DA CASINO DI NOBILI A CIRCOLO UNIONE
di Calogero Taverna
* * *
Il circolo Unione l’anno venturo, nel 1999, compie 160 anni:
è il più vecchio circolo di Racalmuto, il più glorioso, quello maggiormente
emblematico di una classe media con aspirazioni nobiliari. Oggi è di certo meno
pretenzioso, più riservato, amante del pettegolezzo d’alto bordo - tra il
politico, il sociale, l’irriverente, il caustico, il miscredente. A sera pochi
soci ormai cercano di perpetuare il cicaleccio arrogante, impietoso ed ilare dei
personaggi passati alla storia (letteraria) per la penna di Leonardo Sciascia.
Ma di don Ferdinando Trupia, di Martinez, di Lascuda, di don Carmelo Mormino,
del dott. La Ferla, di don Antonio Marino ormai neppure l’ombra. I loro eredi -
quasi tutti professionisti affermati in Continente o a Palermo - hanno ritenuto
di potere sbeffeggiare il circolo dei loro sbeffeggiati (da Sciascia) antenati
facendosi espellere per morosità da una deputazione post-sessantotto, di
estrazione non nobile e talora persino proletaria. La fuoriuscita dei virgulti
degli antichi galantuomini vorremmo dire
è persino fisiologica.
A sera, ora, tocca alla facondia suadente e beffarda di
Guglielmo S. mantenere viva la conversazione al circolo: gli fa eco il
tranchant assiomatismo di Calogero S.; sorride con intelligente silenzio
Gioacchino F.; fino a qualche anno fa scoppiava l’ira funesta dell’avv.
Salvatore C.; al dott. Gioacchino T. il compito del divertito spettatore;
Ignazio P. ascolta silente, ma si arrabbia se gli toccano la sua Democrazia; il
Presidente non è faceto: se occorre stigmatizza; Salvatore S. arriva tardi, in
tempo per un paio di sorrisi se Guglielmo S. è in vena nelle sue sforbicianti
allusioni. Quando vado a Racalmuto, partecipo anch’io a tali dibattiti serotini:
nessuno ha voglia di prendermi sul serio: provoco, sono provocato,
insolentisco, vengo insolentito: la serata passa piacevole: val la pena di
pagare quel piccolo contributo quale socio con “dimora precaria”.
Di tanto in tanto arrivano poesie in vernacolo: sono
composizioni miserande, cattive, senza gusto: sono intollerabili. I soci però
sembrano divertirsi lo stesso.
Leonardo Sciascia trasse motivi ed argomenti per il suo
iconoclasto deridere i poveri galantuomini di Racalmuto. Vi era associato; lo
eleggevano deputato e persino cassiere. Ma amava stroncare quei figuri nati
effettivamente per lasciare “un’affossatura nelle poltrene del circolo”. Ebbe
il cattivo gusto di morire lasciando in sospeso il pagamento dei “buoni”
associativi: inflessibili i membri della deputazione non mancarono di
verbalizzare nel 1992 la circostanza.
Lo scrittore è disinvolto nell’accennare alle gloriose
origini del circolo: «Il circolo della concordia - annota quasi con prosa
burocratica [1] -
prima denominato dei nobili, poi della concordia poi dopolavoro 3 gennaio, sotto l’AMG sede
della Democrazia Sociale (il primo partito apparso in questa zona della Sicilia
all’arrivo degli americani e dagli americani protetto) e infine ribattezzato della concordia, pare sia stato fondato
prima del 66, se appunto nel 66 la popolazione infuriata contro le sabaude
leve, istintivamente trovando un certo rapporto tra la leva che toglieva i
figli e i nobili che se ne stavano al circolo molto volenterosamente vi appiccò
il fuoco; ma pare ne ricevessero danno soltanto i mobili, le persone si erano
squagliate al primo avviso, le sale restarono superficialmente sconciate.»
