racalmuto si affaccia alla storia documentata con un plateale falso, quello confezionato dal celebre abate Vella, di cui alConsiglio d'Egitto del grande Sciascia . Quell'ingegnoso falsario propina a Mons. Airoldi questa pagina su Racalmuto, che, a nostro avviso, non era a quel tempo neppure sorto:

«O mio Padrone Grande assai, il servo della sua grandezza con la faccia per terra le bacia le mani e le dice che l'Emir di Giurgenta mi ha ordinato che avessi a numerare la popolazione di Rahal-Almut e dopo dovessi scrivere alla sua Grandezza una lettera e mandarla a Palermo. Ho numerato tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole. Tutti questi fanciulli sia Musulmani che Cristiani sono sotto i 15 anni. Onde con la faccia per terra le bacio le mani e mi sottoscrivo così:

Il Governatore di Rahal-Almut: AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell'Emir

ELIHIR DI SICILIA.

24 del mese Regina (gennaio) 385 di Maometto (che corrisponde all'anno 998 dell'era cristiana)».



L'Abate Vella, evidentemente, era a conoscenza delle particolari attenzioni che mons. Airoldi dedicava in quel tempo alle rilevazioni statistiche della Sicilia Araba. Cercò, così, di assecondarlo. Resta, però, il fatto che il monsignore - fattosi avveduto dopo le note vicende giudiziarie del suo protetto - espurgò dai sui appunti di statistica demografica quell'accenno alla popolazione araba di Racalmuto. Di Rahal-Almut non troviamo infatti alcun cenno nelle serie demografiche dell'Airoldi pubblicate, nell'Ottocento, dal Ferrara, il noto economista siciliano.



Non così, invece, il nostro Tinebra Martorana che riporta integralmente la ghiotta pagina di pretesa storia locale. A dire il vero egli avverte, sia pure in nota [69] e con qualche astuzia linguistica, che trattasi di un falso. Ma forse ebbe a pensare che anche i falsi un qualche fondamento storico ce l'hanno pur sempre, e tanto valeva richiamarli. Si dava, purtroppo, il caso che nella circostanza il falso era totalmente falso ed anziché fornire un qualche lume, finiva con il far sviare del tutto dalla ricostruzione storica di un periodo racalmutese fra i più oscuri (e più chiacchierati, forse appunto perché oscuri).



Leonardo Sciascia sembra aver dato credito, in un primo momento, al falso dell'abate Vella e nelle Parrocchie di Regalpetra, Racalmuto  figura esistente sin dal 998 «.. anno .. dell'era cristiana [in cui] il governatore arabo di Regalpetra scriveva all'emiro di Palermo  "ho numerato tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole"» . Ma, già nella Morte dell'Inquisitore, l'abbaglio viene emendato ed il dato demografico scartato. Al tempo poi della elaborazione del magistrale "Il Consiglio d'Egitto" lo scrittore conosce intus et in cute il grande imbroglio dell'intraprendente abate maltese. Rimembra il lapsus delle "Parrocchie" ed in fondo in fondo gliene dispiace. Si spiega così l’acre rimbrotto[70] che rivolge al suo - tutto sommato - apprezzato Tinebra Martorana, che suona un po’ falso, visto che la ripubblicazione delle "Memorie" del Tinebra l'aveva voluta proprio Sciascia.



Chi scrive, dal canto suo, è propenso a ritenere che bisogna risalire al tardo 1271 per avere il primo documento certo dell'esistenza storica di Racalmuto. Tutto quello che precede è frutto o di fantasia o di imbroglio - letterario o storico, poco importa - o di campanilismo visionario. Tutta la faccenda dell'etimo arabo di Racalmuto si tinge di bizzarria intellettualistica. Iniziarono certi araldisti del Seicento e da ultimo ci si è messo pure uno specialista di assoluto valore, il Pellegrini[71], che propina un Racalmuto equivalente a "Paese del Moggio".



E nel primo documento disponibile - quello appunto del 1271, che si conservava negli archivi angioini di Napoli - Racalmuto viene trascritto, quanto correttamente non si sa , come RACHAL CHAMUT. A questa trascrizione qui ci si aggancia per affermare che se un senso ha il toponimo "Racalmuto" questo non può allontanarsi di molto dal significato di "Fortezza di Chamuth". Come voleva il padre Parisi, e come affermava lo storico Garufi.

Il più antico documento ove viene menzionata una località denominata Rahal-kamuth risale – come si disse – al 1178: stilato in greco, fu pubblicato nel 1868 dal grande paleologo siciliano Salvatore Cusa. [72]

Vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in  RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 ta¬rì. A venderlo, nel settembre di quell'anno, fu tale Pietro di Ni¬cola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola. Il toponimo Rachal Chammoùt  (rakal kammou/t) figura naturalmente scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi Generosa.



Il rimarchevole diploma  del 1178  ha suscitato un particolare interesse in Garufi, un grande storico cui fa ricorso Sciascia nella Morte dell’inquisitore, il quale sembra opinare che il toponimo sia da riferire a Racalmuto, e così argomenta: [73]«soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».   

L'autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare questo documento con una sua copia in latino riportata e studiata dal Di Giovanni[74], e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sulla fondatezza della tesi del Garufi.

