IL SECOLO
DEI LUMI
Premessa
Siamo
giunti al ‘Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello
di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio
p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della
Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri
eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori
dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte
minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo
Castro.
Per
celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita
nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da
Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?»
può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato
epitaffio, che attraversa come un liet-motiv,
come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo
Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile.
E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal
«secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di
Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese
di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri,
di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate
nella buia stiva del disincanto.» [1]
Che tutto
ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la storia
del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e
significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, [2]
«Il Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel
novembre del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al
trono spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare
dominazione spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re
Ferdinando di Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la
Repubblica Partenopea. Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro
padroni.»
A
Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così
schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
-
9 marzo 1710: muore Girolamo III del Carretto,
sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del Carretto, e così si
estingue la locale casata carrettesca;
-
3 settembre 1713: Die 3 7bris 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum
interdictum generale locale in hac terra Racalmuti: l’interdetto
– riflesso racalmutese della
sciasciana controversia liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non
potere più seppellire i propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano
lo smarrimento di quel cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli
implicati nella politica dovettero provare, in quello stesso periodo;
-
1715: il regio
commissario generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo,
in nome di S. Maestàdi Sua Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e
chiede il dettagliato resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e
dei beni delle chiese: immaginabili il terrore e lo sgomento dei tanti nostri preti e monaci;
-
10 luglio 1716: Brigida Scittini e Galletti, vedova di
Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per diritto di credito
dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse in paese;
-
27 agosto 1719: sospiro di sollievo: «L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e
Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso
della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu
sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo
Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico con
l’Autorità della S. Sede.»;
-
1736: Panormi
die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum juramentum debitae
fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis
servandis concedatur investitura ....
tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis
Viridis. Don Luigi Gaetani - che
doveva pur rifarsi delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale -
non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca
innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara
“mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma
di terra coltivata le vuole tutte;
-
1738: in
quest’anno, sorge una controversia feudale su Racalmuto, con tutti i crismi (e
con tutti i costi). Il duca trova pretermessi anche i suoi diritti di
terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli
abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi
confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani
è costretto ad adire le vie legali: premette che è stato già magnanimo
accontendandosi della metà di quanto dovuto
per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Non
può pertanto tollerare che i benedettini usufruiscano di un falso esonero,
fallacemente accordato dal vescovo di Agrigento, il noto Ramirez, in data 16
settembre del 1711;
-
1741: il 22 giugno 1741 i benedettini risultano
soccombenti, con compenso di spese, però;
-
1747: la contea di Racalmuto passa principessa di
Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
-
7.1.1754; SCIASCIA
LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed
Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA
di m.° Bartolomeo e Caterina olim fugati.
- Matrimoni 1751-1763 - 67 –
Nota: d. Albertus Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari,
testi; furono benedetti da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci
ragguagliano su questo antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del
«nonno di suo nonno» che lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese,
oriundo, per giunta, da Bompensieri;
-
1755: nasce a
Racalmuto il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802) - Sarà
«bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato
sapere; questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle
della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano,
tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche
per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare una impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino.»
-
1756: il 19 febbraio viene nominato arciprete di
Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla microstoria locale
come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
-
1759: all’Itria viene fondata la Confraternita della Mastranza (26 luglio 1759);
-
1767: l’arciprete Campanella completa la costruzione
del «cappellone grande» della Matrice;
-
1771: i Requesens si appropriano di Racalmuto il 28
gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto matrimonio con una
Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina.
La Lanza – pu avanti negli anni - riesce a partorire il figlio maschio
Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti
dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto. Annota il San Martino de
Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ
di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra,
Castello e feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo
favore dal Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto,
contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di
Racalmuto; quale sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in
esecuzione degli ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv.
Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143, retro).
[...] Detto P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino
Requisenz e Morso e di Giuseppa del
CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di
cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ
reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO;
-
1776: lo stesso arciprete continua nei lavori di
abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due
campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.»;
-
1782: «E' noto - abbiamo già scritto - un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..";
-
1783: inizia la causa – intentata dal sac. Figliola
presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
-
-
1785: « Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri,
arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo
Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica,
da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo
Sciascia [3]:«Ecco
il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi
praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza
analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere
dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito,
contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio
del Crocifisso. Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire;
-
1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello ad affermarsi in
paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto,
insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino
Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
-
1786: il sac. Figliola
« … ottenne dal Re, che questa
terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia
d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale,
nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della
Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787
d’anni 38.»;
-
1787: D.
Stefano Campanella prosegue nella controversia antifeudale intentata dal
Figliola e così « … con altri primari del paese
incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di
Palermo e dopo quattro anni di
strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787.
“Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium
declaratur non deberi.”;
-
1791-92 : forte
dell’ascesa dello zio sacerdote don Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella
famiglia di gabelloti, fa il grande
salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è
lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico
rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico
Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che
sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così,
improvvisamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il
nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote
Giuseppe Saverio, ma il primo tassello, quello più difficile, è tutto nel
carniere di famiglia;
-
1793: la vecchia. Gloriosa chiesa di S. Rosalia viene
smantellata; era riuscita a resistere sino
al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al
sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu
barattata dal can. Mantione in cambio di
un altare con statua alla Matrice;
-
1796: il feudo di Gibellini viene venduto con rogito
del «Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li
22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157,
tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2
di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di
onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar
Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò
TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato
lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate
senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77)».
Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D.
Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che «
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»;
-
1799: Il secolo dei lumi si chiude tristemente per
Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale Comunia della
Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo Ramirez – onde i
preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad approvvigionarsi delle più
urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del 23 febbraio 1799: «XAVERIUS
Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae Racalmuti, Salutem. Ci
rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e Sindaco le gravi pressanti
urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione, a segno che si teme molto
della furia della Popolo perché pressato dalla fame, e dalla miseria. Onde sono
in penziero di occorrere quanto si può con mutui, eccedono, e chiedono che per
conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa una certa somma, che la
reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti istanze, bastevole a
soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in considerazione
l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci sarà permesso
anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad eccitare la vostra
carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché concorriate per quanto si
può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie. Essendovi dunque nella Cassa
la indicata somma, qualora si appronta una sufficiente bastevole fideiussione
di restituirla nell'imminente Agosto e riposta in Cassa, potrete apprestarla a
beneficio comune per distribuirsi in mutuo secondo le intenzioni del
Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis
= Canonicus Trapani Cancell». [4]
-
Il Settecento a Racalmuto sorge con le diatribe tra
padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata più o meno
dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali che
scariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in quel
torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro che
felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti borghesi (i Tulumello in
testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i Farrauto) la sorte del
contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine secolo, si verifica
addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano, non si era mai
registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia
delle chiese per il panizzo quotidiano.
Tratti salienti del Settecento racalmutese
Il Settecento fu un secolo di
riforme sociali e politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del
Carretto – ormai totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti
– il paese subiva uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva
nell’ipocrita rapacità dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso,
una scialba signora che si presta alle truffe feudali del duca di Naro.
Patetico quel patrizio – che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che
spartire – quando, con impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente
meno che “mosso da pietà per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di
frumento per ogni salma di terra coltivata Siamo nel 1738 allorché sorse quella
strana controversia feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si
mettono pure i monaci di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari
in abito talare ed inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che,
anche se con l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della
protervia degli sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti
pretese di terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico
dello schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono
certo immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino
delle Scale ed il duca Gaetani. A noi, invero, importa di più questa altra
lamentela del neo conte di Racalmuto: abbiamo ragguagli di prima mano sullo
stato economico e sociale del paese a cavallo del Settecento: Racalmuto era,
dunque, quel centro oppresso, angariato e pieno di debiti che il seguente
documento finisce per tratteggiare:
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano
possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E.
che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni,
il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre
Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato
si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li
creditori suggiogatarij non hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità,
anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti
da ... molini situati in parte di lavanchi ki ricercano ogni anno spese
considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano
alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che
riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri
che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato
l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che
la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente
fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di
non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto
1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a
creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto
delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per
l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che
l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per
il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non
se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti
creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti
creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente
l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggio di ogni anno, che non
hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono
la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione
maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto
stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento
delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista
di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed
amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij
.. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con
l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra
ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à
resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto
ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che
prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori
suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche che la
minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare
il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e
forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale
amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il
medesimo senza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se
li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite;
vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il
consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta
minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come
sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi
provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per
publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per
resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che in
contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed
individuale menzione quale s’habbia ..
per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de
plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte
G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Abbiamo
prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare
alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713
(Morti dal 1714 al 1724)
Dopo
il 28 agosto 1719:
L’interditto
fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di
Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in
tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora
vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic.
Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII
Ind.)
Vigilia
Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac
terra Racalmuti.
Battesimi
1711-1716 - pag. 450.
Ad
perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia
Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in
Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco
Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero
D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il
Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità
vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di
benefici e di mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice,
osannato da una lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice
ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum
hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante
aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don
Antonius Pistone, hic situs, velut optimus heres, honorifico lapide, qui suos
suorumque cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est.
-
Kalendis Septembris MDCC - Post eius
obitum anno sexto.
(Stemma
- Pampini - leone alato ... elmo
chiomato del milite)
LE
PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
Diciamolo
subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per intelligenze locali che in
qualche modo possano rasentare il genio: le parole del Guicciardini care a
Sciascia sulla “ricolta” di ingegni
negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né grandi medici, né veri
pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia – rimarchevoli eretici. Solo il
bestemmiare del popolino che è poi atto di fede intensa.
Per
contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto sessuofobo e sgrana
rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne. Il collegio di Maria era
un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che vi venivano coatte perché
possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare contro il vaiolo, non c’erano
medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”, un barbiere, per imparare una
tecnica un tantinello meno rudimentale. E m° Giuseppe Romano fu forse meglio
dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla fine del secolo – 16 giugno
1795, dicono le cronache.
I
preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse
terrorizzati per l’incombente acceso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le
volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro
Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati,
«instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa fi
S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona
Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si doveva
vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa – ed il
ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della detta ven.
Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge: «li
frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti
ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il
Santuario sia rifacimento o ampliamento o – molto più probabilmente – una
nuova costruzione che venne addossata alla vecchia chiesa, divenuta
sacrestia. Il padre Morreale è molto meticoloso ed ovviamente agiografico. [5]
Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una
«nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e
solo attorno al 1746 l’antica chiesa si sarebbe venuta «a trovarsi dentro la
nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione,
peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico,
la chiesa del Monte: «Sorge sul
poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738.
Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la
leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca.
Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella
seconda settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre
giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con
recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che
consistono nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su
cavalli che, spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta
al santuario. Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto
alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi scapoli. La lotta per
conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni e calci da parte degli
avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi afferra il drappo.»
|
Sciascia, che ebbe ad infilzare proprio il mansueto padre
Morreale, forse perché gesuita, a proposito della ricerca storica sulla venuta
della statua della Madonna del Monte, ora finge di non dargli peso per codeste
ricerche testamentarie del sacerdote Pietro Signorino. Al giovane Tinebra
Martorana aveva accordato il peso della sua autorevolezza e in un caso analogo,
quello del testamento del sacerdote Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire
il destro per sardoniche bardote sul
prete in “alumbiamento”. Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza
della Chiesa del Monte, ma se ne è astenuto. E dire che piccante poteva
risultare la ricerca del gesuita p. Morreale sulle propensioni a beneficiare
una pinzochera da parte del pio testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel
testamento – il padre Signorino – determinò alcuni legati a favore della
Perpetua». Invero, la preoccupazione a beneficiare Caterina d’Alberto è
pressante. «Item il sudetto testatore hà legato – si legge nel corpo delle disposizioni
testamentarie – e per ragione di legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una
casa, prezzo e capitale di onze 10 circa, quale vuole che se li dovesse
comprare dalli ssopradetti suoi fidecommissarii» e nel codicillo, in termini
ancora più chiari anche se in latino, «item dictus codicillator ligavit et
ligat sorori Mariae de Alberto bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo
vocata Caratina eius famulae ultra illas uncias decem in dicto eius testamento
legatas tre infrascripta domus de membris et pertinentiis eius tenimenti
domorum » e passando al volgare «nempe la prima entrata, la camera ed il catoio
sotto detta camera della parte di occidente, seu della parte di San Gregorio» e
tornando al latino «de quibus quidem
tribus corporibus domorum ipsa soro Maria, habet et habere debet solum
usum exercitium». Non solo, ma «dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si
devono] tumuli otto di frumento, un letto fornito, due tacche di tela sottile,
il mondello, due sedie di corina, la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni
arnesi di cocina.»
Almeno,
quello svolazzo del codicillo, una funzione la esplica: dà materia per un
eventuale museo etnografico.
LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini
fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre
personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di
Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m°
Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa
publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del
reverendissimo Sig. V.G. date nella
citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello
predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza
ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo
Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo
a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina
cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo
pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p.
Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’
troppo quando scrive [6] «Tra
i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi
Crispino e Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto,
discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci
la fonte, restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto
cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi
lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare,
a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore
canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio
danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio
Capizzi per “stucchiare e pingere” la
navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa. A
riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della “fabrica”:
17.11.1660 A
Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto
di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della
matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro
Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato
et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
.
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di
Girgenti onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze
29. et sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere
la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo
Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/
8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si
pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e
PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante
dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17.
9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a
sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662 Ad Antonio Capizzi onze tre
quali si ci pagano a complimento di onze vinticinque et in conto d'onze
vintinovi si li devono per conto della fabrica della matrice come per mandato
et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d. appare;
10.2.1662
Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze
vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro
vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice
chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per
mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che, secondo
il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev, Santo Agrò nel 1622 per dipingere
il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste annotazioni di
costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad immaginarne
dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante lire
corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit.
7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore
che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido)
non possiamo dirla mal pagata.» [7] etc.
Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio
libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a
Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli ma con una
serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in
Matrice):
708
|
CAPIZZI
|
ANTONINO
|
|
C.
|
4
|
6
|
10
|
MASTRO
|
|
|
GERLANDA
|
M.
|
C.
|
|
|
|
|
|
|
GASPARU
|
|
|
|
|
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|
|
|
PASQUA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLOMEO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSEPPE
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ROSALIA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
NARDA
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|
|
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|
|
|
|
CATARINA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
VENA
|
|
C.
|
|
1
|
1
|
FAMULA DI
D.O DI CAPIZZI
|
Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di
semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso
moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore
Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere
praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro
(Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in
fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro
d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE
DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo [8] la
nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a
Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo
che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale
che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa
dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era
trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi
rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La
più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al
grande affresco della natività di Maria: «Antonius
Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»
Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per
inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate
costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di
s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto
Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti
particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a
quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno,
sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore
di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi
in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si
chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici:
almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si
sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda
nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che
ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel
Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di
p. Fedele da S. Biagio.[9]
Non si può, poi escludere, che taluno dei
tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al
pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e
consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire
dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine
stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel
secolo.
Non
ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon
conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore
di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza
di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto
– e la composizione prolissa che si
sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con
Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi»,
vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza
passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla
agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il
Capizzi non disponiamo – diversamente
che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire
«un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto,
forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi
in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia
l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo:
l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7
agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo
chiudono sotto un duplice profilo:
quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità
vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto
rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti
d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta
inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come
“economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura
di Antonio Scaglione - sino ai nostri
giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [10]
Col
passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e
l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[11]
del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche
racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30
aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima
dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi
arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo
Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia
lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad
annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna
sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto
energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che
illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente
tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una
volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I
balzelli venivano pudicamente denominati diritti
di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una
casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di
aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
La Matrice ed altre chiese – Conventi ed altro
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini
lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si
continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare:
“Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e
non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una
congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato
commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla
datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di
qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi,
costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella
della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del
sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica” di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra
i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il
ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad
annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta
la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono
ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo
Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654
non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di
un’oncia dell’eredità Agrò[12].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio
vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità
racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna
al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di
detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo
Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo
era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata
in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un
controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui
l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon
per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione
della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove
nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In
totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1. la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma
Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo
Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S.
Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo
Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo
Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore
clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio
Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli
Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico
coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego
Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il
Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7. Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr.
D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria
amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata
dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per
esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna,
denominate “chiese fora le Mura”:
1. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il
Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in
cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza
amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro
Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata
dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata
dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico”
(queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla
seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque
conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria del Carmine;
2. Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben
fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della
Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei
Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di
pegno.
In
compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono
Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno
ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne
d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo
dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo
R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo
Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica
infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna,
Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego
Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più
prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno
1731;
5. Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella
Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore,
congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro
officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico
Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio
Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di
Settembre;
7.
Compagnia
di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed
Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda
domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato
anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini
della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del
1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in
media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine
ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un
sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1.
Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D.
Filippo Algozini;
2.
Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario
Foraneo;
3.
Sac. D. Filippo Cino;
4.
Sac. D. Francesco Pistone;
5.
Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6.
Sac. D. MichalAngelo Rao;
7.
Sac. D. Ignazio
Laudito;
8.
Sac. D. Paulo Spagnolo;
9.
Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac. D.
Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.
Ma
le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro
Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine
minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano;
Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego
Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani
lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci;
Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici
tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti
gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserli nel
secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese,
vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra
queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non
scesi a Racalmuto.
Alcuni
signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo
Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un
livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco
Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
E passiamo
ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore
era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal
sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli
era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute
rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e
fra Gerlando Montagna.
I
francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano
essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che
giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
Non così
invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a
godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P.
Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro
“fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra
Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al
convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori
Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866
riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A S.
Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo
due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente
forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano
poi infondate.
Il convento
di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccocelo
vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo
vedremo quando commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato
patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto,
P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da
Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I
fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le
elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il
turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluso, in
uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di
diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano
sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia
chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati
senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle
derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa
era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da
famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza,
suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria
Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor
Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino;
da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie
superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno
assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor
Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria
Raspini.
E con loro,
le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino
di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro
Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di
penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime
di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini
quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è
neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi
ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri
sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro
di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla
chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare
d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice,
sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a
scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni
sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta;
gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don
Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo
Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono
bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle
confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don
Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai
peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il
cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai
beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+
29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la
ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto
sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa.
L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1. Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o
che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né
publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso
da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua
moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di
Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero
Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D.
Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero
Sferrazza;
4. Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe
Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di
buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini
descrive la Matrice:
1. Il titolo della chiesa è Maria SS.ma
dell’Annunciazione ;
2. Si celebra la festa nel giorno proprio;
3. Non vi sono abusi;
4. La chiesa non è consecrata;
5. Il Padrone è il vescovo;
6. Fu eretta alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
7. Nella Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la
Liberazione dell’Anime ogni lunedì e nell’ottava de morti ad septemnium per
breve concesso dalla Stà di Benedetto XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e
nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
1. Questa Chiesa Matrice è construita con due ordini di
colonne, con che si forma la nave e due ali;
2. Ha semplice tetto;
3. Non dona umidità;
4. Vi sono sei finestre, cioè tre con vitriate e tre
senza;
5. delle quali entra vento;
6. le pareti della chiesa in alcune parti sono di piedre
quadrati, in alcune con incrostatura in alcune incolte;
7. senz’erbe;
8. La fabrica da pertutto ben soda;
9. senza veruna servitù;
10. v’è choro situato nell’altare maggiore dell’istesso
sito della Cappella;
11. senza sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si
faranno ad eccitazione del detto rev. Archiprete;
12. non v’è separazione di luoco per le donne;
13. il pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul
suo assetto interno:
1. Tocca alla Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6
di rendite annue e cioè: dal sac. Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote
don Vincenzo Casucci e consorti tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì
4.10; dagli eredi di Giovan Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da
Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì 8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
2. S’amministrano dalli quattro deputati della chiesa che
sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo Algozini, il rev. Vicario Foraneo D.
Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone e don Gaspare Casucci.
L’Algozini
ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo Sacramento di questa Chiesa
Madre la compagnia del Santissomo Sacramento; l’officiali sono l’antedetto
rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M° Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di
Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa Matrice
chiesa non vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono il rev.do
sacerdote D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo
peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso come sopra dal rev.do sac.
Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono i chierici Pietro Santo
Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze, quattro pagari dal rev.
Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento, onze 1.10 dalla Cappella di
Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre Cappelle in ragione di tarì 6 per
una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la
disposizione degli altari:
1. Vi sono quattordeci Altari, il Maggiore;
2. quel del venerabile;
3. della SS.ma Annunciata;
4. di S. Maria del Suffraggio;
5. del SS.mo Crocifisso;
6. di S. Vito;
7. di S. Giovan Battista;
8. di S. Leonardo;
9. di S. Antonio Abbate;
10. di S. Ignazio;
11. della Ss.ma Assunzione;
12. delli S.ti tré Reggi;
13. di S. Giuseppe;
14. di S. Maria Maddalena.
«Per quante
diligenze s’abbiano fatto – soggiunge l’arciprete – non si sa dell’erezione di
ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono l’altaretti conservati nello stipite e non
ve ni sono portatili; sono intieri nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno
[altare] privilegiato di S. Maria del Suffraggio; nessun altare ha padrone; non
hanno rendite per suppellettili e manutenimento, se non quelli che si devono
contribuire dalli celebranti secondo la tassa e reduzione ultimamente fatta.
L’altare però di S. Ignazio ha tarì 19 annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro
Mulè paruzzo in virtù di contratto per l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10
settembre 7a 1713, e tarì 7 dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù
del contratto per l’atti del quondam notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X
a ind. 1717.»
Gravano
sugli altari vari pesi per messe:
1. La cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
2. Cappella della SS.ma Annunciata messe n° 58;
3. Cappella di S. Giuseppe messe n° 144;
4. Cappella delli S. Tré Reggi messe 3;
5.
Cappella di
S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla
detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario del Casucci.
Questo
l’arredo della chiesa e degli altari secondo
l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario di tutti i beni mobili
e stabili semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e spese di qualsiviglia
sorte della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto
per me D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la presenza e
l’assistenza delli Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino
previamente informati dei beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta chiesa
Matrice è posta nella strada del Castello a frontespizio della Piazza;
ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di Rosa e dall’altro le case della ven.le
Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica
che non sembra avvalorata dai documenti
da noi investigati. Ad ogni buon fine, quella ricostruzione casucciana la
riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche l’anno 1620: benedetta
con licenza di Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.»
A nostro avviso, c’è qui l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia
tra don Vincenzo del Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo
ricongiungimento delle due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un
unico arciprete che a noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non
ci pare molto ferrato nella storia della sua chiesa.
Attendibile
invece quando parla delle Cappelle, di cui curava in definitiva
l’amministrazione:
La Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata
da D. Gaspare Lo Brutto e Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li
superlettili di detto Altare, come di tutti gli altri altari e chiese sono li
seguenti:
In primis una Cappella bianca di lama, con sue
tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio;
Item una Cappella violacea di lama, con suoi
Tunicelle, casubula, cappa, stole, manipoli e palio d’altare;
Item una cappella virde, con sue tunicelle, casubula,
cappa, stole manipoli e palio d’altare;
Item una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula,
cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una Cappella nigra di felba [13]
con scuti ricamati, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio
d’altare;
Item una casubula di stolfo russa , con sue stola e
manipole;
Item una casubula bianca d’asprino con manipola e
stola;
Item dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una casubula bianca raccamata di seta usata con
stola e manipole;
Item una casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre
di tela sottile, con suoi cingoli ed ammitti;
Item altri tre cammisi usuali per la giornata, con
suoi cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura,
con cornice scartocciata indorata d’oro;
Item n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate
di mostura;
Item una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovagli d’altare;
Item un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore
precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata 1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di
ligname indorati di mistura;
Item un Reliquario di Ligname indorato di mistura con
sue reliquie dentro;
Item due candilieri con sua croce usati;
Item una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovaglie usate per l’altare;
Item una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré pialli d’altare usati;
Item un lampero di ramo.
In più,
stando all’integrazione dell’inventario da parte dell’Algozini: sei candileri con suoi vasi novi indorati di
mistura con sei rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei candileri con la croce e sei vasi;
Item sei rami usati;
Item quattro candileri piccoli;
Item una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con
le cornici indorate di mistura;
Item Item due tovaglie d’altare;
Item un palio di seta violaceo e bianco con cornice
indorata di mistura per detto Altare;
Item un lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce
indorata;
Item un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua
cornice;
Item quattro candileri con sua croce usati;
Item una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con
“concice indorata” (v. Algozini);
Item un palio d’altare di pittura con cornice
indorata, che è “di stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo”
(vedi inventario del 1° giugno 1731).
Integra
l’Algozini: sei candileri con sei vasi
indorati di mistura novi; sei rami di talco stagnolati novi;
Altare di S. Vito
Item L’imagine di S. Vito di ligname;
Item una tovaglia ed un palio d’altare usati.
Altare di S. Giovanni Battista
Item un quadro
con la figura di detto santo con la cornice;
item l’imprincio e lavabo usati, item un palio di
pittura;
itemdue candilera vecchi, ed una croce senza pede.
Altare di S. Leonardo
Item un quadro con la figura di detto santo;
Item una tovaglia ed un palio di pittura;
Altare di S. Antonio Abb.
Item la statua del santo di ligname;
Item quattro candileri con sua croce e rami vecchi;
Item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
Item una tovaglia per detto altare;
Item un palio d’altare di pittura;
Item un lamperi di ramo.
Altare di S. Ignazio.
Item il quadro con sua cornice indorata di mistura;
item quattro anegli per candeleri;
item una croce usata;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item un palio d’altare di pittura con cornice indorata
di mistura.
Altare della SS.ma Assunzione
Item il quadro con sua cornice;
item quattro candileri vecchi;
item carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
vecchi;
item un palio d’altare di pittura con sua cornice.
Altare delli santi tre Reggi
Item il quadro di pittura;
item due candileri con sua croce
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo.
Altare di S. Giuseppe
Item la statua di detto santo con il suo Bambino di
legname indorati
Item sei candileri con suoi vasi e rami usati, e
croce;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
item un palio d’altare di seta vecchio con sua
cornice;
item due tovaglie per detto altare.
Altare di S. Maria Maddalena.
Item il quadro con la figura di detta santa;
item sei candilera con la croce, quattro vasi e
quattrorami;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item palio d’altare di seta con cornice indorata di
mistura.
Altare del SS.mo Sacramento
Item una custodia di marmo con suo tabernacolo
indorato. Item un Padiglione di seta violaceo con sua guarnizione d’argento;
item quattro candileri con sua croce;
item quattro vasi per li rami;
item dui tovaglie per l’altare;
item un palio d’altare di seta con sua cornice
indorata.
L’Algozini
aggiunge: due padiglioni di tela
stampata; un portaletto di damasco rosso con suo gallone d’argento usato; sei
candileri con suoi vasi e rami di talco stagnolati, una campanella nova per
servizio delle messe e due padiglionetti per l’ogli santi.
Ovvio che è la sacrestia ove sono custoditi paramenti
sacri, ornamenti vari, addobbi ed altro.
Significativo l’inventario, anche perché potrà un domani servire per un
museo parrocchiale veramente rievocativo della vita religiosa dei nostri
antenati, contadini e pii.
Item dui crocifissi per la preparazione;
item dui chiomazzelli per detta preparazione verdi
usati;
item altri dui di tela per detta preparazione;
item due coverte di tela per detta preparazione;
item uno stipo grande con altri due piccoli a lato
novi;
item due coverte per il fonte battesimale di seta
violetta con frinza ed altra di coiro con frinza, usati;
item due dischi;
item un’ombrella per il fonte battesimale;
item quattro lanterni novi;
item una coverta di tela rossa sopra la boffetta della
cridenza;
item un portale di tela per l’organo;
item una stola di stolfo rossa;
item altra stola di damasco di diversi colori;
item una fodera per l’ombrella;
item un palio d’altare dinnanzi il battisterio;
item una sponza di ramo;
ietm un lamperi di stagno;
item una pisside con il piede di ramo;
item un altro vaso a forma di pegno con il piede
d’argento per il stabile;
item un baldacchino d’asprino con li quattro asti
indorati;
item un stendardo d’aspino, con altri due palietti del
medesimo drappo;
item un ombrello del medesimo drappo d’asprino con n°
venticinque campanelli d’argento di bolla;
item altri sei palietti, cioè due di stolfo e l’altri
di diversi colori, con suoi lanterni ed asti;
item altro baldacchino bianco ed un stennardo usuali;
item altro tosollino [14]
più grande per la sfera;
item una sfera grande con il piede d’argento con la
lonetta indorata;
Item l’incensero e navetta con sua cocchiarella
d’argento;
item una sponza d’argento ;
item tre calici con piedi di ramo indorati, con tre
patene;
item altro calice con il piede d’argento con sua
patena;
item una cocchiara d’argento per il fonte battesimale;
item dui vasetti d’argento per l’oglio santo del
battesimo;
item altro vaso per l’oglio santo dell’estrema unzione;
item tre paviglionetti per il vaso del SS.mo Viatico;
item tre portaletti per la custodia;
item una tovaglia bianca di taffità con guarnazione
d’argento;
item altra tovaglia di taffità bianca vecchia;
item cinque corporali;
item n° undeci veli di calici di tutti colori usuali;
item n° dieci borze con suoi palli di diversi colori;
item cinque messali usuali;
item quattro missaletti;
item una cassetta con tre vasi di stagno con l’oglio
santo;
item un rituale e graduale vecchi;
item dui calamara di stagno con una bussola nel
battisterio;
item un particolario; item un sicchetto di ramo;
item due boffette nella sacrestia, tre cascie vecchie,
un scabello, un genuflessorio, tre tovagli di facci, dui chiomazzella di felba
russa usati, un crocifisso per il Pulpito, una cappa e tonicella neri lavorati,
item tre incerati, un tisello (o tusello v.s.) di legname, un triangolo di
ferro con cilio di cera, altro triangolo per le tenebre;
item quattro campanelli;
item una tela azola per la porta;
item tre confessionarij;
item una seggia per il SS.mo Viatico;
item un organo di cinque registri ed un polpito;
item tre trispiti;
item tre campane nel campanile, cioè una grande di sei
cantara, altra mezzana di due, ed il segno.
Si chiude qui l’inventario che reca la sottoscrizione del
sacerdote D. Gaspare Casucci, economo e quella del sacerdote D. Gerlando
Carlino.
Nelle
visite pastorali, il clero doveva sobbarcarsi alle spese per il vescovo,
vettovaglie , cibarie ed ospitalità per il giorno e per la notte. L’arciprete,
il vicario foraneo ed il procuratore del clero partecipavano all’eventuale
Sinodo. Per il cosiddetto “cattedratico” l’arciuprete doveva sborsare 6 tar’
annui. Ministero della cura si chiamava l’ufficio sacerdotale generale.
Sappiamo che in quel tempo era parroco Filippo Algozini di Prizzi, consacrato
sacerdote nel 1712. Quando giunge il Gioieni era parraco di Racalmuto da «tre
mesi e giorni dieci»; era di nomina pontificia (con breve di papa Clemente XII)
e nel 1731 aveva 43 anni.
L’arciprete
«risiede ed amministra la cura dell’Anime per se stesso e li suoi coadiutori
sono il rev.do sac. D. Francesco Torretta ed il rev.do sac. D. Leonardo La
Matina cui le si somministrano onze 12». Due chieri sono inoltre al servizio
della Matrice, a pagamento.
Ancor oggi
sono godibili i libri parrocchiali, in definitiva per l’amorevole cura
dell’arciprete Algozini, guarda caso: non era neppure racalmutese. Trattasi dei
seguenti libri: «parrocchiali, cioè de Battezati, de Matrimonij, dello stato
dell’Anime (invero, al momento v’è un salto delle numerazioni delle anime
passandosi da quella del 1654 a quella del 1755), de morti, osservando il
metodo prescitto dal rituale romano con alfabettarsi; libri de confermati non
si ha ritrovato per quante diligenze abbia fatto.»
“Sermoni
pastorali” ogni domenica e tutte le feste comandate; la dottrina cristiana
viene insegnata il dopo pranzo di tutte le feste dall’arciprete che si serve “della dottrina di Bellarmino in
volgare per li figlioli" ” del "catechismo romano" per gli
adulti. Una menda: “non v’è scola per la dottrina”.
Ancor oggi
ammiriamo il primo libro delle “denuncie da farsi al popolo” che è proprio
dell’Algozini: ivi «ogni domenica si denunciano tutte le feste e vigilie e si
pubblicano gli editti del vescovo e del S.to Officio”. Quest’ultima
denominazione – che avrebbe fatto drizzare le orecchie di Sciascia – resta solo
un flatus vocis, visto che nulla di orripilante è dato di rintracciare nel
citato volume parrocchiale. Leggiamo, ad esempio, questo tediosissimo bando
(come si vedrà non vi è nulla degno della Santa Inquisizione, almeno nella
versione ormai corrente): «Avendo pervenuto alla notizia del Procuratore
Generale de’ Santi Luoghi di Gerusalemme che molte persone abbiano detenuto,
impedito, occupato, sottratto, et in altro uso
convertito l’elemosine, legati, denari, ed altri, in qualsivoglia modo
spettanti a detti Santi Luoghi, essendovi anche di tal occupazione, detenzione,
sottrazione et impedimento scienti alcune persone i quali per rispetto umano
non vogliono rivelarlo, per ordine di Monsignore Ill.mo vescovo di Girgenti si
fa canonica monizione a tutte le suddette persone che dovessero rivelare, e ciò
fra il termine di giorni 15, cinque de’quali se l’assegnano per il 1° termine,
5 per il 2° e 5 per il 3°, quale spirato e non fatti li suddetti riveli si
procederà da esso Mons. Vescovo e Sua E.C.V. alla fulminazione della sentenza
della scomunica contro li scienti e non revelanti li detinenti, occupanti,
impedienti e sottraenti l’elemosine dìsuddette. – 1731 Xa ind.
Ottobre.» L’avrà spegato l’arciprete
Algozini a quei basiti contadini racalmutesi, tutti alla messa della domenica?
Se no, davvero avevano poco da capire. Così come anche noi stentiamo a scoprire
le ragioni che spingono il “devoto e santo vescovo” Gioieni a quelle veementi
minacce di scomunica … contro ignoti. A meno che, dopo l’interdetto, erano
proprio i preti locali ad accaparrarsi i proventi della vendita delle bolle
della crociata; in questo caso erano davvero faccende interne e prudenza voleva
che si si facesse scandalo. Avrà l’Algozini farfugliato qualcosa per non
disobbedire al vescovo ed al contempo non disorientare i suoi parrocchiani, i
nostri antenati?
In quel
periodo approda a Racalmuto M° Filippo Agostino Bianco ed intende sposare
“Marca Peri, schetta, figlia legittima e naturale di M° Rosario e Vita Peri di
questa suddetta terra di Racalmuto.» Il cognome Bianco fu celebre anche ai miei
tempi per la spiccata personalità di don Pasqualino. Il Pepi è patronimico
scomparso da Racalmuto a memoria d’uomo.
Mastro Filippo Bianco era stato davvero un girovago e fu fatica improba per
l’amanuense della Matrice trascrivere tutti quei toponimi esteri in cui il
nubendo aveva dimorato più o meno a lungo: dalla Plagia del Marchesato di
Brandeburgo alla terra di Aisein, ove si recò quando aveva 29 anni; «indi andò
a travagliare da lavorante» in un paio di città estere e dopo finì a Proohoki
per approdare a Vienna, passare in Lungaria, a Preseburg, in Raap, in Ophm.
Ritorna a Vienna, ma non definitivamente: passa a Craaz e quindi a Piumma.
Finalmente ritorna in Sicilia “con un vascello inglese” «e stette trè mesi in
Palermo, di là un mese al Mazzarino, poi quindeci giorni a Butera, indi nove
mesi in questa terra di racalmuto», ove intende accasarsi. Per stabilire lo stato
libero, povera curia arcipretale!. Ma ci riuscirono: nessuno ebbe da eccepire
dopo le pubblicazioni del 29 giugno, del 5 e 22 luglio del 1733. Pubblicazioni
peraltro fatte gratis. E così: «desponsati fuerunt per me don Franciscum
Torretta cappellanum , de licentia Parochi, sub die 24 julii 1733. Testes
fuerunt Gaspar Giglia et Nicolaus S. Angelus, et postea benedicti fuerunt per
sacerdotem Salvatorem Lo Brutto. Registrati
gratis.» Frattanto una famiglia riemergeva dopo un appannamento, la
famiglia Savatteri. Il 2 febbraio 1732 il chierico Giovanni Savatteri, dovendo
accedere all’ordine subdiaconale, può dichiarare pubblicamente che gli è stato
costituito questo cospicuo “patrimonio”: una Cappella di onze dieci annuali con
l’onere di Messe dieci fora data nell’Altare di S. Leonardo, in Serradifalco,
come appare per contratto di fundazione ed elettione stipulato per l’atti di
notaro Simone Boni sotto li 14 gennaro 1732; ed in supplemento una vigna
consistente in migliara cinque con tumuli dui e mondelli dui di terre vacue
confinata con la vingna di notarr Michael Angelo Vaccaro, e altri confini,
nella contrada di Bovo, e numero cinque case conlaterali confinati con le casi
di D. Vincenzo La Matina nel quartieri del Monte come appare in virtù di
donazione stipulata per l’atti di Notari Nicolò Pumo.» La formula di rito si
concludeva con questo “monitorio”: «pertanto se alcuno sapesse che detto
patrimonio sia simulato, fiduciario, o che non sia bastante o di realtà lo
venghi a denunciare.»
A S.
Giovanni di Dio c’era l’ospedale. Affidato ai padri Fatebenefratelli, questi –
e non solo allora – parevano più intenti a farsi i fatti loro che a badare
all’assistenza degli ammalati di Racalmuto. Ma, quando subivano degli “sgarbi”,
si avvalevano delle censure religiose dei loro confratelli della Matrice per
tentare di ritornorare in possesso dei loro beni, violentemente asportati. «Si
notifica ad ogn’uno – ci tramanda l’Algozini – qualmente nel mese di dicembre
del 1732, avendo andato il P. Priore del venerabile Convento di S. Giovanne di
Dio per alcuni affari di detto venerabile convento nella città di Palermo, in
detto tempo, per causa della sua assenza fu fatto notabile danno al detto
convento con averci derubato molto mobile,come formento, sommacco, oglio, e
robba di tela, e molta robba di comestibile ed altro in grave danno e
detrimento del detto venerabile convento, e perché vi sono alcune persone
scienti dell’antedetto, e per rispetto umani non vogliono rivilarlo, intanto
fra il termine di giorni quindeci … avessero da rivelare tutto quello e quanto
sanno di verità altrimenti detto termine elasso e non fatto rivelo alcuno dalli
scienti dell’antedetto, si procederà contro di essi dalla G.C.V. a fulminazione
di scomunica. 1733 XI Ind. Primo 8 e 15 Marzo.» La Gran Curia Vescovile non
credo che abbia sortito effetto alcuno da questa minaccia di scomunica contro
ignoti: voler spezzare con la paura dell’inferno il senso d’omertà che già
allora doveva essere forte a Racalmuto, era pia illusione. E poi a vantaggio di
chi? Di un religioso del Continente che sopra S.Anna ci stava solo per
arraffare le rendite che erano state distolte da Girolamo del Carretto e sua
moglie Melciorra Lanza da un antico, umanitario scopo: la cura degli ammalati
dereletti.
In quel
tempo le feste particolari di Racalmuto, almeno quelle che si celebravano in
Matrice, erano quelle che celebrative di: «S. Giuseppe, SS.mo Crocifisso, S.
Antonio Abbate» nonché quella della SS.ma Annunciata. Non erano, però,
occasioni di peccato o motivi per dar scandalo: «non vi sono male consuetudini
– affermava l’Algozini, e noi dobbiamo credergli – e le vedove per la mestitia
giungono più tosto il tempo della Messa e così ancora le zitelle spose.» Il
pudico vescovo Gioieni poteva star dunque tranquillo.
Sontuose
processioni, si avevano, poi, per il SS.mo Sacramento, nel giorno del Corpus
Domini e per tutta l’Ottava. Inoltre, il giorno delle Rogazioni,
dell’Ascensione, nel giorno di S. Marco, in quello di S. Maria di Giesù, di
Maria del Carmine e di Rosalia:
Ci viene
descritta una processione solenne: la processione del Santissimo «si fa come
quella della Cattedrale; le mazze dell’ombrella e Baldacchino si portano dalli
Giurati senza disparere, con tanti lumi quanto intervengono alla Processione,
tanto di confrati quanto di regolari e clero; la spesa del lume è somministrata
d’ogn’uno di per sé o dal Corpo della Communità.» L’arciprete lamentava
«l’abuso che alcuni regolari portano la Croce senza pallio, ne’ Defonti.»
