governo militare alleato, i cui ufficiali si incontrarono parecchie volte con esponenti di spicco
della malavita organizzata siciliana sia per ricevere notizie sull’isola che per sfruttare il loro
potere locale in chiave anticomunista6
. Dunque, si può dedurre che il 1943 siciliano, così
come si caratterizzò con lo sbarco alleato del 10 luglio, non fu deciso e non ebbe inizio
nell’isola e nemmeno in Italia7
. Come detto in precedenza, le sorti della Sicilia e dell’Italia
intera vennero decise all’interno della Conferenza di Casablanca tenutasi tra il 14 ed il 16
gennaio del 1943. La grandezza e la straordinarietà di quell’evento furono in più occasioni
sottolineate dai protagonisti dell’operazione, il generale Eisenhower valutò quell’operazione
in questi termini: “Fino a quel momento, nessun attacco anfibio nella storia aveva raggiunto le
dimensioni di questo. Lungo parecchie miglia di linea costiera vi erano centinai di navi e di
piccole imbarcazioni, e a terra le truppe avanzavano in fila come formiche; in cielo, stormi di
caccia a protezione”8
. Ovviamente, oltre che dal punto di vista dei militari, un’invasione
militare cui, in questo caso, seguì una vera e propria guerra deve essere analizzata vestendo i
panni, molto spesso inermi, della popolazione civile. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia
dà una mirabile descrizione dello sbarco alleato nel racconto La guerra spiegata al popolo:
“Il 10 luglio del 1943, verso sera, tornò da Licata un venditore ambulante. Era
scappato da quel paese all’alba, abbandonando la sua povera mercanzia: un po’
a piedi, un po’ su autocarri militari, era finalmente arrivato al paese; e se ne
stava in piazza a raccontare quello che aveva visto, la sua avventura. Sembrava
sotto choc: e soprattutto per «quel mare che non si vedeva più», fitto com’era di
navi. Tante navi, mai viste tante navi. Ad ognuno che arrivava, tornava a parlare
delle navi, tante, mai viste tante, non potete immaginare, non potete credere; e
come in trance ripeteva: «Cornuto, e come voleva vincere?». Si avvicinò anche
il segretario del fascio, e lui raccontava delle navi e diceva; «Cornuto, e come
voleva vincere?». Gli fecero segno di tacere: ma lui non si accorse, non badò. E
poi, ormai aveva visto: sapeva con certezza che quel cornuto non poteva
vincere”9
.
Il riferimento “volgare” tipicamente siciliano fatto dallo scrittore di Racalmuto
all’interno del racconto è chiaro ed è per questo che ciò che accadde in Sicilia tra il 10 luglio e
il 17 agosto 1943 non può essere interpretato dandone una visione solamente isolana. Per
Mussolini la sconfitta subita in Sicilia fu una autentica amara sorpresa, per Hitler, inoltre, alla
sorpresa si aggiunsero l’animosità e la sua proverbiale collera. A suo giudizio la Sicilia
6 Ivi, p. 33.
7 F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Vol. III, Sellerio editore, Palermo, 1990, p.16.
8 D. D. Eisenhower, Crociata in Europa, Milano, 1949, p. 226 in Ivi p. 20.
9 L. Sciascia, La guerra spiegata al popolo, in «Quaderni siciliani», 1973, nn. 3-4, pp. 46, 47, in Ivi p. 21.
11
avrebbe dovuto essere per gli alleati ciò che Stalingrado era stata per i tedeschi10. In sostanza i
militari dell’asse e la stessa popolazione civile siciliana avrebbero dovuto resistere
strenuamente all’invasione delle truppe alleate. A determinare il comportamento delle truppe
italiane, e lo sbandamento della popolazione civile, davanti allo sbarco e all’avanzata della
Settima armata americana e dell’Ottava armata inglese, non fu tanto l’azione capillare dello
spionaggio alleato, quanto più il rapporto di forza strategico-politico complessivo: quello
stesso che di lì a due anni porterà all’esito finale della guerra in Europa11. Il comportamento
delle truppe dell’asse e di quasi la totalità della popolazione civile siciliana furono dettati da
un sentimento di scoramento e quasi di rassegnazione dovuti allo stato di abbandono in cui
versavano; la popolazione civile e l’esercito italiano si sentivano letteralmente abbandonati a
se stessi dal regime fascista, tant’è che solo una minima parte dei soldati e degli ufficiali
italiani presenti sull’isola riuscirono a ripiegare oltre lo stretto di Messina; moltissimi furono
fatti prigionieri o abbandonarono volontariamente i reparti per sottrarsi alla cattura del
nemico. Le autorità civili e politiche fasciste che avevano governato e comandato fino a pochi
giorni prima dello sbarco, rinnegarono in toto ciò in cui avevano più o meno creduto fino a
quel momento ed abbandonarono le loro posizioni; nel breve volgere di alcuni giorni
scomparvero del tutto i podestà, i segretari del fascio, i caporioni fascisti. Nelle città più
importanti e nei capoluoghi di provincia, addirittura, i segretari federali, i prefetti ed i questori
si diedero alla fuga ancor prima che i reparti dell’esercito alleato ripiegassero dalle loro
posizioni12
.