Quanto a storia locale ci reputiamo più fortunati di Sciascia
e siamo in grado di retrodatare di almeno un trentennio la fondazione dello
storico circolo. Se si spulcia l’Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di
Stato presso il Luogotenente generale, Polizia vol. 412, si rinviene il “Notamento dei Così detti Caffè e luoghi di
riunione esistenti nei vari Comuni di questa Provincia ..., Girgenti, 26
agosto 1839.” Sotto tale data abbiamo dunque la consacrazione ufficiale del
nostro circolo o se si vuole il riconoscimento giuridico. Scrive Carmelo
Vetro [2]
«In provincia i sodalizi si registrano a Licata (due circoli), Palma, Racalmuto, Ravanusa, Bivona,
Villafranca, S. Giovanni, Santa Margherita, Montevago, Sciacca, Naro,
Canicattì, Alessandria, Campobello, Cammarata, Caltabellotta, Menfi, Sambuca,
Burgio ed Aragona: tutti con i loro bravi regolamenti, autorizzati dalle
autorità di polizia, ... E’ da dire che molti di questi circoli erano favoriti
dall’autorità locale che in tal modo poteva registrare gli umori politici e gli
orientamenti prevalenti. Non a caso parecchi sodalizi nascono negli anni Trenta
dell’Ottocento dopo la tempesta politica del 1820-21 ed il tentativo borbonico
di riavvicinarsi agli intellettuali e borghesi.» Siamo pressoché certi che il
circolo sorgesse in piazza su un marciapiede “sopraelevato rispetto al resto
della piazza, ove era vietato, per inveterata consuetudine, passeggiare alla
‘gente comune’ ... Si aveva così un effetto quasi grottesco, che sottolineava
la gerarchia feudale, essendo i notabili una ‘spanna’ più alti degli altri”. Il
Vetro soggiunge: «Un rigido cerimoniale regolava l’ammissione dei nuovi soci ai
vari circoli.... si poteva essere ammessi riportando la maggioranza di “voti
segreti per bussoli”, nell’assemblea dei soci. Ogni due anni venivano eletti
quattro deputati, il più giovane dei quali faceva da segretario. Nelle
assemblee avevano diritto di voto i soli contribuenti. Ai deputati erano
affidati la “polizia interna” e il “buon ordine della conversazione. Nelle sere
di gala la conversazione era illuminata “a cera”. Al circolo erano ammessi solo
“gli associati, le loro mogli, i figli e le figlie nubili e fratelli conviventi
nella stessa casa”. Infine gli ospiti non si
dovevano “permettere di discorrere e discutere di cose” che si
allontanavano “dallo scopo di una onesta conversazione”. Parimenti vietata era
la lettura di fogli, giornali, libri o stampe non autorizzati dalla polizia.
... I contribuenti avevano la facoltà di presentare alla conversazione
“forestieri distinti e di loro conoscenza, chiesta il permesso ai Deputati,
salvo alla deputazione di deliberare in seguito l’esclusione se non li avesse
riconosciuti “meritevoli”. ... Il
circolo era provvisto dei “fogli officiali”
di Palermo e di qualche altro giornale letterario. Un cameriere ed un
“bigliardiere” si occupavano di servire i soci con un vestito decente e a testa
scoperta”. Un puntuale tariffario
stabiliva le quote da versare per i diritti di gioco. Le illuminazioni
“a cera” erano ordinariamente previste nella sera di gala ed in talune
ricorrenze. ... Leonardo Sciascia ci introduce nello spazio dorato, quasi senza
tempo del Circolo della concordia di
Regalpetra, dove vecchi e nuovi notabili vengono a celebrare il rito della
fedeltà al passato ed alimentare inutili sogni di difesa dei propri privilegi.
Il circolo è situato nella parte centrale dei corso: “Consiste di una grande
sala di conversazione, con tappezzeria di color pesco e poltrone di cuoio
scuto, una sala di lettura, tre sale da gioco”. I soci del circolo non sono,
ormai, più i ricchi: “I ricchi si trovano nel circolo del mutuo soccorso, una
società operaia che è venuta trasformandosi ...; il più ricco dei “don” non
possiede più di dieci salme di terra” ma i soci del circolo della Concordia
“continuano ad essere il sale della terra”. Anche qua si discute di politica
“scienza di cui molti soci del circolo si sentono al vertice e fanno previsioni
che, verificandosi poi fatti esattamente opposti, si possono considerare
attendibilissime.” Dopo la politica, le donne. E allora “le mani si muovono a
plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come
mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente
ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione”. Nella
rappresentazione letteraria la ritualità della “conversazione”, che
autogratifica con la sua immobilità l’Olimpo paesano, dà quasi un senso alla
stessa esistenza: ci si sente, allora, “lievi e giustificati, d’aver vissuto
tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia
insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo, che
chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei giorni,
riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità”. Una
continuità che nell’illusione di molti esercita, ancor oggi, come un fossile
vivente, esercita il fascinoso richiamo di un’elitaria società che più non
esiste.»
