AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il
Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua
morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due
centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter
sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo
andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non
si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare.
Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha
tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale
corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la
incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando le
campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno
alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi
per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci
angustia.
Non
andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna
s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a
dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra),
per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve
riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è
questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno
colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo.
(Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai
racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108
(non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della
colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio
di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni
si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li
represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal
Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla
vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di
fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene
organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed
armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino
con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in
caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La
cattolicissima Spagna esordiva con
spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti
siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo
scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere
dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una
tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo
padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’
DEI DEL CARRETTO
I
Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII.
Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire,
secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale fortezza, forse
una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto
‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e
nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si
dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai
poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine non gloriose
della storia ecclesiastica racalmutese.
Nel 1392
giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e
determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte
storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli
storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune
- scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia.
Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea
Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a
remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.
Ne
approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di
Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio
del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di
quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di
Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si
dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con
un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante
colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà
senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte,
non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.
Antonio
frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui
Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica
i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto.
Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine
gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il riconoscimento della
baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un
negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne
sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di
acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il
vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto
siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese
di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso
de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre
benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind.
1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino
arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella,
predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia
ecclesiastica racalmutese.
GIBILLINI
Feudo,
Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua dimensione era di 705
salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area urbana e quella villica.
Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo, quello sopravvissuto al
figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro recita:
«Item ponit et probare intendit non se tamen
obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in
questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme
setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme
seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni,
trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli
dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra
[134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
1.
delli
Gibillini e feghi
2.
delli
Cometi;
3.
e fegho
delli Bigini;
4.
del fegho
di Zalora;
5.
del fegho
di Scintilìa;
6.
del stato
e ducato delli Grotti;
7.
del fegho
e principato di Campofranco;
8.
e fegho
della Ciumicìa
e altri confini quale olim tennero e possiderono la quondam
Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e Chiaramonte e doppo Mattheo del
Carretto come veri signori e padroni ed al presente e de presenti parte di
detto fegho come sopra situato e confinato lo tiene e tossiede l’illustre don
geronimo del Carretto e Branciforte come vero signore e padrone per la forma
dell’antichi privileggij et altre scritture stante che il remanente si ritrova
licet nulliter et indebité dismembrato e diviso da detto fegho di Racalmuto
come il tutto fù ed è la verità notorio e fama publica et nihilominus dicant
testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum
ad intensionem producentis et - - -
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc.
qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu
Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella,
Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e Culmitelli sono delli membri e
pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto
fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità,
notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt,
viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et
- - - ».
Emerge
come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per
Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi
denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che
forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.
Il primo
accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ; il diplomatista così
sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
«Il Re concede al
milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu
[feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme
a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il
detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il
detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di
emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge
sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti
né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si
rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re
Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.
Prosegue Giunta «queste premesse
spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100
cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò
“con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da
ottenere festose accoglienze da parte
dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare
della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre
terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e
Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a riconciliarsi
con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in
favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di
Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con
l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso”
alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza,
quella che ora è denominata Castelluccio.
L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello
che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata
a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure
francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi,
il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel
libro 1392 a foglio 221) ; col secondo
diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti
i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte,
dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto
il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad
opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica,
il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento,
avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397
fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni.
Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.
Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio,
forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì
l’investitura il 1° aprile 1493 more
francorum, per passare quindi a
Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del
padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di
Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il
22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede
Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con
investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro
Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f.
271).
Maria De
Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e
refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII
Indiz. f.479) .
Beatrice
De Marino e Sances de Luna s'investì di
due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo
marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara
(Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure
un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di
Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz.,
f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di
Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. ,
f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego
Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da
Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice
suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608
(Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in
data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono
di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).
Subentra -
sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio
1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria ,
libro del 1624-25, f. 214); viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666
per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro
Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina
morì a Naro il 24 novembre 1667
come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego
Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì
dei due terzi il 7 ottobre 1668
(Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi
Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686 dei due terzi, per la morte e quale figlio
primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).
Diego
Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di
Luigi Gerardo suddetto, nonché come
rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli
atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738
(Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio
Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come
primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest.
1787-89, f. 25).
