GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che
fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque
ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo
II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la
famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di
Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro
Girolamo fosse chiamato ed avesse in
quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire
avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior
risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte,
sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind.
1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti
quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai
del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo
considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non
soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso
titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri
uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e
altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati
verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto
l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera
del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse
Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc.
Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e
genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità
vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro
Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali
lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del
Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella
baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità
marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne
conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore
ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire
concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de
Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto
desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di
Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore
preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo
le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche
per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò,
peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12
febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia
“rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un
grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i
del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si
diceva: “Antica e regale è la famiglia
dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene
accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del
Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono
le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della
nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto
ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è ben chiaro che
Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli
imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed
autorevoli testimoni ampiamente
comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto,
giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo
e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo
l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo
di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti
regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo
profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di
questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor
di Contea per privilegio del serenissimo
Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno
1576, [1] esecutoriato in
Palermo a 28 Giugno 1577. [2] Fu pretore di Palermo
nell'anno 1559 [3],
e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente
l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo
governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette
altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno
videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue
Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per
extensum da BARONE loc. cit. lib. 3.
c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo
nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. [4] di non minor merito di
quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI nell'istesso luogo notato
di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che
nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri
cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande
racalmutese [5]
- fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui
Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un
privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non
sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione
seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei
palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua
gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo
dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della
frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito regalpetrese
[alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto
bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da
diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del Tinebra
dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu
il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal
notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo
s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo
procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il
barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei
feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero
e misto imperio, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato,
risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore
rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone
del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si
reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità
di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano
nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di
Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i
giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo
Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene
redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino
de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de
Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara
agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i
processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il
notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu
aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa
Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede
l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella
lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi
nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un
‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la
presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo.
Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo
Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel
1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo
II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non
riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale. Non abbiamo qui note in proposito da
proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo
di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di
Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a
seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II
a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e
gravi. Una ricerca fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di
Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente
significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i
nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni
dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe
pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo
nel carteggio che «per lo contaggio del
morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone
[a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di
Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor
oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per
sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del
1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori
parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli
agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e
della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per
intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino
all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate
anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione
dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li
Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per
l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte
cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per
oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà,
come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per
lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato ... ,
à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à
pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che
] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della
macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia
in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi
palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di
tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una
storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto, che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa
municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e
fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato
per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per
l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa,
poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e
raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per
consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato
ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno
supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di
persone, e resti servita Vostra
Eccellenza sia quello mezzo che si
concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due,
altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia
Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di
sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora della locale
amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena
dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato
paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali
diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con
eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per
trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia
detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un
nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno
una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi
al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa
trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità
tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente
organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine
volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali
che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che
viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili
gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi
chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che
debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il
vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e
quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et
accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò
di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi
11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus
Sucadellus ... conservatore [f. 229]
Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de
Aurello Magister Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche
allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a
Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale
consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind.
1577.
Die festivo supradicti Martij in
Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea
publica.=
Perche ritrovandosi l’università di
questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di
detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti
debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di
quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto
offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone
di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino
[f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in
detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta
Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra
volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere
persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle
di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere
acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo
prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che
se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si
contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et
essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real
Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale
consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per
ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la
presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente
dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo
uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico
Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di
rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta
Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal
compra di rendita.
* * *
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese
del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene
indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla
piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di
Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il
padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da
Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del
1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale,
dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto
romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa
pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto
cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia
dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal
vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri
campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per
risalire nel largo ove ora sonnecchiano i palazzotti degli invadenti Matrona
[la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico
con quello che l’ex voto del Monte ci fa
intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di
Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati
sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza
dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle
menti più elette del nostro paese come
dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del
Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al
prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e
Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro
che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal
pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della
popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della
Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste
del 1576. Il crollo demografico di quell’anno irreversibile (anche se fu
dovuto più alla fuga che alla morte dei
racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case
di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il
1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione
supererà quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577
fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un
disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana
quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte
indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte
dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché
nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce
diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese
militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo
imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per “tande”.
Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto
In prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a
raggiungere un accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15
gennaio, a rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una
transazione (transactio et accordium) [6] tra
il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli
abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di
corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di
terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
Il carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il
Fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia
locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti
in un apposito consiglio del 1580:
«Illustrissimo et eccellentissimo
Signore, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo,
Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito
Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo
Morreale, li quali furo deputati eletti per consiglio congregato circa la
questione e lite vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in
la R.G.C. esponino a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha
vertuto lite fra detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li
Sindaci di detta terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente
addutti nel libello, e processo fra loro compilato per li quali intendiano
detti Sindaci essere esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in
detto processo si contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso
conte ed essi esponenti come deputati eletti per detta università circa le
pretentioni predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano
di publico notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è
notorio che detti capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio
onde habbiano da intervenire li genti di detta università, e la maggior parte
di quella per ciò supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia
a destinare uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco
dispendio (o di spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da
conferire in detta università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare
consiglio si la detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto
d’accordio, li quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte
le persone che interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto
atto con lo consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e
restando l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli
autorità, e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio
che possa interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo
possa interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e
condizioni solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con
lettera Data Panormi die vigesimo nono
Februarij nonae Ind. 1580.
Il 3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio
de Barone della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno
5 si aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza
dell’esimio signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia
terrae Racalmuti die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I
giurati Lorenzo Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la
regolarità della convocazione e certificano la presenza del numero legale.