FONDAZIONE DEL SODALIZIO
Il circolo Unione sorge dunque poco prima del 1839 con un
nome ben diverso: Casino di Compagnia. Leonardo
Sciascia è sapido e sfottente sul termine “casino”: deliziosa la sua verve ironica in Occhio di Capra.
«CASINU. Casino. Casino di compagnia. - annota a pag. 43 - Ma non tutti i
circoli erano così denominati. Il casino per (non per modo di dire) eccellenza
era quello dei ‘galantuomini’ cui il fascismo, impadronendosene, diede nome di
“dopolavoro delle forze civili”. Raccoglieva proprietari terrieri,
professionisti, funzionari dello Stato, maestri delle scuole elementari; e vi
si entrava se approvati, per votazione a palle nere e bianche, dai due terzi
dei soci. La non approvazione - piuttosto frequente - era un fatto mortificante
e non privo di conseguenze morali, sociali. Una macchia. Paradossalmente, fu il
fascismo a democratizzare l’ammissione al casino: bastava appartenere alle
“forze civili” (e cioè alla categoria popolarmente detta dei “sucanchiostru”,
dei succhia-inchiostro, della burocrazia anche infima) per essere, dietro
domanda, ammessi. Ma caduto il fascismo, si tornò al vecchio statuto. [...] In
tutti [i circoli] prevalente attività era il gioco di carte: a passatempo
durante l’anno, d’azzardo durante il periodo natalizio. Nel frattempo (negli
anni Cinquanta) scompariva nell’accezione di circolo la parola casino, ormai
d’uso generale nel significato - derivante da casino = casa di prostituzione -
di confusione, tumultuazione, chiasso.
«Il casino = casa di prostituzione non esisteva nel paese; e
le case di prostituzione dei grossi paesi vicini erano semplicemente bordelli.
Qualcosa di simile alla casa di prostituzione pare fosse esistita, non in
regola con la legge, alla fine dell’Ottocento in un quartiere chiamato Santa
Croce: e ne rimase memoria nel dire “santacruci” come sinonimo di licenziosità,
di puttanesimo. Curiosamente, è con l’abolizione delle case di prostituzione
che cade l’interdetto sulla parola casino, e per il fatto che ormai tutti
sapevano che cosa fosse stato un casino. Per cui casino, incasinare,
incasinato, far casino, sono espressioni che soltanto i giovani, fra di loro,
usano. La pruderie dei racalmutesi si
può senz’altro dire di tipo vittoriano. Ancora oggi c’è chi chiama “biancu”
(bianco) il petto di pollo; chi evita di dare precisa denominazione a quella
pera cerea e succosa detta “coscia” o - peggio - “coscia di monaca”; chi,
azzardandosi a parlare di prostitute, ricorre all’eufemismo di “donne che fanno
qualche favore” ...»
Il 1839 seguiva di poco a Racalmuto il temendo cataclisma che
era stata la peste del 1837. Un fraticello del Convento di S. Francesco ci ha
lasciato questa tremenda testimonianza [3]:
«Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto
morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto
al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in
San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone perticolari;
poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo,
che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.»
