mercoledì 28 dicembre 2016
domenica 5 ottobre 2014
Quando Leonardo Sciascia portava il giummo --- Eia, eia, alalà - Racalmuto Fascista
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
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Criteri periodizzanti
L’oggetto della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale, organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda l’istituto podestarile.
Per convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia, ormai sterminata, sul fascismo.
Sono criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista definendola «funesto regime che è stato una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]), non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la “rivoluzione fascista”.
Per l’Ercole ([2]), ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla “marcia su Roma” al discorso del 3 gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle “corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista - dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23 marzo-28 ottobre 1922.
Ma nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata “insurrezionale”, ‘violenta’, che non è da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la reiterata minaccia della cosiddetta seconda ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed effimeri» ([3]). Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura antifascista del dopo guerra. ([4])
In campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre 1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])
In campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag. 2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 - cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])
Quanto alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36, 1936-39, 1939-43.» ([8]) Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936 viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il Lupo, ([9]) un affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve) trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e verticale dove le autonomie e i conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
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Il segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti. Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», “sosta estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926 il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione dei poteri del governo a scapito del parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata, istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della pubblica amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([10]) L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n. 1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che consentiva ad un proprio capo-popolo uno scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929 e nel 1934.
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