RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri periodizzanti
L’oggetto
della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale,
organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra
agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una
profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda
l’istituto podestarile.
Per
convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non
è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la
vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in
coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa
sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia,
ormai sterminata, sul fascismo.
Sono
criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali
e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce
è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista
definendola «funesto regime che è stato
una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]),
non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve
svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la
“rivoluzione fascista”.
Per
l’Ercole ([2]),
ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla
“marcia su Roma” al discorso del 3
gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle
“corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista -
dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23
marzo-28 ottobre 1922.
Ma
nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un
succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito
del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il
vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il
momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
“insurrezionale”, ‘violenta’, che non è
da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per
l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la
reiterata minaccia della cosiddetta seconda
ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei
gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione
Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe
stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed
effimeri» ([3]).
Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione
periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura
antifascista del dopo guerra. ([4])
In
campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una
svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre
1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto
allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni
sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per
il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il
dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si
sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])
In
campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo
cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina
ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi
del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag.
2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime
reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né
conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella
persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 -
cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è
persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo
sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una
ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri
decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])
Quanto
alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del
Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il
diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della
società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito
del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile
distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36,
1936-39, 1939-43.» ([8])
Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo
nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento
intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936
viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo
fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il
latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte
intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il
Lupo, ([9]) un
affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del
fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve)
trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele
Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel
primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di
Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra
nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si
definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in
periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e
verticale dove le autonomie e i
conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del
passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi
incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal
1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima
impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento
di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
* * *
Il
segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di
microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti.
Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto
significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica
storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», “sosta
estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione
istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto
qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926
il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini
sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno
della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione
dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del
regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata,
istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati
dei datori di lavoro e dei lavoratori ad
organi indiretti della pubblica
amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del
tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno
sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([10])
L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n.
1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni
del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro
per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che
consentiva ad un proprio capo-popolo uno
scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra
conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile
territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna
dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per
lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta
Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per
le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure
no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929
e nel 1934.
* * *
Il
1931 viene assunto come dies ad quem
scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della
legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al
1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e
dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo
dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per
impieghi pubblici di qualsiasi genere o
per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per
le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma
subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia
dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il
contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag.
2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario
del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in
effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica
dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto.
Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’
- come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva
tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano
locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha
dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio
arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire
‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ([11]).
Le
cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate
rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.
Il
24 gennaio 1924 ([12]),
con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei
sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per
un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il
18 maggio 1936 ([13]).
Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura,
praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese
sono in effetti cinque:
1°)
la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°)
il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo
podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°)
il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°)
la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata
in guerra nel 1940;
5°)
il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.([14])
Racalmuto prefascista
Dal
1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato
da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare
titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio
baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di
Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il
Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I
Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto
e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale
del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei
Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio,
dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero
economicamente e sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella
gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi
che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque
gli ottimati locali, i cosiddetti “galantuomini”, con la loro boria di nuovi
ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro
risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi
definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre
peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a
dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà -
trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto
si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale
segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che
hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a
Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino
Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi
Agrigento) il dott. Raffaele Rocco ([15])
partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di
miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in
«Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. ([16])
Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla “marcia su Roma”: avvedutezza degli
zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal
socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle
famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose
sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta costituita a
Racalmuto il 26 dicembre 1926. ([17])
Racalmuto
si affaccia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale
del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto -
Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett.
4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla
sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani.
Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo
greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio
(bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale:
Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao
Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame:
(negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio.
E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli
(negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.)
Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè
Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè
Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono
Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco -
Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore -
Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona
cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo -
Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu
Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci
Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli -
Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè
Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore;
Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello
Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode:
(negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone
Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè
Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio
d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore -
Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri:
Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari:
(fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca
ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a
vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo
Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti:
Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano
Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il
quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63 esercenti di miniere di zolfo (per converso
solo 4 esercenti di miniere di salgemma)
attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5
grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste
alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un
pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di
sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro
effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo:
negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai
ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la
serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della
rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente
racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati;
e poi tanti (troppi) medici (ma molti
sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un
orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il
quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo
- che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben
delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i
mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo
titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico
prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi
Pirandello ne I vecchi e i giovani ([18]
accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi
include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla
giustizia: miseranda la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di
Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per
testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse
un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione
che Nino Savarese ([19])
fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento
fascista. «I fazzoletti di seta
sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con
lo scricchiolìo, il berretto sulle
ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi
della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di
campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche
di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe
nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici,
quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione
domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in
vita e con le tasche piene di danaro ben
guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre,
c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una
certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove
avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli
abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli
occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...]