Al sentimento di astio da parte della popolazione civile nei confronti del regime fascista,
ormai destinato alla disfatta, faceva da contraltare un atteggiamento benevolo ed amichevole
nei confronti delle truppe alleate. Tale comportamento ebbe i suoi sviluppi più rilevanti
soprattutto nella Sicilia occidentale. La Settima armata americana, non trovò alcun ostacolo di
rilievo lungo le direttrici della sua avanzata13. A tal proposito, un episodio destinato più di
qualsiasi altro a restare impresso nelle menti di coloro che lo vissero e che poterono
raccontarlo fu quello del famoso vessillo giallo con una L ricamata; si racconta che la mattina
del 14 luglio 1943, un aereo da caccia americano comparve nel cielo di Villalba, un piccolo
paese in provincia di Caltanissetta, patria e quartier generale del capo indiscusso di tutta la
mafia siciliana, don Calogero Vizzini, detto “don Calò”. L’aereo americano arrivò quasi a
lambire le case e fu visibile a tutti i paesani, incuriositi dalla presenza di quel velivolo, lo
10 F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Vol. III, Sellerio editore, Palermo, 1990, p.23.
11 Ivi, p. 24.
12 Ibidem, pp. 26, 27.
13 Ibidem, p. 27.
12
stendardo che svolazzava ai lati della carlinga, era un drappo di color giallo oro con al centro
disegnata una grande L nera. L’aereo lasciò cadere nei pressi della casa di monsignor
Giovanni Vizzini, parroco del paese nonché fratello di don Calò, una busta di nylon con
all’interno un fazzoletto uguale in tutto e per tutto al drappo che si vedeva sventolare a lati
della carlinga dell’aereo. La busta fu raccolta da un soldato italiano che la consegnò
all’appuntato dei carabinieri Angelo Riccioli. Il giorno successivo l’aereo tornò a sorvolare
Villalba e lanciò una seconda busta di nylon che recava la scritta “zu Calò” stavolta proprio di
fronte l’abitazione della famiglia Vizzini, la busta raccolta dal cameriere della famiglia venne
immediatamente consegnata al destinatario; la sera stessa, partiva da Villalba un uomo di
fiducia di don Calò che doveva consegnare un biglietto scritto di proprio pugno dal boss che
recitava così:
“Curatulu Turi partirà cu li vutiddazzi, pi la fera di Cerda martidì iornu 20. Iu
partirò lu stissu iornu cu li vacchi, li voi di carrozzu e lu tavaru. Priparati
l’ardimi pi fari lu fruttu e li mannari pi riparari li pecuri. Avvertiti l’autri
curatulu di tinirisi pronti. Pi lu quagghiu ci pinsavu iu”
14
.
Tale messaggio, scritto con il tipico gergo simboleggiante della mafia, era indirizzato a
“zu Peppi”, cioè a Giuseppe Genco Russo, capo indiscusso della mafia di Mussomeli, anche
questo un piccolo paese in provincia di Caltanissetta. Don Calò mandava sostanzialmente a
dire che giorno 20 un certo Turi, avrebbe accompagnato le divisioni motorizzate alleate fino al
bivio di Cerda, lui sarebbe partito lo stesso giorno con il grosso delle truppe (li vacchi), i carri
armati (li voi di carrozzu) e lu tavaru (il toro, cioè il comandante in capo). Don Calò invitava
gli amici a preparare i focolai di lotta ed i rifugi per le truppe (li mannari pi riparari li vacchi).