Non si riferisca pure a Racalmuto, il documento, tuttavia, illumina sui processi di colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E tanto potrebbe giovare all'ipotesi di un insediamento benedettino a Racalmuto, come vorrebbe ad esempio il Pirri.[75] Sinora, La storia di Racalmuto resta purtroppo vincolata all'opera giovanile di Tinebra Martorana. I tanti tentativi posteriori non hanno per il momento, a dir poco, avuto presa sull'intellettuale collettivo del paese. Molto ha contribuito Sciascia nel rendere incorrodibile quel libretto di storia locale: il substrato che ne ha fatto per i lavori a dichiarato sfondo racalmutese (Le Parrocchie di Regapetra e Morte dell'Inquisitore) lega il nome del al dire del Tinebra, sublimato dal paradigma letterario sciasciano; la splendida prefazione scritta nel 1982 diffonde un'autorevolezza spropositata sulla fatica giovanile di quel medico racalmutese. Parole, come queste, risuoneranno magiche ed imperative in tempi futuri anche non prossimi: «Il libro [quello del Tinebra Martorana], per i racalmutesi, per me racalmutese, va bene così com'è: col gusto e col sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica ed un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l'acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»[76]










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[1] ) Fulco Pratesi e Franco Tassi, Guida alla natura della Sicilia,   pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) FERDINANDO MILONE: SICILIA, LA NATURA E L’UOMO - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. TREVISAN: LES MOUVEMENTS TECTIQUES RÉCENTS EN SICILE - HIPOTHÈSES ET PROBLÈMES.
[5]) LUIGI ROMANO: IDROGEOLOGIA DELLA PROPAGINI SUD-OVEST DELL’ALTIPIANO DI RACALMUTO -GEOLOGIA  - Università di Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L. Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S. Tine': L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] ) Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956-1971 –  pag. 384, Bompiani Milano,  1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] ) Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre – pp. 13-14 - Racalmuto 1994.
[11] ) Vincenzo Tusa e Ernesto de Miro – Sicilia Occidentale  - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem,  p. 111
[13]) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e direttore  dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) LUIGI MAUCERI: NOTIZIE SU ALCUNE TOMBE ... SCOPERTE FRA LICATA E RACALMUTO, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[15]) LUIGI MAUCERI: OP. CIT. pag. 18.
[16]) Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[17]) VINCENZO TUSA/ERNESTO DE MIRO: SICILIA OCCIDENTALE.  - ROMA 1983 - pag. 114.
[18] ) PIETRO GRIFFO, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure VINCENZO LA ROSA,L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[19] ) VINCENZO LA ROSA, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”,cit. p. 43
[20] ) ibidem, p. 52.
[21] ) CARLA GUZZONE, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena in età neolitica, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 55 e ss.
[22] ) LAURA MANISCALCO, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p. 63 e ss.
[23] ) ORAZIO PALIO, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 111 e ss.
[24] ) VINCENZO LA ROSA – ANNA LUCIA D’AGATA, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra del Palco di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”  … cit, p. 93 e ss.
[25] ) FABRIZIO NICOLETTI, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 117 e ss.
[26] ) Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche nel volume “Dalle capanne alle robbe ..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[27] ) FRANCESCO TOMASELLO, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl), in Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 165 e ss.
[28] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 241 nota a Tab. 1)
[29] )  v.d.s. ANDRÉ GUILLOU,  L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la datazione e PIETRO GRIFFO, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987,  p. 192 per la data del ritrovamento.
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[30]) VINCENZO TUSA/ERNESTO DE MIRO: SICILIA OCCIDENTALE.  - ROMA 1983 - pag. 14.
[31]) A.C.S. di Roma - Fondo:  ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[32]) C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[33]) NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[34] ) GIOVANNI SALMERI, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania 1992, pp. 29-43.
[35] ) M. COLONNA, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino. Catania 1971, pp. 14-15.
[36] ) Così giustamente R.J.A. WILSON, Sicily under the Roman Empire, Warminster 1990,  p. 238 e p. 395 n. 8.
[37] ) Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f., solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8, 10; F.G.B. MILLAR, Condemnation to Hard Labour in the Roman Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[38] ) LEOPOLDO FRANCHETTI E SIDNEY SONNINO, Inchiesta in Sicilia, edizione fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[39]) KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[40]) B. PACE, ARTE E CIVILTÀ, I pp. 393-4
[41]) L’accenno al MANCEPS  conduce a quella datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982, pag.  324.
[42]) Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al Castello.
[43]) Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[44]) ERNESTO DE MIRO: CITTÀ E CONTADO NELLA SICILIA CENTRO-MERIDIONALE, NEL III E IV SEC. D.C.  - in Kokalos pag.  320. In quella relazione, spunti riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST, se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[45]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[46]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
 [46]) B. PACE, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[47]) E. De Miro, op. cit. passim.
[48]) M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica, VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[49]) Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,   
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[50]) Il Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali (ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere  sarebbe stato oggetto di «un accurato inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem, pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento,  ma del tutto invano.