Ci colpisce
la meticolosità con cui andavano celebrati gli atti fondamentali della vita
religiosa. Il battesimo: «si trasferisce poch’ore dalla nascita del figliolo;
senza necessità non si battezzano infanti in casa; nel sabato santo e nel
precedente della Pentecoste con si battezza con rito solenne.» Noi moderni difficilmente
riusciamo a comprendere come mai quello che per noi è atto d’amore, per
l’arciprete Algozini un abuso che intende assolutamente sradicare: «non s’ha
potuto riparare – accusa – al disordine di alcune madri tengono l’infante in
letto ante annum». E se anche i genitori facevano l’amore, il bimbetto di un
anno poteva davvero scandalizzarsi? Prurito clericale.
L’Eucarestia «si porta all’Infermi giusta la forma
prescritta di Paulo V, con diciotto lumi» a spese della Compagnia del SS.mo
Sacramento: il clerico accompagnava il sacerdote con il Rituale e l’Acqua
Santa. Quanto al sacramento della Confessione – tema scottante – era assicurato
che «le sedie confessionali stanno il Logo aperto della Chiesa con le
finestrelle e latte minutamente perforate, e con le grate spesse di legno. …
Non si ammettono le donne di confessarsi
di faccia a faccia.» Il problema è quello degli infermi che vengono
confessati in tempo per colpa dei medici che «il più delle volte … non osservano
la Chiama» E l’Algozini incalza: «il disordine che corre circa l’infermi s’è
che senza tal necessità alle volte dimandano il SS.mo Viatico ad ora
intempestiva.»
Ovviamente
«li matrimonij si celebrano in chiesa, con la messa pro sponsis, non in casa,
se non con licenza del Vescovo [come abbiamo visto per il pittore Di Benedetto,
n.d.r.]». Sta iniziando l’indagine
ecclesiastica di appurare preventivamente se la volontà è davvero libera: «si
sta introducendo – ci segnala l’Algozini – d’esplorarsi la volontà delli sposi
separatamente.» Il guaio era che già i nubendi qualche carezza se la
scambiassero prima delle nozze. Apriti cielo! «Li sposi alle volte – esagera
l’Algozini – coabitano prima di contrarre il Matrimonio per verba de’ presenti
ma occultamente.»
Il rituale della morte è da brivido: «lo fa il Parroco
quest’Officio per se stesso quando non ha altra occupazione». In ogni caso si
segue un testo dovuto al Principe di Ramacca (sarebbe da cercare) e ci si
attiene al Rituale di Paolo V.
Poi le
esequie: «si osserva il Rituale ad
amussim (a puntino); si paga di mercede per ogni defonto sepellendosi nella
Parochia a ragione di tarì 8.10, cioè tarì 3 per sepoltura e tarì 4 per obitoe
tarì 1.10 per Croce.» Abbiamo notato una lievitazione del prezzo della buona
morte nel corso del Seicento che ora
diviene decisamente alto. Intanto, scemava il tenore di vita dei meno abbienti
e tanti che per orgoglio giammai avrebbero chiesto l’elemosina per il punto di
morte sono ora costretti a farlo ed a
seppellire i loro morti nella carnaia della chiesa “gratis pro Deo”. Aspetto
questo che francamente ci turba. Abbiamo pertanto una volta stigmatizzato il
costume alquanto lugubre di speculare anche sulla morte da parte delle autorità
ecclesiastiche, asserendo:
«I preti - allora - collaboravano, anche
nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora,
come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale
quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti
“dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e,
poi, tasse - e tante- di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano la metà
di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate
primizie) ai “diritti di quarta” della
Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di
Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che
fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti
balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh!
la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.»
Il passo
della relazione Algozini che abbiamo
prima riportato, se non giustifica l’asprezza del tono, una qualche
ragione ce la dà.
E se si voleva
una sepoltura in altra chiesa, aumentava il costo: «in altra chiesa tarì 5 ne
si paga altro funerale se non che la quarta della cera». Anche per i bambini
c’era la «quarta di Monsignor Vescovo, però si pagano soli tarì 1.10 e
competisce a Monsignor Vescovo la quarta parte tanto dell’obito de grandi
quanto dell’obito dei figlioli.» Una nota di costume: «non vi sono abusi delle
donne dolenti e congionti del defonto». Dobbiamo arguire che l’usanza delle
prefiche o si era estinta o si era attenuata fino a non apparire un abuso agli
occhi dell’arciprete Algozini.
Nel tempo della Quaresima, un apposito predicatore veniva
chiamato dal di fuori per le sue roventi omelie volte al pentimento ed alla
redenzione. E questo nell’ampia Matrice. Ciò invece non si reputava
indispensabile nel tempo dell’avvento. Occorreva risparmiare, anche perché le
spese per il predicatore incombevano sull’Università: pare che ascendessero ad
un’onza e 2.5 tarì.
Erano
compiti della parrocchia: a) benedire e distribuire le candele; b) fornire le
palme nei giorni debiti ; c) e ciò a carico dell’arciprete; d) benedire e
distribuire le ceneri; e) benedire solennemente il fonte battesimale, ogni anno
nel sabato antecedente alla Pentecoste; sguinzagliare i sacerdoti per la
benedizione delle case. Allora come oggi.
I problemi
dell’aggiornamento del clero locale in materia di morale e nelle questioni
teologiche? L’Algozini ragguaglia di avere «istituito un’adunanza di casi
coscienza e di sacra scrittura due volte la settimana [anche se] non v’è
costituzione che la precetti; il metodo che si propone e risponde d’uno
dell’adunati il caso della coscienza, ed al punto della sacra scrittura. Tiene
appresso di sé la Bibbia sacra, il cristiano instruito del P. Segnari ed altre
sue opere, il Nesembergh, Crasset, ed altri ascetici; di Morale, il Bonacina
Viva, Sayro, Azorio, Toleto ed altri
simili.
Trascriviamo
ora pedissequamente il capo sesto, che contiene notizie di dettaglio molto
importanti per comprendere la congiuntura storica di quel momento.
«Circa le
notizie deve dare il Paroco della menza Parochiale, del beneficio e della
persona. Della persona [del Parroco]: il suo nome è D. Filippo Algozini di
Prizzi, d’anni 44; è sacerdote, Dottore in filosofia e teologia, revisore de’
libri nella Corte Archiepiscopale di Palermo.
«Il
beneficio ha Ciesa propria [come abbiamo sopra descritto];
«Si chiama
l’archiprestato di Racalmuto, sotto titolo della SS.ma Annunziata; l’è stato
conferito della S. Sede; [di benefici, l’arciprete] ne possiede uno solo, [ed
è] beneficio libero. Le rendite sono un tumolo di formento e un tumolo d’orgio
per ogni casa, le vedove però un solo tumolo di formento, esclusi li fuggiti,
miserabili e mali pagatori. Non vi sono beni alienati né usurpati; e questi
sono Primizie, perché le decime tutte spettano a Mons. Vescovo e Catedrale.»
Ci viene
qui spiegato il termine Primizie che pare fosse, dunque, una pretassazione a
favore del Parroco; mentre le decime vere e proprie – quelle che si facevano
risalire al celebre privilegio del 1099 – erano di pertinenza del Vescovo e dei
Canonici della Cattedrale e venivano sottratte ad ogni ingerenza del locale
arciprete.
Sulle
Primizie arcipretali gravavano pesi ed oneri non indifferenti: 12 onze per i
cappellani; 4 onze per i sacrestani; tarì 6 per il «catredatico»; onze 5 per il
Seminario di Girgenti; tarì 20 per diritti erariali; onze 12 per aggi
esattoriali; tarì 6 per la cera di S. Gerlando; tarì 6 per “l’oglio santo”;
onze 4 «per sollennizzare la festa di Natale»; onza 1 «per la festa di Pascha»;
onze 4 «per l’altre feste mobili dell’Anno, cioè Pentecoste, Ascensione,
quadragesima, tenebri e simili; onze 2 per la Candelora; tarì 24 per le palme;
onze 3 «per spese a minuto di Santuzzi, incenzo, libri parrocchiali, censi di
confessionarij, purghe di sepolture, conze di vasi d’argento ed altri; onza una
e tarì 18 per lavare la biancheria della chiesa; onze 7 per la quarta funerale
incirca; onze 4 per sartatetti di superlletili; onze 2 per candele a chi paga
la primizia; onze 4 “per provedere gli Altari”; [circa] onze 3 per “peregrini,
spesa d’Erarij della G. C. Vescovile, visita, di cui non se ne sa il proprio
stabilimento” ». Insomma, sull’arciprete Algozini gravavano, a suo dire, oneri
per 70 onze e 20 tarì.
E allora
vediamo quali erano gli altri benefici.
«Delle
notizie deve dare il paroco circa i Legati e celebrazione de’ Messe»,
s’intitola il capo XI. Il parroco, in effetti, è tenuto a celebrare messe:
«In tutte
le feste solenni e domeniche dell’anno; per li fratelli e sorelle di S. Maria
del Soffraggio due messe solenni nell’anniversario, una nel primo lunedì di
quadragesima ed altra nell’ottava dei defonti, ed una messa cantata cotidiana
conventuale; per li fratelli del SS.mo Sacramento, una messa cantata
nell’anniversario de defonti. Per il rev.do archipreste dr. D. Salvatore
Petrozzella una messa cantata nel Lunedì del Corpus Domini; per D. Geronimo
Provenzano una messa cantata nel giorno del suo anniversario; per Giovanna
Grillo una messa cantata nell’ultimo vennerdì d’agosto.»
«La
Cappella della SS.ma Annunciata tiene obligo di far sodisfare l’infrascritte
messe, cioè: per l’anima di Don Gaspare Brutto messe n° dieci per reduzione
fatta dal fu Ill.mo Monsignor Vescovo de la Pegna a 9 settembre 1727, in virtù
di testamento del detto rev.do di Lo Brutto per gli atti di notar Natale
Castrogiovanne a 3 ottobre prima
Indizione 1617: al presente si pagano per Domenico d’Alaimo sopra li beni da
lui possessi messe 10; Per Leonora e Bartolomeo d’Asaro messe n° 43 cioè per la
detta Leonora n° 28 e per d. Bartolo n° 15 come per detta reduzione fatta dal
dettoIll.mo de la Pegna nel di sopra citato, in virtù di testamento di detta
Leonora per gli atti di notar Pietro Bell’omo ad 8 febraro prima indizione
1663: al presente si pagano cioè onze 2 per Onofrio Busuito ed onze 1 per
l’eredi di Giuseppe Macaluso Alessi sopra il loro beni: messe n° 43; per tutti
quelli avessero fatti legati alla detta Cappella Messe n° 5 ordinati dal detto
Monsignor della pegna per detta reduzione: messe n.° 5».
La Cappella
del SS.mo Sacramento era gravata dall’obbligo di n° 162 messe e cioè n.° 29 per
l’anima di donna Melchiora Paruta Ramirez, giusta atto del notaio
Castrogiovanne del 18 maggio 1592 ed a spese del Principe di Campofiorito; n°
24 per Costanza Lo Brutto, in virtù di atto del notaio Michelangelo Morreale
del 5 dicembre 1636, con un onere di un’onza dovuta da Simone Sorce e tarì 21
dovuti dagli eredi di Salvatore La Matina; n° 9 per Francesca Casuccio per atto
del 1638 ; n.° 29 per Orsola d’Afflitto per atto del 1654; nà 1 per l’arciprete
dr. D. Salvatore Petrozzella; n° 43 per mastro Libertino Falletta; n° 4 per
soro Anna di Palermo; n.° 12 per il sacerdote don Santo La Matina; n.° 10 per
il sacerdote D. Antonino Macaluso; n° 1 per soro Grazia d’Agrò.
Nella
Cappella di S. Giuseppe dovevano recitarsi queste messe: n° 141 per l’anima del
rev.do sac. D. Giovan Battista d’Acquista; n° 1 per don Geronimo Provenzano; n°
2 messe cantate per l’anima dell’arciprete dr. D. Pompilio Sammaritano, per
obbligo della Compagnia di S. Giuseppe.
Nella
Cappella di S. Maria del Suffragio si celebravano: n° 8 messe per l’anima di
Baldassare Promontoro; n° 9 per don Gaspare Lo Brutto; n° 2 per D. Giovanni
Macaluso; n° 5 per Antonino Sferrazza; n° 12 per Giovanna Grillo; n° 10 per il
rev. Sac. D. Giuseppe Sanfilippo; n° 17 per il sac. D. Girolamo Scirè; n° 43
per Francesco La Licata; n° 56 per
Antonino Sferrazza; n° 14 per il sacerdote don Giovan Battista Baeri; n° 4 per
Vincenzo Castronovo; n° 240 “per diverse persone descritte nella giuliana”; n° 72 per il sac. Don Giuseppe Vella; n° 4
per Giuseppe La Matina; n° 2 “per l’anima di tutti li contribuenti; n° 10 per
il sac. D. Giuseppe Lo Brutto; n° 10 per d. Giuseppe Lo Brutto e Petrozzella;
n° 10 per il notaio Isidoro Lo Brutto; n° 6 per don Francesco Lo Brutto; n° 58
per il sac. Don Calogero Cavallaro.
In quella
“delli Tré Regi” abbiamo n° 3 messe per
don Santo La Matina.
Importante ancora il ruolo delle associazioni cattoliche
laiche; in sommo grado le cosiddette Compagnie. A capo stava il Governatore con
due assistenti che venivano chiamato “congionti”. Spettava loro
l’amministrazione dei beni e venivano eletti con voto segreto. Duravano dai
pochi mesi ad un massimo di un anno, ma potevano venire rinnovati. La carica
era a titolo gratuito. La Compagnia aveva rendite che spesso risalivano alla
notte dei tempi.
In particolare, abbiamo informazioni sulla compagnia del
SS.mo Sacramento cui si deve la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. «Fu fondata per
quanto s’ha potuto con diligenza indagare nell’anno 1632: in tempo di Urbano
VIII»; da quel tempo comunque intervennero le approvazioni episcopali ad ogni
successione sino al predecessore del Gioieni. La confraternita aveva sede nella
chiesa di S. Tommaso d’Aquino, santo che la Compagnia festeggiava nel giorno
della sua ricorrenza. Ancora, a quel tempo, la chiesa non era consacrata ed era
sotto il padronato della medesima Compagnia. Della chiesa si ignorava il tempo
dell’erezione, ma, appunto per ciò, diveva essere piuttosto vetusta. Diciamo
che risaliva per lo meno alla prima metà del Seicento. «La struttura della
chiesa è a forma di oratorio; il tetto di tavoli è buono e non piove. Vi sono
due finestre impannate; le pareti sono buoni; vi sono sessanta stalli di legno
per fratelli; la fabrica si fa a spese delli fratelli. Ha d’entrata onze 12
dovute da don Francesco Maria per gabella di duodeci pecori di detta Compagnia;
di più tarì otto dovuti annualmente da mastro Desiderio Troisi sopra una casa
sita in quartiere di S. Margheritella confinante con mastro Giovanne Di Vita e
Filippa La Caro, lasciateci da Costanzo di Benedetto in virtù di testamento; di
più tiene Tumulo 0-1-2 di terra incirca nella contrata al Mulino Vecchio [..];
di più tarì 4 di rendita .. sopra vigna e terreno nella contrata della Noce; di
più tarì 7 sopra vigna e sommacco nella contrata di Casali Vecchio.» La
Compagnia teneva fiscelle di api, n° 50 pecore e da ultimo i Fratelli dovevano
versare nelle casse sociali 5 grana al mese. Il loro vestiario era
caratteristico: sacchi bianchi con mantello bianco orlato di nero e con la
figura del SS.mo Sacramento, figura che era reiterata negli stendardi e nelle
“verghe”. Nel 1731 erano iscritti 80 fratelli;
dopo un noviziato ed una “prova”, con voto segreto di “tutti gli officiali e
fratelli” si veniva ammessi alla Fratellanza.
La
tumulazione avveniva di solito nelle chiese. Il cimitero principale era alla
Matrice. «Nel pavimento della chiesa – scrive sempre l’Algozini - vi sono n° 10 sepolcrare; non sono sotto le
pradelle dell’Altari; ve ne sono quattro Padronati: una delli fratelli del
SS.mo Sacramaneto, altra delli Petrozzelli, altra delli Brutti ed altra
dell’Acquisti.» Sorprende che non si citi quella dello sciasciano personaggio
di don Santo d’Agrò.
Una notizia
piuttosto inestricabile è la seguente: «vi è cemiterio dentro l’istessa chiesa
murato da per tutto, e però non ci è chiave, né Croce, né speciale benedizione
del Vescovo.» Un’antica “carnaria”, pensiamo noi, che nel 1731 non solo era
andata in disuso ma era stata, forse per motivi igienici, totalmente sotterrata
ed ermeticamente chiusa. Riteniamo che si tratti di quella che frettolasamente
dovette essere aperta al tempo della gavissima peste del 1671.
Notizie di
contorno: il campanile era alto 65 palmi circa e non era coperto ma poteva venire
raggiunto agevolmente con una scala interna definita comoda; era munita di tre
campane come abbiamo già detto che erano state benedette dao precedenti
arcipreti su licenza del vescovo. Il campanile non aveva entrata autonoma: «non
v’è porta perché si salisce dalla medesima chiesa.»
Notevole la
sacrestia: «è a tetto, vi sono tre finestre impannate, in una parte umida. Il
pavimento [è] di gisso; non vi sono armarij; è mediocremente provista di
superlettili sacri secondo l’inventario; la spesa di providerla appartiene al
rev.do Arciprete e legatarij di messe.»
La Matrice
non era subordinata ad alcuno: non v’era jus
patronatus come ad esempio a Grotte che determinerà il cosiddetto scisma
alla fine dell’Ottocento. Al tempo dell’Algozini «non c’era casa Parochiale, né
cose mobili destinate alli Rettori, ma ogni soccessore o se la loca o se la
fabrica per sé». Singolare caso quello della Cappella del Santissimo
Sacramento, in possesso di «cinquanta fiscelli d’api con l’eredi del rev.do
sacerdote D. Calogero Cavallaro» (+ 12 gennaio 1730).
UNA
FAMIGLIA IN ASCESA: i CAVALLARO
Il notaio Angelo Maria Cavallaro
Nella
seconda metà del XVIII secolo si afferma una nuova grande famiglia a Racalmuto,
i Cavallaro. Muore giovanissimo, ma in tempo per lasciare ampie tracce di sé
Angelo Maria Cavallaro, notaio.
All’archivio
di stato di Agrigento diversi tomi di atti notarili lo riguardano ed al
contempo forniscono un quadro della vita paesana racalmutese, particolarmente
suggestivo.
Era
il 1767 e con bella calligrafia viene chiosato l’esordio del repertorio del
Cavallaro. «Jesus Maria Joseph – abbiamo nell’intestazione – Nota minutarum mei
D. Angeli Mariae Cavallaro Notarii Racalmuti, anni primae inditionis 1767 et
1768 Regnante Serenissimo Invictissimo et Potentissimo D.no Nostro Ferdinando,
Dei gratia, inclito Siciliane, Hyerusalem Regi Infante Hispaniarum, Duce
Parmae, Placentiae Castri etc. Magno Haereditario, Etruriae Principe etc.» [15]
Il
12 novembre del 1767 don Francesco Vinci bussa alla porta del giovanissimo
notaio; ha da redigere un atto con mastro Stefano Rizzo e, come dicevasi
allora, “consorti”; oggetto una compravendita di tre mondelli ed una quarta di
terre bonificate (vi sono venti alberi diversae
speciei intus). Il podere è sito nello “stato” di Racalmuto, in contrada
“Perdicis” (Pernici) vicino a certe terre di Calogero Barberi. Censi ve ne
sono: tarì 1 e grana 17 annuali da corrispondere al feudatario, al conte di
Racalmuto iure proprietatis. Il
valore del cespite è di 5 onze e tarì uno, giusta la stima effettuata
dall’estimatore mastro Giuseppe Maria Fusco.
Il
notaio Cavallaro è diligente; raccoglie persino un certificato di buona fede
redatto dall’arciprete del tempo don Strefano Campanella.
Il
successivo giorno 15 è la volta di un notabile ancora più in vista, il barone dr
Nicolaus Antonius Grillo. Questa volta si tratta di un complesso inventario a
titolo di eredità. Il de cuius è il
quondam D. Nicolaus Tirone; gli eredi: D. Rosa Spinola e Tirone vedova di d.
Stefano Tirone ed il figliolo di questa d. Nicolò Tirone. E’ il gota
dell’epoca. Oggetto dell’eredità: «in primis, due muli uno maschio di pilo baio
castano et l’altra femina di pilo bajo, che trovansi in società con Gaetano e
Salvatore Pillasi; un baldoino pizzato, due maratarazzi di linazza, due coltre
di lana sfiloccate, una allarama di Genova e l’altra alla stella; salmi quattro
e tumuli dieci di frumento; salmi quattro di tomminia; salmi dodici di orzo;
salme sette di fave; cinque stipe con duodeni botte di vino d’entro; sei
vombari; uno zappollore; due zappolle; una cascia di legname segata; tre
bisaccie longhe di lana; una pegnata di ramo; un palo di ferro; due piconi; un
ferraiolo; una giammerosa; un cappello e finalmente dieci e nove resti di
fico.»
