Racalmuto e le sue vicende storiche
di Calogero Taverna
Una nota a
mo’ di premessa
Questa vuol essere una storia veridica su Racalmuto, una
storia che presuppone ma non esplicita l’enorme quantità di documenti
consultati presso i vari archivi di Roma, Palermo Agrigento e Racalmuto, per
non parlare della marea di letture più o meno storiche che attengono a questo
paese dell’agrigentino. Il risultato è stravolgente di ciò che agli occhi di
scrive sa ormai di stucchevole mistificazione, di aporie letterarie, di voglie
che traducono il desiderio di eventi memorabili in indubitabili realtà storiche. Abbiamo così
miti di monaci dal “tenace concetto”, di preti in decrepita età presi da
“alumbramiento” erotico, di frati omicidi, di fantasiosi eroi saraceni, di allocazione
delle misere casupole racalmutesi in presunte località amene, di frati omicidi,
di contesse in foia erotica, di pittori sublimi e di medici d’alta scienza e
via discorrendo.
A proposito dei Del Carretto, abbiamo già scritto e qui
ripetiamo:
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un
avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da
costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante
titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento
secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita del
rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo
quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un
libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono assegnati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su
Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui
datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni novanta del
secolo scorso chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi
di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in
quell’investitura, scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente
trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli
nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i
limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti:
difficile credere a quanto vi si afferma nei confronti di Giovanni, figlio del
cadetto Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove si scorge la
rapacità di codesti esattori delle imposte dei Martino, quei Martino che
risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che
piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali
esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra
storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari
storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri
compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il
costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli
archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella
documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi
d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta
canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono -
ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima
di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi
a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con
i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in
“alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove
innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e
Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo di
bassa lega.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora
esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente
policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per
l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo
un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia
di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di
Racalmuto; mancano però l’obiettivo e non riescono a farsi riconoscere il
titolo di marchese che fasullamente in esordio della loro signoria su Racalmuto
avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto
sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri
ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo
pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del
castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Ma ora uno sguardo ai tempi remoti.
Gli
stravolgimenti geologici
Sette milioni di anni fa – qualche secolo in più, qualche
secolo in meno – terminava il lungo processo di prosciugamento marino del
territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo,
le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo
il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra
dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli
autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo
tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale
scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie
dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto
raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era
terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo,
visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni.
Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale
l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui trattasi
di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima
di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un
primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un
cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo
avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto
connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione
pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo
una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono
familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal
terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i
loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati
sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue
quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1)
complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e
Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari
marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale,
zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene,
quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe
seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non
solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario
microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze
della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel
geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di
malefica iella.
Preistoria
racalmutese
Sull’altipiano di
Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre
quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta
prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano,
fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal
XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione
che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli
influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale
e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare
testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che
epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso
teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi
che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la
terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento
di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si
effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava
alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione
tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con
lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde'
di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Quello che
si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al
bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati
dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo
siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo
sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto,
non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione
da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel
solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe
antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga
tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un
gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va
da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in
una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito
da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su
vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879]
furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha,
quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta
anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti
di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un
calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma
di un conno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me
descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei
Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti
d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà
indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà
in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi
ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui
è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la
descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora
portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa -
presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che
le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media
Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo
dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono
tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare
«ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte
Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di
vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione
interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato,
come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.
VERSO
L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare
nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi
racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione,
per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla
cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare
gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo
benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe
per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie,
ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo
punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei
Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal
mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più
sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di
Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni
storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo
geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi
di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio
dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di
immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi
dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco
le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina.
Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano
giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C.,
per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti
greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato
del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche
Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi
dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da
quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I
nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per
trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se
non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della
gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti
negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL
PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo
centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che
poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo
che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli
Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che
avventurarci in malcerte congetture.
In una
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi
fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel
450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei
tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero
però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas,
sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di
Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria
di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine
dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la
locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone,
«violento ed assassino», per Diodoro Siculo.
La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico,
non fu forse neppure avvertita. Non
sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne
a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle
terre.
Dopo il
427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge
Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta
da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa
affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e
lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche
Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano
attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue
sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno
al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per
Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal
giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406
a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas
iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e
potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come
vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle
indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però,
la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I
cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere
d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per
quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di
cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col
dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel
nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville,
ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317
a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente
assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio:
grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via
dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di
vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non
credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero
sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le
monete di cui abbiamo detto sopra.
