* * *
Gentilissimi Compaesani,
ringrazio innanzi tutto il signor Sindaco prof. Petrotto per
avermi invitato a partecipare a questa cerimonia celebrativa di due grandi
paesani distintisi nel campo medico.
Il mio contributo è di natura sussidiaria e tende a fornire
uno squarcio sulla storia di Racalmuto,
terra in cui i due illustri professori Casuccio e Nalbone affondano le loro
scaturigini familiari.
Nei registri
parrocchiali della Matrice - una mirabile miniera di dati, sinora
sostanzialmente negletta - riscontro già agli albori di quella documentazione
[risalenti al 1564 e cioè al tempo della prima attuazione della Controriforma
Tridentina] ben undici ceppi familiari con il cognome “Casuccio”, in grafia più
o meno corretta.
Sono tutti appartenenti alla buona borghesia del luogo - il
prof. Ganci me lo consentirà - e portano spesso un doppio cognome che si rifà
nientemeno ai DORIA.
I “Casuccio“ oggi possono vantare veri e propri nobili lombi,
e sono i soli a Racalmuto.
Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli di Dante e
quelli della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino Doria di
Palermo del tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri della
celeberrima prosapia - possono essere
considerati nobili.
[possibilmente
fare proiettare questo prospetto]
[PROSPETTO
n.° 1]
N°
|
Cognome
|
Nome
|
Coniuge
|
1
|
Casuccia
|
Francesco
|
Maruzza
|
2
|
Casuccia
|
Gioseppe
|
Bastiana
|
3
|
Casuccia
|
Jacobo
|
Ioannella
|
4
|
Casuchia
|
Joanni
|
Rosa
|
5
|
Casuccia
|
Michele
|
Beatrice
|
6
|
Casuccia
|
Nardo
|
Minichella
|
7
|
Casuccio
|
Petro
|
Cartherina
|
8
|
Casuccia
|
Salvaturi
|
Juannella
|
9
|
Casuccia
|
Silvestro
|
Angela
|
10
|
Casuchia
|
Simuni
|
Contissa
|
11
|
Casucci
|
Vincenzo
|
Betta
|
Comprovano il doppio cognome questi atti parrocchiali:
10
|
9
|
1585
|
Geronimo
|
1
|
Antoni
|
Gulpi
|
Agata
|
Casuchia
Doria Joanni
|
24
|
9
|
1586
|
Leonardo
|
1
|
Vincenzo
|
Parla
|
Solemia
|
Cimbardo cl. Angilo
|
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.
|
8
|
7
|
1585
|
Jannuccio
|
Nicolao
|
Antonuccio quodam
|
Angila
|
Fuca'
|
Agata
|
Gasparo quondam
|
Betta
|
Casucia
Doria Giovanni
|
4
|
1591
|
Maruzza
|
2
|
Antonino
|
Muriali
|
Francesca
|
Doria Jo:
|
4
|
1591
|
Santo
|
1
|
Antonino
|
Vento
|
Paola
|
Doria Jo:
|
10
|
6
|
1591
|
Jacopo
|
1
|
Francesco
|
Rizzo
|
Vittoria
|
Casuccia
Doria Jo:
|
1.8.1616
|
CASUCCIO
DORIA
|
FILIPPA
|
* *
*
Quanto al
prof. Giuseppe Nalbone
sono stati proprio gli atti della Matrice a farci incontrare,
a dire il vero non molto tempo fa: appena tre anni addietro.
Entrambi eravamo già in quiescenza da professioni
completamente aliene rispetto alla ricerca storica: scienziato della medicina
lui; atipico ispettore della Banca d’Italia, chi parla.
I vecchi registri della Matrice sono stati l’oggetto e
l’occasione del nostro incontro. Incidentale era stato l’interesse del Nalbone
verso quei lisi quinterni parrocchiali. Un suo lontano parente suo omonimo, di
origini racalmutesi, gli chiedeva ragguagli dal Belgio sulle comuni ascendenze.
Chi vi parla è da anni che trascrive pazientemente quei dati
anagrafici sul proprio computer e quindi fu in grado di fornire al prof.
Nalbone un qualche ausilio. Da lì un sodalizio che per il momento è sfociato
nel volume sulla “Numerazione delle anime di Racalmuto del 1593”. E’ un
sodalizio fra opposti. Fatte le debite proporzioni - almeno per quanto mi
riguarda - si può mutuare per questo
connubio quello che scrive, in premessa ad un libro del Titone, il celebre
storico Massimo Ganci - che ci onora qui della sulla prestigiosa presenza
- :
«Personalmente non sono
ideologicamente vicino a Virgilio Titone; direi di essere anzi agli antipodi
delle sue conclusioni, soprattutto dal punto di vista sociologico e
politologico..» [da Introduzione a SCRITTI EDITI ED INEDITI 1924-1985 di
Virgilio Titone - Palermo 1985, pag. 5].