Diego
Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio
1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria
vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non
ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma a
questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue
bene le vicende feudali di Gibillini.
Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta:
“onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463,
foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di
Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come
figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA
(Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di
Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue
onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e
mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in
capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli
atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D.
Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu
confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già
effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3
foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809
per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti
di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria,
libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco
ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902.
L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
•
* *
Le vaghe
fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a Manfredi
Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo, la
stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di Federico
II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu Cannuni”. Perché due fratelli abbiano
deciso di erigere due castelli diversi in territori così contigui, resta un
mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e dall’Inveges - è
fallace. Quello che è certo che sia il feudo di Gibillini (da Sant’Anna al
Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di Gibillini), sia il
feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte; dalla Montagna al
Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente famiglia
chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo, alla fine
del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la testa ad
Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia Moncada, ma
per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino, prima, e Giardina,
poi. Il feudo di Racalmuto viene redento da Matteo del Carretto con astuzie
diplomatiche, quanto attendibili Dio solo sa.
Il feudo
di Racalmuto
Le contrade che, grosso modo costituivano, il feudo di
Racalmuto vero e proprio, sono così riepilogabili:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
|||||
1
|
Cava
|
Racalmuto
|
==
|
|
|
|||||
2
|
Fico (o Fontana della Fico)
|
Racalmuto
|
Fico
|
43
|
31
|
|||||
3
|
Malati
|
Racalmuto
|
Malati
|
70
|
47
|
|||||
4
|
Padre Eterno
|
Racalmuto
|
Padre Eterno
|
85
|
18
|
|||||
5
|
Pernici
|
Racalmuto
|
Pernice
|
90
|
3
|
|||||
6
|
Petra dell'Oglio
|
Racalmuto
|
Pietra dell'Olio
|
94
|
22
|
|||||
7
|
Rina
|
Racalmuto
|
Arena
|
6
|
17
|
|||||
8
|
Rocca
|
Racalmuto
|
|
|
|
|||||
9
|
San Gregorio
|
Racalmuto
|
San Gregorio
|
121
|
31
|
|||||
10
|
Scacci
|
Racalmuto
|
Scaccia
|
125
|
47, 66
|
|||||
11
|
Zaccanello
|
Racalmuto
|
Zaccanello
|
143
|
63
|
|||||
12
|
Fico Amara
|
Racalmuto (confinante con le terre dello Stato di Racalmuto e
con il fego dello Chiuppo)
|
Fico Amara
|
44
|
75
|
|||||
13
|
Cuti
|
Racalmuto (confinanti con li terri dello stato di Racalmuto)
|
Cute