[51] ) Bisogna innanzitutto invertire l’ordine: Eracleona (Eraclio II) viene ben prima di Tiberio II. Eraclio è dei primi decenni del secolo VII, mentre il Tiberio delle monete cui si riferisce il Guillou chiude nel 711 la sua dinastia. Per il primo vds. GEORG OSTROGORSKI, Storia dell’impero bizantino, Einaudi Torino 1968, pp. 95,99,100; per il secondo, ibidem, pp. 120-122, 157.
[52]) B. PACE, Arte e Civiltà della Sicilia Antica IV,  p.174.
[53]) V. D'ALESSANDRO, Per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[54]) ANDRÉ GUILLOU,  L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316.
[55]) Cfr. ARCH. STOR. SIRAC., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149
[56]) P. GRIFFO, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987,  pag.192.
[57]) UMBERTO RIZZITANO,  Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[58]) «Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita. Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni militari. Cfr. IBN AL-ATHÌR, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I, 482.
[59]) Su tale toponimo RAHL abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATER¬RAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI adottò la lezione RASELBIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nel integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA di M. AMARI contro¬batteva al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p. 144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e rahl (racel, racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.]  Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigen¬tini presi all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico proba¬bile appiglio ad una fonte storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia della nostra terra. 
[60]) A completamento del discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicu¬ramente in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione generi¬ca, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La conquista di Sicilia' recente¬mente uscito alla luce (Collezione d'opere inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catala¬nixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo 'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.). Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[61]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lette¬ra dell'alfabeto arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammira fra i Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio continuano a chia-marsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda, un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova.
[62])  Trascriviamo qui per eventuali cultori delle fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius, omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO, seper¬stite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo debellato, omnem sibi de caetero Sici¬liam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agri¬gentinam urbem obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto [l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans, diutina oppressione lacessivit; studioque machina¬mentis ad urbem capiendam apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hosti¬bus, patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque, pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit. Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne completa conoscenza, deve  consultare l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss.  A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa.
[63] ) Ci appare cerebrale questo passo: «la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi» LEONARDO SCIASCIA, Occhio di Capra, Adelphi Milano 1990, p. 13.
[64]) Ibn Hamdis: poeta arabo,  nato a Siracusa verso il 1053 e morto in Africa nel 1133. Vedi MICHELE AMARI,  Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 - pagg. 312 e ss.
[65] ) LEONARDO SCIASCIA, introduzione a Peitro d’Asaro «il monocolo di Racalmuto», Racalmuto 1985, p. 20.
[66] ) LEONARDO SCIASCIA, Occhio di capra, cit. p. 12.
[67]) Nicolò Tinebra Martorana: Racalmuto - memorie e tradizioni - Palermo 1982, pp.  35 e ss.
[68] ) Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S. Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[69]) NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982. A pag. 36 si può leggere questa rivelatrice nota: «Codice diplomatico arabo - Torino  3°, p. 1, f - Si dubita però della autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per falsità».
[70]) Nel licenziare l'opera del Tinebra, Sciascia sembra più interessato ai valori letterari del libro di quel ventenne studente in medicina che alle risultanze della ricerca storica. Il Tinebra Martorana avrebbe, secondo Leonardo Sciascia (cfr. pag. 8), cercato  «.. di non ignorare tutto quello che, in opere di storia generale e locale, riguardasse Racalmuto: ma sentiva fortemente la tentazione dell'accensione visionaria, fantastica. Ne è spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia, il suo non resistere  al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso: ed è la letteradel governatore arabo di Racalmuto (Rahal-Almut) all'Emiro di Palermo, fabbricata, come tutto il codice che la contiene, dal famoso Giuseppe Vella: un personaggio di cui ho raccontato ascesa e caduta nel Consiglio d'Egitto. E voglio confessare che anch'io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocche di Regalpetra. Solo che Tinebra Martorana, facendo storia, aveva minore libertà di quanto io ne avessi, e perciò quella sua strana, per un libro di stora, nota : "Si dubita però dell'autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per falsità". Altro che dubitare: se ne era , nel 1897, certissimi.»
[71]) Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990. Racalmuto - vi si legge - "deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suonasse simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
[72] ) SALVATORE CUSA,  I di¬plomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729.
[73]) Cfr.  CARLO ALBERTO GARUFI, 'PATTI AGRARI E COMUNI FEU¬DALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA' in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno 1947, parte II dell'articolo,  pag. 34.
[74]) ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.
[75]) Il compianto padre Calogero Salvo ha invero demolito da ultimo una siffatta ipotesi.
[76]) Cfr. Prefazione in NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982,  pag. 9.


