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Contra Omnia
Racalmuto
...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non
comprendo.
lunedì 11 febbraio 2013
GIBILLINI
Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua
dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area
urbana e quella villica. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo,
quello sopravvissuto al figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro
recita:
«Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens
etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di
Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci,
mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e
mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli
dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme
cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito,
delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è
posto in menzo delli feghi nominati:
1.
delli Gibillini e feghi
2.
delli Cometi;
3.
e fegho delli Bigini;
4.
del fegho di Zalora;
5.
del fegho di Scintilìa;
6.
del stato e ducato delli Grotti;
7.
del fegho e principato di Campofranco;
8.
e fegho della Ciumicìa
e altri confini quale olim tennero e possiderono la quondam
Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e Chiaramonte e doppo Mattheo del
Carretto come veri signori e padroni ed al presente e de presenti parte di
detto fegho come sopra situato e confinato lo tiene e tossiede l’illustre don
geronimo del Carretto e Branciforte come vero signore e padrone per la forma
dell’antichi privileggij et altre scritture stante che il remanente si ritrova
licet nulliter et indebité dismembrato e diviso da detto fegho di Racalmuto
come il tutto fù ed è la verità notorio e fama publica et nihilominus dicant
testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum
ad intensionem producentis et- - -
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc.
qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu
Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella,
Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e Culmitelli sono delli membri e
pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto
fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità,
notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt,
viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et
- - - ».
Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla
contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante
tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la
contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di
quella terra feudale.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile
1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di
pubblicare:
«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi
eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al
feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto
conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed
altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue
spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto
la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché
il castello sarà ricuperato come sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge
sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non
contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani,
si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re
Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.
Prosegue Giunta «queste premesse spiegano
il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri,
400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con
trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da
ottenere festose accoglienze da parte
dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare
della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre
terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e
Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del
1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa
chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di
Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con
l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso”
alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza,
quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere
il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa
tagliata a Palermo nel giugno del 1392,
nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio
militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392
(registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 221) ; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile
1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato
consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza
vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal
C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri
ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale
Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento,
avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397
fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni.
Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia.
Il feudo pervenne
successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi,
passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile
1493 more francorum, per passare quindi
a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del
padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in
dote i feudi di Calastuppa, Milici,
Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta
dall'investitura presa dalle figlie
Giovanna e Maria il 22 settembre 1554
(R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando
De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita
e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo
investiture libro 1560 f. 271).
Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26
dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella
(Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .
Beatrice De Marino e Sances
de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la
morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta
Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f.
15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a
favore di Carlo di Aragona de Marinis,
P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII
Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a
favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria,
III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615,
per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote
furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da
Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu
quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo
III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22,
f. 283 retro).
Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con
investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo
padre (Cancelleria , libro del 1624-25,
f. 214); viene quindi reinvestito il 29
agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II
(Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina morì a Naro il 24 novembre 1667 come risulta da fede rilasciata
dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di
Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668 (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f.
89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9
settembre 1686 dei due terzi, per la
morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro
Invest. 1686-89, f. 17).
Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come
primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come rinunziatario dell'usufrutto da parte di
Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di
Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il
3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto
(Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).
Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di
Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio
suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori
investiture o riconoscimenti.
Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino
de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini. Comunque nel successivo volume IX - quadro
1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI
- Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì
di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito
ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro
Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di
Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue
onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e
mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in
capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli
atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D.
Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu
confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già
effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3
foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809
per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti
di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria,
libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco
ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902.
L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
•
* *
Le vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione
del Castelluccio a Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo
decennio del XIV secolo, la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi
era il fratello di Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu
Cannuni”. Perché due fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in
territori così contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci
dal Fazello e dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di
Gibillini (da Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera
di Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con
Grotte; dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della
potente famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro
tracollo, alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di
tagliar la testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla
famiglia Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei
Marino, prima, e Giardina, poi. Il feudo di Racalmuto viene redento da Matteo
del Carretto con astuzie diplomatiche, quanto attendibili Dio solo sa.
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