|
35
|
67
|
|||||
14
|
Bovo
|
Racalmuto (fego)
|
Bove
|
12
|
41,42,43
|
|||||
15
|
Canalotto
|
Racalmuto (fego)
|
Canalotto
|
15
|
45
|
|||||
16
|
Cannatuni
|
Racalmuto (fego)
|
Cannatone
|
16
|
1
|
|||||
17
|
Carcarazzo
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
18
|
Carmine
|
Racalmuto (fego)
|
Carmelo
|
19
|
42,44,45
|
|||||
19
|
Casa Murata
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
20
|
Casali Vecchio
|
Racalmuto (fego)
|
Casalvecchio
|
21
|
47,48
|
|||||
21
|
Colmitella
|
Racalmuto (fego)
|
Culmitella
|
34
|
64
|
|||||
22
|
Cortigliazzo
|
Racalmuto (fego)
|
|
|
|
|||||
23
|
Difisa
|
Racalmuto (fego)
|
Vallone della Difesa
|
|||||||
24
|
Donnaphali (o Donnagali o
Donnaxhala)
|
Racalmuto (fego)
|
Donna Fara
|
37
|
2,3
|
|||||
25
|
Garamoli
|
Racalmuto (fego)
|
Garamoli
|
52
|
60,61,69
|
|||||
26
|
Gazzella
|
Racalmuto (fego)
|
Gazzella
|
54
|
57,59
|
|||||
27
|
Jacuzzo
|
Racalmuto (fego)
|
Jacuzzo
|
64
|
4
|
|||||
28
|
Judio
|
Racalmuto (fego)
|
Giudeo
|
58
|
46
|
|||||
29
|
Laco
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
30
|
Manchi
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
31
|
Marcatelo
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
32
|
Marcianti
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
33
|
Marzafanara (o Marzo Fanara)
|
Racalmuto (fego)
|
Fanara
|
40
|
57, 58, 60
|
|||||
34
|
Menz'Arata (o Mazzarati)
|
Racalmuto (fego)
|
Mezzarati
|
78
|
65,66,67
|
|||||
35
|
Montagna
|
Racalmuto (fego)
|
Montagna
|
80
|
41,42
|
|||||
36
|
Nina
|
Racalmuto (fego)
|
Vecchia Nina
|
138
|
71, 72
|
|||||
37
|
Nuci
|
Racalmuto (fego)
|
Noce
|
82
|
68,70,71,75
|
|||||
38
|
Petranella
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
39
|
Pidocchio
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
40
|
Pini di Zicari
|
Racalmuto (fego)
|
Piedi di Zichi
|
92
|
44
|
|||||
41
|
Pinnavaria
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
42
|
Rocca Russa
|
Racalmuto (fego)
|
Rocca Rossa
|
108
|
59
|
|||||
43
|
Rovetto
|
Racalmuto (fego)
|
Roveto
|
11
|
46
|
|||||
44
|
San Giuliano
|
Racalmuto (fego)
|
San Giuliano
|
120
|
21
|
|||||
45
|
Santa Domenica
|
Racalmuto (fego)
|
|
|
|
|||||
46
|
Saracino
|
Racalmuto (fego)
|
Saracino
|
124
|
21
|
|||||
47
|
Savuco
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
48
|
Scala
|
Racalmuto (fego)
|
Scala
|
126
|
62
|
|||||
49
|
Scavo Morto
|
Racalmuto (fego)
|
Arena
|
6
|
17
|
|||||
50
|
Scifitello
|
Racalmuto (fego)
|
Scifi di S. Bernardo (?)
|
127
|
25
|
|||||
51
|
Serrone
|
Rcalmuto (fego)
|
Serone
|
28
|
4,46,62
|
|||||
52
|
Stazzone
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
53
|
Surfara
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
54
|
Troiana
|
Racalmuto (fego)
|
Troiana
|
133
|
18
|
|||||
55
|
Turri di Barba
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|
|
|||||
56
|
Zubio
|
Racalmuto (fego)
|
Zubbio
|
144
|
33
|
|||||
57
|
Granci
|
Racalmuto (fego) confinante con 'finaita della Scintilia)
|
Granci
|
59
|
68,69
|
|||||
58
|
Carcia
|
Racalmuto (fego) confinante con le terre dello stato
|
==
|
|
|
|||||
59
|
Granci
|
Racalmuto (fego) nel fego della Scintilia
|
|
|
||||||
60
|
Baruna
|
Racalmuto (fego) ottobre 1714
|
Barona
|
8
|
21
|
|||||
61
|
Carpitella (anche P.ta Carpitella)
|
Racalmuto (stato)
|
Carpitello
|
20
|
0
|
|||||
62
|
Casalivecchio
|
Racalmuto (stato)
|
|
|
|
|||||
63
|
Nuci e Menta
|
Racalmuto (stato)
|
Menta
|
77
|
61,63,71,72
|
|||||
64
|
Vallone della Difisa
|
Racalmuto (stato)
|
Vallone della Difesa
|
135
|
20
|
|||||
65
|
Santa Maria di Gesù
|
Racalmuto fego)
|
Santa Maria
|
122
|
19, 20
|
|||||
Contrade
del feudo di Gibillini.