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[i] Le ricchezze archeologiche di Milocca ed il ritardo racalmutese

Vincenzo La Rosa dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4 dicembre 1977 il territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi succedutesi. Il volume Dalle capanne alle “Robbe” ne attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti (specie agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella contermine area racalmutese, tutto l’opposto. L’attenzione agrigentina è tutta protesa alla Valle dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto solo se ha attinenza al mito minoico del re Cocalo.  Al momento, Racalmuto può solo usufruire del riverbero delle risultanze pre e proto storiche che gli scavi e gli studi della contermine Milena sfornano a ritmo davvero sostenuto.
E se lì sono ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale, .. le culture sicane della media e tarda età del Bronzo» [i] restiamo autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio di Fra Diego.

a) Le affinità geomorfologiche.

Gli studi sul sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [i] si attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo non in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce dalle falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Villanuova s’immette in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di “modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.
In pieno invece attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del Saia: «I termini stratigrafici risultanti  dall’esame superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono descritti come appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una “successione di sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille del Tortoniano superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale, depositatisi in corrispondenza ad una crisi di salinità interessante l’area mediterranea” (DECIMA & WERZEL, 1971» [i]
 Aggirate le difficoltà della terminologia scientifica, il succo del discorso conferma, specie per i riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di rappresentare sopra sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci troviamo quindi di fronte «ad una successione continua costituita schematicamente dalle seguenti unità dal basso verso l’alto, in successione più o meno continua sulle argille basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e gessareniti con lenti di sale; 4 – Trubi con l’elemento basale dell’Arenazzolo.» In definitiva – esulando da questo lavoro approfondimenti scientifici dell’assetto geomorfologico racalmutese – possiamo agganciarci alle recentissime conclusioni di quanti ritengono «il territorio [che ci occupa] tipico della zona centrale della Sicilia [con] elementi di uniformità geologica a quella fascia centro meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un territorio che ha avuto una “storia” geologica relativamente recente se raffrontata al susseguirsi delle ere geologiche, ma la caratterizzazione in termini litologici plastici o comunque riconducibili a forme non proprio consistenti o resistenti all’erosione ne ha determinato un paesaggio geomorfologico piuttosto “appiattito” che ha consentito facili ed agevoli insediamenti umani.»

b) Lo zolfo

Dalle ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia, sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..» «Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaSO4), con formazione intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi  da parte di acque ricche di CO2, che depositano contemporaneamente CaCO4secondario. L’azione riducente dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo anaerobico. D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono precipitare direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a sua volta derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di  sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [i] La riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [i], considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine vulcanica.»
Qui, si esplica, in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto fantasiosamente abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione “desulfuricante”, reo di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di obbrobri sociali avverso gli imberbi “carusi”.

c) Il salgemma.

Ma passiamo al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove, sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano anche potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo Don Filippo]e magnesiaci.»
d) Il gesso.
Ed ora prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio quello dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»
Racalmuto conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che contrassegnano l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a scavarvi i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della loro irriducibile fede nell’oltretomba.
A Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»

e) Le grotte ed il fenomeno carsico.

Il fenomeno carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena. Marcello Panzica La Manna [i] ci fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto, almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli affioramenti di rocce evaporitiche di età messiniana (Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna, 1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque meteoriche, si sviluppa con forme estremamente più marcate e ad evoluzione più rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op. cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche sono quel tipo di grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità meccaniche delle masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi di tali grotte è da imputare in parte alla fratturazione della roccia, prodottasi a causa dei movimenti tettonici che hanno interessato l’area, in parte a fenomeni di tipo gravitativo che hanno disarticolato gli affioramenti gessosi in blocchi di varia dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono quelle che si originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera delle acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in acqua molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti atmosferici, giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e gallerie presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie; esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o “inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano completamente invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a decrescere, abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime. Quasi sempre agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che costituiscono il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit. p. 28)

E qui abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [i], che non sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare l’assoluta indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio ipogeo, di cui manca persino uno straccio di inventario.  Grotte pseudocarsiche abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine,  sotto via Roma, nei pressi della Madonna della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora, se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel 1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo Bonincontro [i]:
Et parimente la Parocchia della Nunciata incomincia del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta di Pannella [sottolineatura ns.] restando d.a grutta nella d.a parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa Maria di Gesù conservato in Matrice[i], abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno centro, cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item in et super sex corporibus domorum sursum et deorsum cum eius antro [corsivo, ns,] simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della Santicella  …..



Le campagne erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti.  I vari Rolli della Matrice ne riportano diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un esempio [i]:

Die nono mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius nepotibus terrae Racalmuti absentibus  .. pro eis et eorum heredibus  et successoribus in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro  [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas itur versus civitatem Agrigenti  ……

Quanto alle grotte paracarsiche, il fenomeno più appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.