La risposta di Genco Russo fu immediata, la mattina seguente, zu Peppi rispose che curatulu
Liddu aveva provveduto a priparari l’ardimi15
.
Il pomeriggio del 20 luglio, tre grossi carri armati giunsero sferragliando fino alle porte
di Villalba, da uno di essi, che aveva issato sulla torretta un grande vessillo giallo oro con la L
nera, si affacciò un ufficiale che, con l’accento siculo-americano, chiese alla gente intorno di
chiamargli don Calogero Vizzini. “Di lì a poco don Calò si fece avanti. […]. Senza dire una
parola tolse di tasca un fazzoletto giallo, lo mostrò all’americano e salì sul carro armato”16
.
L’assenza di Don Calò da Villalba durò sei giorni. In questo breve lasso di tempo le
truppe alleate avanzarono, una lungo la direttrice Nord, per raggiungere il nodo stradale di
Cerda; l’altra verso la direttrice Sud per raggiungere in seguito anch’essa il bivio di Cerda;
così facendo si operò il piano operativo che don Calò aveva espresso da par suo a Genco
14 M. Pantaleone, Mafia e politica. All’origine di “cosa nostra”. Edizioni Res Gestae, Milano, 2013, p. 49.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 50.
13
Russo nel famoso biglietto cifrato; così, i vutiddazzi di curatulu Turi avevano costituito la
colonna sud e li vacchi di don Calò l’altra branca della tenaglia che aveva chiuso in una sacca
le forze italo-tedesche ammassate nel versante occidentale delle provincie di Agrigento e
Palermo e dell’intera provincia di Trapani, togliendo loro ogni possibilità di ritirata17
.
Conclusa l’operazione, don Calò tornò nella sua Villalba; nonostante non avesse ricevuto
un’“investitura ufficiale” da parte degli altri boss della mafia siciliana, egli se ne considerava
a tutti gli effetti il capo indiscusso. Non fosse stato altro che per il fatto che gli americani si
rivolsero proprio a lui per portare a termine l’operazione militare di cui abbiamo appena
parlato. Il suo ritorno a Villalba era di cruciale importanza in quanto, secondo lo stesso don
Calò, era necessario, infatti, cominciare ad organizzare una cintura di difesa, attorno al paese
di Villalba, fatta di sindaci di fiducia. Per designazione dello stesso don Calò, vennero indicati
sindaci persone notoriamente mafiose o legate alla mafia, o comunque, per un motivo o per
l’altro, legate a lui18. Egli stesso, infine, fu nominato, “il 27 luglio 1943 dal tenente Beher del
Civil Affairs, su ordine di Charles Poletti, sindaco di Villalba”19
.
Per ciò che riguarda l’episodio del fazzoletto giallo e della grande L nera disegnata su di
esso, è molto probabile che tale simbolo stesse ad indicare la prima lettera del nome di Lucky
Luciano, nativo di Lercara Friddi in provincia di Palermo, che aveva fatto fortuna in America
con le corse e la prostituzione, e che sarebbe stato adoperato come simbolo per comunicare
con Calogero Vizzini20. Fonti autorevoli, tra le quali il libro del senatore americano Estes
Kefauver (presidente della commissione che prese il suo nome e che indagò sul crimine
organizzato negli USA), Il gangsterismo in America; non mettono in dubbio il fatto che
Lucky Luciano abbia prestato “preziosi servizi” al Naval Intelligence in relazione allo sbarco
nell’isola. Luciano, secondo Kefauver “si sarebbe servito delle sue vaste conoscenze presso la
mafia siciliana – per spianare la via agli agenti segreti americani –. In cambio, – è scritto
ancora nel libro di Kefauver –, le autorità militari avrebbero ordinato il rilascio di Luciano
sulla parola, in modo da permettergli di andare in Sicilia e precisamente a Gela «a preordinare
ogni cosa”21. Si pensa addirittura che Luciano si trovasse all’interno del carro armato che il 20
luglio 1943 prelevò don Calò Vizzini a Villalba. A parte le leggende e le storie più o meno
vere che sono state raccontate in tutti questi anni, gli studi storici hanno dimostrato che prima
e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo
17 Ivi, p. 52.
18 Ivi, p. 53.
19 E. Costanzo, Mafia e alleati, cit., p. 152.
20 M. Pantaleone, Mafia e politica, cit., p. 53. Questo episodio è molto controverso, si vedano a tal proposito le
dichiarazioni dei professori riportate in appendice.