In quel torno di tempo si era dunque nella solita euforia
esistenziale che segue ai grandi sconvolgimenti demografici: voglia di vivere,
di procreare, di lavorare, di arricchirsi, di consociarsi, di amare e di
divertirsi. Il Casino nasce per conversare, giocare, ma soprattutto per
scambiarsi idee, per saggiare il terreno delle opportunità commerciali. Racalmuto
era stato invaso dalla febbre dell’oro giallo, dello zolfo che le viscere delle
sterili terre del nord contenevano a profusione. Nel quadriennio 1834-1837
erano state attivate a Racalmuto 35
solfare su un totale di 332 in Sicilia: il prodotto medio annuo era stato di
34.696 cantari su una produzione intera della Sicilia calcolata in 1.478.254
cantari. [4]
Presso il circolo di conversazione si radunavano quindi i maggiori proprietari
di solfare; s’informavano reciprocamente su quelli che erano gli umori del
mercato; sulle prospettive, sulla faccenda complicata del monopolio solfifero
accordato dai Borboni allaTaix, Aycard e C. (con decreto reale del 5 luglio
1838). La compagnia si obbligava a comprare ogni anno 600 mila cantari di zolfo
prodotto in Sicilia “avendo la sperienza comprovata eccedente e di gravi danni
produttrice ogni maggior produzione” . La produzione doveva quindi
autodisciplinarsi. Non saranno stati grandi ingegni quei nostri proprietari
terrieri, trasformatisi all’improvviso in imprenditori minerari, ma il bisogno
dovette acuirne l’ingegno; al circolo era possibile, magari sotto forma di
feroce dibattito e di reciproche contumelie, avere modo di giungere ad un
qualche chiarimento, ad un orientamento delle proprie scelte produttive. Erano
i problemi della nuova società borghese ed anche i ‘civili’ racalmutesi ne
venivano inghiottiti. Sono aspetti per ora in nessun modo indagati dalla
storiografia, ancora anchilosata da ideologismi e prevenzioni
intellettualistiche oscuranti la ricerca
del vero evolversi sociale di quel tempo.
Il circolo era tutt’altro che il punto d’incontro di
neghittosi nobilotti di paese, alle prese con il problema del molto tempo
libero da occupare in qualche modo. V’era spirito imprenditoriale: vi
accedevano, se non i gabellotti
arricchiti, freschi di studi universitari. La stampa cominciava a farvi
capolino. Il circolo è dunque più di un’occasione per attizzare una certa
vivacità culturale. E la cultura cambia in paese: esso non è più la contea alle
prese con i problemi del terraggio e del terraggiolo; anche il nuovo barone
Tulumello - un prete suo antenato aveva acquistato per due terzi il feudo di
Gibillini il cui titolo doveva essere assegnato a persona da nominare - deve
ora accontentarsi solo del vacuo trofeo di un blasone nobiliare che deve
condividere con il barone Girolamo Grillo. In quel torno di tempo ben 3
personaggi racalmutesi si arrogavano quell’altisonante fregio. Eccoli secondo
le annotazioni di un rivelo coevo:
GRILLO
|
GIROLAMO
|
BARONE
|
TULUMELLO
|
LUIGI
|
BARONE
|
TULUMELLO B.NE
|
GIUSEPPE
SAVERIO
|
BARONE DON
|
Furono sicuramente tra i promotori del circolo quali nobili
per eccellenza; dovettero però convivere con gli emergenti, con i nuovi
ricchi e soprattutto con i nuovi
notabili ormai senza più cordoni ombelicali con i settecenteschi potentati
feudali. Sindaco di Racalmuto è don Nicolò Mattina Calello che “don” lo è di recente: nel seicento la sua famiglia
era notabile solo per qualche prete come don Federico Mattina, nato un ventennio
prima di fra Diego La Matina, che però era di diverso ceppo ed era un Randazzo
per parte di madre. I La Mattina Calello affiorano qua e la come notabili ma
sempre marginalmente sino a tutto il Settecento: poi il salto di qualità nella
gerarchia degli ottimati locali, sino ai nostri giorni. Gli eredi sono tuttora
i più cospicui elementi dell’attuale Circolo Unione.
Scottante era in quel tempo la questione delle Decime da pagare alla
mensa vescovile di Agrigento: tutto il territorio di Racalmuto vi era
assoggettato. Sciascia è piuttosto disinvolto quando riduce a poca cosa la
vicenda del passaggio dal feudalesimo all’economia libera. Scrive, nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 20 ed.