L’ordine del giorno consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con
l’illustre don Girolamo del Carretto.
Viene subito introdotto
l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone
decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco;
sapiti ch’avendosi tanto tempo ed anni litigato infra l’università di questa
terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di
questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.:
supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di
fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e
processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni
e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai
finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico
Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo
Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo
Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati
esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li
predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche
con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di
diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e
che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò
fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per
commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del
Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e
comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto
consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere
li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e
stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha
destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a
congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio
per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il
suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno
di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con
detto signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi
sono stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti
di detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere
quelli publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni, renunciationi, stipulazioni giuramento
firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi
l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente
osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio:
Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e
si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et
su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed
incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto
più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale
per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di
quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per
il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che
siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si
faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma;
lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto
magnifico Gio: Vito d’Amella,
Già tutti voi esistenti in lo
consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si
restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed eliggia
dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli e farsi
istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in forma,
lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di pariri che
si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi relasciti e gratij
fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi per sindaci e
procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad effetto di putiri
fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li soliti obligazioni
stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano
concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone ut proximus, lo
nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae prenominatae
personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de Justiniano et de
Alaymo, capitaneus et jurati,
Capitoli dell’accordio si fà infra
l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e
per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
per lo quali si havi di promittiri
di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea
usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra
mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris
aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia
d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli
in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e
terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta
promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi,
Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro
Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito
d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo
Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra
lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed
altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia
imposto perpetuo silentio:
Testes magnificus Marianus
Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med: doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice,
Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d.
Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de
Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai
Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne
Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
* * *
Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del
Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese,
nell’ultimo ventennio del Cinquecento.
All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto
che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a
prezzo prestabilito.
All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La
fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che
si arguisce dall’ex voto del Monte.
All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne
viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante
il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la
perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del
’500.
L’art. 4 disciplina l’istituto della “baglia”, una magistratura feudale
che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai
locali regolamenti di polizia.
L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina,
ovina.
L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali
che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte
feudale.
L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di
terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati
d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere
intensamente coltivato.
L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle
vigne e sulle licenze comitali occorrenti.
L’art. 10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario per il grano.
L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia
in natura come frumento, bestiame, etc.
L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.
Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.
L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.
L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli
abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono
vacue le terre al di fuori del territorio feudale.
L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le
bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di
Garamoli.
Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando
si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.
Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le vendite abusive di abitazioni all’interno
dell’abitato di Racalmuto.
L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.
L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora
sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e
consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.
L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire
non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se
non nelle forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.
L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è
raggiunto.
L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.
L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del
conte che da parte dell’Università.
L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre
ingabellate inferiori a salme 50.
L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel
territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni
d’imposta.
L’organizzazione
feudale del centro agrario di Racalmuto.
Sorprendentemente, i
religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[7] sugli
strani debiti di uno di tali rami cadetti.
Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro
agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone
di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don
Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni
Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti
ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo
fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto
proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di
mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e
tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il rapporto sottostante
di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da
pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della
celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli
abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti
quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti
nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri
capitoli del testamento fatto a mio
rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico
del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del
seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che
qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore
qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia
saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto
spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con
testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò
volle e non altrimenti né in altro
modo.»
«Faccio fede, io notaio
Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo
della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in
definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
La curialità
cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo
la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso
e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli
privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un
luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti
formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure
locali, personaggi pubblici.
«Racalmuto 28 gennaio 1572
- atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.
«Testi ricevuti - alcuni
passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello
spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo
Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice
testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile don
Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»
Identica relazione fanno i
sotto indicati personaggi:
nob. Giovanni Antonio
Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto
“pratica et canuxi la sua manu”;
magnifico Jo: Saguales di
Racalmuto, «che canuxi essiri la manu
propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et
interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
hon. Vincenzo Lo Perno di
Racalmuto, «como pratico che era con lo
ditto quondam don Fiderico ...»;
Diacono Martino Rizzo di
Racalmuto, il quale «vitti quando ditto
quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta
polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
Reverendo don Alerico
Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo
che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et
canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di
Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone
(gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il
conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore
del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo
contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto.
Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella
riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo.
Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii
et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli
anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne -
Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori;
ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari
settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre ad una caterva di
figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV,
suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di
Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di
cui si occuparono le cronache nere del tempo.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad
occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un
personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo
che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni
racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie
e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte
teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare
la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano
destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non
sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul
nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua
ricostruzione delle vicende di fra Diego
La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per
questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea,
sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto
Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli
imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per
quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento
abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un siffatto contesto
demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si
ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla
lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni
del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per
una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta
un suo parente Vincenzo di Giovanni [8] «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15
maggio 1591] successe che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di
Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue
opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro
quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un
disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli mandò dietro il conte per
farlo castigare della presunzione; ma fûro
i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che
sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno,
tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col
conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la
città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col
viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava
per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal
effetto.
Lo ingannâro
due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo
diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar
quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono
coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti
fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu
sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al
viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai
quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande
diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco
Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne
seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu
afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in
Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era
venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in
questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra
paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per
venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera
precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo
Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré
sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici
guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da
parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per
qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni
di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille,
da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo
ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra Martorana ne fa
una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del
Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero
arduo - del Di Giovanni (che pure cita
come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con
qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag.
105-107).
L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto. Il Sant’Offizio.
