RACALMUTO NEI MILLENNI
Un antro esposto a
mezzogiorno, orrido sul ciglio di un costone, prospiciente lo sprofondo di uno
zubbio, l’ormai celeberrima grotta di fra Diego, ebbe ad ospitare l’antenato
degli antenati racalmutesi, trentamila anni fa, come le vaghe vestigia e gli
incerti residui archeologici paiono dimostrare. Il Calderone, onesto e
meritevole ricercatore del ventesimo secolo, raccolse quei segni antichi, li
consegnò alle competenti autorità agrigentine, e naturalmente ogni cosa
sprofondò nei meandri sotterranei dei musei agrigentini. Irrecuperabilmente, in
un oblio senza scampo.
Ai lati di quella grotta, si
notano ancora – ma per quanto tempo residuo? – i loculi vetusti dei nostri
progenitori sicani. Sono testimonianze di una civiltà cospicua, autoctona,
ammirevole. All’infuori di un balzano vincolo archeologico, nulla sinora si è
fatto per una riesumazione, una ricerca, uno sforzo di conoscenza.
Se l’età della terra vanta
cinque miliardi di anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in
piena epoca miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un
fenomeno rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e
nembi di moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e
quando vi morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale,
gesso, trubi e quindi di humus. Aggrappiamoci ad una ipotesi scientifica per
spiegarci le origini del nostro paese: [1]«la
terra delle miniere di zolfo, le celebri solfare inscindibili dalla storia
della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste fenomeno della
schiavitù dei carusi … riveste ancora un notevole interesse
naturalistico, per chi voglia comprendere la storia della formazione di queste
singolari montagne erose, incise, deforestate, che hanno l’aspetto
caratteristico di certe regioni interne mediterranee, dalla Castiglia
all’Anatolia. La cosiddetta serie gessoso-solfifera, intercalata da depositi di
salgemma che sono tra i rarissimi d’Italia, non è che una formazione miocenica
comprendente antichissimi tripoli in basso e poi calcari di base e calcari
solfiferi, per giungere infine ai gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi
si è inclini a ritenere che questa formazione abbia avuto origine dalle grandi
lagune terziarie progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione
che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principii della fisica e della
chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio,
il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio e
di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che,
attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»
E se abbiamo analoghe
curiosità sui nostri giacimenti di salgemma, diamo credito a chi pensa
che: [2] «le
rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose
e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e
là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie.
L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenetici del
Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un
sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune
salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale,
gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico, in
effetti, si evolve con la formazione di strati silicei. I citati studiosi
ritengono che: «tra i due strati di rocce (sopra quelle gessoso-solfifere,
sotto le argille gessose e sabbiose) sta un sottile strato di materia silicea
nota con il nome di tripoli o farina fossile, composta specialmente da
scheletri di microrganismi acquatici quali radiolari e diatomee.»
L’altipiano di Racalmuto ha
avuto uno specifico sviluppo geologico nella formazione del gesso in quanto:
«la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da depositi marini
più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di
rocce calcaree, in genere tufi composti da un impasto di gusci e di conchiglie
che proteggono i più molli terreni sottostanti. Si formano così come
delle zattere di roccia calcarea galleggianti sulle formazioni
gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa
tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la
formazione di cavità carsiche dette zubbi o addirittura grandi
avvallamenti …»
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, invero, il
territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali
dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso
relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque
milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]). Ed anche qui trattasi di
risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di
datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un
primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa.
In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il
progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in
epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e
quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan [4] Racalmuto si modella
con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e
cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi
locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro
apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali
desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro
strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci
ragguaglia l’A [5] - i terreni che
compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie,
conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari
elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore,
costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri
abbiamo dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle
varie ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.
Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi
vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella
preistoria sembra che siano presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si
espandono verso Milena, Bompensiere, Montedoro.
L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al
XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel
1879. [6] I pochi reperti
fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano ed
attualmente risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite, smantellate dalle
successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline
illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra
Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti autorità
continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche
lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana lo strambo
passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei (C.I.
Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava
alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione
tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con
lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde'
di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque, ereditati
dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che le ricchezze
della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico
vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di zolfo dal
singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu e
cioè il grisouil venefico idrocarburo che incendiandosi produce
morte per incenerimento dei polmoni dei malcapitati minatori che avessero a
respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile racconto: L’Antomonio,
appunto. Così lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou.
Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco:
ché anticamente lo lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne
morivano. Si aggiunga che l'antimonio entra nella composizione della polvere da
sparo e dei caratteri tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me
suggestive ragioni, queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou si espandesse da
una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti investiti nelle
viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così, a salvaguardare
gli altri cunicoli solfiferi. Apparentemente ancora integri, quei
minatori scapparono dal profondo della miniera, ma giunti all’uscita la
trovarono murata. Ira, terrore, sgomento, disperazione, preghiere
supplichevoli, bestemmie imprecazioni .. furono scene davvero apocalittiche che
si possono soltanto sospettare, intuire, immaginare. Poi, la morte inesorabile,
senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza
gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì santo dentro la
bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto
“povertà vile” [9] per tanti zolfatai e
flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Sull’altipiano
di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da
oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche
volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto
sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a
partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una
popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe
avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del
tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di
lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a
che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali
conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana
nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea
ad ospitare il primitivohomo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a
forno, è, a mio avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe
testimoniare uno di quei fenomeni detti zubbi che abbiamo
sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo
con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo
ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle
antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi, dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga
destinata ad essere una zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del
1999 il sig. Palumbo di Milena – un personaggio assurto alla notorietà per
avere coadiuvato con gli archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana
– rinveniva in quell’avvallamento un continuum ceramico
sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si era
dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti tombe
a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita non si
era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso luogo, con i
greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati si
rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai moderni
trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi
trovavasi proprio sotto la necropoli sicana di fra Diego. Va a
finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]: «da noi, a Gargilata,
certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome con molta probabilità
sarà statoGardûtah, più tardi corrotto il Gardulâh,
donde si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è
il geografo arabo Edrisi al tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in
tal modo un imprecisato villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della
contrada Gargilata “a nove miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo
notato sotto la guida del Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla
congettura di padre Salvo. Speriamo che le pubbliche autorità si inducano
finalmente a fare le campagne di scavi che la terra di Sciascia ben merita e
speriamo che si provveda per la salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al
momento in pasto alla selvaggia profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora
precisata. Forse 500.000 anni fa le zolle sicule furono calpestate dal
primo Homo erectus. Più probabile che ebbero a trascorrere
centinaia di anni prima che l’Homo sapiens riuscisse a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [11]. Ed ecco il suo punto di
vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata e appena scheggiata
rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la prova della presenza
dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore, quell’epoca
antichissima della presenza umana che generalmente si data a partire da 500.000
anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche continuano. La
presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un periodo molto più
avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I dilettanti non si danno comunque per vinti. Secondo notizie di
stampa dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di
ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente a
4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso
Taungs nel Bechaunaland (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello
di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in
piccoli gruppi; sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come
utensili.
Più possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal territorio
agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo Rossello
presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su ciottolo
riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria litica del
paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una estremità su
una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie calabriane a quota
compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza notevole per la più antica
presenza umana nell’Isola e nell’intero continente italiano, in quanto
forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua comparsa alle soglie
dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble Culture nord-africana –
sembrano suggerire per i tempi più antichi del Quaternario l’unione della Sicilia
con l’Africa e l’assenza della fossa tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci
in schegge litiche sparse in un terreno antistante a grotte naturali in
contrada Fontana del Vozzaro (sotto il Castelluccio). Il signor Candeloro, un
solerte ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza
umana nella stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni
specialistiche per avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di
consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina
di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo
indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima
grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva,
passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento
casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non
sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da
dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte
ingegnere delle ferrovie, Mauceri ([13]). Apprendiamo, così, che
«le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro
nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di
esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada
ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci
chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest
di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non
ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi
si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra
per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari
punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le
altre precedentemente descritte.» ([14]) Si ha, quindi, la
descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate -
aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e mezzogiorno
dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo
più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che
talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto
pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate
parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della
bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi
irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte
le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano
anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia.
Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([15]) Segue la descrizione di
n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica.
Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso
grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di
bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione
che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione
ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene
affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte
confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello,
Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([16]) - conclude l’A. - nei cui
contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito
di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde
di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque
esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo
che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia
antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona,
Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo
la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel
che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle
del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei
primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono
tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare
«ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il Monte Campanella di
Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e
corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C.,
non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla
si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi
è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di
Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia qui sparita sin dal
XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale
conclusione. Scompaiono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione?
Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche
fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca,
Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle
testimonianze archeologiche paiono dimostrare.