Le
contrade del feudo di Gibillini possono, invece, venire così segnalate:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
1
|
Filippuzzo
|
Gibbillini (fego)
|
==
|
|
|
2
|
Funtanelli
|
Gibbillini (fego)
|
Fico Fontanella
|
45
|
18, 30
|
3
|
Macalubbi
|
Gibbillini (fego)
|
==
|
|
|
4
|
Mandra del Piano
|
Gibbillini (fego)
|
Mandra di Piano
|
73
|
39
|
5
|
Muluna
|
Gibbillini (fego)
|
Mulona
|
81
|
35,36,51,52
|
6
|
Puzzo
|
Gibbillini (fego)
|
Puzzo
|
103
|
35,48,49
|
7
|
Sant'Anna
|
Gibbillini (fego)
|
Sant'Anna
|
115
|
33
|
8
|
Serrone
|
Gibbillini (fego)
|
|
|
|
9
|
Castello
|
Gibbillini (fego) [1687]
|
Castelluccio
|
22
|
27
|
10
|
Ferraro
|
Gibillini
|
Ferraro
|
41
|
6,9,23,25
|
Le altre
contrade
Dagli
antichi atti emergono anche le seguenti altre contrade:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
1
|
Carmine
|
Grotti (fego)
|
==
|
|
|
2
|
Nuci
|
Menta (fego)
|
|
|
|
3
|
Pumi (contrata delli Pumi)
|
Menta (fego)
|
Portella di Puma
|
100
|
63, 64
|
4
|
Funtana Dulci
|
Nadore (fego)
|
|
|
|
5
|
Mindulazza
|
Nuci (fego)
|
Mendolazza
|
76
|
68,69
|
Le terre
della Noce e della Menta vengono ambiguamente designate: talora come feudo a parte,
talaltra come pertinenze della contigua contea dei del conte del Carretto. Invero, a ben
riguardare la questione sotto il profilo giuridico, sembrerebbe indubitabile
che si tratti di terre allodiali dei Del Carretto, finite prima ad un ramo
cadetto e poi, nel Seicento, rientrate nella sfera feudale di quella famiglia.
La genesi
del feudo di Racalmuto
Ripuliti
gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone
Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario
del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per
abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo
all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli e precisamte a quello che reca il n.° 209 il
cui sunto recita in latino:
Executoria
concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in
pertinentiis Agrigenti, vid.
Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici
MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine
liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
Era dunque
un’esecutoria della concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro
Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento,
e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa
per errore di trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei
tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò
considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di
Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca
viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della
storia racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o
archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi
medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.
Un
Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che
l’Amari considera “diligentissimo cronista”
per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di
Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo.
La vicenda
viene dal Peri così sintetizzata ed
interpretata:
«Federico Mosca conte
di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in
Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri (le
truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la validità
dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga
distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E
successivamente (pag. 46):
«Se la reazione
immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di
re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania,
fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori
Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in
Calabria.»
Annota,
peraltro, l’Amari: «Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad una fazione
degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500 presso Reggio
e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre mandò il conte
Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a lui. ...»
Se
Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di quello del diploma
angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271
non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri, neppure tornò -
almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag. 31). A lui «sembra
essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte
marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato il nostro
Castelluccio.
Ma a quale
ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino? Non
abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo
quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla
falsariga del racconto dell’Amari. Le truppe angioine riconquistano il castello
di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel
1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto
Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a
poche città che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly
dell’ordine degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a cambattere per Carlo
con la scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano
di ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai
primi d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli
mancava solo di conquistare Lucera per fame, combattè di persona i Saraceni e
si accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi
cambiò due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con
Guglielmo de Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito
agli ordini del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato
dal Estendart, ed indi di quest’ultimo soltanto, fu mandato per sterminare le forze di Corrado
Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia
del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo
chiama uomo più crudele della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai
sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart
condusse nell’isola millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi
furono associati oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani
e stranieri. Ricominciò davvero la guerra.
Quel
condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli
piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse
Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della
Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con
altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e
Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in porto. Il racconto -
desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince del tutto l’Amari
che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart
e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini
sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché
ricaviamo che gli riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare
uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu
conquistata dagli Angioini.
Anche
Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi
avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti,
riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi,
Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi
evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di
portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati
1000 armati e 200 cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re
fece costruire apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29
settembre 1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero
nella città. Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte
aprirono una porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore,
né innocenza, né ragione d’uomini alcuna.»
Cessata la
guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto
1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e
confiscare loro i beni», annota l’Amari.
In tale
frangente, ebbe dunque a verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto
che dal “traditore” Federico Musca passò
al fedele - estraneo e francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se
parente dei tanti Beaumont che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre
l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame.
In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la
salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire
nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore
ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura:
le sue ubertose terre avranno fornito pane sufficiente. Ma il nuovo signore de
Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni granarie.
Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca - finisce in
mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando
i registri angioini, apprendiamo che il padrone di Racalmuto dal 1271 al 1282,
Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di Montescaglioso e il Camerario del
Regno del 1271. Non pensiamo che il
conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre,
site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore.
Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da
non molto tempo dalla condizione di “villani”, una sorta di schiavitù a mezzo
tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica,
vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma “omnis
auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur
sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al
ribelle conte di Modica.
Racalmuto
durante i Vespri Siciliani
Dalle
brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle
locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non
bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste,
a fare del “ribellamento” del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe
sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più
falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi,
acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale -
straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va
solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile,
diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve
chiuso della bettola).
Ancor oggi
non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier
sull’amministrazione della Sicilia angioina.
Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera,
specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande
storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive
infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto
d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi
Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da
bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel
sipario del teatro comunale. Leonardo
Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua
cerebrale superfetazione sul mito del Vespro.
Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non
era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese
sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della
riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del
tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da
parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni
buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla
- che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura -
di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva
resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che
nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non
preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il
Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le
più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone
Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato
Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi
partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà,
di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande
disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos
amministrativo e la rapida fuga dei loro
sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi
seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone,
immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva
da Palermo una missiva indirizzata
“Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine
dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri:
una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che
cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta
che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni
ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e
sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto
- si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia.
Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero
di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani
sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione
religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità
mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di
schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto
simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente - non richiedeva scavo
in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in
grossi pezzi sovrapposti “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La
costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia.
Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le
bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle
intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole.
Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad
lapides et calces), anche nelle città
erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità.
Non si pretendeva dalle abitazioni
durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano
nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la
fatica prolungata e l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle
malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che
la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba
insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe
avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili
abitazioni di quelle generazioni.»
Il prisco
insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi riveli
sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi di
Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso, dalla
Madonna della Rocca sino alle Bottighelle dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale
e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San
Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la
chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una
chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni
del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte
scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed
anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano
di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di
diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale
di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e
quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile
agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le
ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche
tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica,
tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e
quindi di gravami ancora validi.
Nel 1960,
il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e nella
sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime
democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno
studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è
seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi siamo andati a cercare
quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di Racalmuto ed abbiamo
scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi sono, sì, due diplomi
del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della fondazione di una chiesa
dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località nulla ha a che fare con
la nostra Racalmuto .
Si
riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il Pirri
per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo
stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per le precisazioni del
Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a
Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro
escluso. () E’, poi, certo che Racalmuto
non appare mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che
vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un
tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata
l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione
del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III che contengono notizie sulla "signoria
dei Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che
corrisponderebbe "alla nostra Santa
Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il
Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli
si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del
«Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito
nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa
Margherita Vergine: è il Pirri della Not.
Agrig. Il Pirri fu sicuramente
indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così
la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.
L'avallo
di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie
della storia di Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o
raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria
saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è
che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso
scrivendo che, indubitabilmente, «frutto della rinascita normanna fu per
Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura di
signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni
dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S.
Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi
agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione
della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo di Agrigento,
Guarino (+1108)» () Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche
un colto ed avveduto gesuita vi incappa or non sono più di dieci anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle
che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone
Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della
rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana
che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai
baroni filofrancesi «Giovanni Barresi,
signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti
vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse
le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del
1282, «Giovanni Barresi, che palesemente
aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in
auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato,
fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la
baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu
concessa alla famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello
non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e
violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è
basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che
reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+
1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale
castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico ed il Villabianca, quello della
Sicilia Nobile - su un'evidente distorsione di un passo dell'opera
storica del Fazello. Questi, parlando
dei Barresi, aveva scritto : Matteo
Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di
Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula"
(piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula
doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende
avventurose di quella famiglia.
Non è
questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito
elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in
ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi
con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della
signoria degli Abrignano.
Il solito
Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia
perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse
caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici.
Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re
Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli
Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano
però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per
breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è
davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a
definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non
ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II
concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad
Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il
Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.»
Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto
il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano
letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo
Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla
famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel
Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam
fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano -
Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto
agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle
storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia
di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella
aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una
colpevole topica.