«S’aspettava ancora il
giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto[10] con le copie d’un nuovo
processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi
fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle.
[...]
[E sono fatti diversi
dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il
fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S.
Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e
liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso
gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e
diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la
giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser
gravemente vilipesa”. [...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto che non è
affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali
abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto,
tramutato per l’occasione in un misero
commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S.
Officio.
«Arrestato costui per una
serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte,
nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le
consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire
il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o
meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a
dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché la G. Corte
suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato
dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato codesto
principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse
il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo
II
«La moralità di tutta
questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a
quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per
assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende
ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due
fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di
Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La
«mal’opera» che Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore
al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni del
Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua
volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a
Palermo.
Il figlio Girolamo del
Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori
da un servo.
Il nipote Giovanni del
Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650
(AURIA, Diario Palermitano),
colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV,
re di Spagna.
Ma
qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A
noi sembra, decisamente compromessa.
Un
sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano [12] che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina,
ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero
in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe
di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli
e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un
processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e
costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del
1600 [13] ,
appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le
procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in
carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il
titolo di barone di Cerami.
La presa del possesso di Racalmuto.
Veniamo innanzitutto a
sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi
rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che
erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del
Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto,
che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo,
padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583
nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
Defunto l’ex pretore di
Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a
Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in traduzione,
l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8
agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam
d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a
Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e
deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo
don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale,
e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
«In relazione a ciò, nel
predetto giorno, lo spettabile don
Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente,
innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in
forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese,
in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e
scritture, con ogni miglior modo e
forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato,
in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come
figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor
don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed
in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e
continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto
procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo,
libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello
stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e
degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me infrascritto
notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte
seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è
stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra,
contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe,
nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per acquisizione
delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando,
uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come si è proceduto
alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona
del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella
persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano,
giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di
Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si è fatto anche
per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro
Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli
uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo
Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova elezione e
creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e
gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli
ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la solenne
celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale,
attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor
don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di
avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo.
«Testi presenti: chierico
Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro
Cacciatore.
«Nello stesso giorno, ai
fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto
infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto
procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto
di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e
Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della
detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni,
facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi,
toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio
delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di
possesso.
«Testi: Nicolò di
Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami, regio pubblico notaio del Regno.»
Il truce personaggio che
fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a
prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne
l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e,
finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa
nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto
ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e
debiti.
Il “paragio”.
Tra tutti
primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il
“paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il
feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma
per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per
indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno che sia
il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio
cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che
non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare
bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie
-, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e
burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di più le disgrazie
giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille
fiorini’) e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla
moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un Vincenzo del
Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto
al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti [14]
un fratello dell’infelice conte di
Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro
figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se
non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento
per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle sorelle e
dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che
avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie
giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo
figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse
per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto
tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo feudo
dei del Carretto - ne subì i danni?
Tutto lo fa pensare.
Donna Aldonza del Carretto
Un saggio della
pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la
terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il
convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non
resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello
primogenito.
Lo esclude, innanzi tutto,
dal nutrito numero dei suoi eredi universali, [15] che
invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna
Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione,
salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni
lasciti per la sua anima ed aver dato le
disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non
amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D.
Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni
di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D.
Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti
frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali
leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in
juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di
essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle,
siano et s’intendano instituti heredi
universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et
lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una
volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni
quemlibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice
vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua
legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali
essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa
testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi
soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla]
presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle
erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di
nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200
once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix
legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias
ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales
infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius
testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il
fratello Aleramo:
«Item essa testatrice
lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi
ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe
Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa
testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D.
Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice
declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando
onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e
lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel testamento non
troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già
morto?
Ma non basta. Se ci si
addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra
sorella: Beatrice del Carretto, [16] morta nel settembre del 1592.
Racalmuto secondo il rivelo del 1593.
I beni ecclesiastici di Racalmuto.
Il singolare vescovo di
Agrigento Horozco, con cui già ci siamo imbattuti, ebbe modo d’interessarsi
delle finanze ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad
limina” della diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre,
VIII^ ind. 1599[17]). Il vescovo dichiarava
di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù bisogno andare alli bagni
» e pertanto non «hà possuto venire personalmente a baciar i piedi di Nostro
Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo fiduciario l’arciprete
di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva prescelto come suo
mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia. Lo stato di
infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente all’odiata famiglia
dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto, preso di mira dall’Horozco
nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il 17 di agosto 1598 il
potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis Agrigenti” [cfr.
Relatio cit. f.15].
Dalla documentazione
vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di
“ingabellare” 9.500 onze di rendita
diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
al 15° posto risulta
censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
tra i “Beneficij semplici
de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al
Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata
[che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo
che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello
di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;
l’arcipretura di Racalmuto
è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le somme, i
racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e tasse
episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli
oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un
gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora - come del
resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano
riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita
il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare
ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.
ARCIPRETI E SACERDOTI
NELLA SECONDA META’ DEL CINQUECENTO
Don
Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della
Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette
avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don
Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli
officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro,
fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.
In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come
don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare
successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione
di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi
(come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come dal seguente
atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano
della Matrice.
La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento
dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne
ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del
XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.
Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio
Crapanzano (ma trattasi di Provenzano) ... del tenor seguente: .. da parte del
rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della
giusridizione di V.S. ... In tempi
passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo
testamento agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello
inter alia capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in
satisfatione de suoi peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni
hereditari durante la vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in
die lunae cuiusvis hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per
ipse esponente. Et mancando, che tali tarì
dudici li havissero li frati di ditto convento durante la vita di esso
esponente, si como per ditto legato appare in ditto testamento fatto ni li atti
de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si
trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto testatore, che havea stato
in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale
legato et li frati di ditto convento quello si exigero con diri che ipsi
voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si dichiara
disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma i frati
sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella messa nella
chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità di
adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può
celebrare
ditta missa per la repugnantia di
ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere
et comandare che ipso exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in
diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta
terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto
defunto che di ditti tarì dudici anno quolibet
staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione
ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto
recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat.
..
Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi
disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il
vescovado.
Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di
questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in
altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di un legato in
suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore
di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì per una messa la
settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le
disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei propri peccati
investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i frati siano
riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti
secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo essere loro ad
adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente percependone le
elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai frati o a d. Lisi
Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia stato quest’ultimo a
venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il sacerdote si stabilisce a
Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.
Il documento è comunque importante perché ci fornisce qualche dato sul
convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti
da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che dispongono della
chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella
visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai
francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere
che essi fossero già insediati. Nel 1548 il convento possedeva una
bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di riconoscimento della
confraternita di S. Maria di Juso datata
21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S.
Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un
legato del 1545. Il convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il
1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il
testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed
al convento ma in questi termini:
Del pari lo
stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo del
Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare delle
messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che sia
costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal suddetto
erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due anni
dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del
predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre decide di venire sepolto nella chiesa di S.
Francesco con l’abito francescano:
Item elegit eius
corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis
ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da qui emerge che S. Francesco esisteva da
tempo.
Il Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del
suo sacerdozio tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545,
all’epoca cioè del testamento del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo
prima del 1520. Morì attorno al 1597.
Nel 1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria
Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo su una casa una
volta appartenuta a Violante Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae Marie
inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind.
1584
Reverendus presbiter Aloisius
Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo
donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl.
Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae
per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit
et habet in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum
Joseph Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis meis die etc.
Testes m.j Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete Gerlando D’Averna
Con bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio
Segreto Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 - f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di
Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna).
La bolla viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa
di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius episcopus
servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando
de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae
archipresbiteratus nuncupatae Sancti
Antonij terrae Rachalmuti
Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la
concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur
sempre un riconoscimento di meriti:
Vitae ac morum honestas aliaque
laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus apud nos fide digno
commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita fosse di
concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il papa mostra
di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa
bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:
Dudum siquidem omnia beneficia
ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in
antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex
tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis auctoritate
scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il beneficio di
Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete
di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del
Papa.
Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti
Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem
dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris
archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris
sponte factam et per nos admissam apud
Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene
alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi, quindi vogliamo concederti una
speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale
censura, disponiamo che tu ottenga tutti i singoli benefici ecclesiastici con cura e senza cura
(d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi
quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che
costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la
ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto
Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro come tu stesso affermi.
E vogliamo ciò
anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto
che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma
speciale e generale.
Pertanto ti conferiamo il beneficio
con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace
ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di
poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi
tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a quanto precede, diamo
mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/
nonché al diletto Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di
Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente o per il tramite di
qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale possesso della chiesa
parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la nostra
autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso qualsiasi
altro detentore, facendoti dare integro il resoconto della chiesa parrocchiale
e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti qualsiasi
contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria, nostro
predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può
richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un
qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o
generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso
decreto riformatore.
Vogliamo che tu comunque entri in
possesso di detta chiesa parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi
benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il
vescovo di Agrigento o presso chiunque altro che sia stato dalla Sede
apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei beni della chiesa, non gli
si accordi costrizione o interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito
che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione,
presentazione e qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che separatamente,
non può provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena ed espressa
menzione, parola per parola, alla presente, la quale ha forza di annullare
qualsiasi altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede
apostolica.
La complessità della bolla invero illumina poco sulle peculiarità
parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali,
del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento.
E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo
d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe
d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.
Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità negli atti di
battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non
abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il primo quinterno è
incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi
al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo
atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576
Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;
madrina: Juannella di Rotulu;officiante: Don Gerlando
di Averna.
Va, quindi, fugato il sospetto
che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto percepito i proventi
della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato lontano. La sua
arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579 che subentra
l’arc. Michele Romano.
Don Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo
prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non
era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I
salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando
operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel
successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote
officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra
più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel
periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel
“liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di
quel cappellano.
Don Giuseppe D’Averna
Appare per la prima volta in un
atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31 agosto 1578:
Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti
vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna
cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores
venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae
Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580
Vincentia di Gerlando Stincuni e
Angela; lo q. don Joseph di Averna la q.
Betta la Carretta'.
E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua morte che il
‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata ..
cit. col. 1. n.° 13). Una malcerta
annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo dubbio
per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è
presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di
3 7 1598 Margarita donna di Geronimo don Russo
e di donna Elisabetta del Carretto, per don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc.
Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto, conte di
Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre
del 1587.
Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al 1590, con il
nobile Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello di Racalmuto
nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra
il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto
nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Clerico Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali tal Clerico
Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal
ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo
di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha
dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel
gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione della
Matrice:
7 1 1601 Averna
Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao
q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il
sac.Macaluso Jo:
Don Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli esordi
dell’arcipretura Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine
all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo
incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto
cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito da parte dei fratelli
Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la concessione di sepoltura nella
medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce il suo benestare nella cennata
veste di cappellano:
Praesente ad haec omnia et singula
praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario cognito et stipulante pro
dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante de praesente attu et
omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma negli ultimi giorni di agosto
dell’anno successivo è già infermo e si accinge a fare testamento. Il suo
attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da presceglierla quale
luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita annua di un’onza e
3 tarì.
