I Moti rivoluzionari del 1848 in provincia di Agrigento. Seconda parte
Che dire di quasta ignota pagina di storia racalmutese?
Mi si perdoni se dico che mi pare un pasticcio all'agrigentina che non ha riscontro storico serio.
fa coppia con le tante false dicerie come far nascere la Rosalia del medievale xii secolo nell'ottocentesco palazzo dell'ex mugnaio romano.
o fare accadere chissache' all'alba del 6 maggio 1622 sciasciano
e cioe' quando non successe nulla per la semplice ragione che il signor conte di racalmuto era morto da vari giorni ed era stato sepolto a san francesco,
come non posso credere che prima della impiccagione nel 1650 a Palermo del conte giovanni (e non girolamo con buona pace di sciascia), godendo i Del carretto del mero misto imperio sin dal xvi secolo potesse venire a racalmuto un qualche visitatore del re, a romeerci l'anima,
quando a comandare era una donna, donna beatrice del carretto e principessa di ventimiglia.
Quanto alle bonomie del primo presunto barone novecentesco di gibillini resto fortemente scettico e non posso che restare fedele a quanto ho già elaborato in proposito.
di Gaetano D’Alessandro
Racalmuto
Fatti gravissimi succedevano a Racalmuto.
I fratelli Biagio, Luigi e Serafino Messana, giovani d’ingegno e addottorati chi in medicina e chi in giurisprudenza, contrari all’amministrazione civica, presieduta dal barone signor Giuseppe Saverio Tulumello, con una coccarda tricolore all’occhiello della giacchetta, nelle ore pomeridiane un giorno di gennaio, scendevano in piazza per spiegare, alla folla sbalordita degli zolfatari, la Costituzione che, com’essi davano ad intendere, significava fine del dominio del ceto signorile, ossia dei « cappeddi » e abolizione di ogni dazio, e specialmente di quello sul macinato, tanto odioso al popolo. La folla, all’idea dell’emancipazione e dell’abolizione delle tasse, lusingata ed istigata, iniziò una serie di dimostrazioni, con grida e chiassi, da compromettere l’ordine pubblico, cantando i seguenti versi per l’occasione:
La palummedda bianca pizzica lu granata,
Lu jummu di Don Lluminatu pòlisa ’un ni fa cchiù.
Occorre notare che in quell’anno il signor Illuminato Grillo, ch’era un pò gobbo, aveva l’incombenza di riscuotere la tassa sul macinato e di rilasciare una quietanza – polisa – la quale veniva attaccata al sacco, contenente il grano da macinare, che
si trascinava al mulino. Ora il popolo di Racalmuto, in quei momenti di folle eccitamento di animo, per la predicata abolizione dell’odioso balzello, cantava che lu junimu, cioè la gobba, di Don Illuminato non avrebbe più riscosso la tassa sul macinalo e quindi non avrebbe più rilasciata quietanza.
I fratelli Messana intanto tentavano d’invadere i pubblici uffici, e uno di essi, Biagio, riuscì infatti ad ottenere, dal Comitato generale di Palermo, la nomina di giudice di città. Così molti facinorosi e delinquenti, assolti dei loro reati, andarono ad ingrossare le fila della fazione dei Messana. A questi mali che travagliavano la città, altri se ne aggiungevano non meno pericolosi. L’idea di muover guerra alle persone di « civile condizione » per soverchiarle, a poco a poco facevasi strada nella plebe, e i tristi, sicuri dell’impunità e della anarchia di quell’anno turbinoso, rialzarono più che mai l’audace testa. Le persone ragguardevoli per ingegno e per benemerenze venivano designate col nome ingiurioso di « cappeddi », di modo che portare il cappello era un grave pericolo, molto più che si era stabilito perfino il giorno in cui si doveva dar principio al saccheggio, alla rapina, all’eccidio.
A questo pericolo imminente, il barone Tulumello, uomo di proposito e di ingegno, pensò di radunare in casa sua tutti i civili della città, invitandoli a recarvisi armati; e poi che li ebbe tutti raccolti, coi fucili in spalla e in colonna serrata, li guidò nella via principale e quivi si fermò, aspettando parecchie ore, in atto di sfida! Ma nessuno osò recargli molestia, non solo, ma quest’atto coraggioso valse ad intimidire i meno rischiosi a (al segno che, pochi giorni dopo, gli fu consegnata quella bandiera tricolore ch’era sventolata, non fra una accolta di uomini liberi, ma fra gente perversa, che anelava alla rapina, al saccheggio, alla vendetta.
Eppure i più audaci vollero continuare nella via intrapresa, ch’era quella degli assassinii, delle estorsioni e dei ricatti.
Il barone Tulumello e gli altri buoni, impensieriti di ciò, col pretesto di ripristinare definitivamente l’ordine pubblico ricorsero alla formazione di una guardia civica, come erasi già fatto altrove, composta di venti o ventiquattro persone, che furono appunto scelte ed assoldate fra i peggiori uomini di quella ciurmaglia.