f) la flora e la fauna
Racalmuto ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico – indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie, sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.
Il nostro territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto di culture.» [i] Si può affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi (camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella lyrata (Cruciferae), il lathyrus odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; laCrepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek (Cruciferae), l’Astragalus huetii Bunge (Leguminosae), la Lavatera agrigentina Tineo (Malvacee).
Gli studi sulla confinante Milena hanno portato al seguente censimento della vegetazione (estensibile ovviamente anche a Racalmuto):
1)     Vegetazione degli ambienti rupestri con queste presenze: Diplotaxis crassifolia (Rafin.) DC., Erysimum metlesicsii Po.,Silene fruticosa L., Athamanta sicula L., Sedum dasyphyllum L. Cheilanthes fragrans (L.) Swartz;
2)     Garipa a Thymus capitatus (L.) Hoffm. et Link con queste presenze: Thymus capitatus, Cistus Creticus L., Teucrium flavumL., Teucrium fruticans;
3)     Prateria steppica ad Ampelodesmus mauratinicus (Poiret) Dur. et Sch.., con queste presenze: Ampelodesmos mauritanicus, Anthyllis maura  G. Beck, Psoralea bituminosa L., Kundumannia sicula (L.) DC, Festuca coerulescens Desf.,Hyoseris radiata L., Dactylis hispanica Roth, Brachypodium distachyum (L.) Beauv., Hypochoeris achyrophorus L.,Reichardia picroides (L.) Roth, Coronilla  scorpioides Koch, Scorpiurus muricatus L., Asperula scabra Presl., Hedysarum spinosissimum L., Urginea maritima (L.) Baker, Convolvulus atltheoides L., Anemone hortensis L., Asparagus acutifoliusL., Rubia peregrina L., Dafne gnidium L., Cistus creticus L.;
4)     Prateria steppica a Lygeum spartum L., con queste presenze: Lygeum spartum L., Catananche lutea L., Scabiosa dichotoma Ucria, Daucus aureus Desf., Eringyum dichotomum Desf., Lavatera agrigentina Tin., Ononis oligophylla Te.,Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.;
5)     Vegetazione ad Arundo pliniana Turra, con queste presenze: Arundo pliniana, Cirsium scabrum (Poiret) Dur. et Barr;
6)     Vegetazione nitrofila e subnitrofila, con queste presenze: . (durante il periodo estivo-autunnale) Kickxia spuria (L.) Dum. Ssp. Intergrifolia (Brot.) Fern., Chrozophora tinctoria (L.) A. Juss., Euphorbia chamaesyce L., Picris echioides L., Diplotaxis erucoides (L.) DC., Heliotropium europaeum L.,  Sonchus oleraceus L., Chenopodium opulifolium Schrader,Chenopodium vulvaria L., Ecballium elaterium (L.) A. Richard, Solanum nigrum L., Aster squanatus Hieron, Cynodon dactylon (L.) Pers., Polygonum aviculare L., Colvolvulus arvenis L., Delphinium alteratum Sibch. Et Sm., Conyza bonariensis (L.) Con., Ammi visnaga (L.) Lam; (durante quello invernale primaverile) Calendula arvenis L. Galactites tomentosa Moene, Centaurea Schouwii, Carlina lanata L., Reichardia picroides (L.) Roth, Hypochoeris achryrophorus,Fedia cornucopiae (L.) Gaerner, Linaria reflexa (L.) Desf., Echium plantaginum L., Borago officinalis L., Cerinthe major L.,Lavatera trimestris L., Euphorbia helioscopia L., Geranium dissectum L., Hedysarum coronarium L., Hippocrepis unisiliquosa L., Scorpiurus subvillosus L., Lotus ornithopodioides L., Trifolium nigriscens Viv., Trifolium resupinatum L.,Trifolium lappaceum, Trifolium squarrosum L., Melilotus infesta Guss., Lathyrus odoratus L. Lathyrus ochrus (L.) DC; (vegetazione infestante il grano) Neslia paniculata (L.) Desv., Torilis nodosa (L.) Gaertner, Carduus pycnocephalus L.,Bupleorum lancifolium Hornem, Papaver hybridum L., Ranunculus arvenis L. Bromus rubens; (terofite a ciclo invernale-primaverile) Legousia falcata (Ten.) Fritsch, Anacyclus tomentosum (All.) DC, Rhagadiolus stellatus (L.) Gaertner, Galium tricornutum Dandy, Ridolfia segetum Moris, Allium nigrum L., Gladiolus italicus Miller, Phalaris brachystachys Link,Phalaris paradoxa L., Ornithogalum pyramidale L., Asperula arvenis L., Filago pyramidata L., Euphorbia exigua L.,Rapistrum rugosum (L.) ALL., Sinapis arvensis L., Brassica nigra (L.) Koch, Leopoldia comosa  (L.) Parl, Scandix pecten.veneris L., Medicago polymorpha L.,  Sherardia arvenis L., Lolium rigidum Gaudin, Sonchus asper (L.) Hill,Cichorium intibus; (vegetazione antropogena ai margine delle strade) Chrysanthemum coronarium L. (Crisantemo giallo), Malva nicaeensis All., Anacyclus tomentosum (All.) DC., Hordeum leporinum Link, Notobasis syriaca (L.) Cass.,Bromus madritensisi L., Echium plantagineum L., Galactites tomentosa Moench, Erodium malacoides (L.) L’Her.,Convolvulus althaeoides L., Beta vulgaris L., Foeniculum vulgare Miller;
7)     Praticelli effimeri a sedum caeruleum L. su gessi, con queste presenze: sedum caeruleum L. (Borracina azzurra), Sedum micranthum Bast., Hypocoeris achyrophorus  L., Campanula erinus L., Poa bullosa L., Valantia muralis L., Trifolium scabrum L., Medicago minima (L.) Bartal., Linum strictum L., Bromus fasciculatus Presl., Trifolium stellatum L., Stipa capensis Thunb., Crupina crupinastrum (Moris) Vis., Vulpia ciliata Dumort, Scilla autumnalis L., Ononis reclinata L.,Ononis sieberi Beser? Rumex bucephalophorus L., Arenaria leptoclados Guss., Polygala monspeliaca L. Sideritis romanaL.;
8)      Vegetazione degli ambienti acquatici, con queste presenze: Populus nigra (pioppo nero, ma molto raro), Tamarix africana Poiret, Phragmites communis Trin. (Cannuccia di palude), Equisetum telmateja Ehrh., Nasturtium officinale R. Br., Apium nodiflorum (L.) Lag., Juncus bofonius.