In un atto della chiesa
del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di concessione in termini
che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote aveva 45 anni.
Era nato dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48 anni. Abitava,
apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da questa nota del
rivelo del 1593:
3 149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI
ANNI 45
La cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa di S. Maria
vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove era
raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae Itriae in
frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che
questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si parla,
infatti della dote Cappellae Sancti
Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel che ci dice il
Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato aveva almeno
quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:
Est sciendum quod inter alia capitula donationis causa mortis facta per
condam don Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius
nepotibus est infrascriptum capitulum tenoris
....
Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone d’Agrò che approvò
la transazione feudale con il conte Girolamo del Carretto nel 1581 (è il 229°
dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero l’assenso il giorno
15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la sua firma come
teste.
I primi cappellani:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è composto di
n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di
augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563
(adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non
è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le date sia apocrife,
aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe essere datato
1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i
cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio). Non
riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né
quello che si considera il suo predecessore,
don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di
Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti risultano:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e per don
Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti”
(prete). Di nessuno di loro si fa il più
vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare
soltanto il cappellano don Antonino La Matina.
I cappellani del periodo successivo (1570/1571):
Don Vincenzo d’Averna;
Don Jo Cacciatore;
Don Antonino D’Auria;
Don Giuseppe Garambula;
Don Antonino La Matina;
Don Filippo Macina.
E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che
spesso presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo
già abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don Antonino La
Matina, presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul
D’Auria, Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi
cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8). Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e
Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina ed il
Garambula appaiono oriundi.
I
cappellani del periodo 1575/76
Don Vincenzo d’Averna;
don Lisi Provenzano.
I salti della documentazione disponibile ci portano a questa quarta
indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il
d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza.
Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I cappellani del
periodo 1579/1582:
Don Michele Abate;
Don Monserrato d’Agrò;
Don Lisi Provenzano;
Don Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don
Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati
Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e
naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.°
18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono Luigi
Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I
cappellani del periodo 1583/84:
Don Monserrato d’Agrò;
Don Francesco Nicastro;
Don Paolino Paladino;
Don Lisi Provenzano.
Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in qualche battesimo.
Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta don Francesco
Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel Liber, ma senza
alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.
Don Giuseppe
Romano
Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a
margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:
Die 24
ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli
sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don Michele Romano era morto solo da
poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è
congetturabile.
Arciprete
Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine racalmutese.
Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna. Muore il 28 luglio 1597, prossimo al suo ventennio di
arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto sta che il
vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per rivendicare i beni successori
del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa cenno in una sua difesa inviata
al Vaticano, ove fra l’altro si legge:
« [.....]Il detto Conte di
Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la spoglia[18] del arciprete morto di detta sua terra facendoci
far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta
spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte
debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli
di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non
pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal
termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno. »
A distanza di secoli non è
facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano durante la sua vita non
si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte è persino propenso a
favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij, falsi e litigiosi».
L’arciprete Romano deve
vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto - divenuto
tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore, l’avventuroso
Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio 1608.
Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo.
L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali
Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E
l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel
1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando scende a Racalmuto
un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un personaggio
eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è ovviamente
presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina
di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu
l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare l'Ill'S.ora Donna Maria del
Carretto''
In ogni caso, nei raduni del
popolo, chiamato ad avallare gravami tributari, l’arciprete si mantiene, almeno
formalmente, al di sopra delle parti e non appare neppure come teste.
Arciprete
Alessandro Capoccio
Il Vescovo Horozco lo
nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari
incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di
raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di
formalissimi atti notarili. Presso la Matrice
può leggersi questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la
possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO (?) procuratori di
don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto
plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO
DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I -
1582-1600 )
Tre anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a
Roma, al posto del Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina'
dei Vescovi di Agrigento al Papa[19]. Nell'atto di delega del 12 settembre 1595 "Don
Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.
In Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel
vescovo (Archivio Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 -
vol. I - (Agrigento) - ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il
vero, schietta e per niente compiacente (f. 36v e 37).
Sintetizzando e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi
dati:
«Depone il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono
naturale del Regno di Napoli e residente per il momento in questa corte. Egli testimonia che conosce il detto
signor Don Juan de Horoczo y Covarruvias
di vista e solo da due mesi, poco
più poco meno, e di non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben
dodici domande che attenevano alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La
sua testimonianza è quindi molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento
(circostanza che non ci pare qui conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento
per esservi stato due anni, poco più poco meno’.
Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora.
Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[20] Quel
che appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di
battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia
racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze
pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti
parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.
I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500
CENNI INTRODUTTIVI
Non crediamo che vi siano stati conventi a Racalmuto nei primi
quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il convento di
S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine dei Minori
Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don Lisi
Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica
datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello
dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide
dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella
chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della
visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni
del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino
presso Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a
ritenere che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.
Quanto all’altro convento francescano, quello dei
Minori di Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia
la sua attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi
femminili a Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare
verso il 1645.
Convento di S. Francesco.
Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il
convento di S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono
i padri minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni
del Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a
questo convento racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il
maltese Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e,
descrivendo le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S.
Francisci”, prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina].
suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus
1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum
languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a
Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno
1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico
Claramontano constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa
suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata.[21]
Dunque non era nota la data di fondazione, per la
distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso
anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la
cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato
che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa
somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta,
giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in
un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non
aveva tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per
la sua cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae,
che dunque nel 1560 era attivo.