Ma erasi appena costituita quella guardia, quando due, fra i più terribili delinquenti, si presentarono al Tulumello e gli chiesero del perchè fossero stati esclusi dalla guardia delle persone di fiducia. E il signor Tulumello prontamente rispondeva: « Avete ragione: ma i primi due posti che si rendono vuoti, saranno per voi; non dubitate! ». Non tardò molto infatti che due, fra le guardie assoldate, furono uccise, e quei due che avevano protestato colmarono il vuoto. Iniziò in tal modo una serie di assassina che rattristò tutti i buoni di Racal- muto, ma che valse però a toglier via molti delinquenti. Questi disgraziati, negli ultimi momenti di lor vita, venivano assistiti e comunicati da un prete, certo padre Cacciatore, uno di coloro che… si intendeva di un po’ di tutto! Costui appena sentiva un colpo di fucile, correva alla madrice, prendeva il viatico e andava sul luogo del delitto, sicuro del fatto suo, senza che alcuno gli avesse detto nulla.
Ora avvenne una sera, che avendo il prete inteso una delle solite fucilate, corse in piazza Castello per somministrare i sacramenti ad uno che non potè assistere perchè morto; ma nel ritornare in chiesa, un’altra fucilata, verso la parte alta della città, lo costrinse ad accorrervi. E quivi infatti trovò moribondo un tal Farrauto, uno dei due che si era doluto col Tulumello di non avere fatto parte delle persone di fiducia, al quale ripetè la frase, ch’era solito dire ai moribondi: « Vedi, figliuolo, quanta bontà ha avuto il Signore di venire ai tuoi piedi! Perdona, tu, i tuoi nemici! ». Il Ferrauto, con un supremo sforzo, rispondeva: « Padre, il primo a perdonarmi dovete essere voi, perchè io già avevo stabilito di uccidervi ».
Ioppolo e Santa Elisabetta
Le borgate di Ioppolo e di S. Elisabetta, che per tanti anni avevano chiesto inutilmente di emanciparsi da Aragona, si costituirono di fatto comuni indipendenti, dandosi un comitato, una guardia nazionale ed un’amministrazione comunale separata: ma avendo poi chiesto il permesso al comitato di amministrazione civica di Girgenti, fu loro negato, per evitare che il Bagno del Molo ne seguisse l’esempio.
Molo di Girgenti (Porto Empedocle)
E in questo Molo di Girgenti, che è oggi la fiorente Porto Empedocle, succedeva un fatto orribile, raccapricciante. Nella notte del 23 gennaio novantatrè galeotti, profittando della oscurità e del frastuono di un’orribile tempesta, dopo aver fatto un’apertura nel muro occidentale della torre, riuscirono a fuggire, fra lo scrosciare della pioggia e gli sbuffi del vento, che soffiava impetuoso. Le sentinelle, fidando nella fortezza del sito, si riparavano dalla bufera; nè gli ufficiali le costringevano ad una vigilanza rigorosa; ma il tonfo ripetuto dei fuggenti, che cadevano in acqua, le fece accorte della fuga, quando ne erano già fuggiti novantatrè.
Allora, chiamatosi alle armi, sopraggiunse nuova scena di orrore; voci di « dalli » e di « accorri » erano da ogni parte; e spari di fucile e bestemmie di soldati e di forzati e ordini e contrordini di ufficiali, sempre bene eseguiti; e tutto questo fra il guizzo dei lampi, il rombo dei tuoni, il furore dell’onda tempestosa e dell’acqua che cadeva a diluvio. Divulgatasi la fama della fuga, molti sospettarono che la milizia avesse consentito per far generare disordini ed anarchia, e quindi una controrivoluzione. Gli uffiziali, sdegnosi di quella fuga, sospettando i danni che potevano risentirne, richiusero i galeotti rimasti — circa duecento — entro il fondo di quell’orribile torre e in un fosso in cui non potevano nè coricarsi, nè muoversi, nè respirare liberamente.
E nella notte fatale dal 25 al 26, ne perirono centotrentacinquc di morte orribile! L’aria viziata per tanti aliti ed esalazioni impure li ridusse quasi frenetici. Alzavano grida orrende, volevano uscire, gridavano disperatamente: « Aria, aria », poi piangevano e singhiozzavano; imploravano aiuto, invocavano Dio e nello stesso tempo imprecavano e bestemmiavano; ma l’aiuto non veniva, anzi coloro che stavano a guardia, temendo che quei miseri riuscissero a fuggire, rispondevano con insulti, con minacce, ed anche, orribile a dirsi, con spari di fucile! La lampada che rischiarava quella sepoltura di viventi, per difetto d’aria si spense, ed allora divennero furibondi e feroci contro di loro stessi; si offendevano, si ferivano, si acceleravano di qualche istante la morte.
Il domani, conosciutosi il caso miserando, furono tratti di là, con corde, i centotrentacinque morti e moltissimi altri moribondi. Si parlò a lungo di quegli orribili fatti; varii furono i sospetti e un’ira si sparse da per tutto contro gli uffiziali e le guardie e contro il maggiore Sarzana, comandante del presidio.
Il dottor F. De Luca ne iniziava un processo.
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