L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere,
in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro
viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi
si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro
esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono,
che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di
nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le
linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel
punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento
innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un
disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di
una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di
preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora
basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi,
le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa
maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del
tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente
come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto
per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena
segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si
arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone.
Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto
al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per
Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore
locale così riferiva alla Giunta per
l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([20]):
«Il contadino di questi luoghi non è un
servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è
ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L.
Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia
Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e
costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in
pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto
quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso
ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente,
sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro
modello i piconieri, anzi con un più
completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo
nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un
odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([21])
Gli
zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo
visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu
domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare
per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. ([22])
Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti
sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura
che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio
moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom.
Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed
i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905
redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti
occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente
inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e
fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi,
vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([23])
Quanto
alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in
fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto,
Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel
1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e
l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali:
Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie
di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale.
Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ([24])
Racalmuto
si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è
quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i
quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo
emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel
periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello
naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello
successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([25])
Rispetto
alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il
seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto
al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto
scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.
Eugenio Napoleone Messana ([26],
uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è
alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive
in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([27])
Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921,
qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce.
Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa
antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna
depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di
una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si
riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a
Racalmuto, in questo passo molto efficace ([28]):
«Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe
borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del
travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente
in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti.
Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché
un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle
parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse
“una strana quanto benefica mancanza
di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la
scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona
salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di
malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine,
l’esilio»
Sui
rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul
Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non
sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un
lavoro di Christopher Duggan ([29])
«L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di
sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in
Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già
fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la
mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo,
altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo
vigore aveva l’istanza rivoluzionaria
degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni
per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti
delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di
restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più
inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da
Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che
erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la
proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori,
insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.
[...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello
stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del
dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire
per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche
il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne
può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione,
internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile
era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine
pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva
essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarrre,
per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da
tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo
accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico
mancando.)» ( [30])
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene
chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla
Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di
incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([31])
la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del
mafioso antifascista.» ([32])
In
altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che
stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del
pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina
il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse
della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa
diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da
un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più
stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di
adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più
balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo,
venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato
sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta
semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno
dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di
odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([33])
A
voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola
(documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°)
in loco l’antidoto al socialismo era
costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già
fascismo”;
3°)
ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)°
“era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al
fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”.
(Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore
Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma,
s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come
si è visto, al fascismo):
5°)
ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante
miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi
puri del fascismo degli ex-nazionalisti;
6°)
degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”;
“ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura
affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario
della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta
vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°)
giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle
sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli
esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed
appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°)
inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°)
l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia
sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°)
vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De
Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°)
è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella
classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro”
aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte
sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere
d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12)
è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al
luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando
il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini
pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta
alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto
ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista
di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da
tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La
Giustizia sociale», di «Riscossa»
e di certi «opuscoli editi dal Comitato
Regionale della Federazione socialista Ligure» .([34])
Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è
laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A
noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([35])
abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([36])
del fascismo e i suoi coevi esaltatori([37]):
non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente
chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non
si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si
siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i
circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista.
Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale,
divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la
supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere
in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di
ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale
nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò
dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una
minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che
avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da
qui «prese le mosse una polemica della
massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste
le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione
fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini
era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo
gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si
raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava
con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci
interventisti, sotto la guida di Filippo
Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre
questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma
tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa
alla biografia di Mussolini» (op. cit.
pag. 226).
Le
vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di
Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella
solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli
agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si
confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era
appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte
alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse
erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore
gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a
33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti
quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo).
Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il
diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo
nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una
qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto
limitata, anche a credere a quello
storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe
limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla
politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ([38])
In
ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto
solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben
diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19
marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato
nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili
alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè
di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a
Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la
professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a
Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana
così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il
notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un
sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che
amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e
persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano
e vi morì». ([39])
Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel
giornaletto locale del maggio 1993 ([40])
« ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia
con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla
fondazione dei fasci di combattimento,
dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per
diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani
a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino
ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il
2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente,
all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti,
antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il
richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve
per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure
d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato.
Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la
risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI.
Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il
24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv.
Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879
(e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via
Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di
Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome
Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del
Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto
al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [41])
Fino
al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la
prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi.
Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto
anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella
richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per
parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si
erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.