Nello
stesso giorno viene stilato un documento di grosso risalto per la storia
feudale del paese. Actus gravaminis, viene denominato ed è redatto a richiesta
ed a tutela di un gabelloto dell’epoca, don Gaspare Farrauto. «Io sottoscritto
D. Gaspare Farrauto – possiamo tra l’altro leggere – offerisco alla gabella del
mosto che si sta bandiando nella piazza di questa terra di Racalmuto con tutte
le sue pertinenze, annessi e connessi, onze 150 da pagarsi cioè l’incirca
medietà dopo che si termina la cima del mosto, che si dovrà fare in questa
terra casa per casa, e l’altra incirca medietà all’ultimo di agosto venturo
prima ind. 1768. Col patto che la cima del musto la devo fare io gabellato
immediate, dopo che stipulerò il contratto di d.a gabella in depondenza casa
per casa col patto che qualora a Dio piacendo verrà l’ora dell’esigenza che
sarà al primo di luglio venturo prossimo 1768, io infrascritto gabelloto dovrò
esigere la detta gabella secondo la cima che o fatto ora, servendomi del
braccio baronale senza alcuna dipendenza. Col patto che la Segrezia di questa
mi deve difendere la sudetta gabella, ed io la cautelo colle chiuse di terre
che ho in questo stato ed altre pleggerie. E mi sottoscrivo: D. Gaspare
Farrauto.» Racalmuto, all’epoca, apparteneva all’ill.ma donna Raffaela Gaetani
e Buglio, duchessa di Val Verde. Suo governatore risultava D. Antonio Grillo.
Un
altro Farrauto, il sacerdote don Lorenzo, frattanto (21 novembre 1767) riusciva
ad aggiudicarsi dal Principe di Pantelleria il vicivo feudo di Nadorello. Uno
scambio di terre (appena un tumulo ed un mondello in contrada Pernice) avveniva
tra Francesco Vinci e Stefano Lo Brutto. Si cercava di razionalizzare la
proprietà terriera, molto frazionata. Così, don Francesco Pomo si accaparra da
Maria Magno «modium unum et quartas tres
terrarum cum duobus centum sexaginta sex vitibus vineae et 4 arboribus
amigdalarum in c/da Mentae.» Il piccolissimo appezzamento di terra era
gravato da un censo di tarì 1 e grana 10, spettante, iure propietatis, al
venerabile Convento di S. Maria del Monte Carmelo. Antonino Fucà ne fu il
pubblico estimatore del valore in linea capitale (3 once, tarì 6 e grana 10).
Gli
eredi del quondam Giuseppe Martorana e Salvo Sentinella hanno bisogno del
notaio, il 29 novembre 1767, per una divisione di asse ereditario. Calogero
d’Ippolita dismette delle terre (due tumoli) in contrada Lago, in farore di D.
Francesco Vinci. Il 5 del successivo mese di dicembre, mastro Calogero Romano
acquista da Maria Rao e Russo «domum et
catodium cum antro parvo intus, contigua et collateralia existentia in hac
predicta terra et quarterio della Lavanca, quibus cohesent domus ipsius de Romano, domus Calogeri Avarelli,
domus Philippi Rizzo et aliis.»
L’8
dicembre 1767, Antonino Tornabene viene messo a bottega presso il ciabattino
(cerdo) mastro Pietro Picone. Se ne redige atto pubblico in questi termini:
viene affidato a «magistro Petro Picone cerdoni
[perché usufruisca dell’] opera et servitia personalia» il minorenne
Antonino Tornabene di soli quindici anni. Il ragazzo «adiuverit artem cerdonis
et hoc pro annis 4 ab hodie numerandum … et hoc pro mercede granorum quorum
singulis diebus tam festis quam pro festis pro primo anno; pro secondo granorum
trium, pro terbio granorum quatuor; pro quarto tandem granorum quinque.» Il
Tornabene è però svincolato da ogni rapporto per i mesi di luglio ed agosto:
ovviamente dovrà seguire i suoi nella “campagnata”.
I
La Matina, gente facoltosa, ha problemi di divisione di terre facenti parte
dell’asse ereditario del quondam Francesco La Matina. Si tratta, fra l’altro,
di «tumuli septem et modium unum terrarum
cum quibusdam terris rampantibus in eis inclusis in c/da S. Martae.» Vi
insiste un censo di 23 tarì e 9 grana. Nella parte scoscesa «fuit constructm calcatorium sive palmentum».
Era l’ultimo atto del 1767 cui si accingeva il notaio Angelo Maria Cavallaro.
Il
1768 si apriva con un atto dotale che val la pena di riportare per lo spaccato
che vi traspare. Filippa La Licata si fidanza con Vincenzo Schillaci ed ecco il
“piazzo” della futura sposa:
«Item
bona mobilia scilicet un matazarro ed un sacco di letto novo, un paro di
linzoli grossi novi, un lenzuolo sottile ingroppato novo, una culta bianca
usata, un vantiletto usato ingroppato, un spongiatore ingroppato novo, due para
di piomazzi, cioè un paro usati ed un paro novi, due para di piumazzelli novi,
due para d’ imbesti di facciletti ingroppati novi, un padiglione usato
ingroppato, una cascia usata, tre tovagli di faccia novi, una culta di lana e
filato novi, un paro di cervelli d’oro prezzo ventiquattro tarì, quali si trova
all’orecchi sud.a sposa, un chippone in tocco di lilla, un manto di scotto
novo, una falcetta per la messa in tocco di canni due di saja, tre camicie di
donna novi, tre bocciatori cioè due di filodente, ed uno d’Olanda ingroppato
novi, un spito ed una candela di ferro e finalmente la zita vestuta per la
casa, come si trova.» Deliziosa quella «zita vestuta per la casa, comu si
trova».
Vi
sono pure dei beni immobili, poca cosa, che comunque rendono un poco più
giustificabile il ricorso al notaio per una dote che oggi neppure verrebbe
presa in considerazione. Alla sposa va «medietas
vineae cum terris uti vulgare dicitur “lavorativi” … in contrada Perdicis,
[nonché] domus terranea in quarterio Ss.
Crucifixi pauperum apud domum Filippi d’Ippolita, domum d.i Ignatii dotantis et
alios ..»
Un
«domunculum terraneum existentem in quarterio S.i Joseph» compra il 16 gennaio
1767 Calogero Taibi Corbo da Giuseppe Milazzo Sorcillo: i soprannomi – molti
dei quali ancor oggi in uso – sono consuetudinari, come si vede.
In
contrada Noce - anche all’epoca, prestigiosa – Francesco Scimé riesce a farsi
vendere dal notabile d. Francesco Pomo «tumulos
sex et quartas duas terrarum cum quinque millibus rt bis centum vitibus vineae
et erboribus diversae speciei in contrada Nucis.» L’atto, schematicamente,
precisa: «omnes vero summae harum
terrarum de lordo ascendunt ad dictas uncias septuaginta novem et tarinos
sexdecim.»
Dove e come abbia potuto il
popolano Francesco Scimé raggranellare quella enorme cifra, non sappiamo. Da
lì, una nuova famiglia assurge a vette di rispetto nell’angusta società
racalmutese: nell’Ottocento e nel Novecento gli Scimé sono di varia levatura
economica. Un filone, però, svetta, e domina sino ai nostri giorni.
Seguiamo,
ora, quest’altro atto dotale: Nicoletta Bufalino fa promessa matrimoniale a
Francesco Salvo. Il suo “pitazzo” annovera:
«item
due matarazzi nuovi pieni di resca, tre para di piomazzi, tre para di faccioli,
due para di lenzuoli grossi, una cultra rossa alla gioia, un giraletto rosso,
un cortinaggio novo alla gangitana, una cultra con un giraletto tessuti
all’onda sfiloccati, un paio di lenzuoli sottili, un paro di piomazzi con suoi
faccioli sottili inguarnazionati, sei tovagli di faccia sottili, canni quattro
di tovagli grossi, un sponziatore sottile con guarnigizione, un manto, due
falcette, una di giambollottino nero, ed una altra rossa nova, un panno novo,
quattro gipponi, cioè uno di perpetecello azzolo, uno di pepeticello verde, uno
di benforte, ed un altro di spinno, cinque veli cioè tre di filindente, e due
d’Olanda, una cassa nova alla genovesa, e finalmente la zita vestita come si
trova.» Oltre alla “robba” alla sposa spettano 4 tumoli di terra con 700
viti ed alberi, siti nel feudo di
Gibillini.
Don
Francesco Vinci riesce a fare una permuta di terre con Paolo Salemi. Antonino
Scimé può permettersi di comprare da Filippo Castiglione solo «modium unum terrarum cum biscentum
quadraginta tribus vitibus vineae et arboribus fici in c/da Fanarae.»
Un
contratto dotale avviene tra Rosalia Franco e mastro Carmelo Napoli. Rosalia
Franco viene data in isposa a soli 14 anni. La fidanzatina si distingue per un
anello d’oro, un paio di circelli d’oro ed una collana d’ambra. E’ il 30
gennaio 1768.
Il
successivo 9 febbraio Ciro Rizzo compra da Lorenza Galifa una casa a S.
Giuliano per il prezzo di onze 4.13.14. Giovanni Carbone acquista da Giovanni
Capitano e consorti un mondello di terra ed una quarta. Francesco Lauricella da
Lorenzo Salvo una casa; Giovanni Tirone da Francesco Lo Brutto e consorti, tre
mondelli di terra a Rocca Russa; Francesco Marsala di Grotte scende a Racalmuto
per un contratto con Mario d’Arnone.
Siamo
a fine marzo del 1768: Anna Tulumello pensa all’anima sua e dona alla Cappella
di S. Maria del Suffragio «intus matricem» un tumulo di terra da estrapolare
dai 5 che possiede alla Menta. In cambio, i responsabili della Venerabile
Cappella debbono «celebrare facere missam
solemnem cum interventu et assistentia totius cleri et semel capere duas bullas.»
In
quel marzo qualche strana tassa sulle professioni dovettero inventare i
Borboni: ecco che Don Francesco Savatteri «nolle
amplius exercere officium aromatarii». L’avrà fatto dopo abusivamente.
Salvatore
Piccione compra da Giuseppe Milazzo una casa sita a S. Nicola per il prezzo di
onze 10.16.10; Filippo d’Ippolita la compra per onze 5.4.0 da Luciano Morreale
Campanella: è casa però diruta ed è posta in
quartiere ut dicitur della Rocca della za Betta.
Don
Calogero Tirone ottiene da Rosa Spinola e consorti domus terranea existens in S. Maria Montis. Filippo Rizzo compra da
Calogero La Mendola e consorti tumoli 1 et quarte 2 con 800 viti e 2 alberi di
pero in Gibillini, contrada di Gargilata «apud terras dicti d. Rizzo, terras
Calogeri Palermo, terras Batoli Scimé. Dette terre sono soggette a onze 3
«singula salma iure proprietatis debitis Ill.° Baroni d. feudi Gibillinorum».
Il prezzo: onze 5.5.
«Calogero
La Mendola e Venera Diana, marito e moglie, campano poveri», attesta
l’arciprete D. Stefano Campanella; sono quindi facoltizzati a vendere quel po’
di beni immobili che possiedono a titolo dotale.
Data
all’11 aprile 1768 «testamentum Christophalae Baeri, uxor Raimondi Borsellino».
Angelo Tulumello compra terre da d. Gioacchino Lo Brutto per l’esorbitante
cifra di onze 7. E giungiamo al 22 di aprile del 1768 quando un antenato di
Leonardo Sciascia spitula un contratto societario di grosso momento. Si tratta
del padre del «nonno del nonno» dello scrittore, che non solo non viveva, come
vorrebbe il celeberrimo pro nipote, a Bompensiere, ma operava come conciatore
di pelli nelle nostre lande. L’atto [16]
descrive la singolare societas tra mastro Giuseppe Alfano e mastro Carmelo
Bellavia che conferivano «uncias quadraginta unam et tarenos decem et octo» per
comprare 24 cuoi di bue e lavorarli, «in pretio vigenti quatuor coriorum
bovum.» Da una parte affiancava mastro Giuseppe Alfano mastro Pietro Picone,
dall’altra era proprio mastro Leonardo Sciascia che si associava a mastro
Bellavia.
Non va però oscurato il fatto che
già alla fine del ‘600 i Cavallaro erano emersi dal grigiore paesano. Attorno
al 1660 nasce il sacerdote don Calogero Cavallaro; questi assurge a collegiale
e quindi ha rendite più che notevoli. Fatto sta che quando muore, invero tutto
preso dal terrore dell’al dilà, lascia un testamento tutto carico di legati per
le chiese. Abbiamo visto sopra come anche la confraternita del SS.mo
Sacramento, alloggiata in 70 scranni di legno nell’oratorio di S. Tommaso
d’Aquino, beneficia di tali lasciti, alcuni dei quali veramente singolari, pecore
e fuscelli d’api. Il Cavallaro, morto il 12 gennaio 1730, qualche bene però
alla famiglia dovette lasciarlo: si dà il caso che da quel momento quel ceppo
passa tra i notabili di Racalmuto. Il notaio è il primo di una serie che darà
lustro e decoro ad una nuova sciatta di
“galantuomini” che perdurano ancor oggi.
Nel 1664 due sole
famiglie Cavallaro c’erano a Racalmuto: entrambi i capi dei “fuochi” si
chiamavano Pietro e, per distinguerli, uno veniva denominato Maiuri e l’altro
Minuri; Calogero Cavallaro apparteneva al nucleo di quest’ultimo, come si
evince dalla seguente registrazione nell’apposita “numerazione delle anime”.
CAVALLARO MINURI
|
PETRU
|
|
C.
|
|
PAULA
|
M.
|
C.
|
|
CALOGGIARU
|
|
|
|
GRATIA
|
F.
|
|
Nessuna aggettivazione riscontriamo
in ordine all’eccellenza della famiglia, che dunque era ancora attestata ai
livelli dei piccoli proprietari locali.
Un
oscuro chieri, Orazio Cavallaro, muore attorno al 1715 (v. LIBER n° 182). Muore
nel 1784, all’età di 46 anni, un altro ecclesiastico di spicco, anche questo chiamato
Calogero Cavallaro, che nel LIBER (n° 288) viene indicato genericamente come
“abbate”. Ma è solo nei primi decenni
dell’Ottocento che tornano i preti autorevoli in quella famiglia. Il
nostro LIBER (n° 360) ci informa che don Emmanuele Cavallaro fu arciprete di
Realmonte e là morì il 21 febbraio 1836.
Ma già, ai
primi dell’Ottocento, i Cavallaro sono degli ottimati locali soprattutto per la
professione notarile, ove contemporaneamente eccellono vari comoponenti della
famiglia, come dimostra quest’ultima numerazione delle anime del 1822.
5671
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE ELIA SAC.
|
|
|
SAC. D.
|
|
5696
|
CAVALLARO
|
GABRIELE
|
|
|
NOTARO D.
|
|
5697
|
CAVALLARO
|
M. GIUSEPPA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
|
5698
|
CAVALLARO
|
BERNARDO SAC.
|
F.O
|
|
SAC. D.
|
|
5699
|
CAVALLARO
|
GIOVANNI
|
F.O
|
30
|
D.
|
|
5700
|
CAVALLARO
|
ROSA
|
|
16
|
|
|
5701
|
CAVALLARO
|
CALOGERA
|
F.A
|
9
|
|
|
5703
|
CAVALLARO
|
GIROLAMO
|
VEDOVO
|
|
D. NOT.
|
|
5704
|
CAVALLARO
|
ANTONINA
|
F.A
|
2
|
|
|
5705
|
CAVALLARO
|
PIETRO
|
|
|
NOTAR D.
|
|
5706
|
CAVALLARO
|
CALOGERA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
|
5746
|
CAVALLARO
|
FELICE
|
|
|
NOTAR D.
|
|
5747
|
CAVALLARO
|
DOMENICA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
|
5748
|
CAVALLARO
|
CALOGERO SAC.
|
F.O
|
|
SAC. D.
|
|
5749
|
CAVALLARO
|
IGNAZIO SAC.
|
F.O
|
|
SAC. B.LE D.
|
|
5750
|
CAVALLARO
|
ROSALIA
|
F.A
|
|
D.
|
|
5751
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE DI D. FELICE
|
|
D.
|
||
5752
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
|
5753
|
CAVALLARO
|
GIUSEPPE
|
F.O
|
M. 1
|
|
|
Ben
19 membri ormai dominano il paese con
quattro notai e quattro sacerdoti. I maschi sono ora segnati in Matrice con
l’orpello di “don”, le donne con quello di “donna”.
Nel
Settecento, i Cavallaro si erano socialmente irrobustiti con matrimoni d’alto
livello, che li avevano imparentati con le più cospicue schiatte del notabilato
locale.
Un
matrimonio che segna un salto nella scala sociale fu di sicuro quello che nel
primo quarantennio del ‘700 contrasse don Emanuele Cavallaro con donna
Melchiorra Lo Brutto: costei apparteneva ad una famiglia che a quel tempo
dominava Racalmuto, anche se con toni sempre più sommessi, per il fatto che
aveva gravitato su un arciprete molto intimo dei del Carretto. Attorno al 1754,
il Cavallaro abita in un’ampia casa, sita nell’esclusivo quartiere della
Piazza, come ci attesta un rogito:
Tiene ed esige di don Emmanuele Cavallaro tt. 10.10
sopra n.° 4: casi consistenti in quattro stanzi in questa Terra quartieri della
Piazza confinante con casa di don Giuseppe Bellavia e strata che ragionati al
5% il capitale importa onze setti
.................................................................... -/ 7
I Cavallaro
risultano, in atti del 1715, proprietari, sia pure con i vincoli feudali
all’epoca esistenti, di fondi
nella contrata di Bovo confinanti con li terri di
Onofrio Cavallaro, con li terri di Geronimo Macaluso, e d'altri confini.
Suggetti in gr: cinque dovuti ogn'anno per raggione di proprietà all'Ill.e
Conte di Racalmuto
Ma, alla fine del ‘600, erano ancora in ristrettezze tanto
da essere costretti ad alienare case di proprietà, come dal seguente rogito:
A 21 settembre X4^ Ind. 1690
Venditione fatta da Pietro Cavallaro al venerabile
Convento di S: Maria del Carmine di questa d'una casa terrana sita e posta in
questa terra e quarterio di S: Margaritella confinante con la casa di Santo
d'Agrò et altri confini. La posessione ci la diede la medesima giornata per lo
prezzo di -/ 2:21:10: di contanti come meglio per detta venditione il di di
sopra.
Del resto,
lo zio sacerdote aveva avuto fondi per acquistare terre dai fratelli Savatteri,
che stavano attraversando un momento economicamente difficile. Eccone gli
estremi
A 28 dicembre 7^ ind. 1698
Vendizione fanno Vincenzo e Michel'Angelo Savatteri
di Racalmuto al Sac. d: Calogero Cavallaro di una pianta di vignia consistenti
in migliaro uno e viti quindici con sue alberi limiti, e altri existente nello
fego di Racalmuto, e nella contrata di Bovo confinanti con la vignia di Santo
Calello con li terri dell'heredi del quondam Notaro Carlo Pumo e d'altri
confini. Suggetta in tt. uno grana due e piccioli trè dovuti pre raggione di
proprietà all'Ill.e Conte di Racalmuto. La posessione della quale ci la diedero
lo stesso giorno per lo prezzo di onze deci e tt. vinti quattro quale secondo
la stima fatta per Marco Ristivo, e Marco Falletta quali prezzo li sù detti
Savatteri lo confessorno de contanti, e come meglio per detta vendizione si
legge.
E
subito dopo è la volta di una casa che allarghi quella già posseduta:
A 15 ottobre 8^ Ind. 1699
Venditione fatta da Baldassaro Scibetta e Giovanna
La Calci vidua relicta del quondam Stefano al r.do Sac. D. Calogero Cavallaro
d'una casa terrana posta in questa terra di Racalmuto nel quartiero di S.
Margaritella confinante con la casa di detto di Cavallaro e con la casa di
Michael Angelo e Antoni Burgio. La posessione la diede la medesima giornata per
lo prezzo di onze 2: come meglio per detta venditione il di di sopra.
Il
reverendo ora vuole aumentare l’estensione delle sue terre. Intanto compra
quest’appezzamento:
A 26 novembre 8^ ind. 1699
Venditione fatta da m.° Pietro e m.° Giachino
Facciponti patre e figlio al sac: d. Calogero Cavallaro d'una vigna consistente in 645 viti incirca con suoi
arbori posta nel fego di questa nella nontrata di Piomentisi confinante con la
vigna di detto di Cavallaro e confinante con la vigna di Filippo di Costa. La
posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo di onze 6.25. come
meglio per detta venditione il di di sopra.