Francescani conventuali nel 1593
Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che
nel 1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:
1
|
1593
|
COLA
ANDREA
|
GAITANO
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
GIOVANNIANTONIO
|
TODISCO
|
FRA
|
3
|
1593
|
SEBASTIANO
|
D ' ALAIMO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
BARBERIO
|
FRA
|
5
|
1593
|
GIO
|
BARBA
|
FRA
|
6
|
1593
|
LODOVICO
|
DI
SALVO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPE
|
LA MATINA
|
FRA
|
Francamente non conosciamo granché di tutti questi
francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel
singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto
giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo
punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix quod
dittus Jacobus donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato
solvere uncias decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti
Francisci, filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos
duos cursuros et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est
anno quolibet in fine unc. unam in pacem
pro vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et solutis
dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et successores
teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere
unciam unam redditus supra dicto loco de
supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae Racalmuti
eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu in
perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti cuiuslibet
anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius anima ipsius
donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres dicti ven.
conventus
Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della
Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le
messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.
Il guardiano padre Cola Andrea Gaitano
La Morreale si ricorda di questo priore anche a
proposito della sistemazione della non
chiara vicenda del lascito da parte del marito di un vestito appartenente a don Cesare del
Carretto. In dialetto, ella dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa
donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius
viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et
donat ditto ven. conventui Sancti Francisci
ditte terre uti dicitur: una robba
di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta
donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la
somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa
donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo
guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu
lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta
robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi
detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta
pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di
obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto
guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et
quelli denari convertirli et expenderli in
subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per
l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto
convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.
Il nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non
è certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri
sei fraticelli.
Fra Ludovico de Salvo
La famiglia cui apparteneva fra
Ludovico Salvo è così censita nel rivelo del 1593:
36
|
360
|
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45
|
Nora de Salvo moglie; Santo anni 14; Ludovico
11; Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
|
confina con
La Lattuca Paulino
|
abita al Monte
|
Nel 1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato
oltre. Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra
Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti
fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602 ... S. Francisci
Fra Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di
battesimo:
19
|
7
|
1581
|
Lodovico
|
Rogieri m.o
|
Salvo
|
Nora
|
Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali.
Nella visita del 1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex
menses
Risulta dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597.
Null’altro ci è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il Convento del Carmine.
Per il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540)
contava 10 religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per
46 anni il racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce
questi dati biografici:
Paolo Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo
tempio; curò l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e
nell’anno della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel
Signore.
Fra Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del
cenobio carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato
accanto alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili
sorgeva invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La chiesa,
invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni del
Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item
praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas centum triginta in emptione
lignaminum et tabularum facta per Magistrum
Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus
Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et
mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum
heredem particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu, et
uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae
Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti, et voluit quod debeat expendere unceas quindecim in
pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum
annorum trium.
Nel 1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e
doveva soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non
è attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa.
Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie
ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano
racalmutese:
1
|
1593
|
PAULO
|
FANARA
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
RUBERTO
|
COSTA
|
PADRE
|
3
|
1593
|
SALVATORE
|
RICCIO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
FRA
|
5
|
1593
|
ANGELO
|
CASUCHIO
|
FRA
|
6
|
1593
|
GEREMIA
|
RUSSO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPI
|
RAGUSA
|
FRA
|
8
|
1593
|
ZACCARIA
|
RICCIO
|
FRA
|
Fra Paolo Fanara
Nella visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato
fugacemente come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del
Carmine”.
Fra Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in
un documento del 1614[22] in cui si briga per consentire una “fera
franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo
Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che
per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene
alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere
ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro
della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare
ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»[23]
Nel 1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita
di S. Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla
celebrazione del matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di Racalmuto
Dalla solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato
alle confessioni per sei mesi:
Frater Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del
cognome. Se Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un
chierico a nome Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti
di trascrizione matrimoniali della
Matrice dal 1598 in poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl: Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias
vocatus Leonardus
Tratterebbesi di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di
battesimo:
5
|
9
|
1581
|
Rizzo
|
Leonardo
|
Martino
|
Norella
|
Ma resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello
carmelitano ed il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della
curia vescovile di Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel 1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P. Angelo Casuchia
Stando al Liber in quo .. sarebbe
morto il 4 febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate
carmelitano del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi sia identità di persona. Noi siamo per la
tesi affermativa e pensiamo ad una secolarizzazione del giovane fraticello del
Carmine. Il Casuccio che s’incontra in Matrice è chierico tra il 1598 ed il
1600 e figura come diacono in un atto di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12
gennaio 1601 è già stato, comunque, ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della
Matrice figura un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come
don Francesco Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608,
ove è reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D. Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605
Panorm ... quas dixit amisisse
Costui era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi
di quella relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri
Iesu Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza propriis expensis.
et adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter ornatum super quo
est Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum,
est bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q.
Antonino praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet
hebdomada quae celebratur a Cappellano Ecclesiae
Habet etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio
inius orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o Antonino
Sferrazza.
Da altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante
famiglia degli Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere
l’identità con l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta
fu peraltro anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio
1630.
Se fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa,
come sembra, nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio
del ‘500 affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti
a Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un
carmelitano, che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente
celebrato nella chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era
occorso il benestare del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra
certo La Licata Paolo di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza.
Benedisse le nozze l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara
ed il citato fra Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si
conserva nella matrice.
11
9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela con La Matina
Antonella di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele
arciprete. Testi: Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro
benedetti nella chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi.
