mercoledì 27 settembre 2017
Mi alzai davvero infastidito: Vitazza mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con presunzione somma (vizio racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una soluzione semplice, semplice di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante. Una valente poliziotta vi aveva speso tante energie e non è che non fosse arrivata ad una soluzione; vi era arrivata ma portava lontanissimo dalla bislacca supponenza di Vitacchia. Era un filone mafioso che vi si snodava. E prove, ed indizi, e riscontri là in effetti conducevano, indefettibilmente. La morte della poliziotta dava esca a qualche sospetto, ma il buon senso portava a concludere che si era trattato di un momento di panico di un frettoloso camionista, che catapultando nel vuoto una fragile peugeot 305 con la sua motrice si era precipitosamente eclissato. Cose d’ordinaria amministrazione. Non si era trovata la motrice; qualcuno diceva che non era targata; Giuggiu Marino sproloquiava. Note di colore paesano. Il mio notorio buon senso mi dice di smetterla con questo tornare e ritornare sul recaltritrante dialetto siciliano del Vitacchia: cacciamolo via, cacciamolo via.
Frattanto guardo le fotografie di Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine a Racalmuto in un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi, in filari scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una stradetta serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo della prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello ferroviario lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco, il casotto memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere meglio il treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della strada ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una sull’altra nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non credo che i superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste casello. Vi abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni, solitari, prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena ventenne, passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il podestà ne avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo della milizia volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e fondatore unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il podestà aveva fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un padre medico e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il podestà e l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per disarcionare l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare l’imputato la sua idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di quasi ventun’anni; portò certificati medici di impotenza congenita, ma il montante moralismo fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto il regime democristiano l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane procuratore legale, continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era stato il padre casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente ebbe vecchiaia isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente se dopo giorni gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza all’esterno, anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad un avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi affascina: «poiché il paese è pieno di adulteri, / a causa della maledizione tutto il paese è in lutto, / si sono inariditi i pascoli della steppa. Il loro fine è il male / e la loro forza è l’ingiusizia.» La geremiade mi va di ripetermela in latino, altro suono, altra atmosfera: «quia adulteris repleta est terra. Arefacta sunt arva deserti: factus est cursus eorum malus , et fortitudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).
Altra foto: tetti diruti; miserie velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con il geometrico campanile del convento francescano che il de Carretto volle nel 1540 e che padre Cipolla non poté finire nel 1930, imperante il fascismo. La scalinata del Monte sa ora acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del trasandato palazzetto: tetri a commento i lampioncini di vecchia memoria. Ora è la volta di Vitacchia (assieme al comico Serpia, inanellato basco cappotto e occhio ceruleo e vivo); in fondo, la matrice tra nebbiolina come nell’esordio del Giorno della Civetta di Sciascia. Ed ora il comico a solo, mentre si appoggia all’ombrello, come se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si sperde tra accoppiamenti spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le violentate case di Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e Vitacchia che vuole l’immagine a solo: manca però di fotogenia.
Ed eccolo che arriva, chiassoso ed indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella villetta del dottore La Matina messami gentilmente a disposizione dalla famiglia del defunto. Tutto si può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e se ospitano, statene certi, sono disinteressati. Non esagerate nel ringraziarli; però non fategli capire che pensiate ad una qualche loro capziosa gentilezza: diventerebbero subito bruschi ed ostili.
* * *
- Allura, aieri cci diciva ca orallannu …
- Sì.sì, me lo ricordo: l’anno scorso è giunta qui una israeliana … che ha fatto fare le fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta giornata invernale …
- Ma sapi comu si chiamava?…
- Lo so - in effetti avevo consultato le carte della poliziotta.
- Melissa, chi bieddu nnomi…
Ma qui debbo dare un taglio allo stretto racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la libertà di tradurlo, possibilmente alla lettera, con qualche concessione al “volgare eloquio”.
- Melissa era … bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri … senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?
- Pise… che?
- Inzumma, duttu, faciva arrizzari. Addunca, chidda arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me sembrò tanticchedda ‘rricchiuni’ – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi venne di pensare).
- Perché, ti adocchiò?
- Veramente no, si vede che capì subito ca a mia mi piaci sulu la cucchia!
- Tu sei sboccato, Vitacchia. Con me parla .. latino – e pensavo al termine come Sciascia lo cerebralizza.
- Arriva la sera, li porto nel «trilocale con tre camere da letto e bagno a L. 20.000 a persona per notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo insomma. Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano in contatto. Non conosce il sito dottò? Insomma li portai nella vecchia casetta di Mariano Zuccalà a S. Francesco. Che si presenta bene e per essere casa d’affitto, è comoda. Non c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche, una per ogni stanza. Si stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto prima, s’immaginassi duoppu chiddu ca vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.
- Già, ogni cosa a suo tempo: non divagare Vità.
- Sissi, duttù. Li lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu, ‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno non comprendeva. Io mi annoiavo.
In preda a noia galoppante veramente ero io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un sussulto.
- A mmia mi piaciva. Accussì cercai di forzare i tempi. Ritornai la sera, era a dire la verità notte. Si era dimenticata di mettere il lucchetto del portoncino. Era aperto, entrai, salii, e restai di stucco. Era nuda, abbracciata con Rosalia pure essa nuda .. e si amavano … come un maschiaccio con una femmina di strada … che schifo!. Non si erano accorte di me … continuarono. All’improvviso un urlo di Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda e si nascose nel bagno. Melissa rimase impassibile, anzi mi sorrise, ma più che un sorriso era un ghigno beffardo. «Non te lo avevo detto che non c’è trippa per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti masculazzi». Non disse propriu accussì, ma chiddu era il senso.»