1982): «Nel 1819 ... Regalpetra [alias Racalmuto] è considerata ex feudo: la
riforma di Sant’Elia era già stata attuata, ma buona parte del territorio era
in mano dei preti.» Naturalmente non era vero. Ed ancora oggi è da chiarire
cosa abbia inteso il grande scrittore siciliano nel compendiare così la riforma
di Sant’Elia (ibidem, pag. 19): Cessata la famiglia del Carretto,
«l’investitura passava ai marchesi di Sant’Elia, ancor oggi i borgesi di
Regalpetra pagano il censo agli eredi dei Sant’Elia: ma certo che fu grande
riforma quella che i Sant’Elia fecero centocinquanta anni addietro, divisero il
feudo in lotti, stabilirono un censo non gravoso, la piccola proprietà nacque,
litigiosa e feroce; ...». A noi pare
essere questa della riforma una grande topica storica: i Sant’Elia non fecero
alcuna riforma, subirono gli effetti dell’abolizione del feudalesimo, si
trovarono ad essere solo titolari di alcuni diritti dominicali, i censi
appunto. Ma fu la Chiesa agrigentina che pretese - ed ottenne - le decime su
tutte le terre racalmutesi in forza di un falso diploma del 1093 che sarebbe
stato rilasciato dal conte Ruggero al vescovo Gerlando appena prescelto a capo
della Chiesa di Girgenti. Su ciò una pubblicistica smisurata ([5]). E proprio nel 1839, il 25 febbraio vi è una
seduta straordinaria presediuta dal sindaco don Nicolò Mattina. Il suo o.d.g.
contiene la «nomina della terna per le decime del 1839 dei periti agronomi:
Eletti: 1° Don Aurelio Alaimo; 2° Don Nicolò Grillo Macaluso; 3° don Giuseppe
Capitano. - Firmato: Nicolò Mattina, sindaco; Giuseppe Tulumello; Michelangelo
Alfano; Girolamo Grillo ecc.» [6]
Verranno incisi ben n.° 1281 proprietari terrieri: Tal Taverna Calogero
(mio antenato) per tre tumoli di terra deve corrispondere tarì 2 e grana 1. Il
totale delle terre soggette alle decime venne dalla triade di agronomi stimata
in salme 441, tumoli 8 e mondello 1. Il gettito sarà stato di oltre 235 onze (
qualcosa come 130 milioni di lire attuali): una bazzecola per i ricchi signori;
una dannazione per i minuscoli coltivatori diretti. I tre agronomi erano tutti
“don”: tutti quindi con diritto di accedere al neo casino della conversazione.
Di loro si vociferò di sicuro male quando assenti; con sussiegoso encomio
quando presente. Come oggi, il sindaco Mattino dovette subire il tagliente
dileggio specie dei più vetusti galantuomini. Se Sciascia avesse scritto un
romanzo alla Gattopardo, avrebbe così rievocato quelle affabulazioni
del ‘casino’: «Ma raramente il segretario della Dc dà modo di fare esaurire gli
sfoghi contro il suo partito e il governo, una sorta di sesto senso possiede,
un fiuto sempre quando un discorso sulla Dc ribolle lui vi piomba dentro,
arriva sempre in tempo, lo sente nell’aria se il discorso cade o si mimetizza.
Il domatore che entra nella gabbia delle belve e giù uno schiocco di frusta,
l’immagine è vecchia ed indecorosa: ma come rendere il ringhio di don Carmelo
Mormino che rientra nel guscio della poltrona?, l’improvviso mutar discorso del
dott. La Ferla?, il “però” che sulle labbra di don Antonio Marino affiora
dall’invettiva e apre un solleticante elogio della Dc?. Il segretario, che
senza la viltà del mondo che lo circonda sarebbe certamente un uomo migliore e
un più accorto dirigente, comincia a snocciolare tutte le opere pubbliche
avviate e progettate, racconta i suoi incontri con deputati e gerarchi del suo
partito, quel che gli hanno promesso, i provvedimenti che saranno varati. Quasi
tutti approvano, dicono - questa ci voleva, bene, mi compiaccio - poi quando il
segretario si allontana respirano di sollievo, il discorso contro la Dc
violentemente divampa.» [7]
Il sindaco don Nicolò Mattina del 1839 come il segretario Dc degli anni
Cinquanta di questo secolo? Molto verosimilmente. Il casino di conversazione
come il circolo della concodia di Sciasca? Senza dubbio.
Il panorama politico racalmutese del 1839 dovette essere variegato reagendo
in diverso modo alla riforma tributaria borbonica: inferociti i proprietari
terrieri ed i nuovi proprietari di miniere; entusiasticamente filoborbonici il
popolo minuto, come si diceva allora. Nel ‘casino della conversazione’ l’ondata
protestaria covava sotto le ceneri della formale fedeltà ai borboni.