E
l’anno successivo quest’altra casa:
A 19 agosto 8^
ind. 1700
Venditione fatta da Francesco e Beatrice d'Alaimo
Sciortino Giugali al Sac.te d. Calogero Cavallaro d'una casa terrana posta in
questa terra nel quartero di S: Margaritella confinante con la casa di detto d.
di Cavallaro e altri confini. La posessione della quale la diede la medesima
giornata per lo prezzo di onze 4: come meglio per detta venditione il di di
sopra.
Non
disdegna il nostro sacerdote di dedicarsi all’acquisto di case a scopo
speculativo, per darle in affitto, come sicuramente sarà successo per questa
nuova proprietà immobiliare:
A 23 Marzo 13^ Ind. 1705
Venditione fatta da Catarina e Stefano Pitrotto
matre e figlio al sac. d. Calogero Cavallaro d'una casa terrana posta in
questa, quarteri dello Castello seu Fontana confinante con Giuseppe Salvaggio e
via publica. La posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo secondo
sarà la stima e meglio in detta venditione il di di sopra.
Inizia
la corsa alla terra:
A 7 ottobre 14^ Ind. 1705
Venditione fatta da Stefano, Giovanne, Anna e Angela
Milisensa madre e figli al Sac. d. Calogero Cavallaro d'una chiusa consistente
in salme -.4.1. di terra posta nel fegho della Menta contrata etc. confinante
con Mariano La Fichera e con heredi di notaro Carlo di Puma e altri confini.
Soggetta in tt. 2.27. annuale per ragione di proprietà all'Ill.e Conte di
questa. La posessione la diede la medesima giornata per lo prezzo di -/ 8.14.
de netto e meglio in detta venditione il di di sopra.
Compera
cui si aggiunge la seguente:
A 10 Settembre 4^ Ind. 1710
Venditione fatta da Vincenzo Cullura Polito al Sac.
d. Calogero Cavallaro di tummina dui, e mondella tre e quarte due di terre
poste nel fegho della Menta e contrata di Fico Amara confinante con Paulino di
Nicastro, e d' Andria Tulumello ed altri confini. Soggetti in tt. 2 per ragione
di proprietà all'Ill.e Conte di questa. La posessione la diede la medesima
giornata per lo prezzo di -/ 6.8 de contanti e come meglio in detta venditione
il di di sopra.
E
quel sacerdote passa da una compera all’altra. Ecco quest’altro significativo
rogito:
A 13 novembre Prima Ind. 1707:
Venditione fatta da Santa Biundo relicta del quondam
Melchiorre e Francesco Grillo suo genero vendorno al R.do d: Calogero Cavallaro
tummina dui mondelli dui e quarti dui di terri in questo fego e contrata della
Nuci confinante con li terri del Sac: d: Giovan Battista Baera ed altri
confini. La posessione la medesima giornata per lo prezzo di onze 5:23: di
contanti come meglio per detta venditione il di di sopra.
E
quest’altro:
A 18: Dicembre Prima Ind. 1707
Venditione fatta da Mariano Burrugano al detto R.do
Sac: d: Calogero Cavallaro tummina dui e mondelli dui di terre in questo fego
confinante conli terri di Paulino di Nicastro ed altri confini. Suggetti in
tt.1.17.3. per ragione di proprietà all'Ill.e conte. Il posesso la medesima
giornata per lo prezzo di -/ 4:17:3: di contanti come meglio per detta
venditione il di di sopra.
Ed
ancora:
A 11: Gennaro Prima Ind. 1708
Venditione fatta da Nicolò Castilluzzo al R.do Sac.
d. Calogero Cavallaro di tummina dui di terre in circa in questo fego e
contrata della Nuci confinante con li terri del detto di Cavallaro ed altri
confini. Sogetti in tt. 2:5: per ragione di proprietà all'Ill.e Prencipe Conte.
La posessione la medesima giornata per il prezzo di -/ 5:14:10: di contanti
come meglio per detta venditione il di di sopra.
Insaziabile
la fame di terra di don Calogero Cavallaro. Il suo fondo alla Noce, forse
proprio quello che ancora la famiglia possiede, di estende in data:
A 9: ottobre 2^ Ind. 1708
Venditione fatta da Sor: Maddalena Chiumbino al R.do
sac. d. Calogero Cavallaro di tummina quattro di terre in circa in questo fego e contrata della Nuci
confinante con li terri del detto di Cavallaro. Sugetti in tt. 2:2:3: per
ragione di proprietà all'Ill.e Conte etc. La posessione la medesima giornata
per lo prezzo di -/ 9:18:10: di contanti come meglio per detta venditione il di
di sopra.
Ed
ora la voglia di case:
A 22 Gennaro 2^ Ind. 1709
Vendizione fatta da Salvatore Pitrozzella al
Reverendo Sac. D. Calogero Cavallaro d'una casa in questa terra e quarterio di
S: Margaritella confinante con li casi di Giovanne Capobianco ed'altri confini.
La posessione la medesima giornata per il prezzo di -/ 7: di contanti come
meglio per detta venditione il di di sopra.
E’
la stessa nobiltà dei Del Carretto che ora vende a quel sacerdote con
disponibilità liquide davvero inesauribili:
A 10 Febraro 2^ Ind. 1709
L'Ill.e D. Maria del Carretto, e Montaperto fece
venditione al rev.do sac: d.Calogero Cavallaro di questa di tummina tre, e
mondella dui, e quarta uno di terra existente el fegho della Menta confinante
colle terre del suddetto di Cavallaro, e colle terre del Marcato del sudetto
fegho. Soggetti in tt. dui, grana tredici, e piccoli tre annuali dovuti ogn'anno
all'Ill.e Conte di Racalmuto per ragione di proprietà in virtù di suoi
contratti. Per lo prezzo di -/ undici tt. setti grana dui e piccoli tre come
furono existimate per Ippolito Fucà. Quale prezzo lo confessò de contanti. La
posessione d'hoggi innante.
L’anno
successivo è la volta di una nuova casa:
A 27 Febraro 3^ Ind. 1710
Soro Giuseppa Macaluso di questa terra di Racalmuto
fece vendittione al Rev.do Sac: d. Calogero Cavallaro di questa d'una casa in
questa terra, contrata di S. Margaritella confinante colle case del sudetto di
Cavallaro di questa - franca di censo. La posessione d'hoggi innante per lo
prezzo di onze tre e tt. ventinovi come fù estimata per m.° Alessandro Picone.
Quale prezzo lo confessa de contanti.
Ed
ancora nuove terre:
A 16 ottobre 4^ Ind. 1710
Soro Perpetua
di Nolfo di questa terra di Racalmuto fece vendizione al Sac. d.
Calogero Cavallaro di questa d'una chiusa consistente in tumolo uno e monnella
tre di terra incirca existente in questo Stato contrata della Nuci e Menta confinante
con la chiusa del supradetto di Cavallaro. Soggetta in tt. uno e grana cinque
annuali dovuti all'Ill.e Conte di Racalmuto per ragione di proprietà in virtù
di suoi contratti. La posssione d'hoggi innante per lo prezzo di onze quattro
tt. venti grana dudici e piccoli tre a ragione ad'onze quaranta salma. Quale
prezzo lo confessa de contanti.
Siamo
nel 1712, altro acquisto:
A 17 ottobre 6^ Ind. 1712
Venditione fà Sebastiano Cullura di Racalmuto al
Sac. don Calogero Cavallaro anche di questa d'una vigna nel fegho di Racalmuto
e nella contrata della Montagna confinante con la vigna di Geronimo di Giglia,
e confinante con la vigna e chiusa di Vincenzo Cullura. Sogetta in tarì sei e
grana uno cioè tarì uno e grana uno all'Ill.e Sig. Conte di questa e tarì
cinque alla Venerabile chiesa di S: Michele anche di questa sudetta terra. La
posessione ci la dona il medesimo di per lo prezzo di onze cinque quale onze 5.
detto confessa haverli ricevuto di contanti come meglio per detta venditione
appare sotto il di di sopra.
La
voglia di terra spinge il sacerdote ad accollarsi canoni e censi pur di venire
in possesso fondi coltivabili, come questo caratteristico atto di “renuncia e
relaxito”, da parte di un facoltoso notaio. Attesta:
A 9 novembre septima ind. 1712
Notar Giachino Spinola di questa terra di Racalmuto
fece renuncia e relaxito al Rev. sac: d. Calogero Cavallaro pure di questa di
salma una, tummina quattro e monnelli dui di terra existente in questo Stato
confinante colla chiusa di Petro Farrauto la Pupara e via publica ed'altri
confini. Soggetta nella rata del censo dovuto a questo Stato per ragione di
proprietà. La posessione d'hoggi innante
etc. lo relaxito per lo medesimo censo.
Sono
proprio inesauribili le risorse finanziarie di d. Calogero Cavallaro, non
riconducibili certo alle sole consistenze del “patrimonio” di cui fu dotato per
accedere al sacerdozio. Ne è conferma questo rogito di un paio di anni dopo:
A 16 ottobre ottava ind. 1714
Notar Isidoro Lo Brutto, Nicolao
Puma, Notaro Calogero Alferi e Geronimo Grillo Jar.° e mastro Pietro, ed Ignatio Facciponti patre
e figlio in solido fecero venditione al rev. sac. d. Calogero Cavallaro di
questa di un Palmento collo terreno suggetto a detto palmento posto in questo
Stato contrata di Bovo confinante con la vigna di detti Facciponti, e vigna di
Caetano Cammalleri - franco di censo. La posessione d'hoggi innante. Per lo
prezzo di onze venti come fu stimato per mastro Alessandro Picone Capo Mastro,
quale lo confessa de contanti.
Nella
seconda metà del Settecento i Cavallaro sono davvero affermati a Racalmuto.
Vediamo ad esempio questo matrimonio:
31/7/1768
|
CAVALLARO D. GIUSEPPE DELLI FURONO D.
EMMANUELE E
|
BRUTTO D. MELCHIORRA
|
BIONDI D. CALOGERA DE.LLI FURONO D.
FRANCESCO
|
SOLDANO D. ROSA
|
Don
Giuseppe Cavallaro, figlio di quei coniugi che abbiamo citato sopra, può
sposare donna Calogera Biondi, che seppure orfana di entrambi i genitori, è pur
sempre un membro di una notevolissima famiglia racalmutese di quel periodo.
Il
fratello, un notaio, sposa una Savatteri, donna Domenica figlia di Francesco e
di Lo Brutto Dorotea: famiglie importantissime che fanno quadrato con vincoli
matrimoniali:
27/8/1780
|
CAVALLARO NOT. D. FELICE DELLI Q. D.
EMANUELE
|
BRUTTO D. ELENORA
|
SAVATTERI D. DOMENICA DEL Q. D. FRANCESCO
E
|
BRUTTO D. DOROTEA
|
PER D. JOSEPH SAVATTERI ET BRUTTO: TESTI
D. PAOLO TIRONE E ISIDORO AMELLA
|
Ed
un terzo fratello, un medico, convola a nozze sempre con una Biondi:
18/11/1786
|
CAVALLARO Dr D. GABRIELE DELLI Q. EMANUELE
E
|
BRUTTO D. LEONORA
|
BIONDI D. MARIA DI D. VINCENZO E
|
RINALDI D. ROSARIA
|
PER D. JOSEPH SAVATTERI E BRUTTO
|
A
fine secolo, abbiamo due Cavallaro che sono sacerdoti:
CAVALLARO
|
EMMANUELE SAC. DON
|
36
|
SAC. DON
|
|
|
GIUSEPPE ELIA SAC. DON
|
28
|
SAC. DON FRATELLO
|
Un
altro con moglie, zia settantenne e serva:
CAVALLARO
|
PIETRO
|
|
36
|
DON
|
|
CALOGERA
|
M
|
28
|
DONNA
|
|
GIUSEPPA
|
|
70
|
D: ZIA
|
RINCIGLIO
|
MARIA
|
|
50
|
SERVA
|
Il
capostipite, notaio, con un nucleo familiare assortito:
CAVALLARO
|
FELICE NOT. D:
|
|
60
|
NOTAIO D:
|
|
DOMENICA D:
|
M
|
40
|
|
|
CALOGERO D:
|
|
22
|
|
|
IGNAZIO D:
|
|
18
|
|
|
ROSA D:
|
|
12
|
|
|
GIUSEPPE D:
|
|
10
|
|
|
CALOGERA
|
|
19
|
|
Cui
non è da meno il fratello cinquantaduenne, anche lui notaio:
CAVALLARO
|
GABRIELE D:
|
|
52
|
NOTARO DON
|
|
MARIA GIUSEPPA D:
|
M
|
32
|
DONNA
|
|
BERNARDO CL:
|
F
|
18
|
CLERICO
|
|
MARIA ROSA
|
F
|
4
|
|
|
MARIA NONA
|
F
|
1
|
|
|
ANGELA
|
F
|
12
|
|
|
GIROLAMO
|
F
|
15
|
|
|
GIOVANNI
|
F
|
13
|
|
|
ONOFRIO D:
|
|
56
|
D:
|
|
ROSALIA
|
|
22
|
|
Recluse
al Monastero di Santa Chiara ben cinque religiose tra monache, novizie ed
educande:
CAVALLARO
|
Sr. MARIA CARMELA
|
|
SUORA
|
||
CAVALLARO
|
Sr. MARIA RAFFAELLA
|
|
SUORA
|
||
|
NOVIZIE
|
|
|
|
|
CAVALLARO
|
Sr. MARIA TERESIA
|
|
|
|
|
|
EDUCANDE
|
|
|
|
|
CAVALLARO
|
CARMELA D:
|
|
|
|
|
CAVALLARO
|
NORA D:
|
|
|
|
|
Superiora
a quel tempo era una loro zia:
BIONDI
|
Sr. MARIA DI GESU'
|
|
|
ABBADESSA
|
La
crisi del feudalesimo a Racalmuto faceva emergere i notabili della nuova alta
borgesia, cui affluivano gli incarichi pubblici. Don Giuseppe Cavallaro assurge
alla carica di Sindaco negli anni che
vanno dal 1784 al 1787. E nel 1793 ce lo ritroviamo tra i deputati. Nell’esercizio
successivo, accede tra i giurati don Raffaele Cavallaro. Negli anni seguenti, è
don Felice Cavallaro che sovrintende all’intero patrimonio comunale.
L’eminente
famiglia mantiene, ed anzi accresce, il ruolo egemone nella vita della locale
comunità nel successivo secolo: cosa che vedremo più dettagliamente, dopo,
quando accenneremo alle vicende dell’Ottocento.
SI APPANNANO I CASUCCIO
Una commovente lettera dei Casuccio
del Settecento.
Emblematica del travaglio dei
tempi, è questa lettera scritta da un Casuccio all’arciprete Campanella: lo stile
sarà impacciato ma il mittente mostra una consuetudine con la parola scritta
che per l’epoca è apprezzabile; la mortalità infantile è drammatica, le
ristrettezze economiche diffuse.
Ill.mo Signore e Reverendissimo
Colendissimo.
L’afflizioni che hà recato a mè e a
tutta questa mia picciola famiglia rimasta, per la morte di quel benedetto,
sfortunato figlio d: Bartolomeo, non possono esagerarsi con la lingua, né
esprimersi con la penna; tutta lascio considerare a V. S. Ill.ma, pensando, che
dietro le morti di quelli anco altri premorti figli, il Signore mi hà tolto
questo, restandomi solamente una figlia, e don Ignazio, i quali sbigottiti di
quest’ultimo caso, campano in cura di medicamenti, ma tutti impauriti. Mentre
ringrazio il suo affetto di quest’Ufficio sacro passato, prigandola di
raccomandarmi al Signore e di onorarmi con li suoi comandi, mi soscrivo di V.S.
Ill.ma Ill.mo Signor d: Stefano Campanella – Racalmuto. - Dato li 15 dicembre 1770
Ma tanto
non è solo il grido di dolore di notabile in decadenza, quanto il segno di un
declino di una famiglia che un tempo era stata localmente egemone: trattasi di
un declino che durerà un secolo; alla fine dell’Ottocento ritornerà in auge,
prima con un intraprendente burgisi che lascia la vanga per il piccone e scava
con successo nelle viscere della contrada Ciaula alla ricerca del nuovo oro, lo
zolfo, e poi con un arciprete che dominerà Racalmuto per tutto il periodo
fascista e, soprattutto, nella prima era democristiana.
I Casuccio, invero, affondano le loro scaturigini
familiari nei primordi della storia locale: nei registri parrocchiali della
Matrice - una grande miniera di dati, sinora sostanzialmente negletta – si
riscontrano già agli albori di quella documentazione [risalenti al 1564 e cioè
al tempo della prima attuazione della Controriforma Tridentina] ben undici
ceppi familiari con il cognome “Casuccio”, in grafia più o meno corretta. Sono
tutti appartenenti alla buona borghesia del luogo e portano spesso un doppio
cognome che si rifà nientemeno ai DORIA.
Quella
famiglia può oggi vantare veri e propri nobili lombi, e sono i soli a
Racalmuto. Ciò nei limiti, s’intende, in cui i Doria - quelli di Dante e quelli
della storia di Genova, quelli del Cardinale Giannettino Doria di Palermo del
tempo di M.A. Alaimo e Beatrice del Carretto e gli altri della celeberrima
prosapia - possono essere considerati
nobili.
N°
|
Cognome
|
Nome
|
Coniuge
|
1
|
Casuccia
|
Francesco
|
Maruzza
|
2
|
Casuccia
|
Gioseppe
|
Bastiana
|
3
|
Casuccia
|
Jacobo
|
Ioannella
|
4
|
Casuchia
|
Joanni
|
Rosa
|
5
|
Casuccia
|
Michele
|
Beatrice
|
6
|
Casuccia
|
Nardo
|
Minichella
|
7
|
Casuccio
|
Petro
|
Cartherina
|
8
|
Casuccia
|
Salvaturi
|
Juannella
|
9
|
Casuccia
|
Silvestro
|
Angela
|
10
|
Casuchia
|
Simuni
|
Contissa
|
11
|
Casucci
|
Vincenzo
|
Betta
|
Comprovano
il doppio cognome questi atti parrocchiali:
10
|
9
|
1585
|
Geronimo
|
1
|
Antoni
|
Gulpi
|
Agata
|
Casuchia Doria Joanni
|
24
|
9
|
1586
|
Leonardo
|
Vincenzo
|
Parla
|
Solemia
|
Cimbardo
cl. Angilo
|
Casucia Doria Vinc. m. di Fran.
|
8
|
7
|
1585
|
Jannuccio
|
Nicolao
|
Antonuccio quodam
|
Angila
|
Fuca'
|
Agata
|
Gasparo quondam
|
Betta
|
Casucia Doria Giovanni
|
4
|
1591
|
Maruzza
|
2
|
Antonino
|
Muriali
|
Francesca
|
Doria Jo:
|
4
|
1591
|
Santo
|
1
|
Antonino
|
Vento
|
Paola
|
Doria Jo:
|
10
|
6
|
1591
|
Jacopo
|
1
|
Francesco
|
Rizzo
|
Vittoria
|
Casuccia Doria Jo:
|
1.8.1616
|
CASUCCIO DORIA
|
FILIPPA
|
Emergevano, alla fine del Seicento, don Giuseppe Casucci e
don Pietro Casucci, contro i quali si affilavano le armi giuridiche del conte
Girolamo del Carretto, che li accusava di usurpazione di privilegi terrieri ed
indebite esenzioni fiscali.
Secondo il
conte, don Giuseppe Casucci possedeva sine titulo un fondo in contrada Bovo e
cioè:
clusae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo
Racalmuti et in contrata nominata di Bovo, confinaneis cum clusa Joseph
Torretta, cum vineis Stephani Bruno et cum clusa Augustini de Beneditti, nulliter possessae per dictum
reverendum sacerdotem d. Joseph Casucci.
Del pari,
ciò valeva per l’altro sacerdote don Pietro Casucci:
clusae cum terris scapulis cum vineis,
arboribus et alijs exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata
di Bovo seu Montagna confinantes ex una parte cum vineis et terris ditti de Signorino, cum clusa
notarij Francisci de Puma et cum clusa don Antonini Bartholotta, nec non
cuiusdam vineae cum terris scapulis exstentes in dicto pheudo Racalmuti et in contrata nominata della Fontana
della Fico confinaneis cum vineis quondam
Antonini Vassallo, cum vineis Isidori Lauricella Erarij et cum vineis Pauli
Bucculeri alias Gialì, indebité
possessarum per dictum Sacerdotem don Petrum Casucci.
Sappiamo che don Pietro Casucci finì i suoi giorni terreni
il 7 dicembre 1713 all’età di 55 anni. Era un “collegiale” e cioè un
mansionario di quella Comunia che aveva istituito l’arciprete Lo Brutto. Don
Giuseppe Casucci visse più a lungo (decede il 15 gennaio 1728) ed era anche lui
“collegiale”.