Va qui annotato che: «purtroppo questa successione di ambienti è ormai in gran parte alterata e ridotta. Solo qua e là ne rimangono frammenti importanti e significativi, come avviene per le quattro specie di pini presenti in Sicilia allo stato spontaneo, di cui non sussistono ormai che esigue colonie: dal pino laricio (Plinus laricio) sul massiccio etneo, al pino domestico (Pinus pinea) sui Monti Peloritani; dal pino marittimo (Pinus noster) di Pantelleria, al pino di Aleppo (Pinus halepensis) delle pendici dell’altipiano meridionale e di varie isolette circumsiciliane.»
Il pino siciliano è ormai entrato nella più pretenziosa letteratura. Artefice principale: il pino di Pirandello. E si sa che anche il nostro Sciascia ebbe a dire la sua; a dire il vero riportando le apprensioni di un grande entemologo agrario racalmutese Giovanni Liotta, titolare di cattedra all’Università di Palermo. Sciascia lo ebbe presente nelle sue conversazioni – in articulo mortis – con il defunto giornalista Domenico Porzio e l’apprezzamento elagiativo, cui certo Sciascia non indugiava –nel bellissimo libro “Fuoco all’Anima”, purtroppo oggi censurato dalla famiglia. Lo Scrittore si era rammentato di una notizia sul pino di Pirandello che stava per morire che gli era stata fornitagli nell’autunno del 1988, quando già il Liotta era dal febbraio “professore di Ia” dell’ Istituto di Entomologia Agraria di Palermo. Il Liotta ci fornisce ora la versione autentica di quell’episodio [i] commentando: «Quando riferivo di questa notizia Leonardo Sciascia non annuiva, non dissentiva, non faceva alcun cenno palese che desse la certezza di un suo interesse. […] La notizia di mummificare il pino in realtà l’aveva fatto inorridire. […] Leonardo era fatto così: era un grande, paziente e infaticabile ascoltatore e quello che ascoltava, lo scremava, lo elaborava e, se necessario, lo riproponeva sotto una prospettiva di grande interesse.»
Anche Racalmuto ha il suo pino “letterario”: quello della casina di campagna dei matrona alla Noce. Lo rievoca Sciascia, lo celebra Bufalino ( … mantello verdissimo, sormontato all’orizzonte da un antico albero solitario …. [i]), ne coglie l’ineffabile incanto, in un momento di corrusca tempesta, il fotografo Pietro Tulumello (e qui davvero Sciascia ha malie evocative: un paesaggio del tutto simile all’Amor sacro e all’Amor profano del Tiziano: e la sera trascorre in esso come una delle tizianesche donne serene ed opulente … [i]). Noi continuiamo a mirare le chiomate piante che ancora avvolgono la casina di campagna del Barone Tulumello, al Cozzo della Loggia, sotto il Serrone. Ma quanto resisteranno?

g) un micro orto botanico per Racalmuto

Auspichiamo che i denudati cozzi attorno alla Fondazione Sciascia ospitino un micro-orto botanico ove si rinserrino le piante ed i fiori cari a Sciascia. Come, ad esempio, le magnolie e non tanto per il loro profumo o perché queste «splendevano  … [come] luminose e profumate donne, di mai più vista bellezza» [i] E si ricostituiscano le sciasciane “siepi di fichidindia” [i] e non manchi un tocco rievocativo «dell’intensa coltivazione di alberi di noce» con «quei grandi alberi che i contadini chiamano di bellu vidiri, con disprezzo: cioè belli a vedersi ma inutili: il corbezzolo, il caccamo, qualche varietà di ficus. E ci sono gli orti. E queste sono le oasi, nella gran calura del giorno; né manca, a darne l’illusione, la palma. La palma de oro y el azul sereno:  e questo verso di Machado, palma d’oro in campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo.» [i] E noi auspichiamo anche che nell’«orto» sciasciano abbiano rimembrante dimora le piante, i fiori, le erbe e pure le gramigne di autoctona progenie racalmutese. Vorrà il chiarissimo prof. Liotta collaborare ad un siffatto progetto? Vi è contrario il competentissimo dott. Salvo?

Confessiamo di avere avuto un moto di stizza nel leggere alcune notazioni botaniche del Renda: [i] alcune caratteristiche piante arboree racalmutesi sono tutt’altro che indigene. «Il limone [già, le Lumie di Sicilia, n.d.r.] – discetta lo storico – raggiunse la Sicilia e la Spagna nell’alto medioevo, durante il dominio arabo. L’arancio arrivò più tardi e, a quanto sembra, non ebbe importanza apprezzabile fino al XV secolo. Gli arabi portarono on Sicilia e in Spagna anche il mandorlo, la canna da zucchero, la palma e altre specie esotiche, come il melograno, il melocotogno, il nespolo invernale ecc. Il processo di riutilizzazione agronomica di queste numerose specie non fu univoco. Alcune, come l’ulivo e il mandorlo, ebbero incremento notevole. Altre decaddero e furono abbandonate. Fra queste, sono da ricordare la canna da zucchero, il riso, il gelso per l’alimentazione del baco da seta, il legno da bosco, l’allevamento, e poi il lino, la canapa, il cotone, la soda vegetale ecc. »
Un tempo a Racalmuto si coltivavano cotone, lino, canapa ed altre piante da vestiario: oggi, culture del genere, sono del tutto ignote. La coltivazione più estesa è stata sempre quella del grano, di varie specie ivi compresa quella c.d. tumminìa, alternata alla semina di avena, orzo e fave nelle annate di riposo. Se già nel XIV secolo Federico del Carretto operava una sorta di outright sui futuri raccolti di grano racalmutesi con Mariano Agliata, [i] al tempo di Filippo II l’approvvigionamento di grano al caricatoio di Girgenti consentì un proficuo commercio dei baroni del Carretto, che così assurgono al rango di conti,  in quei calamitosi tempi di guerra mediterranea contro il Turco. E così nel Seicento, quando anche le Clarisse racalmutesi, amministrate da un prete Traina, possono conferire, a pagamento, il loro frumento in esubero presso il caricatoioracalmutese.