Nel 1837 v’era stata nelle grandi città dell’Isola una sorta di
ribellione per il colera. L’anno successivo il re Ferdinando II fece un giro
della Sicilia e si convinse che l’irrequietudine popolare nasceva
principalmente dalla mancata applicazione delle leggi esistenti. Corse subito
ai ripari: tra l’altro, ridusse l’imposta del macinato e compensò il deficit
aumentando l’imposta fondiaria e imponendo un tributo ai proprietari di
miniere.
Eugenio Napoleone Messana visita quei tempi: fornisce dati di cronaca
molto succosi. Invitiamo a leggere le pagine 190-198 della sua storia di
Racalmuto. Stralciamo questo passaggio (pag. 194): «Gli amori clandestini
pullulavano, le leggi morali probabilmente erano rilasciate [sic, forse per
rilassate, n.d.r.] abbastanza ed una
costumanza, per nulla affine alle norme etiche della più semplice e civile vita
associata, era diventata preoccupante. I nati da amori illeciti venivano
facilmente abbandonati o comunque elusi
dalla registrazione negli elenchi anagrafici, se non erano soppressi da morte
violenta o naturale, dovuta quest’ultima sovente a fame. Ciò lo prova [sic] le
numerose domande che giacciono nell’archivio di stato di Agrigento, nei
carteggi dello stato civile attorno al 1848 e posteriori, presentate da giovani
che non potevano contrarre matrimonio per mancanza di registrazione della loro
nascita allo stato civile. Il sindaco Mattina appena insediato promosse
l’erezione della ruota dei proietti e diede incarico ai due deputati comunali,
primo e secondo eletto, di indagare e riferire. Poscia, in seguito alla
relazione degli incaricati, riunì il decurionato, precisamente il 13 gennaio
1838, ne propose la costruzione e fu approvata ad unanimità per una spesa di onze
1, tarì 9 e grani 12 per legname, magistero, gesso e fuso di ferro. La ruota
era un congegno semplice molto in uso nel passato nei monasteri, oggi limitato
alle clausure. [..] Dalle firme in calce di
quella deliberazione si rileva che i decurioni di Racalmuto, nel
triennio 1838-1841 erano: Nicolò Mattina, sindaco, Girolamo Grillo e Martorana,
Gaetano Savatteri, Nicolò Grillo e Macaluso, mastro Gaetano Di Rosa, Aurelio
Alaimo, Nicolò Troisi, Michelangelo Alfano, Gaetano Grillo e Scibetta, Biagio
Messana, mastro Calogero Mattina, Giuseppe Matrona, Baldassare Curto, Giacomo
Giudice sottofirmato dal segretario perché analfabeta.»
Il sindacato passò quindi - dal 1841 al 1845 - a don Giuseppe Farrauto.
Non tutti questi personaggi erano ‘civili’, ma molti di loro sì e questi ultimi
in frotta ebbero ad iscriversi nell’appena sorto casino della conversazione:
una conversazione di cui si sono perse le tracce per una malaugurata perdita
dei verbali sociali.
Il grande trambusto del 1848 coinvolse di certo anche Racalmuto: E.N.
Messana ebbe a trovare dei carteggi che mettevano in risalto un membro della
sua famiglia, Biagio Messana. Non si trattiene più, pagine e pagine per
esaltarne le imprese. Noi non abbiamo elementi per contraddirlo: siamo però
scettici sulla fibra rivoluzionaria racalmutese, a qualunque classe si
appartenga. Un’occasione vi fu per sperare di ribaltare lo strapotere di alcuni
ottimati locali; il giudice supplente don Biagio Messana - che poi era discendente di un un borghesuccio
arricchitosi con il commercio dello zolfo, Luigi Messana - crede che sia giunto
il suo momento. Sa di una bandiera tricolore da mettere al posto a quella
candida dei Borboni, sale su un balcone, fa una concione, il popolo -
incuriosito - l’ascolta. Si sparla del re, si osa irriderlo sia pure con versi
sgangherati in vernacolo:
Comu lu chhiù perversu Firdinannu
Di li nazioni scannalu ed orruri
Di li figli cannibali e tirannu
Di liggi e sacri diritti usurpaturi.