Ma al di là del patrimonio a
suo tempo costituito non ci pare che i due sacerdoti abbiano avuto poi grosse
disponibilità finanziarie per allargare le loro possidenze. Ci risulta solo
quest’atto in favore di Pietro Casucci, che comunque ha tutta l’aria di una
sistemazione di pendenze familiari:
A 5: Aprile Prima Ind. 1708:
Venditione fatta da Brigida Casucci relicta del quondam d. Ignatio al
R.do sac: d. Pietro Casucci migliara sei di vigna con il suo palmento, albori,
limiti ed'altri nel fego delli Giardinelli confinante con la vigna di Michael
Angelo Callega ed altri confini. Sogetta nel suo solito censo. La posessione la
medesima giornata per il prezzo di onze cento di contanti come meglio per detta
venditione il di di sopra.
Un altro
paio di sacerdoti, don Gaspare Casucci e don Vincenzo Casucci, ne mantengono
ancora il prestigio ecclesiastico e quindi sociale sino alla prima metà del
Settecento. Don Gaspare, collegiale beneficiale di S. Antonio, muore il 26
gennaio 1756; don Vincenzo, beneficiale semplice, muore il 26 settembre 1757
all’età di 62 anni. Poi abbiamo P. Carlo Casucci che è un frate e non può certo
operare in disprezzo del voto di povertà. Anche questi comunque muore in quel
torno di tempo, attorno al 1763.
Nel LIBER i
Casuccio tornano un secolo e mezzo dopo con la morte del chierico D. Paolino
Casuccio di Calogero mato in Racalmuto il 10 maggio 1892 e morto in guerra il
12 Agosto 1016 (n° 457.)
La
rarefazione di sacerdoti in famiglia attesta proprio questo declino economico
di cui la lettera che abbiamo riportata è eco e testimonianza.
L’ascesa
di una nuova grande famiglia: i Tulumello.
La grande famiglia Tulumello è un antico nucleo familiare,
ma sino alla prima metà del Settecento non vanno al di là delle solite annotazioni
anagrafiche nei libri parrocchiali della Matrice. Il ceppo che avrà
nell’Ottocento ruoli di risalto nella vita pubblica e, addirittura finirà nei
testi araldici, parte da questo Giuseppe Tulumello – pare un gabelloto – che
nel 1741 sposa una canicattinese:
Giuseppe Trumello Sch: figlio
Legittimo e naturale d'Ignazio e Anna Tulumello Jugali di questa terra di
Racalmuto con Paula Cuva sch. f. leg. e naturale di Pietro e Gratia Jugali
della terra di Canicattì. Pubblic: 1741 5^
ind. ottobre 22.28.29.
Un sacerdote, don Nicolò Tulumello, frattanto si stava
affermando a Racalmuto, ma cessò di vivere ad appena 30 nel 1748 (il 21 luglio)
quando era già collegiale. Risulta dai fondi di Palagonia che nel 1763 diversi
Tulumello spiccavano per consistenze patrimoniali e denunciavano quantità di
grano ben al di là delle misure
consuete, oltre a possidenze ed a proprietà di ovili:
1. Tulumello Calogero rivela
s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della
mandra s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e
colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
2. Tulumello Giuseppe, rivela
s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per
simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per
mangia di casa e garzoni;
3. Tulumello Giovanne, rivela
s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per
simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per
mangia di casa e garzoni.
Nei
riveli troviamo, dunque, quel Giuseppe che sarà il capostipite di quello che
sarà il ceppo nobiliare per le vicende
di fine Settecento. Nel censimento del 1753 Giuseppe Tulumello ha 33 anni; la
moglie 28 ; i figli: Rosa di 11 anni, Vincenzo di 6 anni e Nicolò di quattro
(che sarà sacerdote ed acuisterà per persona da nominare il titolo baronale di
Gibillini). Vicino abita il fratello
Giovanne Tulumello di Ignazio di 27 anni, sposato con Santa. Assieme c’è la
mamma, Anna Cuva di anni 60 e già vedova di Ignazio Tulumello.
Annotiamolo:
fino al 1753 i Tulumello non vengono contraddistinti con titoli di risalto come
don; d’altronde non fanno parte delle
locali maestranze: sono però grossi gabelloti.
Nel
1785 i Tulumello hanno però fatto il salto nella gerarchia sociale racalmutese:
don Giuseppe Tulumello ora siede accanto ai giurati; nel 1791 sarà la volta di
don Vincenzo Tulumello, il quale può persino permettersi di divenire
l’arrendatore del patrimonio urbano per onze 1.126 e tarì 15.18. Tra i giurati
del 1794 vi troviamo don Ignazio Tulumello.
Fu
in quell’epoca che si fece valere il sacerdote don Nicolò Tulumello. Ecco
quello che di lui dice il LIBER (n° 334): «collegiale, vicario foraneo e
direttore del Collegio di Maria e fondatore del medesimo, pochi mesi prima di
morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in Girgenti dove morì il 5 Marzo
1814 di anni 65 e per ordine di Monsignor Granata Vescovo di Girgenti si
trasportò il cadavere di lui nella Chiesa di questo Collegio di Maria.»
La famiglia Matrona
In
un rivelo del 1752 che fa don Giuseppe d’Agrò, quale beneficiale della chiesa
di S. Nicolò di Bari, troviamo per la prima volta un personaggio: don Pietro
Matrona. Ci appare, già, tra i maggiorenti di Racalmuto.
Dobbiamo
attendere il 2 settembre 1802 per avere notizie su un sacerdote locale
appartenente a tale grande famiglia: si tratta di don Calogero Matrona che nel
LIBER (n° 313) viene così contrassegnato: «morì in Montaperto il 2 Settembre
1802 d’anni 49».
In
effetti, nella numerazione delle anime del 1762 troviamo il nucleo familiare di
don Pietro Matrona (segnato all’età di 32 anni, e quindi nato nel 1730, a
nostro avviso non a Racalmuto) che oltre alla moglie donna Rosalia di anni 32 è
composto, appunto, da Calogero di anni 6 (nato quindi attorno al 1756) e da
Francesco di anni 3, e Marco di anni .
Quando
nel 1784 si fanno le pubblicazioni per l’accesso agli ordini maggiori di don
Calogero Matrona, questi ci tiene a farsi indicare con un doppio cognome:
Matrona-Moncada; non sappiamo con quale fondamento, arguiamo comunque che i
Matrona discendono, per via collaterale, dai Moncada.
In un libro
degli “sponsali” della Matrice abbiamo questa notizia su un Matrona che non
crediamo abbia messo radici a Racalmuto. Là viene annotato quanto segue:
19/7/1741
- MATRONA E SPINACCIOLO D. PIETRO DELLA
CITTA' DI SUTERA PARR. DI S. AGATA DEL Q. D. MARCO E LA VIV. DOROTEA [si dovrà sposare con] SFERRAZZA
D. CALOGERA DEL QUONDAM D. DOMENICO E LA VIVENTE SANTA.
Una
cosa comunque è certa: la madre di don Calogero Matrona non era una Moncada.
Sappiamo con precisione che questa, donna Rosalia, era di elevata famiglia,
essendo una La Lumia di Naro, ma nulla ha ache vedere con i Moncada. Possiamo
solo congetturare che una Moncada fosse la nonna del sacerdote.
Don Pietro Matrona, il padre del Sac.
Calogero, giunge a Racalmuto già vedovo.
La prima moglie era una tale Calogera non meglio precisata negli atti della
Matrice, ove si riscontrano gli estremi del secondo matrimonio del Matrona.
Questo è almeno quanto emerge dalle pubblicazioni che qui trascriviamo:
../10/1750 – PIETRO MATRONA E
MONCADA, VED: REL. DELLA Q. D. CALOGERA
OLIM GIUGALI DI Q. TERRA [intende contrarre
matrimonio con] LA LUMIA D. ROSARIA DI D:
MICHELE E D: ELISABETTA GIUGALI DELLA
CITTA' DI NARO PARR. DI S. ERASMO 1750 XIIIJ IND. DIE 11/8BRIS/18.25. [1750]
L’ultimo
dei figli di don Pietro, Marco Matrona,
sposa nel 1787 con donna Francesca Baeri, la cui famiglia è omai a
Racalmuto oltremodo affermata. La rimarchevole importanza di padre e madre
della nubenda si coglie appieno in questa trascrizione degli atti dello
sposalizio.
11/3/1787
- MATRONA D. MARCO DI D. PIETRO E LUMIA [intende
contrarre matrimonio con] D. ROSALIA
BAERI D.NA VINCENZA FRANCESCA DI D. GIUSEPPE E LA FU BELMUNTI D. MELCHIORA
OLIM DI QUESTA.
Don
Francesco Matrona sposa l’anno dopo ma con una vedova, tale Giovanna
Petruzzella, vedova di don Giuseppe Salvaggio, come dal seguente atto:
21/3/1798
- MATRONA D. FRANCESCO FU D. PIETRO E LUMIA [intende contrarre matrimonio con] D. ROSARIA PITROZZELLA D. GIOVANNA VED. DEL
FU D. GIUSEPPE SALVAGGIO.
Nell’anno che intercorre tra i due matrimoni
cessa di vivere don Pietro Matrona, il capostipite della famiglia tanto
celebrata da Sciascia. Tutti e tre i figli maschi ne ereditano il prestigio ed
il notabilato a Racalmuto. Uno come sacerdote beneficiale (come abbiamo visto)
e gli altri due in vetta alle maggiori cariche amministrative del paese. Ma
sarà nel secolo successivo che i Matrona domineranno incontrastati, almeno fino
a quando, nella parte terminale dell’Ottocento la ruota girerà e la decadenza
sarà inarrestabile. In tempo. Comunque, per meritarsi queste impareggiabili
chiose del grande scrittore racalmutese: «Pare che.. la sua [della contrada
Noce] fortuna come luogo di villeggiatura [le sia venuta] dal fatto che una
grande famiglia vi abbia costruito, alla fine del settecento, quando venne di
moda la fuga dalla citàà nell’estate, una casa grande come un castello … Ma nei
primi anni del nostro secoloquella grande famiglia si estingueva, così come si
estinguono in Sicilia le grandi famiglie.»[17] E
per giunta: «Dall’unità d’Italia in poi, direttamente o per interposte persone,
l’amministrazione comunale era stata nelle mani di una famiglia che appunto per
amministrare il comune disamministrava il proprio patrimonio o, più
esattamente, andava travasandolo nel patrimonio pubblico: la famiglia Matrona.
Non nobile – e del resto nel paese una sola famiglia aveva titolo nobiliare,
quella dei baroni Tulumello che fu rivale ai Matrona: incerta però resta la
legittimità del titolo – ma di grane e vera nobiltà nel comportamento, negli
intendimenti, nelle opere. A loro, ai Matrona, si devono scuole, uffici
comunali, strade selciate, fognature, macello, fontanelle rionali, teatro. … E
non solo i Matrona si occuparono di sanare e abbellire urbanisticamente il
paese, di dargli uno splendido teatro e di farlo attivamente funzionare, ma
anche della sicurezza sociale. … Naturalmente i Matrona avevano dei nemici: ma
si scoprirono più tardi, aggregandosi alla famiglia Tulumello. … E si capisce che nel giro di mezzo secolo i
Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col
conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia, delle
usurpazioni e prevaricazioni. » [18]
Dinamica sociale in seno agli
ottimati sel settecento racalmutese.
Il
Cinquecento a Racalmuto si era chiuso con amministratori che o erano familiari
del conte (vedi il Russo) o suoi strettissimi affiliati. Taluni di tali
notabili resistettero nel Seicento, altri sparirono. L’esordio del secolo dei
lumi vedeva in declino i Del Carretto (sino alla loro totale estinzione) e di
conseguenza il diradamento delle famiglie della locale orbita comitale. Con
l’avvento dei Gaetani, l’amministrazione comunale, le pubbliche funzioni, gli
incarichi esattoriali, quelli dell’amministrazione della giustizia e della
tutela dell’ordine pubblico, e simili passano a funionari di fiducia del nuova
padrone di stanza a Naro. Sono soprattutto notai forestieri che scendono in Racalmuto,
sposano qualche figlia del locale notabilato e vi mettono le radici. Notai come
i Vaccaro, i Picataggi, i Vinci prendono il posto di ceppi d’eccellenza che si
disperdono o decadono come i Piemontesi, gli Afflitto, gli Alaimo, i
Monteleone, gli Ugo, gli Amella, i Tudisco, i Salvaggio, i Promontori, i
Chiccarano, i Fanara, i Catalano, i Justiniano.
A
metà secolo, i maggiorenti sono ora tutti raccolti in una famiglia baronale – i
Grillo – scomparsa nell’ottocento, quando il relativo patrimonio trasmigra ad una famiglia collaterale, i Bordonaro di Canicattì. A fianco, abbiamo i
Gambuto, i Pomo, i Vinci, i Bellavia, i Matina ed i Picataggi. Lo scenario di
fine secolo sarà ancora diversificato. Gente forestiera come gli Impellizzeri,
i Perrone, gli Scimonelli, i Mannarà, fanno una fugace apparizione e poi
ritornano nei loro luoghi dìorigine senza lasciare traccia a Racalmuto. I nuovi
quadri dirigenti restano però contrassegnati dagli ottimati locali quali i
Picataggi, gli Amella, i Grillo e Pistone, i Matrona, i Fucà, i Cavallaro, i Lo
Brutto, gli Scibetta, i Gambuto, i Tulumello, i Tirone, i Grillo e Brutto, i
Pomo, i Grillo-Alessi, gli Sferrazza, i Vinci, i Baeri, i Mattina, i Bellavia,
i Farrauto, i Savatteri, i Grillo-Ingrao, i Grillo ed Alessi.
Ma
sono le fortune che cambiano. Ad inizio del secolo, le famiglie di maggior
reddito non erano molte e gravitavano attorno ai cospicui patrimoni di taluni
sacerdoti come il Signorino, don Santo La Matina, i Casuccio, i Baera (per non
ripetere quanto detto sulle acquisizioni terriere e immobiliari dei Cavallaro).
A metà del
secolo, la locale crestomazia è molto più estesa ed investe patrimoni
notevolissimi come quelli dei Grillo, dei Pumo, dei Savatteri, degli Sferrazza,
degli Scibetta, degli Spinola e dei Vinci. Da un documento contabile del 1763 i
proprietari terrieri con una disponibilità di frumento oltre le 20 salme non
superano i 29 nominativi, come dal seguente quadro:
Denominazione
|
Salme
|
Alfano m.°
Giuseppe del quondam Bartulo
|
65
|
Alfano sac. d.
Filippo
|
30
|
Avarello sac.
d. Alberto
|
75
|
Burruano
Giuseppe del quondam Marcello
|
28
|
Busuito Grispino
|
26
|
Campanella sac.
d. Stefano arciprete
|
100
|
Conti sac. d.
Gerolamo
|
26
|
Di Franco m.°
Agostino
|
40
|
Farrauto sac. d.
Santo
|
220
|
Gambuto don
Francesco Antonio
|
50
|
Grillo don
Antonio
|
802
|
Grillo don
Antonio come Governadore di Racalmuto dice avere nelli magazini della
Segrezia di detta terra a nome di detta
|
703
|
Grillo don
Antonio Maria
|
91
|
Grillo don
Gaetano
|
306
|
Grillo e Poma
Dr. Don Barone Niccolò
|
132
|
Grillo sac. d.
Salvadore Maria
|
160
|
La Licata Paulo
|
25
|
Mantione sac. d.
Antonino
|
27
|
Nalbone sac. d.
Benedetto
|
360
|
Picone Chiodo
Nicolò
|
42
|
Pomo fra'
Giuseppe Priore del venerabile convento del Carmine
|
26
|
Rizzo don
Vincenzo
|
24
|
Savatteri sac.
d. Michel'Angelo
|
21
|
Scibetta e
Franco sac. d. Giuseppe
|
30
|
Scibetta ed
Alfano sac.d . Giuseppe
|
70
|
Scibetta m.°
Stefano
|
160
|
Tulumello
Giovanne
|
70
|
Tulumello
Giuseppe
|
70
|
Vinci don
Calogero
|
26
|
Certo
la distribuzione è tutt’altro che omogenea: i Grillo appaiono su un livello del
tutto eccezionale e si discostano enormemente dalle possidenze degli altri.
Sono tre soli quelli che, a distanza, emergono: don Benedetto Nalbone, don
Santo Farrauto, mastro Stefano Scibetta ed infine l’arciprete Campanella.
R La
famiglia Savatteri
Grande è sta l’importanza della famiglia Savatteri: emergente nel Cinquecento, notevolissima nel Seicento, ebbe splendori nel Settecento, ma fu nell’Ottocento che fu dominante, specie dopo l’unità d’Italia, per eclissarsi alla fine di quel secolo. Qui ci intratteniamo sul filone settecentesco. Sono, ovviamente, gli ecclesiastici della famiglia ad avere lasciato tracce storiche. Iniziamo da don Francesco Savatteri.
Sac. Francesco
Savatteri (1654-1712)
Appena
diacono nel 1677, svolge poi un ruolo di un qualche rilievo il sacerdote
Giuseppe Savatteri. Lo incontriamo per la prima volta così contrassegnato:
1
|
1677
|
FRANCESCO
|
SAVATTERI
|
DIACONO a 23
|
Nel
registro della Matrice “in quo adonata
reperiuntur nomina plurorum sacerdotum”
vi sono queste altre scarne notizie:
n.° 170
della c. 8: D. Francesco Savatteri, collegiale obiit 8 7bris 1712 di anni 58.
Nasce
dunque nel 1654 e dopo il marzo del 1676 dovette venire consacrato sacerdote
come risulta da un libro della Matrice intestato: "Liber
Denunciationum in hac Matrici Eccl.a Racalmuti XII. ind. 1673 - S.T. D.re D.
Vincentio Lo Brutto Archipresbitero" . Nel marzo del 1676 vi è annotato:
s'havi da ordinare in sacris nella
prossima ordinazione di marzo cl. Francesco Savatteri; cl. Vincenzo
Castrogiovanni; cl. Davide Corso; cl. Antonino d'Amico; cl. Vincenzo Casuccia.
Nel 1686 è
di sicuro confessore “adprobatus”; per
lo meno dal 1693 è uno dei cappellani della matrice. Quando, nel 1690,
l’arciprete d. Vincenzo Lo Brutto riesce ad organizzare l’istituto delle
celebrazione delle messe per i morti, la cosiddetta “communia”, il nono dei
dodici “mansionari” è appunto don Francesco Savatteri: la sua famiglia, nel
contesto della società contadina, esce dall’opaco burgisato per cominciare ad aspirare al ruole eminente dei
“galantuomini”.
I documenti
della istituzione della “communia” li abbiamo rinvenuti nell’archivio vescovile
di Agrigento e sono riportati nell’allegato n. 6. Il padre Morreale nel suo
libro sulla Madonna del Monte s’imbatte per due volte - pag. 43 e pag. 44 - nel
nostro padre Francesco Savatteri: come “dirigente” della confraternita della
Madonna del Monte (bolla vescovile del 1679) e come coadiutore del sac. Lo
Sardo nella rettoria della chiesa sacramentale di Maria SS. Del Monte.
In un atto
datato: A 29 ottobre X^ Indizione 1687
[rectius 1686], il sac. Francesco Savatteri risulta proprietario di vigne
in contrada Bovo, giusta il passo seguente:
Vendizione di una vignia con sue alberi ed altri
existente nello fego di questa Terra di Racalmuto e nella contrata di Bovo
confinante con la vignia di d: Francesco Savatteri e con la vignia
dell'infrascritto d. Gio:Battista Baeri che fà mastro Pietro Facciponti di
Racalmuto al su detto di Baera di Racalmuto: Suggetta in tt. quattro per
raggione di proprietà dovuta all'Ill.mo Conte di Racalmuto. La possessione
della quale ci la diede lo stesso giorno, per lo prezzo di -/ novi giusta la
stima fatta per Isidoro Pitrozzella e Marco Ristivo presente etc. il prezzo
della quale il detto di Facciponti lo confessò de contanti.
Ch. Stefano Savatteri (+1742)
Un fugace
accenno nel Liber in quo ... di tal
chierico Stefano Savatteri, qui obiit primo februarii 1742. Disponiamo anche
dei seguenti altri dati:
1736
|
STEFANO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO LICENZIATO
|
Sac. Michele Savatteri ( +1756)
Nel liber prima citato troviamo
(n.° 255 c. 13) D. Michele Savatteri, obiit 24 7bris 1756.
Sac. Michelangelo Savatteri (nato: 1696 + 1765).