Oltre alla composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)     panizzo del popolo;
2)     frumento per simenze in forte e timilia [o tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
3)     paraspolari e tenetieri; gabbelloti e societarij;[i]
4)     simenza per soccorso e per governare le vigne e per mangia di propria famiglia;
5)     Grillo don Gaetano, come procuratore del fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli magasini di quel fego s. [salme] 306 ffr. [frumento] raccolto nella  XIa In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto fego;
6)     per simenze di forte e timilia s. [salme] 40 per soccorso di detto seminerio e sem.  [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)     simenza fumento forte s. 10, salme 5 per soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina] d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa;
8)     s. [salme] 55  [di frumento]vendute a questa un. [università]  di Racalmuto per il pubblico panizzo;
9)     Grillo don Antonio come Governadore della Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto;
10)  Di Salvo Filippa vid.a  [vedova] del quondam Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] .. quali li bisognano: s.6 per mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11)  Saldì m.°  [mastro] Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem., sem.d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa;
12)  Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra  [Traina, vocabolario: mandra: luogo ov’è rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumie colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
13)  Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni;
14)  Picone Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte] quali li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15)  Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per simenza,  per soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa;
16)  Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a questa Un.tà  [università] per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria casa;
17)  Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la  festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di detta Chiesa;
18)  Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento;
19)  Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto convento;
20)  Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento;
21)  Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia.

h) i preti, il grano, il pane

Ed ecco i dati del folto clero:


a)      Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24, simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia per mangia s. 16, per due famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere;
b)      Grillo sac. d. Giuseppe,  rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)       Campanella sac. d. Stefano arciprete,  rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano di Salvo;
d)      Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone;
e)      Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)      Borzellino sac. d. Mario,  rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano per mangia di casa;
g)       Conti sac. d. Gerolamo,  rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,  s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)     Crinò diacono d. Filippo,  rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li servino per mangia di casa;
i)        La Matina sac. d. Gaspare,  rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4  per mangia di casa;
j)       Farrauto sac. d. Santo,  rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80 obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia  e simenze di proprie chiuse;
k)     D'Amico sac. d. Antonino,  rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8 per mangia;
l)       Savatteri sac. d. Michel'Angelo,  rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4  dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa;
m)    Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo soccors  o di un predio di vigne e s. 14 p. mangia e commodo;
n)     Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per soccorso  e s. 2, comp. di d. s. 4 per mangia  di casa;
o)      Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8 per soccorso  e s. 1.8 per mangia  propria;
p)     Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia  di casa;
q)     Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso  di detto seminerio e socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per mangia  di casa;
r)      Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s. 10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s. 4 per coltura di detto seminerio;
s)      Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s. 1.8 per soccorso  e s. 1.9. per mangia  di casa;
t)       Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano . per mangia  di casa;
u)     Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia;
v)     Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa università] per pubblico panizzo e s.78  commodate;
w)    Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia;
x)     Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi bisognano  per mangia;
y)     La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso  e s. 6 per mangia;
z)      Avarello sac. d.  Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per mangia ed impiego di mia casa;
aa)   Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso sem.°  di legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia;
bb)  Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p. migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna;
cc)   Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi servono  per mangia;
dd)  Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li servono per mangia;
ee)   Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna.

Nel mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346 salme di frumento per la “mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la numerazione delle anime” del quale si custodisce in quel mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle locali autorità) che è l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime sotto n. 1537 capi-famiglia. [i] Il panizzo pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che significa che oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per sostentare il proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico “panizzo”. Solo 126 possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi compresi i quattro conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e diaconi) che costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non disponiamo, purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi, emigrava per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano foraggiato il “biscotto” degli eserciti spagnoli.

i) i vigneti.


Ma non tutte le terre erano destinate al frumento. da un rollo della Confraternita di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che il culto dei trapassati è stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli Taibi vantavano in località Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire che fra vite e vite si poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o altro); “vinea cum suis arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto, almeno fino a quando non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente coperta con teli di plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius clausura” (una bella vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane);  “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo” (una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il vigneto di Antonino Gugliata).
I vigniti, sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini, Gazzelle,  Granci, Malvagia, Manchi, Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.
Integrando i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in Matrice – abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade quali: Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro, dei Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto, Muccio, Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della Pergola, Santa Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo, Arena, Muccio (feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello, Castilluzzo (feudo di Gibillini), Carmelo.
 l) il sommacco.

Una piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi, allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685 questo documento che attiene ad una ipoteca :
Item in et super salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et torculare sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam Francisci de Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.

Apparteneva ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del 1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a suo volta associato con mastro Pietro Picone.
l) gli alberi da frutta

Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [i] Il convento – ove da giovane divenne diacono fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è davvero prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di alberi da frutta:
«Beni stabili rusticani

Possiede questo venerabile convento salma 1 e tumoli 8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato, contrata S. Giuliano, confinante con il detto venerabile convento e via pubblica di tutti i lati, che secondo l'estimo dell'esperto di questa terra ragionati ad onze 120 per salma, sono di valore cento ottanta onze, o. 180;

Item in dette terre vi esisteno alberi di diverse sorti, cioè mandorle n.° 70 a tt. 6 per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o, fanno o. 12
Alberi di olive n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo l'estimo dell' esperto ;
Alberi di pruni   [albero che fa le susine = Prunus domestica culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8 per ogn'uno secondo l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri  n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche  [ pistacchio = Pistacium L.)  n. 8 che secondo l'estimo dell'esperto a tt. 15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze due;
Alberi di pomi [pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di “cutugna”, cotogno, Pyrus cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo dell'esperto a tt. tre per uno sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati [melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città spagnola, a memoria dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo dell'esperto a tt. 3 per uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di valore onze due.»

