domenica 25 febbraio 2018












RACALMUTO NEI MILLENNI











Un antro esposto a mezzogiorno, orrido sul ciglio di un costone, prospiciente lo sprofondo di uno zubbio, l’ormai celeberrima grotta di fra Diego, ebbe ad ospitare l’antenato degli antenati racalmutesi, trentamila anni fa, come le vaghe vestigia e gli incerti residui archeologici paiono dimostrare. Il Calderone, onesto e meritevole ricercatore del ventesimo secolo, raccolse quei segni antichi, li consegnò alle competenti autorità agrigentine, e naturalmente ogni cosa sprofondò nei meandri sotterranei dei musei agrigentini. Irrecuperabilmente, in un oblio senza scampo.

Ai lati di quella grotta, si notano ancora – ma per quanto tempo residuo? – i loculi vetusti dei nostri progenitori sicani. Sono testimonianze di una civiltà cospicua, autoctona, ammirevole. All’infuori di un balzano vincolo archeologico, nulla sinora si è fatto per una riesumazione, una ricerca, uno sforzo di conoscenza.





Se l’età della terra vanta cinque miliardi di anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi e quindi di humus. Aggrappiamoci ad una ipotesi scientifica per spiegarci le origini del nostro paese: [1]«la terra delle miniere di zolfo, le celebri solfare inscindibili dalla storia della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste fenomeno della schiavitù dei carusi … riveste ancora un notevole interesse naturalistico, per chi voglia comprendere la storia della formazione di queste singolari montagne erose, incise, deforestate, che hanno l’aspetto caratteristico di certe regioni interne mediterranee, dalla Castiglia all’Anatolia. La cosiddetta serie gessoso-solfifera, intercalata da depositi di salgemma che sono tra i rarissimi d’Italia, non è che una formazione miocenica comprendente antichissimi tripoli in basso e poi calcari di base e calcari solfiferi, per giungere infine ai gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi si è inclini a ritenere che questa formazione abbia avuto origine dalle grandi lagune terziarie progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principii della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»

E se abbiamo analoghe curiosità sui nostri giacimenti di salgemma, diamo credito a chi pensa che: [2] «le rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie. L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenetici del Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale, gesso, ed altre sostanze.»

Il processo geologico, in effetti, si evolve con la formazione di strati silicei. I citati studiosi ritengono che: «tra i due strati di rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e sabbiose) sta un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli o farina fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici quali radiolari e diatomee.»

L’altipiano di Racalmuto ha avuto uno specifico sviluppo geologico nella formazione del gesso in quanto: «la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da depositi marini più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di rocce calcaree, in genere tufi composti da un impasto di gusci e di conchiglie che proteggono i più molli terreni sottostanti. Si formano così come delle zattere di roccia calcarea galleggianti sulle formazioni gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la formazione di cavità carsiche dette zubbi o addirittura grandi avvallamenti …»



Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, invero, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.



Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan [4] Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5] - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:

1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;

2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;

3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e      Messinese. 

4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).







Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle varie ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.









Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella preistoria sembra che siano presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Bompensiere, Montedoro.

L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6] I pochi reperti fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano ed attualmente risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite, smantellate dalle successive cave di pietra.

L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]

Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque, ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche  l’antomoniu e cioè il grisouil venefico idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile racconto: L’Antomonio, appunto. Così lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni, queste, ad intitolare L’antimonio il racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro prontamente eretto per impedire che il grisou si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così, a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.  Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore, sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni .. furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire, immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i  polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile  come i bianchi germogli di grano il venerdì santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]







Per un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [9] per tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.



Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).



Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivohomo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.

La grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei fenomeni detti zubbi che abbiamo sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.

Oggi, dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca  sicana – rinveniva in quell’avvallamento un continuum ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai moderni trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la necropoli  sicana di fra Diego. Va a finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]: «da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome con molta probabilità sarà statoGardûtah, più tardi corrotto il Gardulâh, donde si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo. Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia profanazione di tombaroli.