E’
personaggio di spicco. Ecco come viene anotato nel Liber n.° 274 - c. 14: D. Michelangelo Savatteri, collegiale, obiit
die 28 7bris 1765 - d’anni 65. Nel rivelo del 1763 non è indifferente la
rispondenza patrimoniale del Savatteri che dispone di ben 11 salme di frumento
come dalla seguente specifica:
Savatteri sac. d.
Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto
XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per
soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in accordo e s. 10 per mangia e commodo
di casa.
Su 125
dichiaranti è il 29° anche se è ben lontano da quello che rivela il sac. Don
Benedetto Nalbone (360 salme): è ancora lontana la competizione tra le due
grandi famiglie, competizione che toccherà l’acme alla fine dell’Ottocento. Ma
è già un sintomo il fatto che rispetto a Giovanni Nalbone (salme 10) il sac.
Michelangelo Savatteri appaia facoltoso più del doppio.
Risulta
altresì che nel 1736 il Savatteri fosse confessore approvato per il monastero:
1736
|
MICHELANGELO
|
SAVATTERI
|
ANNI 4O
CONFES.DEP.MONASTERO
|
Nei riveli
del 1754, don Michelangelo Savatteri figura come un magistrato locale:
Die 13 Maij 1754 Presentat. deci. que. d. Michael. Savatteri Mag. ...
Un paio
d’anni prima v’era stato l’ordine di denunciare tutti gli atti di compravendita
aventi per protagonisti i religiosi locali, preti secolari compresi. Tanto
doveva avvenire:
nell'Officio di questa Deputazione locale per ordine
dell'Ill.mo Monsignor Vescovo di Girgenti per sua significat.a sotto li setti
Maggio. In virtù di bando di S.E. promulgato in questa sotto li 10 dicembre
1752..
In un inciso,
c’imbattiamo nel sac. Michelangelo Savatteri, definito “magister notariorum”:
Presentatione de ordine quo supra D. Michel. i Savatteri Mag. Not.
Nel corpo
di quegli atti, affiorano, incidentalmente, alcune proprietà del Savatteri come
una bottega in piazza:
E più tarì 6 da don Giuseppe Bellavia sopra la speziaria
nella piazza confinante colla bottega di d. Michelangelo Savatteri, e case
del d.o Bellavia ............................ -/ 4
terre in
contrada Bovo:
Esigo di più da Soro Angela La Matina tt. tre e gr. 6
e piccioli tre sopra terre contrada Bovo confinanti con terre del Rev. Sac.
don Michelangelo Savatteri d'ogni parti che ragionati al 5% il capitale
importa -/ due e tarì se e grana tre, d.o
................................................................ -/2.6.3
D. Giovanni Savatteri (1713-1778)
Il Liber
annota: n.° 289 c. 15 D. Giovanni
Savatteri - predicatore, morì a Palermo il giorno 1° maggio 1778 - anni 65. In
un registro delle pubblicazioni parrocchiali, l’ascesa agli ordini sacri è
seguita passo passo con i seguenti bandi:
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo patrimonio,
pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio sia simulato,
fiduciario o che non sia bastante o di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di
SAVATTERI sia di mali costumi, inquisito, querelato,processato, o
che habbia altro impedimento canonico per non
potere ascendere all' ordine del Suddiaconato, come se
fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
2 FEBBRAIO 1732
Il Cl. Giovanni SAVATTERI di questa terra di Racalmuto
desiderando ascendere all'Ordini Sacri si ha costituito il suo
patrimoniouna Cappella di onze 10 annuali con l'onere di Messi dieci
fondata nell'altare di. S. Leonardo in Serra di Falco come appare per
contratto di fundat.e ed elettione stipulato per l'atti di
N.o Simone BONI' sotto li 14 Gennaro 1732 ed in Supplimento una Vigna
consistente in migliara cinque con Tumuli due e Mondelli due di
terre vacue confinata con la Vigna di N.o Michael
Vaccaro, e altri confini nella contrada di BOVO e numero cinque
case conlaterali confinati con le casi di d. Vincenzo La Matina nel
quarteri del Monte in virtu' di donatione stipulata per l'atti di
N.o Nicolo' Pumo. pertanto se alcuno sapesse che il d.to
patrimonio sia simulato fiduciario o che non sia bastante o
di realta' dal detto Cl. o che il sud.to di SAVATTERI
sia di mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che
habbia altro impedimento canonico per non potere ascendere
all' ordini sacri, come se fosse irregolare,
illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
24 31 AGOSTO, 4 SETTEMBRE 1732
Il Sudiacono Giovanni SAVATTERI di questa
terra di Racalmuto desiderando ascendere all' ordine
Diaconale si ha costituito il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse
che il d.to patrimonio non essere bastante o di realta'dal detto
Suddiacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di mali costumi,
inquisito, querelato, processato, o che habbia
altro impedimento canonico per non potere ascendere al
Diaconato, come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo
venghi a rivelare.
30 NOVEMBRE, 7 DICEMBRE XI Ind. 1732
Il Diacono Giovanni SAVATTERI di questa terra di
Racalmuto desiderando ascendere all' ordine Sacerdotale si ha costituito
il suo patrimonio, pertanto se alcuno sapesse che il d.to patrimonio non essere
bastante o di realta' del detto Diacono o che il sud.to di SAVATTERI sia di
mali costumi, inquisito, querelato, processato, o che habbia altro
impedimento canonico per non potere ascendere al d.o Ordine Sacerdotale,
come se fosse irregolare, illegitimo o simile impedimento lo venghi a rivelare.
Sac. Francesco Savatteri (operante dal 1731 a dopo il 1763)
Il Liber lo ignora, ma di lui si hanno
notizie sin dal 1731 allorché era un chierico tonsurato:
16
|
1731
|
FRANCESO
|
SAVATTERI
|
CHIERICO TONSURATO
|
E’ però
presente nel rivelo frumentario del 1763 ove, con le sue 8 salme di frumento
dichiarate, è alla pari con il celebre sacerdote d. Elia Lauricella:
Savatteri don
Francesco, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3
per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s. 8 per
mangia
Il servo di
Dio p. Lauricella aveva infatti dichiarato:
Lauricella sac. d.
Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7
per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone
Sac. Giuseppe
Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello,
elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere
- questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della
locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di
infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per
prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del
Crocifisso, su cui ci diffonderemo altrove.
Quando, il
Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello -
si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di
dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito
negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per
dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro
lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello su
cu il Tinebra trama è un carteggio del Caracciolo su cui abbiamo avuto modo di
effettuare nostre personali ricerche. Iniziano dal 16/2/1785 gli appunti del
Caracciolo sulla questione[19]:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze
di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die
16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo
esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non
vedersi pur troppo soverchiati.»
E, quindi,
in data 12.3.1785:
«32. [20]L’avvocato fiscale Vagginelli proceda quel che
convenga ed avendo di riferirlo, dica- A 12 Marzo detto - Li singoli di
Racalmuto: V. E. rimise le pendenze loro col barone all’avv.to sig.re
Vagginelli. Innanti a costui facendosi dui contraddittorij vi interviene il
Cav.e fratello del principe di Pantelleria, che ha procura. E poiché per
rispetto che vuole esigere molte cose
bisognano trovarsi e li professori
concepiscono qualche timore, prega V.E. di ordinare che tal Cav.e
non intervenga più nei contraddittori ma
con i singoli e il Barone.»
«12 - L’avv.to fiscale barone Vagginelli
informi col parere - 22 marzo - Li singoli di Racalmuto. Il suggello della
verità lo tiene in potere il governatore baronale, ed occorrendo di suggellarsi
l’investitura questa si deve suggellare dal Barone e si suggella quando a
costui piaccia. Ciò essendo un inconveniente molto più quando occorre a singoli
di suggellare scritture contrarie al ripetuto Barone.
«Pregano l’E.V. di ordinare che il suggello si riformi
con il ricorso al Re, e che debba riservarsi al mastro notaro della Corte
Giuratoria.»
«4. L’avvocato fiscale Barone Vaggianelli
disponga perché urgendo le provvidenze che siano convenienti per la superiore,
che riferisca col parere - 29 marzo 1785 -
Don Stefano Campanella arciprete di Racalmuto - Dietro un raccolto
sterilissimo ed una tirannica esazione fatta dall’arrendatario di questa
terra don Giuseppe Savatteri ... trovasi in oggi questa Popolazione in
somma necessità a segno che non si può riparare, e si teme di qualche
tumultuazione per la fame, e dal ricorrente e da altri preti si à soccorso per
quanto debolmente si è potuto, ma si prevede maggior necessità in questi mesi
che sono li più poveri.
«E’ perciò da credere opportuno che dovendo dal
amministrare pagare per maggio onze 1000 al Principe della Pantelleria gliene
paghi medietà, e l’altra medietà distribuirsi per aiuto a poveri, che si
obbligano in agosto pagare; prega V.E. di ordinare l’esecuzione di tale
distribuzione a quattro persone elette da chi invochi, dapoiché quei Giurati
son poveri e senza veruna abilità.»
Il dato di
maggior risalto è quello contenuto nel biglietto datato 11 aprile 1785:[23] abbiamo
questo richiamo storico:
«13 - L’avvocato faccia quel che convenga per
l’accertamento della giustizia e della legalità. - 11 aprile 1785 - Li singoli di Racalmuto. - Nel 1559 don
Giovanni del Carretto ebbe venduto il mero, e misto impero dal viceré don
Giovanni della Cerda sopra la Baronia di Regalmuto per il prezzo di onze
seicento, cioè cinquecento l’ebbe allora il Governante, e le onze 100 le dovea
dare qualora veniva continuata la vendizione da S. M. fra il termine di un
anno.
«Sino al presente giorno non è stato possibile
dimostrarsi detta rattifica, o confirma; ed è segno evidente che la M.S. non
l’abbia concessa. Che perciò li ricorrenti .. pregano l’E.V. di ordinare che il
Barone di Ragalmuto che è oggi il Principe di Pantellaria, che per esercitare
il mero, e misto dimostri all’E.V. il titolo.»
Al Tinebra
Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda
della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo
(l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia
oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate
“notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica
(pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore
di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di
rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun
approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia[24]:
«Ecco il
rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi
praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza
analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere
dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito,
contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio
del Crocifisso. Per una di quelle strane coincidenze storiche, il Busuito era
parente stretto della moglie del notaio Nalbone.
Prosegue
Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte
ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggettiche
il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo
crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a
noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la poltica dei re
Borboni di Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe
Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giusppe Savatteri e Brutto, 27
februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della
Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della
Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a
celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Vediamole:
GIUSEPPE SAC. D.
|
SAVATTERI
|
n. undeci messe cioè n. 9 per l' ... e n. 2 per pena
d'essere stato negligente in scrivere le d. messe.
|
Così
risulta annotato in registri della confraternita. Dopo di lui, i religiosi
della famiglia Savatteri appaiono come scialbe figure. Eccole.
Diacono Gaetano Savatteri (+ 1809)
Viene così
annotato nel liber: n.° 323 c. 20 D.
Gaetano Savatteri, Diacono - obiit 21 7bris 1809 - d’anni 23.
Sac. Nicolò Savatteri (+ 1842)
Viene così
annotato nel liber: n.° 374 c. 22 D.
Nicolò Savatteri - obiit 16 7bris 1842 - d’anni 80, mesi 8. E’ varie volte
citato nei registri della Mastranza come sacerdote celebrante. Aliunde, apprendiamo che:
30
|
1807
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.46 CONFESSORE PRO
UTROQUE
|
6
|
1830
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
A.68 MANS.CONF.UTROQUE
ORDINARIO
|
Padre Carmelo Savatteri, carmelitano.
Il Liber
non accenna ai religiosi carmelitani della famiglia Savatteri. Il primo è
appunto il padre Carmelo che fu priore del locale convento, come si apprende
dalle seguenti annotazioni:
51
|
1807
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.42 PRIORE CONVENTO
CARMELO
|
44
|
1830
|
CARMELO
|
SAVATTERI
|
A.60 CARMELITANO PRIORE
|
4
|
1839
|
NICOLO'
|
SAVATTERI
|
BENEF. CONFES.PRO UTROQUE
|
Padre Elisio Savatteri, carmelitano.
Valgano anche per lui le precedenti note.
Sappiamo, inoltre:
54
|
1807
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.38 CONVENTUALE CARMELO
|
34
|
1839
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
CARMELITANO,PRIORE.CONF.UTROQUE
|
38
|
1847
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.70 CARMELITANO
CONF.UTROQUE
|
36
|
1851
|
ELISEO
|
SAVATTERI
|
A.72 CARMELITANO
|
La controversa questione del beneficio del Crocifisso.
Nell’intricata
controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri
vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac.
Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un
patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo
nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono
soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed intrigante ed ha dato
adito ad almeno un paio di complicate vertenze giudiziarie. Leggiamo nella
bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido
praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi
Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae
Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum
salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu
et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae
1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia
dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i
coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della provenienza di
tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la Confraternita del
SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di proprietà
«primitivo veluti jus pheudi et
proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che
si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre
ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone -
«in quei tempi Mercanti». Del resto
aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in
disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un
triennio, ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del
fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed
abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa
nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile
del 3 settembre 1659, redatto innanzi a
quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che
intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca
la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc.
Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago
accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce
Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della
Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488». Ma qualche chiarimento lo troviamo in
quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio
pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo
collaterale dei locali conti) si obbliga di corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro .. uti procuratori
venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae in Ecclesia Sancti
Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann. cens. et red.bus
dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio et alijs
nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco qui olim
erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci celebrati in
actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et contractus
solutionis donationis et assignationis
in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum
contractum in eis calendatorum.» inoltre
«supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter obligavit
et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus in dicta
Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g. tempore
annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet facere
numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et sunt
uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum
retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem
inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae
super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la
chiesa di S. Antonio e siamo
nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio
1650.[25]Successivamente
alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui
sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che
si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di
quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo
Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei
beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo beneficiario, il sac. Don
Calogero Matrona,
fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi
si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo
Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione,
dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il
Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui
si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di
lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso
Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco
Busuito di
Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e
dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un
Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al
beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al
Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro
il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i
fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto
Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva
onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre
esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo
Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato
di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per
attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei
suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza
figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di
quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero
autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto
enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo
meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di
propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti
di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind.
1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le
onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle
fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor
Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al
sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e
facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione.
Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto
al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni
inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del
Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona,
con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Altri dati sui Savatteri del ‘700
Le numerazioni delle anime della Matrice di Racalmuto
riprendono a metà del settecento. Spigoliamo questi dati sui Savatteri di quel
secolo.
Elenco dei capifamiglia nel censimento del 1753
1) Giuseppe Savatteri di
Giacomo, di anni 32; Rosa, sua madue di anni 70.
2) Vincenzo Savatteri di
Giacomo di anni 48; Giovanna, moglie di anni 38; Domenica, figlia di anni 20;
Nicola figlia di anni 18; Giuseppa figlia di anni 15; Calogera figlia di anni
12; Stefana figlia di anni 10; Giacomo figlio di anni 2.
3) Francesco Savatteri di
Giacomo di anni 32; Angela moglie di anni 24; Maddalena figlia di anni 3;
Calogero figlio di anni 5.
4) Vincenzo Savatteri di
Ignazio di anni 44; Rosa moglie di anni 33; Giovanna figlia di anni 13; Carmela
figlia di anni 11; Grazia figlia di anni 9; Mariano figlio di anni 8.
5) Antonia Savatteri
vedova d’Ignazio di anni 66.
6) Mastro Antonino
Savatteri di anni 59; Maria moglie di anni 56; Sr. Angela Maria figlia di anni
27; chierico Giuseppe figlio di anni 22.
7) Giuliano Savatteri
d’Ignazio di anni 34; Antonia moglie di anni 21; Sebastiana figlia di anni 1.
8) Francesco Savatteri di
anni 39; Dorotea moglie di anni 28; Giuseppa figlia di anni 15; Filippa figlia
di anni 11; Vincenzo figlio di anni 9; Gaspare figlio di anni 6; Stefano figlio
di anni 2.
9) Don Sac. Michel’angelo
Savatteri di anni 55; Francesca Maria sorella di anni 41; Cruci serva di anni
52.
Dalla Numerazione delle anime del 1762.
Francesco
Savatteri di Giacomo di anni 28; Angela moglie di anni 22; Maddalena figlia di
anni 8; Giuseppa figlia di anni 1; Calogero figlio di anni 4.
Vincenzo
Savatteri di Giacomo di anni 52; Giovanna moglie di anni 42; Giuseppa figlia di
anni 19; Calogera figlia di anni 16; Stefana figlia di anni 14; Giacomo figlio
di anni 6; Angela figlia di anni 4.
Giuseppe Savatteri
di anni 36; Maria moglie di anni 30; Antonia figlia di anni 4; Calogera figlia
di anni 1.
Antonino
Savatteri di anni 44; Rosa moglie di anni 43; Carmela figlia di anni 17; Grazia
figlia di anni 13; Mariano figlio di anni 12.
Giuliano
Savatteri di anni 38; Antonina moglie di anni 30; Raffaele figlio di anni 3;
Carmela figlia di anni 1.
mastro Antonino
Savatteri di anni 63; Maria moglie di anni 50; don Giuseppe figlio di anni 28.
Don Francesco
Savatteri di anni 43; donna Dorotea moglie di anni 39; Giuseppa figlia di anni
20; Vincenzo figlio di anni 13; Gaspare figlio di anni 10; Stefano figlio di
anni 6; Calogero figlio di anni 4; Giuseppe figlio di anni 2; Leonardo figlio
di anni 1; Antonia serva di anni 39.
Reverendo don
Michelangelo Savatteri di anni 65; Mita sorella di anni 50; Apollonia serva di
anni 40.
Nicolò Savatteri
[parte del foglio abrasa]; Grazia moglie; Vita figlia; Calogero figlio.
Dalla Numerazione delle anime del 1795
1.
Don Stefano Savatteri; donna Catarina moglie.
2.
Don Gaspare Savatteri; Donna Angelica moglie; Concetta
figlia di anni 16; Gaetano figlio di anni 12; Leonardo figlio di anni 5;
Antonia di anni 10.
3.
Calogero Savatteri libero; Giuseppa sorella libera.
4.
Mariano Savatteri; Vincenza moglie; Domenica figlia di
anni 8; Santa figlia di anni 14; Rosa figlia di anni 6; Santo figlio di anni
19; Antonio figlio di anni 17.
5.
Giuseppe
Savatteri; Antonia moglie; Biaggio (sic) figlio di anni ...
6.
Don Giuseppe Savatteri; Giuseppa; Rev. Don Nicolò
figlio; Raffaela figlia di anni 23; Fidela figlia di anni 21; Luiggi (sic) di
anni 17.
7.
Don Vincenzo Savatteri.
Rev.
Don Giuseppe Savatteri; donna Dorotea madre; D. Giachino Brutto; donna Giuseppa
di anni 46; Rosa nipote di anni ...; Pasquala serva.
La
storia della famiglia Savatteri appare, davvero, uno spaccato della media
borghesia racalmutese, quale si va configurando nel secolo dei lumi per
consolidarsi nell’Ottocento, come meglio vedremo a suo tempo.
Racalmuto
del Settecento nelle carte del fondo Palagonia.
Tra
le carte del fondo Palagonia – pervenute all’Archivio di Stato di Palermo dalla
famiglia dei Gaetani [26]
- ricaviamo questo documento che ci pare illuminate per la storia feudale
racalmutese, nel suo dteriorarsi settecentesco:
[f. 5]
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano
possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E.
che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni,
il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre
Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato
si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li
creditori suggiogatarijnon hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità,
anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti
da ... molini situati in parte di lavanchiki ricercano ogni anno spese
considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano
alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che
riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri
che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato
l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che
la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente
fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di
non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto
1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a
creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto
delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per
l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che
l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per
il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non
se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti
creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti
creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente
l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggiodi ogni anno, che non
hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono
la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione
maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto
stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento
delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista
di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed
amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij
.. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con
l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra
ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à
resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto
ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che
prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori
suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche cje la
minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare
il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e
forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale
amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il
medesimosenza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se
li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite;
vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il
consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta
minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come
sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi
provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per
publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per
resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che
in contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed
individuale menzione quale s’habbia ..
per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de
plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte
G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Item ista comm.do .., ac consensi
maioris partis creditorium, tollatur deputatio de qua agitur, solutis prius juribus
officialibus deputationis status ..
penes acta
per sp. de Joanni, Xileci, Paternò.
Copia Don Joannes Marchisi ..