LA
PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a.
C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e
Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine
e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa
nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264
a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare
alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra
punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i
parenti che si erano stanziati nella vicina polis;
distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni:
verso lo spirare del secolo, Akragas e
la vicina Eraclea Minoa appaiono
saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio
movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000
cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di
approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti
alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a
Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per
mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti
belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo
delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas
cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni
diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a
Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace
per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia
al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria
Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola,
a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex
Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi
di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle
voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte
delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu
trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione
esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una
iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe
di Torremuzza, nel suo "Siciliae et
adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A
pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a
Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»]
poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il Mommsen diede
credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi
volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma
amputandola del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di
nome FUSCO, del tutto ignoto alla
storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al
potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28);
Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu
console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una
famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o
in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino,
prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone,
figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma
si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore
degli scavi e dei Monumenti di Girgenti
ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge
un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto
avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza
si denoma: Mattoni antichi con bolli
relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del
Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella
saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr. Mommsen reduce dal suo
viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli
fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli
dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i
maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in
termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo
racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti
nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi,
con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi
si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate
al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di
sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al
Desseau - i dati epigrafici nei volumi
del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice
menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la
pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe
consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti
a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che
racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e
finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di
rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente,
ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae
sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo
quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva
rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella costruzione di un
sepolcro.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947
in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a
Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così
sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole
quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate,
delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei
cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del
tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono
parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte
in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere
di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che
pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al
IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe
su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una
nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere.
Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro:
Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva
sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il
giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella
caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI
DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo
d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo
d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il
noto sarcofago del Ratto di Proserpina.
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta
del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno
conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra
la data del sarcofago e quella della tegula
studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di
zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e
l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui
ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi
è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad
epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva
l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello
zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in
Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e
l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al
commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si
rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di
ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La
produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi,
subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la
proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente
Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas,
anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con
la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della
Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di
storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per
sepolcro; su di esse si legge la formula ex
praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando
annota: «Salinas in luogo di Commodiani
preferiva leggere Commodi Ant(onini)
pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma
scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e,
divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”,
non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d.
C. ”il praedium in questione”.
I dati archeologici disponibili
permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera
racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica
economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro - pur essendo nulla rimasto delle antiche
miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di
estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace
aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento
nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione
specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera
e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta
al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una
organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà
imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario
titolare dell’officina, dell’attività
industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre
maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione
dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione
dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes
in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del
Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi
stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV
sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della
specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in
contrada Grotticelli, è per tanti
versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare
il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a
questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno
affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle
autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un
centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la
grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai
suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più
generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che
ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche
eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai
fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne
di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente
affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano:
ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non
può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il
profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada
Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per
quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i
vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo
all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e
per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e
VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale
storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi:
qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto
un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché
l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle
conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra
plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra
l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo
cattolico agrigentino - se vi fosse, chi
questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche
conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità
cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da
Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola
di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria
poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento
che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si
diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti
granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere
possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero
romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste
riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto
ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un
buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i
cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va
affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo
documentali, ma neppure archeologiche.
Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di
quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due
e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto
diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto
di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento
delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa
pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro
abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa,
attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I
Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e
sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano
marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che
vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un
patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata
storica. Ma la zona resta pur sempre
ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di
quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali.
(Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la
datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli
imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo
posteriori)
A seguito di una scoperta
archeologica del 1990 in contrada Grotticelli
le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo
sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio
1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona
denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti
umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti
artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non
viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno
vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che
abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero
romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace si troverebbe in
«quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre
personali ricerche ci fanno pensare che
l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra
Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli
storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a
Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta,
tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto
casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a
Racalmuto, ho sentito varie versioni
pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una
vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou,
secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di
tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi,
riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle
monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione.
RACALMUTO,
VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno
fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di
congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili
barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze
archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile
che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro
case e spostarsi altrove.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in
ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio
della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano
ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla
malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non
l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee
in chiese,
«dove i
frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città,
vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la
mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì
gloriosa e fiera.
«Aprirono
con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi
lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non
hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica
di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando
l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per
quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha
l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese
morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata.
Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la
dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai
«Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si
riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio
arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo,
nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non
perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno
al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono
diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una
fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il
cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto
Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta
all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí
primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza
di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti
con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale
si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i
figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città,
batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque
luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di
torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella
del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di
questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli
dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata
custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato
quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da
tutt'oltraggio.»
