RACALMUTO NEI MILLENNI
Un antro esposto a
mezzogiorno, orrido sul ciglio di un costone, prospiciente lo sprofondo di uno
zubbio, l’ormai celeberrima grotta di fra Diego, ebbe ad ospitare l’antenato
degli antenati racalmutesi, trentamila anni fa, come le vaghe vestigia e gli
incerti residui archeologici paiono dimostrare. Il Calderone, onesto e
meritevole ricercatore del ventesimo secolo, raccolse quei segni antichi, li
consegnò alle competenti autorità agrigentine, e naturalmente ogni cosa
sprofondò nei meandri sotterranei dei musei agrigentini. Irrecuperabilmente, in
un oblio senza scampo.
Ai lati di quella grotta, si
notano ancora – ma per quanto tempo residuo? – i loculi vetusti dei nostri
progenitori sicani. Sono testimonianze di una civiltà cospicua, autoctona,
ammirevole. All’infuori di un balzano vincolo archeologico, nulla sinora si è
fatto per una riesumazione, una ricerca, uno sforzo di conoscenza.
Se l’età della terra vanta
cinque miliardi di anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in
piena epoca miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un
fenomeno rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e
nembi di moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e
quando vi morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso,
trubi e quindi di humus. Aggrappiamoci ad una ipotesi scientifica per spiegarci
le origini del nostro paese: [1]«la
terra delle miniere di zolfo, le celebri solfare inscindibili dalla storia
della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste fenomeno della
schiavitù dei carusi … riveste ancora un notevole interesse
naturalistico, per chi voglia comprendere la storia della formazione di queste
singolari montagne erose, incise, deforestate, che hanno l’aspetto
caratteristico di certe regioni interne mediterranee, dalla Castiglia
all’Anatolia. La cosiddetta serie gessoso-solfifera, intercalata da depositi di
salgemma che sono tra i rarissimi d’Italia, non è che una formazione miocenica
comprendente antichissimi tripoli in basso e poi calcari di base e calcari
solfiferi, per giungere infine ai gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi
si è inclini a ritenere che questa formazione abbia avuto origine dalle grandi
lagune terziarie progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione
che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principii della fisica e della
chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio,
il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio e
di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che,
attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»
E se abbiamo analoghe
curiosità sui nostri giacimenti di salgemma, diamo credito a chi pensa
che: [2] «le
rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose
e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e
là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie.
L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenetici del
Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un
sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune
salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale,
gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico, in
effetti, si evolve con la formazione di strati silicei. I citati studiosi
ritengono che: «tra i due strati di rocce (sopra quelle gessoso-solfifere,
sotto le argille gessose e sabbiose) sta un sottile strato di materia silicea
nota con il nome di tripoli o farina fossile, composta specialmente da
scheletri di microrganismi acquatici quali radiolari e diatomee.»
L’altipiano di Racalmuto ha
avuto uno specifico sviluppo geologico nella formazione del gesso in quanto:
«la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da depositi marini
più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di
rocce calcaree, in genere tufi composti da un impasto di gusci e di conchiglie
che proteggono i più molli terreni sottostanti. Si formano così come
delle zattere di roccia calcarea galleggianti sulle formazioni
gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa
tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la
formazione di cavità carsiche dette zubbi o addirittura grandi
avvallamenti …»
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, invero, il
territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali
dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso
relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque
milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]).
Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e
cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad
abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un
isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una
sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la
regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre
marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e
quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan [4] Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana
(1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente
dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati
sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue
quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci
ragguaglia l’A [5] -
i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie,
conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari
elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore,
costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri
abbiamo dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle
varie ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.
Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi
vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella
preistoria sembra che siano presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si
espandono verso Milena, Bompensiere, Montedoro.
L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al
XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel
1879. [6] I
pochi reperti fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo
siciliano ed attualmente risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi
della stazione ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite, smantellate
dalle successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline
illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra
Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti autorità
continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche
lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana lo strambo
passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei (C.I.
Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava
alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione
tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con
lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde'
di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque, ereditati
dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che le ricchezze
della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico
vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di zolfo dal
singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu e
cioè il grisouil venefico idrocarburo che incendiandosi produce
morte per incenerimento dei polmoni dei malcapitati minatori che avessero a
respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile racconto: L’Antomonio,
appunto. Così lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese
chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è
leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il racconto.» Noi, quelle
ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne abbiamo, però, delle nostre.
Una mia nonna raccontava del suo primo marito finito, dopo poche settimane
dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro prontamente eretto per impedire
che il grisou si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto
si sapeva che per i poveretti investiti nelle viscere della miniera non c’era
più scampo. Si procedeva, così, a salvaguardare gli altri cunicoli
solfiferi. Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono
dal profondo della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira,
terrore, sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie
imprecazioni .. furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto
sospettare, intuire, immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro
per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di noi racalmutesi,
la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo sfruttato come bestia
e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno squarcio, l’uomo con la
sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi
germogli di grano il venerdì santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto
“povertà vile” [9] per
tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Sull’altipiano
di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da
oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche
volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto
sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a
partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una
popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe
avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del
tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di
lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a
che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali
conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana
nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea
ad ospitare il primitivohomo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a
forno, è, a mio avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe
testimoniare uno di quei fenomeni detti zubbi che abbiamo
sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo
con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo
ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle
antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi, dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga
destinata ad essere una zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del
1999 il sig. Palumbo di Milena – un personaggio assurto alla notorietà per
avere coadiuvato con gli archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana
– rinveniva in quell’avvallamento un continuum ceramico
sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si era
dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti tombe
a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita non si
era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso luogo, con i
greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati si
rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai moderni
trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi
proprio sotto la necropoli sicana di fra Diego. Va a finire che
aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]:
«da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome
con molta probabilità sarà statoGardûtah, più tardi corrotto
il Gardulâh, donde si pensi derivi il nome Gargilata della
contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo
Edrisi al tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un
imprecisato villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada
Gargilata “a nove miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato
sotto la guida del Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura
di padre Salvo. Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a
fare le campagne di scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si
provveda per la salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in
pasto alla selvaggia profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora
precisata. Forse 500.000 anni fa le zolle sicule furono calpestate dal
primo Homo erectus. Più probabile che ebbero a trascorrere
centinaia di anni prima che l’Homo sapiens riuscisse a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [11]. Ed
ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata
e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la
prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore,
quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a
partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche
continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un
periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I dilettanti non si danno comunque per vinti. Secondo notizie di
stampa dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di
ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente a
4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso
Taungs nel Bechaunaland (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello
di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in
piccoli gruppi; sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come
utensili.
Più possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal
territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo
Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una estremità
su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie calabriane a quota
compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza notevole per la più antica
presenza umana nell’Isola e nell’intero continente italiano, in quanto
forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua comparsa alle soglie
dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble Culture nord-africana –
sembrano suggerire per i tempi più antichi del Quaternario l’unione della
Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa tunisina.» A noi è capitato
d’imbatterci in schegge litiche sparse in un terreno antistante a grotte
naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il Castelluccio). Il signor
Candeloro, un solerte ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima
presenza umana nella stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni
specialistiche per avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di
consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina
di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo
indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima
grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando
per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a
dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
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