Lo
stato dei “naturali” di Racalmuto, e cioè le loro disponibilità in frumento e
legumi, ci pare esaustivo in questo quadro statistico:
f. 302
Rivelo de naturali di Racalmuto e
di alcuni delle Grotte di tutti i generi e novali della Ricolta X.ma
Ind. 1762 prodotti nello Stato e territorio di detta terra, nel fego de’
Gibbellini e feudi d’Aquilìa e Cimicìa de RR. PP. Benedettini de Scalis:
forti
|
orzi
|
Fave
|
lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 1123:3
|
salme 578:2
|
salme 367
|
salme 113:19
|
salme 126:7
|
salme 133:3
|
Rivelo fatto da’ Reverendi
Sacerdoti di detta terra Jorati della SS.ma Inquisizione del Tribunale del
Santo Officio di tutti li prodotti come trova in detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 47
|
salme 36
|
salme 14:4
|
salme 0:3
|
salme 1:8
|
salme 4:1:3
|
Riveli de’ Chierici di detta Terra
fatto d’ordine di Monsignor Vescovo di Girgenti emanato sotto li 20 Agosto 1762
per li prodotti di detto anno:
forti
|
orzi
|
Fave
|
Lenti
|
ceci
|
novali
|
salme 344:15
|
salme 154:14
|
salme 137:18
|
salme 7:4
|
salme 28:9
|
salme 26:9
|
A
fine secolo i fuochi erano saliti a 1961. In altra sede abbiamo scritto a lungo
sull’evoluzione demografica di Racalmuto. Qui ci limitiamo ad osservare che la
popolazione si era assestata a fine del Seicento intorno alle cinquemila unità.
Dopo sarebbe scesa, ma davvero essa si è notevolmente contratta sino a toccare
la quota di 4.757 nel 1713 (o secondo Maggiore-Perni nel 1714)[27]?
Noi
francamente pensiamo che quel rivelo sia scarsamente veridico. La
documentazione dell’Archivio di Stato di Palermo (Deputazione Regno, Inv. n.° 5
- RIVELI ANNO 1714 vol. n.° 1682) testimonia che a Racalmuto funzionari del
censimento operarono dal ventotto maggio ottava ind. 1715 sino al “ primo Junii
Millesimo septimo decimo quinto 1715”. Si era dunque in pieno interdetto
religioso. Plausibile dunque che, se non il sabotaggio, almeno il disinteresse
del clero locale abbia facilitato le diffuse omissioni del censimento di tanti
racalmutesi, come sempre preoccupati delle conseguenze fiscali del rivelo.
Nel primo
quindicennio del ‘700 non risultano epidemie di rilievo a Racalmuto. Gli indici
di mortalità sono quelli della norma (allegato 5). Le nascite come sempre sono
cospicue e per di più l’immigrazione è documentabile (famiglie come quelle
degli Sciascia, dei Taverna etc., che erano emigrate intorno al 1660, ritornano
a Racalmuto proprio a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo). Quella drastica
contrazione della popolazione che vorrebbe il rivelo del 1714-15 non appare per
nulla attendibile. Quel che è certo è che proprio al tempo del rivelo
(1713-1715) il tasso di mortalità di Racalmuto era tra i più bassi della sua
storia sino all’unità d’Italia (2,59% della popolazione media di
quel tempo). E tale popolazione nel 1714, doveva, secondo le nostre stime,
aggirarsi sui 5.370 abitanti (contro gli appena 4.757 che segnala il
Maggiore-Perni con un divario del 12,89%).
Il XVIII
secolo si chiude con una flessione della popolazione: i dati disponibili
(quelli della Matrice e quelli dei censimenti ufficiali confermano) il
repentino contrarsi della densità abitativa. Eccone alcuni elementi
significativi:
Anno
|
Popolazione
di Racalmuto
|
fonte
|
1748
|
6.063
|
Maggiore-Perni
pag. 352
|
1795
|
7.620
|
Matrice
Racalmuto - arc. Mantione
|
1798
|
7.630
|
Maggiore-Perni
pag. 352
|
1801
|
7.138
|
Matrice Racalmuto - L’arc.
Mantione appone questa annotazione: «terminata detta numerazione a 20 maggio 4^
Ind. 1801 Si vede che il popolo trovasi diminuito considerevolmente rispetto
all'anno scorso»
|
Dagli
archivi di Stato di Palermo ricaviamo qualche notizia sull’amministrazione del
Comune di Racalmuto, una volta affrancato dal giogo feudale. Negli anni dal
1784 al 1787, il razionale del luogo
è don Francesco Perrone, il notaio ufficiale: d. Antonino Picataggi; manca il
tesoriere: in sua assenza c’è un ”collettore ed esattore di tutte le tasse”
sostituto; i giurati sono: d. Giuseppe Amella, Francesco Grillo e Pistone,
Marco Matrona, Calogero Fucà; il sindaco è il Magnifico don Giuseppe Cavallaro.
Vene pagata un’onza a Bonaventura Brutto per il pubblico panizzo; a m° Pietro
Castrogiovanni tarì 1 e 8 grani “per avere acconciato la porta della chiesa di
S. Rosalia”; altre spese per riparazione e manutenzione dell’orologio cui
accudisce m° Vincenzo Terrana. Nel successivo esercizio del 1785-86 abbiamo i seguenti giurati: Bonaventura Lo
Brutto, Giuseppe Scibetta Letizia, Salvatore Gambuto e Giuseppe Tulumello.
Sindaco: Antonino Grillo. Collettore: don Giuseppe Amella.
Ecco
alcune annotazioni relative al 1790: d. Giuseppe Amella è l’arrendatario che
paga a m° Melchiorre Lo Cicero onze 11.7.14 “per altrettante dal medesimo
pagate e distribuite a diverse persone per la santa solennizzazione della festa
della gloriosa S. Rosalia, patrona di questa università, il 4 di settembre e
cioè: a m° Francesco Galeano e compagni per n° 3900 maschi che si sparano nel
corso della festa, onze 1.28. 0; a don Calogero Grillo per sei rotoli di cera a
tarì 10 per rotolo, che si consumò in detta festa, onze 1; al m° Mariano Busuito per fatiche per
avere apparato la chiesa tarì 14; a d. Antonio Grillo per regalia per avere
suonato l’organo, tarì 2; al rev. D. Morrino per avere rappresentato il
panegirico della Santa, tarì 2; tamburi n° 4, tarì 21; trombi 4, tarì 25;
piffaro: tarì 6; per il trionfo nel corso dell’ottavo: tarì 6; messe
celebrative n° 13 tarì 19.10; figure n° 200 tarì 2.10; spese a minuto tarì
9,14; corsa: onze 1: che in tutto fanno onze 11.7.14.» Per l’esercizio 1790-91,
Giuseppe Amella «pagava per patrimonio urbano per la nona indizione onze 1.126
. 15 - 18
Nel
1791 “arrendatario” di Racalmuto figura
don Giuseppe Amella; d. Calogero Amella risulta il “fisico” locale. I giurati
sono: Calogero Tirone, Giuseppe Scibetta, Vincenzo Tulumello e Calogero Fucà.
Il 20 gennaio 1791 sono «pagate da Amella al sac. D. Nicolò Pantalone tarì
11.10 per il prezzo di due corde di canape necessarie per la mappera dell’orologio;
a m° Lorenzo d’Agrò tarì 2 in prezzo di chiodi e pezzi di tavola necessari per
l’acconcio dell’orologio». 21 maggio 1791: «Amella paga tarì 4 per eligersi dai
giurati un barbiere più adatto ed abile per apprendere il metodo dell’innesto
del vaiolo, giusta la pratica insegnata a diversi barbieri chiamati in Palermo
per apprendere la suddetta maniera di eseguire il suddetto innesto a norma
delle istruzioni». Il 16 giugno 1791 viene eletto m° Giuseppe Romano.» Il 31 di
agosto Giuseppe Amella corrisponde a Nicolò Pantalone “onze 9 per onorario di
tutto l’anno per avere la cura dell’orologio di questa Università.
1791-92:
«Viene nominato procuratore del tesoriere Giuseppe Tulumello, don Croce di
Napoli. A Francesco Restivo onze 4 per loero della bottega della neve e sue
fatiche per la vendita di detta neve come da mandato.»
1792-1793:
«viene esposta la reliquia di S. Rosalia per la serenità del tempo e penuria
della fame. Tarì a Cicero per averli erogati per formare una sepoltura fuori la
terra per la quantità di morti in questo sterelissimo anno 11a
indizione.»
Nel
1793 cambia il quadro amministrativo: Pietro Scimonelli diviene maestro
razionale; giurati sono: Antonio Grillo e Brutto, Francesco Pomo, Girolamo
Grillo Alessi. Vengono eletti deputati a norma di una circolare del 1793:
Antonino Sferrazza, Salesio Vinci, Angelo Gabriele Mannarà, Antonino Grillo e
Mattina, Giuseppe Cavallaro. Don Giuseppe Tulemello è il tesorerie.
L’anno
successivo, nel 1794, il razionale è
Santo Impellizzeri; deputati: Francesco Vinci (che, se non andiamo errati, deve
essere quello che nel 1760 scrisse la storia di M. SS. del Monte e fu chierico
nel seminario di Agrigento), Giuseppe e Bernardo Grillo, nonché i magnifici
Onofrio d’Amico, Giuseppe Monserrato e don Calogero Amenti. Arrendatore del
patrimonio urbano: don Vincenzo Tulumello per la somma di onze 1.126.15.18.
Per
l’esercizio 1794-1795, abbiamo: razionale,
don Carlo Calabrese; deputati: Calogero Ferrante, notaio Antonino Picataggi,
notaio Cristofaro Pomo. I giurati sono: Giuseppe Baeri, Girolamo Gambuto,
Raffaele Cavallaro, Raffaele Grillo e Addamo. Collettore è il notaio Ignazio
Tulumello.
Per
il 1797 e 1798 il razionale è
Domenico Impellizzeri; i deputati locali sono: il barone d. Girolamo Grillo,
Giuseppe Mattina, Raffaele Grillo e Belmonte; i giurati: Salesio Vinci,
Vincenzo Bellavia, Paolo Baeri e Giuseppe Matrona. “L’intero civico patrimonio
si gabella a d. Raffaele Bisanti, procuratore di d. Felice Cavallaro”.
Il
secolo si chiude con queste cariche: razionale,
Francesco Pirrone; deputati: Salvatore
Gambuto, Giuseppe Mattina. Calogero Farrauto assume la carica di regio
proconservatore. I nuovi giurati: Marco Matrona, Gaspare Savatteri, Antonio
Bellavia, d. Vincenzo Grillo e Ingrao. Come collettore figura d. Vincenzo
Bellavia. Tesoriere è ora don Antonio Grillo ed Alessi.
**********************
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso
l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni
triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche
sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia
pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo
Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio
trigesimo nono”[28],
così descrive Racalmuto:
«Recalmutum:
Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia
Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor
Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36.
Animae 5.012.»
Vigilavano
dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da
36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La
notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti
vaticani.
Nelle città
– precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit
archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per
lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così
beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti:
Racalmuto: viene incluso tra gli oppida;
le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes
in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. [29]
l’oppidum continua a venire designato
erroneamente Recalmutum. Ignoriamo
quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi
l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici
e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre
1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove
in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre
feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è
necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il
sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i
fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici,
insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era
premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale
Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc
specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde
bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè
credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione
prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be
sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis
abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum
paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il
popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli
neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità
la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in
termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a
quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo
Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito
questionario.
Scarna
anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la
rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti
di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio
dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde
il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza
e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur[30]).
Ma il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi
juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis
conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis
intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque
illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac
coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per
evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum
familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero
manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal
Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il
Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa
controversa con il Regio Fisco: «completam
victoriam obtinui.[31]»
Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite
racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum [32]).
Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del
Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo –
pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario,
et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus
etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a
Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad
Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La
prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio
Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr.
f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex
Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium
percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum
gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini,
militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante
Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa
horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel
presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne
durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene)
che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e
dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente
per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale
potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre
che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore
Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi
al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [33]
Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni
Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il
dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine
vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire.
L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi
connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana,
ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha
contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la
questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il
contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente
il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor
Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il
bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli
acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si
chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce
offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci
sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma
dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò,
vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era
stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il
governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il
loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché
l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati …
[…] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero
pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore
Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi
al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. [34]
Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni
Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il
dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo
l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette
obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha
scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà
la Recitazione della controversia
liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di
vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non
sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il
contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente
il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor
Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il
bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli
acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si
chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce
offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci
sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento
non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il
maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il
diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati
di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli
acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani
emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva
soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in
torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al
papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che
è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza
doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e
regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e
Gayarre, de consilio sacrae catholicae
majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti
don Francesco Ramirez intimato d’ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e
da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l’animo di S.E.
concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con
matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il
nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M.
(che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d’osservare le
prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d’essere lesa la
libertà ecclesiastica, e d’aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don
Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed
altre persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a
scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di tal potestà economica fosse
enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della
diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà
economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l’evidente
nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de’
divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del
Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita
censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo,
ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de’ sacri
canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei
popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà
economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana,
non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e
prerogative del regio exequatur,
secondo si prescrive dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati
in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai
interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno,
ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti,
alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed
accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili
eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata,
assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non
avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la
citazione ad dicendum causam quae,
secondo precettò la stessa Verità increata.» [35]
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che
definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla
Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae,
edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab
episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta
fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac
poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è
il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di
Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno
che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto.
Nella Controversia ironizza: «ingastone … Era inevitabile che nascesse
il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo
di carestia. perlongo L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice
di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non
scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi
dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più
conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non
voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo
a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio
di niente. ingastone Proprio così …A Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote,
ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi
ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello
è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata
presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al
loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a
confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo
espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva
tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare
particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto
ad allontanarsi da Agrigento […]
Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si
divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce,
carceri, esili, confische e vessazioni,
scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto
venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente
osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo
in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti,
in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni.
Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione
dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e
piuttosto ondivago. [36]
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata
con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore
le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe
mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro
paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro
i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St.
Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e
sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le
cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza
de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune
misure.» [37] Ma
il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice
della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’
inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per
assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di
Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [38]
che «due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa,
diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una
scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi
di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo
1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino
per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di
scomunica a sé riservata di più riputare
il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente
essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il
canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De
St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo
Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero
colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui
nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì,
ed altri luoghi … Ella vi proveda a
tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti
tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato
furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo
vacante. Il Ramirez muore – per così
dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un
presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è
Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano
ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali
della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per
studi linguistici di portata anche sociologica.
Il
Mongitore – integrando il Pirri - ci
ragguaglia sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede
vacante la Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi
dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale
Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel
che in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo
della Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi
auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era
laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale
della congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2
febbraio 1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di
Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla
pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9
novembre del medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani
dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di
breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone,
protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si
distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe
un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai
poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava
Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di
Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario,
cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [39]
Succede
Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI.
Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730,
trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore [40]-
per doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i
benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il
Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi
rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione,
nel pubblico costume, e nel commercio.» [41] Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo
fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a
Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e
bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre Elia Lauricella. Il padre Morreale
ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede
Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei
principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò
Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal
20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della
celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie
dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto
gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene
– scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è
fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e
questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che
abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più
ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche
che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i
commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo
che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe
tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio
ad limina al papa.
Dopo,
per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi
Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del
suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al
magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza
e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne
ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’
la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal
15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro
concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il
prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale
per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi
il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse
piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già
indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato
un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per
l’irrigazione delle piante.»
Il
1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero
durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel
secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
Considerazioni conclusive sul Settecento
Racalmutese.
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti
sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra
loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita
paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,
don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché
l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di
acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe
Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da
Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu
“consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia
per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei
fatti, pensiamo.
Era
imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono
un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel
LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al
Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza
dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco
Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista,
Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto
Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente.
– Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore,
Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS.
Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se
tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o
non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito
e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una
memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è
detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni
dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona,
divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 -
scrive fra l’altro il Matrona - da
Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene
anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo
fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si
tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui
piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso
Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco
Busuito di
Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e
dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un
Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al
beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al
Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro
il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i
fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto
Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva
onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre
esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo
Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per
legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata
Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per
deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e
Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità
giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal
predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle
procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti,
in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo
fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco,
come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind.
1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le
onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle
fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor
Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al
sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e
facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione.
Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto
al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie
sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte
del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona,
con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il
beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Il
canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo
coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del
Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di
Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento
ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del
canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una
gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa
in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del
Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di
Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un
tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello
dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta
risalente, a seconda delle varie versioni ,
al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente
quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali
agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio
venne riadatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al
sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una
chiesa da ridurre a stalla.
Santa
Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento.
Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del
Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga
era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don
Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’
«aura romantica ed un tantino melodrammatica».
[1] )
AA.VV., Leonardo Sciascia ed il
Settecento in Sicilia, Caltanissetta 1998, p. 5.
[2] ) ibidem, p. 9.
[3] ) Leonardo SCIASCIA Le parrocchie
di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 21.
[5] ) Girolamo M. Morreale, S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto –
Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
[6] ) Girolamo M. Morreale, S.J.
Maria SS. del Monte …, op. cit., p. 67.
[7] ) Leonardo Sciascia, Prolusione a Pietro d’Asaro .., cit. p.
20.
[8] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi, Palermo 1988, pp. 163; 171 e
riproduzione policroma dopo p. 192.
[9] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura
col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[10] ) )
Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno
MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del
re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 304-305.
[11] ) Calogero Valenti,
Grotte – origini e vocende storiche, Grotte 1996, pp. 199-210.
[12]) Tra
le carte della Matrice è però custodito un documento che si riporta
in appendice che comprova la rendita della Cappella della Maddalena, risalente
appunto a don Santo d’Agro, che si continua apercepire ancora nel Settecento e
nell’ Ottocento.
[13] ) Drappo di seta col pelo
più lungo del velluto: felpa.
[14] ) piccolo sopraccielo,
baldaccino = dossello.
[15] )
Archivio di Stato di Agrigento – Distretto Notarile – Notaio Angelo Maria
Cavallaro – Inventario n. 6 – n° 10632.
[16] ) Archivio di Stato di
Agrigento – Atti Notarili – notaio Angelo Maria Cavallaro – inv. N° 6 - fasc. 10632, f. 165 ss.
[17] ) Leonardo Sciascia – Contrada Noce, in Gli amici della Noce, Fondazione Sciascia Racalmuto 1997, p. 7
[18] ) Leonardo Sciascia Prefazione al libro di Tinebra
Martorana, Racalmuto – Memorie e
tradizioni – Racalmuto 1986, pp. 11-13
[19]) ibidem - Real segreteria
- Incartamenti - B. 3604.
[20]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[21]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[22]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3605.
[23]) ibidem - Real Segreteria
- Incartamenti - B. 3606
[24] ) Leonardo
SCIASCIA Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag.
21.
[25]) Secondo l’elenco della
Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52
anni (cfr. col. 3 n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio
sulla data di morte può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
|
5
|
1650
|
Todaro
|
Giuseppe
Sacerdote
|
sepolto
nella chiesa di S. Maria del Monte
|
gratis
|
Sull’età del
Sacerdote Todaro è da precisare che era già chierico nel 1598 come
risulta del tuo elenco:
4
|
1598
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
12
|
1600
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
e nella visita del 1608 è già sacerdote abilitato alle
confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote sia morto settantenne e
questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
|
12
|
1580
|
Todaro
|
Joseppi
|
Vincenzo
Mastro
|
Violanti
|
[26] )
Archivio di Stato di Palermo - FONDO ARCHIVISTICO PALAGONIA - SERIE ARCHIVI
PRIVATI – UNITA’ ARCHIVISTICA: 694 - ANNI 1736-1752
[27]) Nel Dizionario Topografico della Sicilia di
Vito Amico, tradotto e aggiornato da Gioacchino Di Marzo, si afferma che a
Racalmuto si erano registrati «nell’anno 1713, 1175 fuochi e 4757».
Francesco
Maggiore-Perni ne’ “La popolazione di
Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo” colloca il censimento nel 1714
(cfr. Tavola I pag. 527).
[28] )
Archivio Segreto Vaticano – Relationes ad limina –Agrigentum – 16A – f. 349.
[29] ) ibidem. F. 401
[30] ) ibidem, f. 499v.
[31] ) ibidem, f. 578v.
[32] ) ibidem, f. 579.
[33] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[34] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[35] ) Bullarium romanum –An.
C. 1713 – Torino 1871, p. 590a.
[36] ) Domenico De Gregorio, Cammarata,
Agrigento 1986, p. 305.
[37] ) Il
Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII
al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re
d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
[38] ) ibidem, p. 55
[39] ) Rocco Pirri, Sicilia
Sacra, Tomus Primus, Palermo 1733, p. 727.
[40] ) ibidem, p. 727.
[41] ) Giuseppe Picone, Memorie
Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 574.
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