Ma
davvero il Pedalino partecipò a quella adunata
tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in
Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio
di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([42])
Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla
di cinquantadue che “giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella
sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”,
ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) ([43])
Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola
astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un
avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale,
finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata
primogenitura politica.
Ma
il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè
aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([44])
bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non
mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come
l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E
questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo
delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze,
almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([45])
Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si
inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento
del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta
manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio
1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i
socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma
(7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la
professione mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San
Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921
la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con
collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la
Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino
totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali
(salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima
della marcia su Roma.»
Ma
che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921?
A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([46]).
«Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa»,
afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale
era in foldo rappresentata dal fatto che
esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella
Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle
organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche
quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di
ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la
direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei
tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella
massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per
l’avvenire».
Sarà
stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato
per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta
che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in
Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro
mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel
senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria
coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto
del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e
dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si
apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma
in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).
Nulla
troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto
che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i
padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale,
di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano
avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto, invero, era troppo in periferia,
persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e
lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per
la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla
Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non
riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i
loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le
sue Cronache economiche e politiche di un
trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una
retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che
«il primo atto concreto dei socialisti
unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla
camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la
scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad
una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna
di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([47])
Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema
del pane” (op. cit. pag. 40 e
segg.) e con quello del 24 febbraio “ed
ora all’opera!” (op. cit. pag.
44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti,
anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921 (op.
cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna
avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è
pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano
ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici
procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco
anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni
sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro,
i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo
«liberali» (op. cit. pag. 118 e segg.
Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica
nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di
“liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far
propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti
i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con
concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che
asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di
Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa
per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la
porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non
voleva (op. cit. pag. 766 e segg.).
Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert,
a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei
tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per
ampi stralci.
«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le
agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate
hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in
una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da
molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla
crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono
trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il
governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio
appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea
della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da
cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre
il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri
provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri,
alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire
qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli
elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana;
mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri
illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il
quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari
rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole
lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di
Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel
anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio
degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza
contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]
«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i
precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini
capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non
si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione
pubblica? Degli uomini chiamati negli
ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena
considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno
a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da
farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile
che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa
quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe
fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale
probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?
« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una
qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male
fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.
« [ ...]
« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi
insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale.
Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori.
Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e
fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi
rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili
come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso
primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso
il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai
direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10
lire e così via. [...]
«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e
non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando
gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro
errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare
parzialmente la propria strada. [...]
«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le
vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio,
di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno
larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni
fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di
dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito
fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non
impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice»
immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on.
Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito
fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.
«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci
correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere
possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento
fascista.
«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica
opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza
parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese.
Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro
opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura.
Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un
parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a
gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la
guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in
cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche
altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se
stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole
ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla
follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie
legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo.
Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la
nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi
vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di
pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista.
Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal
brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della
vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro
grati.
«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione
immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei
principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida
della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza
critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati
di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità
costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso
le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di
giornali avversari ed infidi.
«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla
tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di
fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire
proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario
di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e
demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata;
vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi
costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio
dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo,
quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente
e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante
il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del
paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La
costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre
quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia
e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora
decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali,
alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali
sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma
che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere
dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa
derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare
l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi
raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se
essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla
vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista.
In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del
Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva
accordato loro «causa vinta» «contro ai
casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi
sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo
citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che
non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit.
pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono
arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si
sapesse aliunde della capitolazione
del re di fronte agli ultimatum di
Mussolini del 28 ottobre. ([48]).
Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista?
Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà
politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III,
improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi
militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate
risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del
fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel
che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi
sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia,
ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e
noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse
neppure percepita.
Attorno
al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi
finanziaria del settore zolfifero.
Nel
settembre del 1922 una commissione degli
esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al
fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per
120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un
disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma
il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il
decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme
parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.
La
crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata
micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si
era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore
era obbligato di consegnare il minerale
estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30
aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di
zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e
si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si
era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo.
Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di
togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata
vendita della nuova produzione. ([49])
Einaudi
era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag.
887) - si arrangi. Può darsi che il
modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione
con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’
accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio,
quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo
stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il
governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A
chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il
governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio
rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai
siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci
ha messo bocca e non osa metterci bocca,
per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi,
in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo,
se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la
responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se aveva
un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di
fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe
tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla
Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e
lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte
quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava
unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»
Quel
numero del Corriere della Sera sarà
arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore.
Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli
esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al
potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo
con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con
timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta
politica!