Agrigentini
Due religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi
due monaci, di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un
qualsiasi altro dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in
queste annotazioni d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di
Joanne Benedice le nozze: Amato frati
Antonino. Testi: Todisco Pietro e Rotulo Pietro
30 9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con
Aucello Antonella di Paolo e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don
Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di
Liberto frati Pasquali.
Nella visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra
Antonino Amato: che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo
elementi per affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella
relazione episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento di confessori di S.to Francisci: il p.re guardiano - fra. Antonio di Amato.
Giurati a Racalmuto a fine ’500
I giurati di Racalmuto
allo spirare del secolo XVI sono:
Nicolò Macaluso: ha 45
anni; abita nel centro del paese, al 159° fuoco del quartiere di S. Giuliano;
la moglie si chiama Francesca ed è coadiuvata nei servizi di casa da Dora una
“citella di casa”; non ha figli che coabitano con lui;
Giuseppe Cacciatore: ha 42
anni e viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana
al 226° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con lui quattro
figli: Giuseppe di anni 11 e le femminucce Caterina, Franceschella e
Contessella;
Giuseppe Vilardo: ha 30
anni ed anche lui viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al
quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con
lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le femminucce Franceschella, Costanza, Innocenza,
Angela e
Fania [Epifania];
il notaio Giuseppe Sauro e
Grillo: ha solo 25 anni ed è sposato con Antonella: non ha figli;
professionalmente si affermerà molto; frattanto abita al quartiere di S.
Giuliano al 167° fuoco; si era sposato a
Racalmuto il 20 settembre 1592 appunto con
Antonella Magaluso e le nozze erano state benedette da don Francesco
Nicastro: compari, il sac. don Paolino Paladino e il maggiorente Giovan
Francesco d’Amella. Abbiamo l’impressione che il Sauro e Grillo non fosse
racalmutese: il matrimonio con una locale gli poteva consentire di installarsi
nel feudo dei del Carretto per una esplosiva carriera ed una fortunata
professione notarile.
Sono chiamati a fungere da
delegati per il Rivelo:
per il principale e più popoloso quartiere di Santa Margaritella:
Martino di Messina: ha 35
anni circa; abita al quartiere Fontana al 29° fuoco; la moglie si chiama
Catherinella ed ha un figlio di otto anni;
Vincenzo di Amella
Pridicaturi: ha 40 anni; abita al quartiere Santa Margaritella al 369° fuoco;
la moglie si chiama Biatricella; ha tre figli maschi: Giuliano di anni 9,
Giuseppe di 6 e Diego di un anno, ed una femminuccia, Jurla [Gerlanda];
per il quartiere di San
Giuliano:
Giovanni Antonio
Sferrazza: secondo noi risiedeva al quartiere Monte di cui, come detto, non
abbiamo il quinterno di dati demografici;
e per il quartiere della Fontana:
Giovan Cola Capoblanco;
Natale Castrogiovanni;
Pietro Bellomo.
Di questi tre personaggi
non abbiamo notizie certe: dovrebbero tutti e tre abitare al quartiere Monte.
Chiese, quartieri e facoltà nel
rivelo del 1593
I ponderosi volumi del
rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati, se non da
una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi
accontentarci di alcuni sommari cenni.
A quell’epoca la terra di
Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi cartesiani in cui
l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al Padre Eterno e
l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade tortuose) partiva
dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di sicuro la chiesa di
Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale Collegio, ma a quale
punto non sembra che si possa individuare con certezza). In tale sistema la
parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S. Margaritella; quella di
sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di nord-est era la Fontana ed
infine il quartiere del Monte occupava la sezione di nord-ovest.
All’interno vi erano
località di spicco che negli atti ufficiali servivano per l’individuazione di
case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in effetti risultava
inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma una minima parte
debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva
chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata
trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di qualche
altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi
cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
[1] ) (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1]
[2] ) (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[3] ) (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f.
242 retr.]
[4] ) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta
di VICARI, e porta di MACQUEDA]
[5] )
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di
Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 17
[6] )
PALAGONIA . N.° 709 ANNI 1613-1749 - N.° 2
[7])
Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 509 - f. 52-55.
[8])
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato
- Palermo 1989, pag. 334-335. Trattasi della ripubblicazione di un testo
manoscritto del 1627 (una trentina d’anni dunque dopo la conclusione degli
eventi).
[9]) C.A.
Garufi - Fatti e Personaggi
dell’Inquisizione di Sicilia - Edizione Sellerio, Palermo 1978, pag. 255;
260; 260 e 262-263
[11]) Nel
libro dei Morti della Matrice di Racalmuto del 1614 alla
colonna n. 83, n.ro d'ordine 17, leggesi:
«2 dicto [maggio 1622] il Ill.mo D. Ger.o [Geronimo] del Carretto fu
morto e sepp.[llito] nella ecclesia di S.to Francesco per lo clero». Dai
processi d’investitura sappiamo che era morto
il giorno prima 1° maggio 1622.
[13])
Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi d’investiture -
Busta n. 3542 - Contea, terra e castello di Racalmuto - del Carretto Francesco
(così erroneamente indicato, ma trattasi di Giovanni del Carretto)
[14])
Archivio di Stato di Agrigento - Fondo
46 - vol. 506 - f. 204:
«ex actis meis notarii Angeli Castro Joanne Racalmuti -
«Est sciendum qualiter inter alia capitula testamenti solemnis et in
scriptis quondam don Vincentij del Carretto sacerdotis, ultimi sub quo
decessit, facti in actis meis notarii infrascripti die XV° augusti VII ind.
proximae praeteritae 1624, aperti et publicati in eisdem actis meis sub die XVIII presentis mensis septembris VIII^ inditionis instantis, extat capitulus
ut infra:
«“Item dictus testator legavit et legat de summa illarum unciarum
quadraginta novem redditus supra statu et baronia Ciramis vigore contractuum
superius expressatorum uncias duodecim
redditus Ven: Conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo terrae Racalmuti pro
celebratione unius missae de requie pro anima Ill.i Don Hieronimi del Carretto
comitis Racalmuti eius fratris.”»