In sintonia con Milena [vedasi appendice ([i])], Racalmuto fa risalire le
sue ascendenze umane comprovate al Neolitico. La fase neolitica dei dintorni
racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti di ceramica impressa
[provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [18] comproverebbero
insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata contrada
non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se
insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi
azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a
Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A
Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi
eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del
neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [19] Fu epoca questa –
antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne
abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e
ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia
sud-occidentale dell’Isola, determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli
gruppi transmarini, rapidamente assimilati.» [20] E continuando con
l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma nell’ambito del
neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio a.C. dunque,
ndr] , e certamente in un momento anteriore alla introduzione della
tessitura (nessun elemento di fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo).
[…] La documentazione di questa “cultura del recinto”, la sua brevità,
l’assenza finora di materiali più tardi di quelli stentinelliani associati a
ceramica tricromica, sono dunque i dati di maggior rilevo per uno specifico
approccio al fenomeno della neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo sprofondo di Gargilata - con le sue acque (ora
purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per la difesa),
con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate – fa
affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non potranno
che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra racalmutese:
e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del Griffo ma
risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C., anche se,
a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla Guzzone sul
neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano di
Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a quelle
evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame (due
momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il
momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi
stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [21]:
a) il
primo momento è quello dei fori sul banco roccioso, destinati all’alloggiamento
di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno della copertura di capanne;
b) il
secondo momento è quello delle capanne con battuti pavimentali;
c) segue
poi la fase monumentale; impianti realizzati con tecnica accurata (grossi
blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili alcove e con probabili
contenitori di derrate;
d) il
quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e) un
quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe rappresentato (se davvero può
riferirsi al neolitico) da un bel focolare impostato su di uno strato di
giallastro.
Per un quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età
eneolitica, riportiamo queste note di sintesi di Laura Maniscalco:[22]
«L’età del rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni.
[…] I siti individuati, sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul
terreno, sono tutti di carattere domestico, manca una altrettanto ampia
documentazione relativa all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti
nella zona e presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate
da tempo.»
Discorso questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche
in riferimento alle affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra
spettacolare necropoli di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del
rame, a circa l’inizio del secondo millennio a.C. Vi si attagliano le
risultanze archeologiche della vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui
propinquità con Gargilata sono incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la
Maniscalco, «i saggi eseguiti a Rocca Aquilia hanno restituito sequenze
stratigrafiche complete dal tardo neolitico alla fine dell’età del rame.» Come
dire sino alle soglie dell’età del bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo
XVII. Ovvio che le date sono di mero riferimento, atteso il continuo
ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative
risalenti alle fasi finali del bronzo antico; [23] quelle del bronzo
medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal prof.
Vincenzo La Rosa [24]. Il continuum del
vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della
vicenda preistorica della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da
uno studio di Fabrizio Nicoletti [25]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata popolata in un
periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta dell’Acqua Fitusa, a
monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già da ora la nostra
attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti inquadrabili
tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei
discoidi è .. incerta, per quanto la loro presenza nel territorio risulti
[piuttosto] capillare. Un bifacciale da contrada Cimicia, di forma ovale,
sembra potersi confrontare con esemplari analoghi diffusi nella Sicilia
centrale. Nella maggior parte dei casi si può pensare ad una datazione compresa
tra il neolitico medio e le prime fasi dell’età del bronzo. […] Il neolitico,
sin dai livelli più antichi di Serra del Palco-Mandria, vede la comparsa di
quel singolare e ricercato vetro vulcanico che è l’ossidiana. La sua origine
allogena non lascia dubbi circa la nascita di una rete di scambi che in questo
periodo interessò la valle del Platani.[…] L’ossidiana grigia segue l’andamento
generale: in ascesa durante la fase delle capanne, in declino durante quella
dei recinti, in rapida ascesa alle soglie dell’eneolitico, quando diviene quasi
l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le consistenti importazioni di ossidiana,
la materia prima maggiormente usata in tutti i periodi, almeno a partire dal
neolitico medio, è una varietà di selce a grana fine dai colori variabili dal giallo-verde,
al rosso, al marrone, spesso mescolati su un unico pezzo a testimonianza della
medesima origine. […] L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è
la più tarda tra quelle conosciute nella media valle del Platani. Il
progressivo sviluppo culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è
in questo sito accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da
chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle importazioni
micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti, sembra
coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos
e gli evoluti manufatti metallici [26]. Racalmuto non ha, però
fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà. Per
rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto sparire
le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe a tholos dell’età del bronzo il
Tomasello [27] ha individuato in
località Furnieddu (c/o Sorgente), così prossima
ai confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto
le due camere thoidali costituiscono per le loro caratteristiche una presenza
archeologica significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda
età del bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio
geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano
culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con
il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di
matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale
panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i
territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali.
Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e
assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la
penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia
centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione. Infatti la
tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro,
fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora
sostenibile.»
Risalirebbero addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi
rapporti di questi luoghi con i micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di
contatti – si interroga l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi
tra il XV ed il XIV secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di
Milena, portano a chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da
Pugliese Carratelli per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un
quadro storico reale, articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di
questi contatti nel lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la
quale «nella zona agrigentino-nissena possano essersi verificati, in
concomitanza con l’arrivo dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri
stanziamenti di nuclei transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con
identità culturale progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del
patrimonio originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito
direttamente alla formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di
tipi come la tomba a tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante
nostro entroterra.
Una tomba a tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce,
proprio nel podere vezzeggiato da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che
fosse subcircolare, volta a calotta, banchina interna a ferro di cavallo e
persino dotata del simbolico incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico
alle anime di trasmigrare da lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia
fatta inglobare quando fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al Chiarchiaro era per
Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in un luogo di morte ove
tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il popolare
abbrividire al ricordo «delle antiche necropoli scavate nelle
colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano». Nel dubbio, quella sua
grotta della morte antica venne ascosa in interno ipogeo, risuscitato alla
conservazione delle cose della vita.
Confessiamo che quanto a datazione siamo stati spesso
frastornati dall’ondivaga periodizzazione dell’antica e nuova scienza
archeologica. Meritevolissimo quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai
vari dipartimenti di fisica e di fisica nucleare dell’università di Catania i
reperti ceramici ed hanno così, potuto stabilire età, sì, presunte
ma con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono
davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato
possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars
grain)» [28] che sono termini per
noi davvero ostrogoti. Ne vengono fuori svariatissime serie di età presunte in
BP e cioè a dire before present (prima del presente).
Vandole consultate piuttosto
in profondità, ne ricaviamo che anche per Racalmuto la più antica presenza
umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361 anni prima
di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro). Il neolitico
medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del
presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.). Le datazioni del Griffo relative a
materiale conservato nel museo regionale di Agrigento sarebbero quindi
confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età
media
|
Età
massima
|
Età
minima
|
5361
|
6278
|
4443
|
|
Recinto minore Serra del
Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo ipotizzare
che sino al 4100 a.C. nei dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto,
persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per
l’età del rame: dal quarto millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i
reperti archeologici oscillano attorno al 2700 a.C. in un
arco di tempo ipotizzabile tra un massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245
a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi dell’età del bronzo: bronzo antico con
ceramica che può pur risalire al 2.303 a.C.; bronzo medio, iniziato
probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo che si aggancia all’età del
ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando
scavi stratigrafici verranno praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi
i ritrovati (immancabili) di una tecnologia sempre più sofisticata, le
datazioni suesposte risulteranno senza dubbio imprecise, ma allo stato delle
nostre conoscenze (o meglio nel buio assoluto oggi lamentabile per la
preistoria racalmutese) queste cifre-simbolo una qualche luce, un certo
orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi
abbiamo solo i ritrovamenti del Mauceri del 1879 di cui parliamo in
vari punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del chilometraggio,
si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a ridosso del
cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria in
territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del
Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche
risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo
antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno
emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario,
andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della
parete del costone roccioso, sparse tutte attorno alla grotta di fra Diego,
sono tanto vistose e suggestive, quanto del tutto inesplorate (ad eccezione dei
tombaroli che possono violare a loro piacimento in assenza di ogni tutela
pubblica). Sicuramente sicane, di certo antiche di svariati millenni, attendono
di raccontarci la loro storia archeologica.
Una tomba singolare abbiamo
scoperto nell’estate del 1999 in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello
ne abbiamo fatto un servizio fotografico, almeno in tempo non potendosi
escludere che vandaliche manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico.
Attorno si è ormai consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra
segnalato: deturpato da un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso
tombale un prato erboso in inverno-primavera, in giallo per le stoppie in
estate-autunno. In fondo, il caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la
più caratteristica zona archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina
della Culma, a Nord-Ovest: un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli
accumuli dei rosticci di una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta al Salinas, da far
congetturare essere là attorno la località solfifera sfruttata al tempo
dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben tre
interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il
pendio di quella vallata sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa
direttrice, più in alto, sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro
analogo masso gessoso, reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due
antiche tombe, ma per fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo,
quindi, essere tra il sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto
di monete bizantine trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [29] Anche
qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle piantagioni
della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei, desolati e
desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti: sopra, il
lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano dall’opera
settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi,
della nudità arborea per il dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero
stanziarsi e gli antichi sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni
bizantine, resta per il momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi
fossero boschi e l’humus perdurasse ancora ferace?
Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per tumulare i propri estinti, lo
farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei
secoli una costante: ferace il territorio circostante, fervida l’opera
dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile, anche lungi dalla capanna sicana
o dalla frugale dimora coperta di tegole, di canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade,
in cima al Castelluccio, tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla
Montagna, alla Noce, al Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo,
ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non vistose come
quella di Gargilata.
In questa estate (1999),
quando abbiamo fatto vedere il manufatto sicano di Piano della Botte al noto G.
Palumbo di Milena, costui era piuttosto propenso a valutare il rudere come un
tentativo di tholos, lasciato cadere forse per abbandono coatto della località.
E’ tesi suggestiva. Resta, allora, da spiegare perché, in una certa fase della
loro vicenda racalmutese, i sicani del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi
tante: aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della
zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà darsi in
avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come nelle zone
del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena
docet!
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare
nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi
racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione,
per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla
cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([30]).
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare
gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo
benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle
tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse
minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono
sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro
fu loro fatale.
A
questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie
dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti
dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più
sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci
sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si
insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di
Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I
moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di
quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione,
trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che
quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine
e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di
Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un
doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima
ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona
era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre
in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un
(improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione
monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto
l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non
è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero
certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione
dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad
una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano
con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano
mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In
tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La
classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente
continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che
vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso
classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli
anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di
amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide
di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi
sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei
silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via
dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad
Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i
semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la
vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza
diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla
terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E'
certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e
gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che
avventurarci in vagule congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte
presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota
cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo
(Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da
Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al
nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo
e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie
linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente
'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella
teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) preso a prestito da
Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di
Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi
concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di
Caltanissetta.
Quando
vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o
nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo scorso.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza ai posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone,
il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di
Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella
città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai
tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro
cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi
ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di
Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua
villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle
Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C.
ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta
poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando
un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti
diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran
poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il
suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo
senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete
col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e
presenze greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone,
«violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da
Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure
avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella
successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella
distribuzione delle terre su nuove basi.
Dopo
il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa
coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene
neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti
contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui dovette
goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi,
ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della
vicina polis akragantina.
Nel
406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa,
Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano
numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000
uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento.
Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi,
nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per
Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu
abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante
opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu
per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di
cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono
col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel
nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville,
ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas
cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla
politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo
benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività
verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione
cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i
nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo
per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle
fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a
coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete
con effigi di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o
delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio
la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di
pegasi che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di
Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu
durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi,
.... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa,
lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un
tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo
Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il
tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e
di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette
contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno
agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto
Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia
di Siracusa.
Nel
280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue
risibili vittorie.
Akragas
e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di
Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia
incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam
praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per
prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora -
dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i
romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e
da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le
scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini
agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati:
25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città,
dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le
spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto
decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i
riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si
erano stanziati nella vicina polis;distruzione di beni;
spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci
dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo,
Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in
mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini
armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi
parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle
colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli
eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle
mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i
cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al
peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese.
Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta
in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di
guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale
rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di
grano nella lontanissima Roma.
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al
suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i
gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto
vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene
con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicaniappaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e
i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti
paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe
occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed
anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento
contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo
che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e
sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili,
anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna
agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle
che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e
mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle
sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o
molestie da parte delle autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato
da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione
esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una
iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello,
principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum
veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe
archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una
"diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae
fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI*
F* FUSCI
RMUS.
FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò
tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X,
8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed
eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di
nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente
alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate
sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco
della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed
abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di
seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di
Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un
probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di
Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad
anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano
sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la
vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere
racalmutesi non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo
secolo d.C., sotto Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si
registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non
se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme
romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con
scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di
racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si
conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli
scavi e dei monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3
novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande
tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi.
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni
antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto
burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott.
Donati, interpella seccamente il Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della
scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle
miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si
compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio
al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a
considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e
formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni
latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano
leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi
manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina
Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che
l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di
altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa
concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo,
potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io
non saprei. ([31])
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau
- i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([32]) ma si guarda
bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv.
Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa
non si rinviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza
dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.
Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di
reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv.
Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire
proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con
fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono
vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino
nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro,
provenienti presumibilmente dalle miniere dei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura oggi non
piùconvincente che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei
Lincei. ([33]) Per lui, l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un
contadino di Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore
Marco Aurelio Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura
la data esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel
180, s’intitola Marcus Aurelius Commodus Antoninus, per esser poi
di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr.
Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In definitiva, «per
siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al periodo tra il
180 e il 191.»
Già, il dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che
quella trasposizione di COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A
conferma, il prof. Salmeri [34] optava per la formula:
ex praedis/ M. Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del
Salinas, e continuava: «al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il
margine inferiore è raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre
tra la prima linea e il margine superiore compaiono – come sigma –
un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis,
di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal nome del dominus al
genitivo, nel secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene
estratta l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di
terracotta. Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui
provengono i blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo
alle forme di zolfo. Il praedium in questione, stando ai dati
di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una parte del
territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del resto sono
stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati interessati,
dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività estrattiva dello zolfo
nel XVIII secolo [35]; suo proprietario risulta
il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [36], da collocare nei decenni
finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori specificazioni dopo la
formula ex praedis M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di
un conduttore, induce a ritenere che le cave di zolfo dell’area
Milena/Racalmuto, nel tempo a cui risalgono le lastre, venissero sfruttate
direttamente dal proprietario. […] Quanto alla manodopera impegnata nelpraedium di
Commodiano, essa sarà stata costituita da schiavi e da liberi salariati;
nel De officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che
il governatore possa comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria [37]»
L’avere scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo
al liberto Commodiano comporta, però, uno scardinamento della ricognizione
temporale del Salinas. Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni
del II secolo d. C. pare fragile congettura, né la figura di quel liberto può
venire invocata per datazioni certe, come invece la primigenia lettura
consentiva. Neppure può affermarsi che il liberto Commodiano fosse davvero
il dominus delle miniere: più probabile che fosse invece il
proprietario di un “fondo” agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le
“gàvite” come altri mattoni e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci
assicura che Comodiamo sia vissuto a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo
che, stante il luogo del ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris,
potova essere propinqua alla pirrera di la Ciaula che mastro Liddu
Casuccio seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di
Racalmuto, tra il Castello Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori
romani - schiavi, salariati e di certo damnati ad sulpurariam, come
dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili
alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e Sonnino
nella loro Inchiesta in Sicilia. [38]
Che le “gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra
comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel 1947 in località
Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo
perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([39]), si trattava di un
deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque
il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così
descrive quell'attività mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta,
di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi...
Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a
contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a
quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo
dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che
ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([40]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto
si sia presto estinta nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche
il Salmeri, attorno al 180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino
al IV secolo d.C. Dopo, per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di
zolfo a Racalmuto. Risale, invece, agli inizi del Settecento una nota negli
archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di
zolfo, sibbene di salgemma. Sotto la data del 22
ottobre 1706 il
cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco
Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di
massi, mentre scavava in una salina. Il giovane minatore veniva sepolto nella
Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus
est», è la malinconica annotazione in latino.
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas e
dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo secolo d.C.,
quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([41]). In epoca di totale
declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto
di Proserpina ([42]). Rispetto a quanto si è
detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto
della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto
relativamente a Racalmuto ([43]) - fondato tra il ‘200 e il
‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del
sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La
coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata
dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano
dunque attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile
che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo
potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare
trattarsi di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso,
nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove
nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto
bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in una relazione pubblicata in
Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e
l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al
commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si
rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([44]) Sempre secondo il De Miro,
la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale
della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([45]).
I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare
dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani,
nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto
riguarda la produzione - annota il De Miro ([46]) - pur essendo nulla
rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età
moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da
commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai
sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione
specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e
attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a
“officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio
imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione
razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge,
in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della
miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume
sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione
dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo
l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere
per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un
significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro
che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e
delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della
organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere.
Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può
essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera
assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro
di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La
destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in
particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio
diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso
l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si
concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale
agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo,
conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana
e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([47])
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato
gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si
ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago
fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto.
I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi
della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in
contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine
dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto
che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento
abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo
crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli
bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre
Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è
avuto modo di accennare.
Tinebra Martorana fa un
fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per
un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo
che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come
abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i
coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime
Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo
alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà
avaro di reperti significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto
scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente
quello che casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto
sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E.
