Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato
dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel
1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni;
finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per
eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete
della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto
degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del
Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in
stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia,
almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare
l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa
dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai
punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio
e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della
successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da
approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa.
I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di
codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609;
un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra
del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di
Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio
risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia.
Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il
nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del
piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San
Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don
Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita
del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo;
lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la
ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono
due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa
ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti
nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida
Beatrice Ventimiglia sedicenne
(nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena
di 4 anni - Dorothea aetatis annorum
quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di
interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora
resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete
pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai
coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua
di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli
abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad
un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7%
potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva
l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo
però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli
(soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati
feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi
che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero
capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma
annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro
suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati
nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o
Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta
con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.
In una memoria del 1738 [1],
quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i
Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto
bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché
fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare
all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la
ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto
era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i
racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e
Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce
il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e
terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo
conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la
fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili.
Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un
profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane
conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua
estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di
fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le
note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale
lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni
blasfema ironia..
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto,
nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e
come disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero fraticello
dell’ordine centerupino dei sedicenti
riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che
già nel 1667 ([2]) si
tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile.
Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto
di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più
pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre
mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo
accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto
nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile
svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per
scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe
saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto
al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La
Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate,
avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non
avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([3]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per
farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice
circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da
cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il
valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa
precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a
proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito
al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia
ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in
Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a
scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle
grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria,
il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al
Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale
considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca
delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y
Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove
malaccortamente il presule si era
sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni»
risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del
capoluogo agrigentino. ([4])
Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti,
affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale
per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è
personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto
prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene.
Dalle sue ammiccanti relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di
stralciare questo illuminante passo: «Nella
Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono
ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e
chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e
tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare
con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e
disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo
conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più
del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([5]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da
Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella
contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo ebbe, pure, ad
interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari
di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio,
e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia
l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel
dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che
il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie
dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma
di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga
tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso
strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che
gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di
doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del
Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe
fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al
diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico
fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della
Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno,
‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva
al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola.
Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che
si attaglia al caso nostro. Alcuni
compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici,
battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni
che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese
mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro,
a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì,
qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere
denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa.
Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La
caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito
segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([6])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase
anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur
dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese
Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte
di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone
Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis,
animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus:
corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea
Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ([7])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la
giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma
solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un
diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato
religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per
non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu
dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale
dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23
anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio
che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a
’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per
condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di
reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla
sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata,
libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op.
cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio
poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui
viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del
Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento
del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea
preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto
circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi
di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne
la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di
Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del
conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré,
conte d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [8]
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo
aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione
venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di
martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era
una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita
dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al
Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo
pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace
concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo.
Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica. Riandando indietro nel
tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato
racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata
presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del
consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo,
forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si
direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera
identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al
condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15
marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente così letto:
Eodem
[nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di
Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo
Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo]
Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate
dal tenace concetto la presenza a
Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime
della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei
anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta
l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente gonfiate. Un fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi,
è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia
irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento
fraticello di Racalmuto.
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del
Carretto
in favore
del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte dietro la
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero,
anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo
spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note [9]
di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del
Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione
ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte
Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622.
Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d.
Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si
aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di
questo conte ucciso a soli venticinque anni. Don Vincenzo del Carretto,
ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi
della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante
accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta
principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese
di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del
marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le
tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani
non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere
un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
[1]
) Archivio di Stato Palermo: Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.° 3]
Relationes Burgentium Terrae Racalmuti
[f. 141-149]
[2])
Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della
Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista
FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di
Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da
Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi
tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per
volontà del vescovo agrigentino fra Ferdinando Sancèz
de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento
di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza di uomini e di
mezzi. Fra Giovan Battista Falletta
veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Giuliano, dato che,
come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis per
decretum sub die 26 augusti 1667». Ma il
Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[3])
Leggasi quanto almanaccato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione
Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore
agostiniano mandante dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e
non 6) maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della
stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto.
[4])
Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno
1602: positiones D-M.
[5]) ASV
- SCVR - anno 1601: positiones G-M.
[6])
ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28;
2169; 2170.
[7])
ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove
fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza:
tutto però induce a pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale
Piazzetta Crispi. Il toponimo tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto
alle male esecuzioni dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di
astioso anticlericalismo.
[8])
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag.
335. Per un approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi:
Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255
e 262-263.
[9] )
Cfr. catalogo su Pietro d’Asaro “il Monocolo di Racalmuto - Racalmuto 1985 -
pag. 72.
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