Mi indignai e lo bloccai. Gli offrivo, liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che latte, però. Gli detti savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende Campanella. Io il mio soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva insegnato Gennariello al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già dispensato con il solito rito mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello famelico imperversò. Vitacchia si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi interi, a metà intingendoli nella brodaglia bianconera, a metà divorandoli in un solo boccone. Spruzzava saliva e briciole intrise di caffellatte, in bestiale ingordigia. E questi si permetteva di censurare amori sublimi di mirabili donne. Puah!
Mi ritirai nell’altra stanza, quella che fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia mi aveva ridestato un ricordo soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne avevo viste di cotte e di crude in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce oscene, pederasti, invertiti, trans, e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle passive, omoerotiche e bisex. Una deliziosa fanciulla, candida, cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso, incantevole mi aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza sensi, con trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed intelletto e sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano mirarsi negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una relazione ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una carissima amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai teneramente. Ed ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei scaraventato da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo piano di un grattacielo newyorchese.
In bell’evidenza stava nella libreria di Aurelio un testo commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era colto, sapeva anche di greco antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non per nulla era stato in seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma gli studi classici te li sanno imporre).
- … passi leggiadri ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito d’ali giù dal cielo per gli spazi dell’etere …
- mi piace questa traduzione di Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna?«Infatti anche se fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni, anzi ne offrirà, / e se non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere». Ma io sono greco, sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei letto quei versi? Sentiamo – e ad alta voce declamai:
- kai gar feughei takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei / ai de me filei, takheos filesi / koiik etheloisa.
- Decisamente improbabile. Oh grande lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo smarrita! Come? Quando? Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in greco malmenarono gli scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il furto dell’Ercole bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo – gli agragantini cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores Herculis non minus hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium referri opertere» (dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un Verre non meno del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per tutto l’impero romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo Gregorio del III secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di eruditi ma non colti canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad Hermes e ad Eracle nel chiostro di S. Nicola. Gli arabi furono di passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una grande lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento del greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non fu facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora. Il buon Aurelio così scriveva: «Per esser normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro. Il personaggio non è inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che aveva poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone, che chissà quale lingua parlasse, dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e questi, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
- Occorre tornare al greco, recitare in recinti sacri a Dioniso (a Racalmuto, lassù al Castelluccio), fornire una scolarità greca, tornare grecofoni, bilingui, sentire tragedie greche in originale e capirle (i diplay moderni saprebbero supplire alle lacune). Se religiosi dobbiamo essere che ciò avvenga almeno nell'irriducibile conflittualità tra l’umano ed il divino dei nostri antenati greci. Odio questa Roma papalina, cattolica che prima uccise il greco in Sicilia ed ora anche il latino. Che c’importa a noi dell’incolto Bossi? Parli lombardo lui? Se ciò gli dà senso?
Imbattutomi nelle Storie di Erodoto tornai a declamare il VI, 21 quasi furente (storpiando il testo greco):
- …. kai poiesanti Frinikho drama Miletu alosin kai didaksanti es dakruà te epese to theetron kai ….
- Ma dottò, che fa?
Mi interruppe sbalordito Vitacchia.
- Che faccio? Che faccio? Leggo Erodoto. Lo conosci?
- Nonzi!
- E figurati non lo conoscono neppure quelli che dovrebbero conoscerlo. Stai certo, nessuno a Racalmuto. Un tempo Macaluso, quello che fu gesuita. Ora Michelangelo. E si dice qualche professoressa di greco ... due o tre ... non di più
- Ma cu è ssu chissu?
- E’ uno storico greco ed io vorrei scrivere come scriveva lui.
- Ma vossia è chhiu bravu.
- Che Dio ti benedica, ma non è così.
- Veramente mi pariva che vossia legesse pi babbaria.
- Era greco Vita’ era la lingua che parlavano i nostri antichi padri, qui a Racalmuto, là a casa mia a Giurgenti.
- Però nun si capiva nenti.
- Purtroppo. Vorrei però anch’io scrivere una dramma – meglio una tragedia più bella di quella scritta da Frinico (ignota, persa). Una tragedia sulla Sicilia del 2000 presa da orde azzurre, incolte. Arraffata da un medico sottratto alla guida di corriere. Con una Eckklesia composta da bambine dell’azione cattolica, da chierici d’incerto sesso trasmigrati dalle parrocchie alla politica, da giovincelli blesi senza cultura, da divoratori di lasagne, da protofascisti, da nazionalisti della Favara: che coro beota, che peana, che musica suonata da sfiatati! Lasciamo andare, va!
- A vossia cu lu capisci?
- Neppure io, neppure io mi capisco, se ti fa piacere Vita’
- … cci l’a’ cuntari chiddu chi sacciu?
- E che cosa vuoi sapere, tu uomo venuto da lontano.
- Iu a Racarmuto nascivu.
- E’ vero, è vero – ma il nonno di tuo nonno da dove veniva?
- Boh!
- Perché non scrivi che anche per te «tutto finisce, nel risalire del tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli.» Anche tu mentiresti, ma pensa a quale transustanziazione affideresti la tua ancestrale salvezza? Meglio che ad un figlio di Dio.
- Iu, però, nun sugnu nadurisi, né cci vuogliu essiri; né nadurisi era ma nannu né ma catanannu.
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