Già Ferdinando aveva osato tassare le miniere! Aveva toccato le tasche
dei Messana, prodighi di parole, parchi negli esborsi. Ad una commissione
agrigentina si chiede la persecuzione di odiati antagonisti. Ne fanno le
spese Gli Alfano. Don Calogero Alfano,
il notaro don Giuseppe Alfano, don Nicolò, don Filippo, don Alfonso, don
Giuseppe e don Giuseppe di don Giuseppe Alfano dovettero prendere la via
dell’esilio. Sicuramente erano soci del circolo: di materia di conversazione ve
ne fu all’improvviso tanta.
Soprattutto si ebbero a commentare le efferate vicende dell’uccisione di
Calogero Rizzo Inzalata, dell’incidente mortale occorso a Damiamo Tulumello, e
della giustizia sommaria in cui perì Rosario Agrò. In specie l’atroce dubbio
che si ebbe sulla partecipazione all’esecuzione dell’Agrò da parte addirittura
dello stesso giudice supplente don Biagio Messana.
Con i moti del 1848, il giudice supplente Biagio Messana organizza un
Comitato sovversivo: si autoelegge Presidente del Comitato dell’Annona e Vice
Presidente del Comitato generale. Nomina il fratello Serafino, Presidente del
Comitato di Finanza. Ama comunque continuare a fare il giudice, stavolta a
pieno titolo.
Il 30 gennaio del 1848, i fratelli Messana - ormai padroni del paese -
rimuovano una guardia, liberano carcerati ed ergastolani, riabilatano i
sorvegliati speciali. Ne fanno addirittura una personale guardia civile. Gli
Alfano - evidentemente avversari politici dei Messana - vengono costretti
all’esilio. Oggetto dell’aggressione era soprattutto don Calogero Alfano, Capo
urbano dei Borboni. Ciò avviene per l’appoggio che inopinatamente fornisce al
Messana il clero locale, evidentemente stizzito per qualche riforma del Borbone
che l. aveva colpito nel portafoglio.
Tra i firmatari, fiancheggiatori del Messana, troviamo l’arciprete
Salvatore Puma ed il vicario foraneo sac. Carmelo Troisi. Ma non mancano le
firme di ben altri 14 preti e religiosi locali, ivi compreso don Giuseppe
Cavallaro, “parroco di Bompensiere”. Della combriccola fanno parte i Picataggi,
i Busuito, i Cavallaro, i Farrauto, Michelangelo Scimé e Vincenzo Tinebra, i
ricchissimi Savatteri, un La Mantia, Angelo Presti e Gioacchino Lo Brutto, i
Picone, tal Calogero di Giglia, Nicolò La Tona, Giuseppe Mattina, Vincenzo
Saldì, Salvatore Argento, Carmelo Romano, Ferdinando Martino - quello
dell’ospedale -, Francesco Vinci, Gaetano e Francesco Grillo, Carmelo Pomo ed
altri. Non tutti sono “don”, anzi la maggior parte sono burgisi, mastri e
gabellotti: un rigurgito di contestazione borghese; una rivolta di industriali
dello zolfo contro l’imposizione borbonica; una reazione clericale avversa alle
tentate riforme della manomorta ecclesiastica.
I nobili - quelli veri alla Tulumello, alla Matrona, alla Grillo
Borghese o alla Grillo Belmonte etc. - sono assenti. Assenti per ovvie ragioni
i grandi burocrati borbonici quali gli Spinola, i Gambuto, gli Amella, i Baeri.
[1] )
Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari
1982, pag. 51.
[2] )
Carmelo Vetro - L’associazionismo borghese nella Sicilia dell’800: le case di
compagnia - in Il Risorgimento, anno XLVI n. 2-3 - Milano 1994, pag. 301
[3] )
Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S.
Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[4] ) da “Giornale di
Statistica” del 1838 vol. III, fasc.
VIII - Appendice sulle solfare in Sicilia.
[5] ) Per
chi avesse voglia di dilettarvisi citiamo per tutti: GIUSEPPE SALVIOLI - LE DECIME DI SICILIA E SPECIALMENTE QUELLE DI GIRGENTI - RICERCHE
STORICO-GIURIDICHE - PALERMO ALBERTO
REBER - 1901
[6] )
Archivio di Stato di Agrigento - Atti dell’Intendenza - Decime - Inventario n.°
4 anno 1834-1860 - Serie Ravanusa Racalmuto n.° 813-814.
[7] )
Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari
1982, pag. 61
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