Se ne ha la riprova
nell’atto di donazione del 10 luglio, IIIJ^ Ind. 1621 (ASP - Protonotaro Regno - Investiture -
Busta n.° 1569 - Processo n. 4074 - 1621
- f. 10) che recita:
«.. Don Vincentius del Carretto frater ipsius
Don Hironimi comitis et avunculus dictorum Don Joannis et Donnae Dorotheae...»
[15])
vedi testamento reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol.
501.
[16])
Archivio di Stato di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie
Investiture - Busta n.° 141- Anni
1636-48 - f. 118.
[17])
Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad limina - 18A - f. 5. La relazione economica
è al f. 16 e ss.
[18]) Ciò
che alla morte del prelato ricade nel dominio del Governo durante la sede
vacante: spoglio.
[19]) Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad Limina - 18A - f.
1.
In
spagnolo, il Covarruvias così presentava il Capocho alla Sacra Congregazione
competente:
«Quando no veniera negocios en esta Corte a
que embiar a Don Alexandro Capocho mi secretario, me diera contento embiarlo a
hacer riverencia a V.S.Ill.a y darle cuenta de las cosas de por aca, como lo
hara Don Alexandro ...el obispo de Girgento».
[20])
Cfr. Atti Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O
N I - 1582-1600. E’ ivi annotato: «Di la
maiori ecclesia di Racalmuto pigliao possisioni don Andria Argumento a li 7 di
marzo XIII ind.1600».
[21]) ALMAE
SICILIENSES PROVINCIAE - ORDINIS MINORUM
CONVENTUALIUM S.FRANCISCI - a patre magistro Philippo CAGLIOLA - a MILITA.
"Sicilia francescana secoli XIII-XVIII a cura di
Filippo ROTOLO" Venetiis, MDCXLIV - Officina di Studi Medievvali - Via del
Parlamento, 32 - 90133 PALERMO - 1984. pag. 108 [Petrus Rodulfus THOSSINIANUS,
Episcopus Senegallensis ordinis nostri, in Historia Serafica - v. per
RACHALMUTUM lib. 2] .
[22]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 1.
[23]) Il
prosieguo del documento è in latino e recita:
«Cons. Ref.,
eodem, Ad relationem U.J.D. Francisci la Rizza fuit provisum quod concedatur
petitio et fiat actus in curia juratorum, Joannes Gulielmus secretarius etc.».
Più
complesso il seguito che trascriviamo per gli eventuali cultori della lingua
latina in uso nella curia racalmutese del primo Seicento:
«Die XXI ottobris XIII^ Ind. 1614:
«fuit
provisum et mandatum per Ill.mum Dominum Comitem Don Hyeronimum del Carretto
Comitem huius terrae et Comitatus Racalmuti ad relationem U.J.D. Francisci la
Rizza consultoris, vigore provisionis fattae in dorso memorialis venerabilis
fratris Pauli Fanara prioris venerabilis conventus Sanctae Mariae de Monte
Carmelo, eiusdem terrae, sub die 20 praesentis mensis
«quod
otto de numero dierum sexdecim nundinarum quae antiquitus fiebant in hac
praeditta terra et in festivitate Divae Margharitae et postea translatae in
festivitate divae Mariae Jesu, eiusdem terrae solitae fieri in die in die
secundo mensis Julij cuiuslibet anni cum illis franchitijs pro ut hactenus
servatum fuerat.
«Intelligantur
et sint concessae ditto venerabili conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo
pro ut vi praesentis actus perpetuo valituri, spectabilis ill.mus Comes per se
et suos etc. tribuit et concessit eidem ven: conventui Virginis de Monte Carmelo
eiusdem terrae nundinas praedittas pro
maiori decoro et devotione festivitatis dittae Beatae Mariae Virginis de Monte
Carmelo celebrandae in dominica tertia cuius libet mensis Julij cuiuslibet anni
in perpetuum fiendas ante eccelsiam et conventum praedittum per dies quatuor
ante et dies quatuor postea dittum festum
«et
hoc cum omnibus et singulis franchitijs et alijs pro ut dittae nundinae gaudunt
et sunt exemptae ab omnibus gabellis ditti ill.mi domini comitis ut supra
dittum est et non aliter.
«Remanentibus
tamen de numero dierum sexdecim nundinarum praedittarum divae Margharitae alijs
diebus octo pro ditta ecclesia et Conventu Sanctae Mariae Jesu eiusdem terrae
fiendarum quoque antea dittam ecclesiam et conventum dittae Sanctae Mariae de
Jesu pro ut hucusque servatum est, in festivitate dittae Beatae Mariae Virginis
de Jesu quae celebratur in die secundo cuiuslibet mensis Julij in perpetuum,
«
hoc est pro diebus quatuor antea et diebus quatuor postea dittam festivitatem et cum franchitijs et aliis ut
supra dittum est e non aliter nec alio modo etc.
«Unde
ut in futurum appareat fattus est praesens actum in curia juratorum huius
terrae praedittae juxta ordinem et provisionem praeditti ill.mi D. Comitis suis
die loco et tempore valitures etc.
«Unde
etc. -
«Ex
actis Curiae Juratorum huius terrae et Comitatus Racalmuti, extratta est
praesens copia - Coll. Sal. - Sanctus Poma, magister notarius.»
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