Lo
storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti
antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando
storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A
Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il
fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero
respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a
bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di
già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione
contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le
notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al
circolo degli Amici. Qualche do’
esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto
venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma
la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il
biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario
nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a
chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava,
specie in Sicilia.
Per il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si
iniziava una Rivoluzione; ma è da
credere allo stesso Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924
precisava: «all’indomani della
Rivoluzione, io mi trovai di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità
o innestare la Rivoluzione nel tronco,
che io non ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la
Costituzione o dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la
Costituzione. Questo vi spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi
spiega la serie dei successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un
altro discorso al Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben
raffigurato questo processo di «normalizzazione costituzionale» del primo
fascismo: «Si trattava di riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di
rimettere grado a grado ... nell’alveo della legalità la vasta fiumana che
aveva rovesciato gli argini. [...] Chiamai al governo uomini di tutti i
partiti. Riapersi il Parlamento, e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni
poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo
degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la
proroga ... Vi rinunciai. Non avevo proposte leggi eccezionali e mi proponevo di
fare un altro passo innanzi
[1]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal
1871 al 1915, Bari 1977, pag. VIII. Una
“parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il
Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”. Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo
napoletano affermava che «non si poteva
aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul
quale formulava il seguente giudizio: «esso non è stato un infatuamento o un
giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni
animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione.
Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non
lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza
e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il
sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e
non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi
sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di
trasformazione.» [cit. Da Antonio
Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg.
264-265]. Risale al maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
attribuibile al Croce, in risposta al
gentiliano Manifesto degli intellettuali
fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità
ad oggi - pag. 2174].
[2]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista
- Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista” cfr. pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg.
155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.
Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo. L’Ercole adotta la terminologia dei “due
tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano.
Mussolini, infatti, in Gerarchia del
1925, p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44)
distingue tra primo e Secondo tempo.
Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un
ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota
confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni
del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo,
tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla
storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda
(Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che
il fascismo, con con l’adesione dei
“nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,
«si arricchì delle prime
personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e
prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale.»
[5])
Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da
pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio
1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni
possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un
giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle
opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta,
come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda
ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri
termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò
contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della
collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin
dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni
politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti si accorsero, impotenti, del guoco di
Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario,
legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro
gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a
tutto’.»
[7])
Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno
precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu
piuttosto, come talune testimonianze asserirono
e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto
dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto
Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione avanzata
C. Silvestri, Matteotti,
Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.
e confutata da L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e
nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967,
pp. 474-79], che esso costituì un
intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del
fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio
sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non
lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle
vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la
strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione
da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di
governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione dell’ordinamento
costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un disegno coerente
ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a tentoni e con ampi
margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo che Mussolini espresse
sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era
nella logica delle cose ...»
[9]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo
(1918-1942) in Storia
d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -
La Sicilia - Einaudi 1987
- pagg. 380- 482.
[10]) Franco Catalano - L’Italia dalla dittatura alla democrazia
1919-1949, Feltrinelli 1970 - vol. I pag. 117.
[11]) In nostre ricerche
all’Archivio Centrale di Stato abbiamo, sì, trovato fascicoli su tale
atteggiamento del fascismo riguardo ad alcune località dell’agrigentino, ma non
investivano in alcun modo Racalmuto.
[13]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Affari generali - Podestà e rettorati provinciali -
busta 51.
[15]) Il
prefetto dott. Raffaele Rocco non era di nomina fascista; proveniente da Grosseto
fu prefetto di Girgenti dal 18 giugno 1922 al 16 marzo 1923, data in cui viene
collocato a disposizion (cfr. Mario
Missori - Governi, alte cariche dello
Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma 1989 -
pag. 304.)
[19]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in
Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag.
254 e segg.
[20])
Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa
Agraria sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc.
III, Relazione generale, Roma 1885,
pp. 661-662.
[22])
Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza - 1930,
busta 310 fasc. C1 - Relazione del prefetto Miglio del 16 luglio 1931.
[23])
Cit. in S. Bosco, Il
proletariato a Favara. Lotte scioperi ed altre manifestazioni dal 1860 al 1960,
Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa. S.d., p. 75.
[25])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX -
Sciascia Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[27]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[28]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[29]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di Oxford
ed allievo di Denis Mack Smith»
[30]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[31])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[32]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[33]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
[34]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[38]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[41])
Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta
n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[47]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi
Editore 1963 - pag. 14. (Articolo sul
Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[48]) Per la cronaca puntuale
dei fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio
Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[49])
Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi con il siciliano ing. Raverta sul Corriere
della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito
dell’articolo del 10 settembre (op. cit.
pag. 824 e segg.)
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