21 Ivi, p. 54.
14
con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere libera la via dal mar Mediterraneo al mar
Tirreno, tant’è che le truppe di occupazione avanzarono nel centro dell’isola con un notevole
margine di sicurezza22. Inevitabilmente, sia la faccenda del fazzoletto che il fatto che gli
americani avessero cercato di don Calò ancor prima di arrivare nella zona di Villalba, faceva
pensare alla gente che da quelle parti, la fine della guerra, fosse una faccenda da tempo
convenuta fra “l’amici di l’amici”
23. Le collusioni che si vennero a creare tra il servizio
segreto americano, il gangsterismo americano e la mafia siciliana posero le basi per la
ricostruzione della “onorata società” del dopoguerra, nonché il rafforzamento del suo potere
nelle zone tradizionali.
Per di più, i rapporti che si vennero a creare tra i pezzi da 90 e i protagonisti della
malavita americana, con la fine dell’amministrazione alleata della Sicilia, portarono nella
mafia siciliana un rinnovamento di metodi, di interessi e di iniziativa, e aprirono il più vasto
piano d’azione alla sua attività criminosa24
.
Molti storici affermano che, grazie allo sbarco alleato, vi fu un risveglio della mafia,
ma, secondo altri, “più che di risveglio della mafia si può parlare di opportunità che la mafia
raccolse prima e dopo lo sbarco quando capì che si stava avvicinando un cambiamento
epocale e che quindi bisognava, per sopravvivere, saltare sul carro del vincitore, come
puntualmente fece”25
.
I cambiamenti di metodi all’interno dell’organizzazione si videro sin da subito, don
Calò ed i suoi accoliti non si preoccuparono più di ristabilire la tradizionale pressione nelle
campagne, dove si stava formando un banditismo spicciolo. Stava nascendo un’attività
lucrosa più rapida, redditizia e sicura; il tutto con la protezione inconsapevole delle autorità
alleate: la borsa nera26. Il nuovo business della borsa nera era favorito dagli elementi mafiosi
che, a vario titolo, erano riusciti ad infiltrarsi in molti uffici della nuova amministrazione,
questi erano arrivati a ricoprire cariche pubbliche ed erano in una posizione privilegiata per
controllare il movimento delle merci e dei mezzi di trasporto. Tra i referenti più importanti su
cui poteva contare la mafia siciliana per la borsa nera vi era Vito Genovese, “vecchio amico di
Calogero Vizzini che ricopriva una carica importante e delicata all’interno del comando
alleato di Nola (in Campania). Il Genovese era l’interprete di fiducia del colonnello Charles
22 Ivi, p. 55.
23 Ivi, p. 56.
24 Ivi, p. 57.
25 S. Rogari, G. Manica, Mafia e politica dall’unità d’Italia ad oggi, 150 anni di storia, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 2011, p.115.
26 M. Pantaleone, Mafia e politica, cit., pp. 58, 59.
15
Poletti, capo del comando militare alleato in Italia”27. Tra i due vecchi amici si stabilì un
perfetto connubio nel traffico illecito di generi alimentari: il sistema, molto semplice,
prevedeva che dalla stazione ferroviaria di Villalba partissero per il continente vagoni carichi
di tonnellate di pasta, oltre che camion e treni colmi di farina, sale, olio, legumi e grano con
destinazione Nola. La preziosa merce, provvista di regolari documenti di trasporto rilasciati
dall’AMGOT, una volta giunta a destinazione, veniva presa in consegna da Genovese che la
rivendeva al mercato nero28. Il business della borsa nera andò avanti per qualche anno, dal
1943 al 1946 praticamente tutti gli esponenti della mafia siciliana si dedicarono a questo
lucroso commercio29, inoltre, come dimostrarono i fatti successivi, tale commercio servì da
apripista per un altro e ben più lucroso business che si sarebbe sviluppato di lì a qualche anno
per la mafia, cioè il traffico degli stupefacenti che ha trovato in Sicilia uno dei suoi maggiori
centri di smistamento30
.
1.2 L’AMGOT in Sicilia.
Abbiamo fatto più volte riferimento all’acronimo AMGOT (Allied Military Governme
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