giovedì 30 gennaio 2014



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Gentilissimi Compaesani,

ringrazio innanzi tutto il signor Sindaco prof. Petrotto per avermi invitato a partecipare a questa cerimonia celebrativa di due grandi paesani distintisi nel campo medico.

Il mio contributo è di natura sussidiaria e tende a fornire uno squarcio sulla storia di  Racalmuto, terra in cui i due illustri professori Casuccio e Nalbone affondano le loro scaturigini familiari.

 Nei registri parrocchiali della Matrice - una mirabile miniera di dati, sinora sostanzialmente negletta - riscontro già agli albori di quella documentazione [risalenti al 1564 e cioè al tempo della prima attuazione della Controriforma Tridentina] ben undici ceppi familiari con il cognome “Casuccio”, in grafia più o meno corretta.

Sono tutti appartenenti alla buona borghesia del luogo - il prof. Ganci me lo consentirà - e portano spesso un doppio cognome che si rifà nientemeno ai DORIA.

I “Casuccio“ oggi possono vantare veri e propri nobili lombi, e sono i soli a Racalmuto.

Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli di Dante e quelli della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino Doria di Palermo del tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri della celeberrima prosapia -  possono essere considerati nobili.

[possibilmente fare proiettare questo prospetto]


 

[PROSPETTO n.° 1]

Cognome
Nome
Coniuge
1
Casuccia
Francesco
Maruzza
2
Casuccia
Gioseppe
Bastiana
3
Casuccia
Jacobo
Ioannella
4
Casuchia
Joanni
Rosa
5
Casuccia
Michele
Beatrice
6
Casuccia
Nardo
Minichella
7
Casuccio
Petro
Cartherina
8
Casuccia
Salvaturi
Juannella
9
Casuccia
Silvestro
Angela
10
Casuchia
Simuni
Contissa
11
Casucci
Vincenzo
Betta

 

Comprovano il doppio cognome questi atti parrocchiali:

10
9
1585
Geronimo
1
Antoni
Gulpi
Agata
Casuchia Doria Joanni

 

24
9
1586
Leonardo
1
Vincenzo
Parla
Solemia
Cimbardo cl. Angilo
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.

 

8
7
1585
Jannuccio
Nicolao
Antonuccio quodam
Angila
Fuca'
Agata
Gasparo quondam
Betta
Casucia Doria Giovanni

 

 

 

4
1591
Maruzza
2
Antonino
Muriali
Francesca
Doria Jo:
4
1591
Santo
1
Antonino
Vento
Paola
Doria Jo:

 

10
6
1591
Jacopo
1
Francesco
Rizzo
Vittoria
Casuccia Doria Jo:

 

 

1.8.1616
CASUCCIO DORIA
FILIPPA

 


 

 

 

*  *  * 

 

Quanto al prof. Giuseppe Nalbone

sono stati proprio gli atti della Matrice a farci incontrare, a dire il vero non molto tempo fa: appena tre anni addietro.

Entrambi eravamo già in quiescenza da professioni completamente aliene rispetto alla ricerca storica: scienziato della medicina lui; atipico ispettore della Banca d’Italia, chi parla.

I vecchi registri della Matrice sono stati l’oggetto e l’occasione del nostro incontro. Incidentale era stato l’interesse del Nalbone verso quei lisi quinterni parrocchiali. Un suo lontano parente suo omonimo, di origini racalmutesi, gli chiedeva ragguagli dal Belgio sulle comuni ascendenze.

Chi vi parla è da anni che trascrive pazientemente quei dati anagrafici sul proprio computer e quindi fu in grado di fornire al prof. Nalbone un qualche ausilio. Da lì un sodalizio che per il momento è sfociato nel volume sulla “Numerazione delle anime di Racalmuto del 1593”. E’ un sodalizio fra opposti. Fatte le debite proporzioni - almeno per quanto mi riguarda  - si può mutuare per questo connubio quello che scrive, in premessa ad un libro del Titone, il celebre storico Massimo Ganci - che ci onora qui della sulla prestigiosa presenza -  :

«Personalmente non sono ideologicamente vicino a Virgilio Titone; direi di essere anzi agli antipodi delle sue conclusioni, soprattutto dal punto di vista sociologico e politologico..» [da Introduzione  a SCRITTI EDITI ED INEDITI 1924-1985 di Virgilio Titone - Palermo 1985, pag. 5].