Mancano aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli, ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto. Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni (tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che dovevano pur esserci.

m) le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.


Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri rilievi agrari:

«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque onze ...... -/ 135.

Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via publica, che secondo l'estimo

Possiede pure detto venerabile convento in detto stato mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso di seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque onze ...... -/ 135

Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12 per migliaro sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/ 125.10.

In dette vigne esiste il Palmento per commodo della vendemmia e con altre due case di abitazione terrane e cioè una entrata, e l'altra paglialora, e due camere di sopra, che secondo l'estimo dell'esperto di questa sono di valore onze trenta ................................................................... -/ 30

In dette vigne vi sono n.° trenta quattro alberi di mandorle, peri, fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di questa ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro ......................................................................................................................... -/ 6.24.

Possiede di più detto venerabile convento tumoli 8 di terre atte a seminerio confinanti coll'istesse vigne di sopra ad onze 64. salma secondo l'estimo dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32

In dette terre vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana uno, sono di valore onze quattordici e tarì 20 ..-/14.20»

Lo spaccato contadino del mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto non proprio edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla questua lungo le campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che trascurabili “introiti spirituali”:

«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti provenuti per questua ragionati a tt. 40 salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti per questua importa  ............................................. -/ 4
E più salmi 4 fave provenute per questua ragionati a tt. 24 salma importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie] provenuti per questua a tt. 42 salma importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per questua ragionati ad -/1.26 salma importa  .................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a onze 1.7 botte .................................................................-/ 6»

I frati questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il  «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la “fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di pioppi, né di acque fluenti.  Il pioppo, come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica” sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento.  Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia  - era morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof. Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li vuole della famiglia populus alba? Si potrebbe pensare ad una colonia di pioppi  neri (p. nigra)? O ad altre  specie di alberi ad alto fusto? Perché sono spariti?

E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente – il grande entomologo mi precisava:


Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che debbano essere attribuite alla specie Populus alba, (il pioppo più comune della zona).

Ma noi continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati di appositi studi: Racalmuto li merita.

n) La fauna


Così come a Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul 46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [i] Anche a Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la lepre ed il cinghiale.
Ci pare pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens: «Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi marini (Murex trunculus, Glycymeris sp., Glycymeris violacescens), marini fossili (Dentaliumsp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania vermiculata, Leucochroa candidissima). Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»
Nell’Eneolitico, in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo e la volpe. […]Tra gli ovicaprini  prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un frontale femminile con cavicchie.»
Risale al Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5 mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli altri frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie selvatiche sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la tartaruga.»
Verso la fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens: «Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […] Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si tratta quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece da attribuire ad animali di piccola taglia.»
In definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il gatto.
In millenni di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata. Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione della locale vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo di fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..
Resiste, comunque, nella zona la Volpe (Vulpes vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone).  Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto selvatico (Felis silvestris Schreb.). Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento, purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.)  sono per ora preda - al Castelluccio, al Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.
Sembrano tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui ora là nella notturna pastura.
Corvi, cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi, merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora, la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili, di solito innocui (i familiari scursuna) continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi, sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire delle lumache: a Racarmutu aviemmu li babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a tutti i racalmutesi. Proverbi:
-        Sparaci, babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-        Quannu la sorti nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-        Cu va a sparaci mangia ligna,/ cu va a babbaluci  mangia corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E la zoologia sciasciana di Occhio di capra, oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-        a cuda di surci, per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);
-        a li piedi di lu cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato: più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-        a piedi d’agnieddru, «si dice del naso alla francese» (p.29);
-        culuri di cani ca curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-        e iddu pirchì sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-        e lu cuccu ci dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru .. pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu, impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. … Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-        lu cani di don Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari – lu puorcu all’organu – lu sceccu di  Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la Vicaria (pp. 83-88);
-        ‘mmucca a un cani, modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno ( 94).

L’animale domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, diginizze e buoi, di asine e pecore e capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori  estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio, cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13 giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima entravano in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella devota tradizione.
Una terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un mulu di pilu baiu”; una jnizza; in primis, due muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo bajo;  dui muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla destr; un cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia sinistra con la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in fronte bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra; cavallo stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo argentino mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo,  rotato, facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi darreri malato.

Certo, nella gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608: erano tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti, la scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:
Item uno scavo masculo chiamato Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto, mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18, sbarbato, pocho mustazzi;  un altro scavo nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune statura, olivastro, barba castagna con alcuni  pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli; uno scavo d’età d’anni  .   .  . in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con alcuni signi al barbarozzo;  un’altra scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro; item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e barbarozzo con alcuni stizzi azoli.

Presso la Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di  colonne per l’edificanda Matrice nel 1655:

A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì undici, quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata con Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…

Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi fiscali:
•        il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
•        in paese vi erano 52 cavalli;
•        le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
•        i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori agricoli;
•        le “vacche di aratro”, n.° 191.

Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di 3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria. Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando  i dissestati Moss degli americani, la meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone; l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale  - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in  missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [i]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso:  ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:
 «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. CosìAlfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»

L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.



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