L’affacciarsi dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo erectus. Più probabile che ebbero a trascorrere centinaia di anni prima che l’Homo sapiens riuscisse a passare dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia», si domanda [11]. Ed ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore, quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»

I dilettanti non si danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso Taungs nel Bechaunaland  (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in piccoli gruppi; sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come utensili.

Più possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte  ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni specialistiche per avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.



Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle ferrovie, Mauceri ([13]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([15]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([16]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia qui sparita sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Scompaiono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono dimostrare.











In sintonia con Milena [vedasi appendice ([i])], Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico. La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [18] comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [19] Fu epoca questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione  della fascia sud-occidentale dell’Isola, determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini, rapidamente assimilati.» [20] E continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio a.C. dunque, ndr] , e certamente in un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della neolitizzazione nella media valle del Platani.»

Lo sprofondo di Gargilata -  con le sue acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate – fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C., anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di molto.

 Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [21]:

a)      il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso, destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno della copertura di capanne;

b)     il secondo momento è quello delle capanne con battuti pavimentali;

c)      segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili alcove e con probabili contenitori di derrate;

d)     il quarto momentoè quello dei rifacimenti;

e)      un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare impostato su di uno strato di giallastro.



Per un quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo queste note di sintesi di Laura Maniscalco:[22]

«L’età del rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati, sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»

Discorso questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.

Scavi recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi finali del bronzo antico; [23] quelle del bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal prof. Vincenzo La Rosa [24]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per le nostre ancor più ubertose plaghe.

A mo’ di nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di Fabrizio Nicoletti [25]:

«Non sappiamo se la nostra regione sia stata popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…] L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […] L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi  quale possa essere stato il ruolo delle importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti, sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»

Succede così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti metallici [26]. Racalmuto non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti? 

Ma se tombe a tholos dell’età del bronzo  il Tomasello [27] ha individuato in località Furnieddu (c/o Sorgente), così prossima ai confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle circonvicine terre racalmutesi?

«La tomba di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali. Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione.  Infatti la tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora sostenibile.»

Risalirebbero addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale, articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.

Una tomba a tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio di capra che il vedersi al Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il popolare abbrividire  al ricordo «delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.

Confessiamo che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così, potuto stabilire età,  sì, presunte ma con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [28] che sono termini per noi davvero ostrogoti. Ne vengono fuori svariatissime serie di età presunte in BP e cioè a dire before present (prima del presente).



Vandole consultate piuttosto in profondità, ne ricaviamo che anche per Racalmuto la più antica presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361 anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro). Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.). Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di Agrigento sarebbero quindi confermate.

 Non dovrebbero significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto

Denominazione
Età media
Età massima
Età minima
5361
6278
4443
Recinto minore Serra del Palco
4655
5179
4132
differenza
706
1100
311



Forse possiamo ipotizzare che sino al 4100 a.C. nei dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.

Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici oscillano attorno al  2700 a.C.  in un arco di tempo ipotizzabile tra un massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303 a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.

Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.

Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del Mauceri  del 1879 di cui parliamo in vari punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.

Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia archeologica.

Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999 in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest: un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di una dismessa miniera di zolfo. Prima  uno dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto. E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo, alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto, sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso, reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [29] Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei, desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti: sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano dall’opera settecentesca degli agostiniani.

E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus  perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di tegole, di canali d’argilla cotta.

In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio, tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non vistose come quella di Gargilata.



In questa estate (1999), quando abbiamo fatto vedere il manufatto sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora, da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:  aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona;  alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!












Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno» ([30]).

Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.

A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.



Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.

I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.

Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e  ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.







Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.

Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.

E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule congetture.

In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) preso a prestito da Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.

Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.

Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza ai posteri.

Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.

 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.

Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.

Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.

Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina

Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.

Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.

Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.



L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigi di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.

Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi  che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.







Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.

Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.

Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.

Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».

Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.

Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.

Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis;distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.







Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con  la  lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicaniappaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.

Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.

Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle autorità.

E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:



C* PP. ILI* F* FUSCI
      RMUS. FEC.









Il  Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi  (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota  ed eludendo ogni commento prosopografico.

Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.

Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.

Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.

Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.

Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti di Girgenti  ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il Picone:



Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.



L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:

Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.

In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :



MANCIPYM/

SULFURIS

SICIL



Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea



EX. OF. (ex officina)



come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.



Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.

L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei. ([31])





Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei  volumi del C.I.L. ([32])  ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia  all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.

All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro, provenienti presumibilmente dalle miniere dei dintorni di Santa Maria.

 Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura oggi non piùconvincente che pubblicava sul  bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([33]) Per lui, l’iscrizione:

EX PRAEDIS


M. AURELI


COMMODIAN

che si poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura la data esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180, s’intitola Marcus Aurelius Commodus Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al periodo tra il 180 e il 191.»

Già, il dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [34] optava per la formula: ex praedis/ M. Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava: «al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e il margine superiore compaiono – come sigma – un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal nome del dominus al genitivo, nel secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta. Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme di zolfo. Il praedium in questione, stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [35]; suo proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [36], da collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori specificazioni dopo la formula ex praedis M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […] Quanto alla manodopera impegnata nelpraedium  di Commodiano, essa sarà stata costituita da schiavi e da liberi salariati; nel De officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria [37]»

L’avere scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano comporta, però, uno scardinamento della ricognizione temporale del Salinas. Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può affermarsi che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus delle miniere: più probabile che fosse invece il proprietario di un “fondo” agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo che, stante il luogo del ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris, potova essere propinqua alla pirrera di la Ciaula che mastro Liddu Casuccio seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.

Ma, se fu assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori romani - schiavi, salariati e di certo damnati ad sulpurariam, come dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia.  [38]

Che le “gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([39]), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.

Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così descrive quell'attività mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([40]).

Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche il Salmeri, attorno al 180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino al IV secolo d.C. Dopo, per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di zolfo a Racalmuto. Risale, invece, agli inizi del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di zolfo, sibbene di salgemma. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di massi, mentre scavava in una salina. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob  ruinam salis repentinam, defunctus est»,  è la malinconica annotazione in latino.







Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo  secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([41]). In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([42]). Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto ([43]) - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([44]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([45]).

I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro ([46]) - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»

Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([47])

In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinaeconductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.

Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.









Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che casualmente affiora.

Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([48]), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori appuramenti archeologici. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il toponimo antico.



Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.

Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino  - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare [49], Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.

I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma anche archeologicche.

Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).




I BIZANTINI A RACALMUTO





Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso, per tradizione, viene individuato piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.

Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata storica.  Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([50]) retrocede la datazione delle monete al V secolo: data improbabile se le effigi degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un paio di secoli posteriori.[51] )

Un interessante rinvenimento archeologico si ebbe nel 1990 in contrada Grotticelli, ma le pubbliche autorità si sono per il momento decise a imporre la ricopertura e si sono peraltro  limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.

L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace, ma più appropriamente bisognerebbe parlare di “epigeo”, si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» ([52]) Nostre personali ricerche  ci fanno pensare che lo spunto del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae'  soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio.  Sulla scia di autorevoli storici ([53]) è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non insormontabile.

L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo (stando almeno a quanto per adesso disponibile) resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto,  ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([54]), secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas».. ([55])



Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del  Museo Agrigento,  quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero restate nell'oblio o inficiate da errori di datazione ([56]).







Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego.  Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.

Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove, oppure, come a Gargilata, finire per convivere.

E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale dellaMontagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.



Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita  e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (idhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.

Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([57]) per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.

«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.

«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.

«Pertanto al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([58]

Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »

Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio mortodistrutto [...]»

Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? E al limite – perché no? – al sito di Gargilata, ove affirano ceramiche arabe, secondo quello che il Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.

 Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.

Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti.  Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.

Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad  appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorrere” – poteva pur essere una fortezza sotto il domi­nio di Chamuth, donde l’attuale nome.

Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predo­ni normanni.

«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si appa­recchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regna­to un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appun­to in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.

«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchi­ne; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([59]) Bifara, Micolufa, Naro, Caltanis­setta, Licata, Ravenusa; ([60]di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([61])





E’ agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino ([62]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui,  caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjunge­batur, in posterum sibi non interdicetur».  In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guer­rieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigen­tini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte pianse­ro per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, anghe­rie, iattanza, arroganza del potere. Sono la lingua  degli uomini del potere  che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfrut­tamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di  'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).

Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile, alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.

A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut  a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emi­ro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racal­muto nell'anno 998;  di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'pale­arum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigola­ture sulle tasse e sui 'dsimmi’, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di ascendenze racalmutesi, Picone.

I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.

Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.

Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Mala­terra, ma ne stravolge senso e giudizi:

«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospet­tasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiogra­fo normanno.»

Di quei cento lancieri al seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racal­muto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.

L'Amari è aspro, come si è detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano dei torbidi normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico sulle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Rug­gero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qual­che dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in  gioventù.

Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulma­ni, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.

Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde nor­manne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la crona­ca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchi­ti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera giovinezza.

Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleg­giare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.

Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino. 

Per fare terra bruciata attorno al nostro  Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.

Se poi il Chamuth si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.

Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni  ci convince molto di più delle ingenuità narrati­ve del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.



*   *   *

Il passaggio sotto i normanni a noi non ci esalta. Restiamo filoarabi, anche se non con l’l’oltranzismo di Sciascia [63]. Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn Hamdis ([64]) Pianse, invero, Ibn con accenti davvero toccanti, specie se in noi tardi arabi scorre nelle vene quel sangue berbero, come dire nord africano:



«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.

«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,

«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?

«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.

 «Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?

«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.

«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.

«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»



Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.

Sciascia, di certo autore ben più scaltrito, è in definitiva sulla stessa lunghezza d’onda.   Raffinatissimo nella forma quanto disinvolto nella sostanza, ha voglia di farci credere che Racalmuto poté essere «un antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende il nome.» [65] Quanto sublime sia quel letterario dire non saremo certo noi a dubitarlo; ma quanto di fondato vi sia sotto il profilo storico, logistico e toponomastico, beh! … francamente abbiamo tanti indizi per restare scettici.

Intanto, sappiamo che ben dopo il 711 circolavano a Racalmuto monete bizantine che vennero poi nascoste in contrada Montagna. Non v’è dubbio che là gli arabi scoprirono coloni racalmutesi  bizantini, magari terrorizzati, magari pronti a fuggire. Quando scavi si faranno a Gargilata, verranno comprovate compresenze e arabe e bizantine in quella località. Se, si scaverà dotto il Castello, saranno ben chiariti tempi e significati della ceramica di quel periodo che là è sepolta. Se non in base a fonti documentali, è certo che si potrà far luce sul momento arabo racalmutese con il rinvenimento e lo studio di chiarificatori reperti archeologici. Frattanto, possiamo solo abbandonarci alle chimere, alle farneticazioni di una sbrigliata fantasia da mille ed una notte. Il fantasticare arabo, noi locali veraci, non possiamo non averlo nel sangue. Dice Sciascia che lui si sente borgesemente arabo, nel senso che la sua residenza araba finisce per essere antecedente alla sua effettiva genealogia: «mi pare cioè – cerca di spiegarci [66] – di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora – in sprazzi, in frammenti – quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato di conoscere …» Ciò torna ostico alla mediocritas del nostro comune intendere: basta, però, per concordare sulla locale voglia di sentire la vicenda araba nostrana, più che di individuarne l’erudito svolgimento.



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