Eppure questa assenza totale di affinità culturale non ha impedito che il prof. Nalbone ed io
potessimo cimentarci nella ricognizione documentata della storia del nostro
comune paese d’origine. Come segno esteriore, ci limitiamo a presentare - per il momento - questo lavoro sulla
Racalmuto del Cinquecento.
Il lavoro, che può definirsi storico solo per il suo
contenuto, in effetti è una silloge di ricerche documentarie, nelle quali gli storici di professione
raramente si cimentano, tutti presi con i loro astratti e generalizzanti
teoremi.
Qui - nel volume per ora in bozza dattiloscritta -
s’incontrano e si scontrano la scientifica analisi del radiologo insigne che
vuol trarre da un informe segno opaco la massima significatività per la
diagnosi più precisa e corretta, nulla concedendo alla fantasia, e la
deformazione professionale dell’ex ispettore di banche, reduce da scottanti
operazioni di polizia bancaria (come quella contro Sindona, per intenderci)
tutto proteso ad un inquietante dialogo col Dio ascoso - nell’analisi dei libri
contabili, un tempo, nella investigazione - ora - degli atti parrocchiali e dei
vetusti segni paleografici delle carte su Racalmuto dell’Archivio di Palermo, o
degli archivi ecclesiastici segreti del Vaticano o della Curia Vescovile di
Agrigento.
Le vicende di Racalmuto sono ricostruite con amore, con
passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti
quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura
degli autori paesani.
E’ una Racalmuto vista con occhi eretici e razionali. Uno
almeno dei due autori non crede nella venuta della Madonna del Monte del 1503,
non pensa che vi siano stati tasse per
uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la
deformazione del pur mirabile ed immenso Leonardo Sciascia. Gli autori -
entrambi - sono concordi nel valutare positivamente la presenza del Del
Carretto a Racalmuto. Reputano fucina di cultura clero locale, organizzazione
parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di
chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite. E poi
la vicenda demografica del ‘500 - il secolo della grande peste del 1576, quella
che secondo il Calvese impressionò talmente il Caravaggio nella sua infanzia da
marcarne l’essenza della sua pittura - viene setacciata per una strumentale
analisi del modo di essere, atteggiarsi, convivere, forgiare il sistema fiscale, legarsi alla
chiesa, ed altro, della comunità racalmutese.
Il nostro non è un libro di lettura: è solo materiale di
consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far
storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e
deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la
microstoria locale. Agli altri non interesserà - ma ai racalmutesi sì - sapere
chi erano a quel tempo i “mastri” ed i
“magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano);
come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva
accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del
resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi
era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di
una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di
seguito.
La raccolta che presentiamo ha l’ambizione di costituire una
base per successivi studi e ricerche sulla storia locale. Essa è problematica
come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile -
traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.
Agrigento con il suo Archivio di Stato - nella
speranza che il suo direttore si decida ad aprirlo agli studiosi - custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili
che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608;
n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il
tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta
qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un
paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto si
sta polverizzando nell’Archivio di Stato di Agrigento - sbarrato l’anno scorso
agli studiosi dalla protervia burocratica.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la
suggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte,
sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e
chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita
economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo
espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di
pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non
rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi.
Ed i politici, oggi, anche quelli che sono qui presenti,
potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a prestiti pubblici
comunali - la mia passata professionalità in questo campo mi rende in ciò particolarmente avvertito -
volti a finanziare ricerche d’archivio, scuole di paleografia - giacché leggere
quei documenti non è da tutti - , ad
incentivi economici; a borse di studio etc.
[se possibile
proiettare documenti antichi]
Con questo libro, intendiamo innanzi tutto, dunque, rivolgere
un invito pressante, provocare, sollecitare, avviare processi nuovi di ricerca
storica su Racalmuto e per quanto ci è stato possibile distruggere tante
infondate credenze.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che
si produsse in una smisurata patacca a proposito della Racalmuto araba; egli
spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una
«tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». Così l’imbroglio storico
diventa solo «spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia» che
spinge a «non resistere al piacere di riportare un documento falso sapendo che
è falso.» E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una
sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli
anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e
un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose
vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro
l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono
nati, nel riverbero del passato sulle
cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così «bacuccu» da aver
bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo
passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più
pulsante?
Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie
- ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione
storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra
Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino,
ai tanti esimi sacerdoti che semper
sacerdos secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese
volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza
nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa
silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi,
il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo
dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto -
invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie
agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali;
con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo
genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la
figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli
arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano le cui spoglie
appetisce l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias
e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella,
un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare
nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
Per il resto - ed è tanto - non posso che rinviare alla
consultazione dell’ampio dattiloscritto.
I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1986 tornarono a
gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con
i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un
anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente
tanti e perniciosi da rendere irritante la lettura di quel volumetto. Altro che
spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati.
Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra,
invero, lo voleva pudico “con un uomo
non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico
guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti.
Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della
borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha fotografato
interessanti documenti dei primi anni del ‘Settecento ove figura il timbro a
secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo.
Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso,
nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una
guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me
racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che
l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra
ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.
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