Eppure questa assenza totale di affinità culturale  non ha impedito che il prof. Nalbone ed io potessimo cimentarci nella ricognizione documentata della storia del nostro comune paese d’origine. Come segno esteriore, ci limitiamo a presentare  - per il momento - questo lavoro sulla Racalmuto del Cinquecento.

Il lavoro, che può definirsi storico solo per il suo contenuto, in effetti è una silloge di ricerche documentarie,  nelle quali gli storici di professione raramente si cimentano, tutti presi con i loro astratti e generalizzanti teoremi.

Qui - nel volume per ora in bozza dattiloscritta - s’incontrano e si scontrano la scientifica analisi del radiologo insigne che vuol trarre da un informe segno opaco la massima significatività per la diagnosi più precisa e corretta, nulla concedendo alla fantasia, e la deformazione professionale dell’ex ispettore di banche, reduce da scottanti operazioni di polizia bancaria (come quella contro Sindona, per intenderci) tutto proteso ad un inquietante dialogo col Dio ascoso - nell’analisi dei libri contabili, un tempo, nella investigazione - ora - degli atti parrocchiali e dei vetusti segni paleografici delle carte su Racalmuto dell’Archivio di Palermo, o degli archivi ecclesiastici segreti del Vaticano o della Curia Vescovile di Agrigento.

Le vicende di Racalmuto sono ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani. 

E’ una Racalmuto vista con occhi eretici e razionali. Uno almeno dei due autori non crede nella venuta della Madonna del Monte del 1503, non pensa che vi siano stati tasse  per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la deformazione del pur mirabile ed immenso Leonardo Sciascia. Gli autori - entrambi - sono concordi nel valutare positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputano fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite. E poi la vicenda demografica del ‘500 - il secolo della grande peste del 1576, quella che secondo il Calvese impressionò talmente il Caravaggio nella sua infanzia da marcarne l’essenza della sua pittura - viene setacciata per una strumentale analisi del modo di essere, atteggiarsi, convivere,  forgiare il sistema fiscale, legarsi alla chiesa, ed altro, della comunità racalmutese.

Il nostro non è un libro di lettura: è solo materiale di consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la microstoria locale. Agli altri non interesserà - ma ai racalmutesi sì - sapere chi erano a quel tempo i “mastri” ed  i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.

La raccolta che presentiamo ha l’ambizione di costituire una base per successivi studi e ricerche sulla storia locale. Essa è problematica come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.

Agrigento con il suo Archivio di Stato - nella speranza che il suo direttore si decida ad aprirlo agli studiosi -   custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.

Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto si sta polverizzando nell’Archivio di Stato di Agrigento - sbarrato l’anno scorso agli studiosi dalla protervia burocratica.

La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la suggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi.

Ed i politici, oggi, anche quelli che sono qui presenti, potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a prestiti pubblici comunali - la mia passata professionalità in questo campo  mi rende in ciò particolarmente avvertito - volti a finanziare ricerche d’archivio, scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti  - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.

 

[se possibile proiettare documenti antichi]

 

Con questo libro, intendiamo innanzi tutto, dunque, rivolgere un invito pressante, provocare, sollecitare, avviare processi nuovi di ricerca storica su Racalmuto e per quanto ci è stato possibile distruggere tante infondate credenze.

Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smisurata patacca a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». Così l’imbroglio storico diventa solo «spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia» che spinge a «non resistere al piacere di riportare un documento falso sapendo che è falso.» E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero  del passato sulle cose presenti.»

Ma davvero il popolo di Racalmuto è così «bacuccu» da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?

Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdos secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.

Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano le cui spoglie appetisce l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias  e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.

Per il resto - ed è tanto - non posso che rinviare alla consultazione dell’ampio dattiloscritto.

I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1986 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero,  lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo.  In ogni caso l’uomo invita  al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha fotografato interessanti documenti dei primi anni del ‘Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.

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