Il
Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina
che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato” : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi
confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se
si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di
Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non
sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto,
nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità
era talmente evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il
Minutolo non se ne accorgeed incappa in una smentita a se stesso, quando
trascrive l’albero genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo
del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa
signoria di Racalmuto da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca ,
correttamente, al posto dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone
Matteo del Carretto. Ma già un altro due monaci della famiglia Fardella (fra D.
Martino Fardella di Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico
antenato come semplice nobile di Trapani
(«Enrico Abrignano Nobile di
Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo la trascizione di quegli intriganti
alberi genealogici, per i curiosi o per i diffidenti. Gli Abrignano con
Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche parente di Matteo
Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai
Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di
Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo
in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi
I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi,
Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la
successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato
dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora
a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.» Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga
la teoria delle successioni, ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si
passerebbe ad Abbo II iunior che
avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a
quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo
III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico
distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e
Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo
escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi
possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca,
cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il
passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra
al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella
ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da
parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli
altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari,
nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre
1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto
e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. Ovviamente si trattò di promesse
dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora
smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi:
questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo
d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di
confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III.
Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la
concessione a Pietro Negrello di Belmonte
e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di
Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con
quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto -
come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”;
il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la
stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro
periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai
racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
«Doc. X -
Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. Re
Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di
Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di
Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per
terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea,
eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci,
vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti
i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili
lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo
videlicet.
«
[...] Burgio, Sacca, Calatabellota,
Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo,
Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono,
Juliana, [...]»
Nel
successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad
altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri
quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno
26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti
gli uomini Rakalmuti. Perché mai
questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata
a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi
tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una
tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20
fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra
che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro
l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456. (Nell’allegato n.°
5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
Re Pietro
aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi
- ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si
era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e
dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo
alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi.
Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas
è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia
iuramenta” della debita fedeltà e
dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto
della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese
pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri,
balestrieri, arcieri, uomini armati di
tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re
Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi
entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno
disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.
Non v’è
storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282
dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta,
hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di
Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno
sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena
“descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso
per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”,
che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò
quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi
fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni
dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e
cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è da
pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della
campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva.
A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei
due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano.
Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare
l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che
riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
Ne siamo
quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio,
dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia
sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si
risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure
detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a
Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili
ragioni cronologiche.
Una
signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una
qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza
Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del
XIV secolo.
Nessuna
fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto -
preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti
dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite,
denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico
Musca , comes Mohac, si rinviene tra
i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei
Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI -
Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca,
araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che furono gli Aragonesi nel governo di questo Regno,
appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il
Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero
di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d]
d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che
associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott.
Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
Esplosa la
rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto,
agli appetiti tassaioli del sopraggiunto
re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi
del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere
quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a
radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna,
quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che,
comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor
oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche
suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si
disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Intercolutoria
ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti
dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli
imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per
intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene
nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. Il 17 settembre, il Giustiziere viene
invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere
invio del “fodro” (vettovaglie, vino,
vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne
davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece,
sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con
lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella
elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che
si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più,
il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro,
che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a
Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti
nel possesso dei loro beni. (ibidem,
pag. 131 - doc. n.° CXLI).
Occorre
pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con
decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che
le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso
siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem,
doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).
Questi
contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da
Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val
di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua
giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per
discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la
controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»
(Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo
ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala
di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là
del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato
per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:
•
Licata: unc. 238;
•
Delia unc. 3;
•
Naro unc. 166;
•
Calatarapetta (sic)
Mons maior unc. 6;
•
Tusa unc. 2;
•
Misiliusiphus unc. 4;
•
Sciacca unc. 250;
•
Calatabellottum unc. 122;
•
Agrigentum unc. 380.
Il
successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad
armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il
Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è
questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne
fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella
temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a
cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo
consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta
frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere
originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta
fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace
conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al
papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più
volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente
assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi
un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo
sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime
credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al
francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per
diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di
tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente
non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto,
decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì
cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non
immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la
politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che
corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il
10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore
Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche
simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a
comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E
Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non sene intuirono le
ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si
smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si
sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante
guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in
Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento
aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica
dei campi non era ingrata. L'universitas
si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.