E’agevole intravedere nel racconto
dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al
riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un
qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi
su questo personaggio. Costui, caduto in
un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie
e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale
peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto
per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e
bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che
parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro
congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei
matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a
danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i
nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà
araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti
loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del
canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è
documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana
ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo
sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del
secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un
governatore di Rahal-Almut a nome
Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro
fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di
una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il
solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di
seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia
'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del
giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana
abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni
messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero.
Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le
spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato
agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le
soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di
Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i
normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e
di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini
o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi
cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia
l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di
Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal
Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178
della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in
Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera;
potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i
pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento;
egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che
conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò
solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di
lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte,
il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno
con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni;
nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in
sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè,
quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto
all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor
muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più
forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio.
Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la
moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla
disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né
volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti,
il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero
certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di
Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati
prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte?
A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza
Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e
disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i
cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il
casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto
predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei
giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire
avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni.
Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa
per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani.
Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E
noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del
Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già
macchiato di molte ignominie, specie in
gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del
suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua
mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti
giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose
militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del
Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a
dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed
attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze
musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le
cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre
cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi
cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i
quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno
una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre
è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della
corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le
fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di
generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in
Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera
giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli
ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica.
Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare
chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a
Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il
giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del
benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al
nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli
l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è
dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani,
Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti
Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci
sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi.
E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di
Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di
Girgenti e Castrogiovanni ci convince
molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute
dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle
terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi
tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del
fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni,
fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio
Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che
dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione
riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava
l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata
all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che
lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò
seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li
signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
I Normanni
a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i
lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio
limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla
schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento.
Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a
Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale.
A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i
papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e
pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato
apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato
religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente
postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti.
«La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti
ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa
ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata
edificata una famosa dinastia».
*
* *
Che cosa ne è stato della Sicilia
musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza
della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della
prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La
tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli
abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche.
Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno
quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un
cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo
arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»
*
* *
Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso
un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il
demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise
di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del
geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli
indigeni saraceni, addetti
all'agricoltura ed abili nelle
colture arboree e negli ortaggi. Per
quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località
GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti
e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei
rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che
dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che
puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA
APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia,
mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro
religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri
greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non
bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava
avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in
termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli
di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le
sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e
quindi di vita quotidiana della gente e
di riconfermare e rendere operativa l'alleanza
fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di
protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.»
Ruggero non ebbe certo tra le sue
preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a
vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato,
cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva
un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni
politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo
uomini di fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto
saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da
Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe
notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo
diocesi di Agrigento, affidata al
vescovo francese Gerlando.
Nell'anno 1092, dopo cinque anni dalla
conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad
Agrigento il novello vescovo Gerlando. I
confini della diocesi sono stati definiti
da Ruggero in persona. Il documento, in latino, può così
tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata).
Questa località divide Agrigento da Butera.
Lungo la costa i confini della
diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i
confini con Mazara, e da qui raggiungono
Corleone, da dove inizia la
delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato
paziente nel seguire lo zig zag dei
confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di
qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO,
un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto stereotipo di uomo
di nobile prosapia, bello, alto,
biondo e di gentile aspetto. Tale
versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la riecheggia con questi tratti descrittivi:
«Gerlando, quel sant'uomo, nato in Besansone, città della Borgogna, di
copiosa dottrina fornito, eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed eloquentissimo, trasse alla fede gran numero di Ebrei e di
Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della Cattedrale
di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi
dal Libellus custodito nello
stesso Archivio Capitolare ove si parla
dell'anima benedetta del beato Gerlando
che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel
Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua
facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto
per quel che ci riguarda - si parlava da
secoli arabo e solo arabo. Forse
residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale
lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava
di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come
ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche
inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una
falsificazione in forma originale, secondo il Collura -
accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici
che officiano in una chiesa
dedicata a S. Maria, a parenti francesi
da beneficiare con diciassette villani,
due paia di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un ROGERIUS che ci
avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus' da riti
demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de
Mortain (nell'originale, invero, Petrus
Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de
Giorgis ma scritto con una gamma greca
nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento
giuridico del PRIVILEGIUM che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio
'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità,
ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'.
Francesi, notai, prebende
ecclesiastiche, canonici, vescovi
probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo
della burocrazia ecclesiastica romana vi
traspare, ed era passato appena un
quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
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