De Miro (1966 e 1972-73) ([48]),
ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie
sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in
contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli
riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia
dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori appuramenti
archeologici. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle
scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel
territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento
di Vito Soldano, di cui si ignora il toponimo antico.
Passando alle vicende del
rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze
che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti
sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di
troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un
qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché
l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle
conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra
plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra
l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo
cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se
crediamo a Sidonio Apollinare [49], Ricimero con quella
vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo
sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente
determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con
regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463
riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano
sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la
restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con
incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel
491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono,
però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che
cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno
fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma anche
archeologicche.
Il rivolto storico dei Goti
a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere
l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe
incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più
(quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
Attorno al VI secolo d.C. a
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto
singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione
Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro
che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso, per tradizione,
viene individuato piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno
alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un
ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al
cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà
rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è
un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe,
distruggendo un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata
storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli
scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi
affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è
esaustivo ed il competente Griffo ([50]) retrocede la datazione
delle monete al V secolo: data improbabile se le effigi degli imperatori
bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un paio di secoli
posteriori.[51] )
Un interessante rinvenimento archeologico si ebbe nel 1990 in
contrada Grotticelli, ma le pubbliche autorità si sono
per il momento decise a imporre la ricopertura e si sono
peraltro limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato.
Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la
notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel
territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca
ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad
arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato
altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto
insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo
detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace, ma più appropriamente
bisognerebbe parlare di “epigeo”, si troverebbe in «quell'abitato prearabo che
fa postulare il nome di Racalmuto» ([52]) Nostre personali
ricerche ci fanno pensare che lo spunto del grande archeologo
poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste
un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in
quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di
ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano
una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e
dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette
al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni
propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici ([53]) è pur congetturabile una
sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della
Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda
ma non insormontabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo (stando almeno a
quanto per adesso disponibile) resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei
imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul
ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni
pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una
vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André
Guillou ([54]), secondo il quale è da
collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ...
dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da
«205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([55])
Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa
del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico
oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il
francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero restate
nell'oblio o inficiate da errori di datazione ([56]).
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di
Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi
fu – nel ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego. Di
congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili
barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze
archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile
che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro
case e spostarsi altrove, oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli
Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese
cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in
mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo
e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di sua
sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed
i luoghi del tramonto sul crinale dellaMontagna, se non addirittura
a riparo delle balate di Gargilata.
Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i
berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra,
mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar
lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico
del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse
anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli
abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di
religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi,
berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita
da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in
cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la
vita e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (idhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei
territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta
personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non
distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i
bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una
contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la
parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([57]) per tratteggiare questa
congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa
orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti
malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le
doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma
soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti
a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe.
Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista,
consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani
davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati
nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione
all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle
sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare
soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da
ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi,
per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità
fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a
provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che -
fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i
due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero.
Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni
sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei
berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai
remoto secolo vii, quando
l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure
di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che
erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi
elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di
a-Abbàs.
«Pertanto al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) -
che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica
complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto
possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata
la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di
distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità
aghlabita d’Ifrìqiya ([58])»
Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a
Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio
narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese.
Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive
l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867
nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del
nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato
dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la
neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il
significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867
che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità
storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio
chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol
perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora
perché non congetturare che possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata
ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un
apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate
sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S.
Margaritella? E al limite – perché no? – al sito di Gargilata, ove affirano
ceramiche arabe, secondo quello che il Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99?
Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento
toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei
turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato,
accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La
comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono
su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le
vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a
Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del
Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario -
salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per circa un
secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato
livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano
racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma
attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia:
sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel
1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò
soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi
al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorrere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno,
che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria.
Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele
Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia
dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta,
trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia
che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad
opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti,
- narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano
tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086,
radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per
la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva
allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo
della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un
tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale
tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga
e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua
e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo
appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre
civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria
virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo
nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si
trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di
Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i
Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che
occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció
fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon
presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella:
Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([59]) Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([60]) di talché occupava
tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a
Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la
Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome
e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita
caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando,
così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([61])
E’ agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte
malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera
traduzione dal latino ([62]). Credo che Chamuth abbia
avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo
soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello
dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano.
«Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur,
hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non
interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e
figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale
peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto
per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e
bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama,
algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo,
terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse,
soprusi, discriminazioni, angherie, iattanza, arroganza del potere. Sono la
lingua degli uomini del potere che parlano forestiero ma
si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E
vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni,
amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e
scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi
dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni
nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si
aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta.
Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie
di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag.
17).
Il tremendo passaggio dalla
libertà araba allo stato servile, alle dipendenze di vescovi esattori, santi
per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa
e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è
documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture
dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle
invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso,
Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore
di Rahal-Almut a
nome Aabd-Aluhar, servo
dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella
seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia
papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran
parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche
elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai
dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto
fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto
nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle
pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi’,
mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di ascendenze
racalmutesi, Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la
paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma
solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I
cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il
Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri
luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla
devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo
il Racel del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni
funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di
vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma
le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli
occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in
simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il
toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende
spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a
pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni
banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e
Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né
i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento;
egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che
conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò
solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di
lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte,
il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno
con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni;
nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in
sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè,
quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto
all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor
muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più
forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio.
Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la
moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla
disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né
volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti,
il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero
certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al
seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti
erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore,
violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e
quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi
sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi.
Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si
sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri
erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro, come si è
detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur
capire avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano dei torbidi
normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non
chiara prosa per mettere un velo pudico sulle insane voglie dei predatori suoi
compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente
prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo
dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del
resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in gioventù.
Quando, però, si tratta di
cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del
Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a
dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed
attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze
musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le
cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta
sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera
citata. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle
orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di
Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca del
Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli
anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei
fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi
vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte.
Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti,
hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali,
dell’avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze
che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura
ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama
moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari
irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del
Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della
cronaca del benedettino.
Per fare terra bruciata
attorno al nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle
scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le
moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro,
Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar,
Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese,
non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo
d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le
città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al
crollo di Girgenti e Castrogiovanni ci convince molto di più delle
ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del
resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui
Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a
Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Il passaggio sotto i normanni a noi non ci esalta. Restiamo
filoarabi, anche se non con l’l’oltranzismo di Sciascia [63]. Siamo, in ogni caso,
affascinati dai versi di Ibn Hamdis ([64]) Pianse, invero, Ibn con
accenti davvero toccanti, specie se in noi tardi arabi scorre nelle vene quel
sangue berbero, come dire nord africano:
«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria
assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani
cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le
campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che
foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì,
sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in
mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva
esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh
no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i
vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte
tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di
Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che
dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione
riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava
l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata
all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo
che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo
lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte
«li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
Sciascia, di certo autore ben più scaltrito, è in definitiva
sulla stessa lunghezza d’onda. Raffinatissimo nella forma
quanto disinvolto nella sostanza, ha voglia di farci credere che Racalmuto poté
essere «un antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi
vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono
Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato
arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende il nome.» [65] Quanto sublime sia
quel letterario dire non saremo certo noi a dubitarlo; ma quanto di fondato vi
sia sotto il profilo storico, logistico e toponomastico, beh! … francamente
abbiamo tanti indizi per restare scettici.
Intanto, sappiamo che ben
dopo il 711 circolavano a Racalmuto monete bizantine che vennero poi nascoste
in contrada Montagna. Non v’è dubbio che là gli arabi scoprirono coloni
racalmutesi bizantini, magari terrorizzati, magari pronti a fuggire.
Quando scavi si faranno a Gargilata, verranno comprovate compresenze e arabe e
bizantine in quella località. Se, si scaverà dotto il Castello, saranno ben
chiariti tempi e significati della ceramica di quel periodo che là è sepolta.
Se non in base a fonti documentali, è certo che si potrà far luce sul momento
arabo racalmutese con il rinvenimento e lo studio di chiarificatori reperti
archeologici. Frattanto, possiamo solo abbandonarci alle chimere, alle
farneticazioni di una sbrigliata fantasia da mille ed una notte. Il
fantasticare arabo, noi locali veraci, non possiamo non averlo nel sangue. Dice
Sciascia che lui si sente borgesemente arabo, nel senso che la sua residenza
araba finisce per essere antecedente alla sua effettiva genealogia: «mi pare
cioè – cerca di spiegarci [66] –
di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di
quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di
visionario, di cui non soltanto affiora – in sprazzi, in frammenti – quella che
nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia
che mi è dato di conoscere …» Ciò torna ostico alla mediocritas del
nostro comune intendere: basta, però, per concordare sulla locale voglia di
sentire la vicenda araba nostrana, più che di individuarne l’erudito
svolgimento.
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