Nel 1308 e
nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi
pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano
ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate.
L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi
fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del
primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect.
n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae
de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri
termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto
un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.°
97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro
officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il che
equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo
ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì.
Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste
ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a
Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure
autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed
è chiamato a corrispondere un’oncia per
le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete” Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso ha tutta l’aria di
essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno;
ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle
ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo,
l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di
Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa
di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti
all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di
culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali.
Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il
beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine
del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini,
insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della
coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa
dell’endemico stato di guerra. Da qui,
quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi
dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa
chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad
Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento
sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente
Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano
di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti.
Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora
c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande
edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la
terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del
donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche
un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18
) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti
Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente,
trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie».
Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco
tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in
termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato
l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre
Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo
di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale . A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di
Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300,
indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla
distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori
eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei
sepolcreti e ruderi di edifici. »
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette
pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza
nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di
Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era
un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato,
senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano
persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|||
Differenza
in percentuale
|
|
|
|
197,58%
|
|||
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il
doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per
un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, ebbe dal
collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23
agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto
1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre
1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino;
ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter
Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove
tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o
primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori
d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo,
succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico
inglese - interessi egoistici prevalsero
in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico,
lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano,
necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati
affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”:
gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un
cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra
ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale
piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive,
apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto:
le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.
Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.»
Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi
sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non
è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il
capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del
Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto erigere
il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio: c’è
confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. Per il San Martino, dunque, «IL
FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi
con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di
Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi
costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a
giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI,
ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui
si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere
che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire
dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del
Monte.
«Decaduta la famiglia
Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu
concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo
nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello
tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che
pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente
dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto
Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del
lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel
1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche
probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a
giungere in loco. La famiglia
agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre
alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè
benissimo muninerlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si
dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi
l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri
cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua
impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un
interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati
per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero:
un mistero che si aggrava se i nostri privati ritrovamenti di ossame e di
ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero segnificare presenze
abitative o necropoli medievolati antecedenti il XIV secolo. Le ossa non
sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri e noi ci accodiamo in
tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi,
mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu
proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima,
per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente
nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile
matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza
unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto;
Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto
matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à
11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce
Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel
suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre
10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro
di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam
universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem
Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae
Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo,
ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis
statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem
Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre
revertatur.
2. Venne
Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona
dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del
Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di
Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del
Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino
suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua
gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto,
Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
1.
Costanza,
restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo
prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi
esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano
Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. Si tratta dell’atto
transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo
oneroso:
«omnia
iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iIure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis
Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus
sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto
ereditario riveniente dal quondam
magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello,
così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche
per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi
ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi
magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale,
nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli,
Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con
i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un
tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui
la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo.
Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua
strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un
mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di
Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi,
Giovanni il Vecchio, Federico II -
ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone
ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio
case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il
suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi,
colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi
casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a
mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle
vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo
n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di
falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su
Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al nemico,
partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane. Muore
frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare
una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del
Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il
figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi.
Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni
a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei
Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di
questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico
III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica,
la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo
del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di
Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i
Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni
II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze
Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e
Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358
chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente,
nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli
Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene
onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di
Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu
padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella,
Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi
III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino
Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e
Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico
IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può
conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con
Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di
Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari
feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la
minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene
investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la
figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie
dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue
sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di
ascese da capogiro. Con chi non fu
concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma
subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di
Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni
divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia
delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzo allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e
amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta
che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se
non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare
e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui
abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello
naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro
d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da
Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere
all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta
di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e
di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo
letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del
Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto
uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico
III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante
sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte
fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben
cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette
fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II
del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti
di cogmone Del Carretto annetteva anche
la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado
di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo,
faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che
Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De
Gregorio ci pare in definitiva piuttosto
perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di
particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale
ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida
pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti
della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia
del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere, sulla base
che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva egemonia sul
feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto
sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il
titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di
quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre
Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già
fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi
ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II
Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di
Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate
che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni
dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedvano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263.
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di defeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie
dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a
Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo
promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione
della detta vendita.»
La svolta
del 1374
Nessun commento:
Posta un commento