la donna del Mossad IIparte
Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina
Calello imboccò una prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu
capo-missione in quasi tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi
dalla Banca Centrale. A volere il Calello era lo scorbutico vice direttore
generale dell’epoca, gran massone ma puritano, inflessibile, napoletano e
calvinista. L’apprezzamento per il giovane ispettore derivava dal fatto che non
si era lasciato infinocchiare in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta
ed ammanigliatissima.
Non aveva conclusa l’ispezione ad Asti il
dottore La Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio
nell’allora misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le
banche centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica.
Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale
a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di
efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario
russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti
propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma
con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio
ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.
Al ritorno dalla Russia, trovò il capo
missione malconcio a Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo
gessato, il suo giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo
abbondanti libagioni (carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in
viaggio per il mero rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono
sulla pur robusta vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio
della strada. Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma.
L’ispezione fu chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi
avevano sì e no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di
indagare sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso
fu archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).
Irridevano quelle tre o quattro paginette
di “penna d’oro”. Eppure “Penna d’oro” non volle o seppe vendicarsi:
prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente, pungentemente. Ne
trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e sollevato. Non pensava
che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia. Quel rapporto passò in
Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda dell’intreccio di assegni a
vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia dell’ex federale e del
sussiegoso piemontese finì eclissata.
Dopo Asti, un paio di pause di
riflessione: in subordine a Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi
gli scottanti incarichi che un qualche strascico nella storia dei crack bancari
del dopoguerra l’hanno avuto. Si pensi: echi persino in parlamento ed a S.
Macuto. Sono vicende su cui forse dovrò tornare, al momento vediamo di svelare
il mistero della morte del mio ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di
dirvi che il povero Aurelio defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in
commercio: pare posseduto solo dai maldestri servizi segreti iracheni.
Impressionante: anche Diodona, il banchiere del crack su cui indagò il mio
ispettore della Banca d’Italia, cessò di vivere alla Pitrusa con l’identico
strano ‘cianuro’. Non pensate a Pisciotta: non c’entra.
Per Diodona si parlò di suicidio: ma
nessuno ormai ci crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri
banchieri, finanzieri …. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi
fosse davvero differenza.
Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo
codesto nodo gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo
di Gotto, tra Palermo e Messina ossia nell’entroterra della provincia della
città del faro. E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo
banchiere, l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto
giovane a Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur
sempre quel Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante
per le madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli
affari di Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò
con gli inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli
americani ma facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu
coglionato. Con i russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano
americano. Col Vaticano, preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i
vogliosi arcivescovi e si disse anche per qualche cardinale. Con il papa … Dio
ne scansi e liberi … si sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato …
tanto femmineo, fu celebre latin lover del cinema italiano.
Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.
Col caso Sindona vi fu un’impressionante
sinergia. Furono due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione
anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta finanza può
succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto
e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano. Presiedette
indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie, accrediti, spot,
swap, forward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività,
patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei
ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.
Va ribadito qui con robusto tono che il
dottor Aurelio La Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le
sue incombenze, i suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il
suo valore e la sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se
qualcuno continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà
querelare. Distinzione .. distinzione, sia chiaro!
Il pasticcio della confusione s’origina
forse dal fatto che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello,
sicuramente per invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima
aizzando Lotta Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una
cooperazione quasi integrale, tota ed ampla – nella stesura
del pamphlet anonimo “Goodwill” a firma di un improbabile Colbert.
Detto fra noi, è scritta quasi tutta di
suo pugno, di Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di
‘premessa’, e quelle dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco
immobiliare di Roma sono rimasticature della truculenta letteratura
giornalistica di quei giorni, un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare
sulla palude dell’incombente compromesso storico di Berlinguer. Scritte
benissimo quelle pagine spurie – e non originali – risentono della bravura di un
editorialista sommo come Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed
immacolato parlamentare Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto
esponente del mondo bancario”, abile e pungente, rimasto indisturbato dentro
quel mondo, sino ai nostri dì.
Tutti pensano che il caso Sindona narrato
in quel libro abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che
vi abbia messo la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue)
prime pagine. Leggiamole insieme.
«Racalmuto è il paese di Sciascia, ma –
diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è avvolto da nessun
velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte intonacate di bianco,
esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra calanchi e fiancate di
colli minerari.
«A Michele Sindona questo squallido
scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima curva davanti al
muso del suo traballante “dodge”.
«Proveniva da Patti. Affari arditi
spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino: approvvigionarsi di frumento
in tempi di proibizionismo granario, compiacente il governo militare alleato,
l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi, alla stessa Amgot. Era il 1944.
«Se nella vita dei santi, i segni
precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della valentia
affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino dalla
prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio preciso da
incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943 dalle
truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.
«Don Calogero Vizzini, di Villalba,
accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico della mafia, ebbe a
ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra nella gestione della
miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con Montedoro, il luogo natale
dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato “notabile”. Labbro enfiato e
pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e trascuratezza, don Calogero
Vizzini s’industriava ad apparire insignificante – almeno agli occhi dei
racalmutesi.
«In realtà, don Calò godeva di molta
considerazione negli ambienti italo-americani tanto da essere prescelto come interlocutore
privilegiato, i primi giorni del luglio ’43, quando le truppe alleate
iniziarono la loro conquista rapida ed indolore della Sicilia.,
«Dimostrazione affettuosa fu quella
elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale, grassoccio, piccolo e
volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto, scacciato il
predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come “podestà”.
«Baldassare Tinebra – insediatosi al
Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare protezione agli affaristi
locali e no, che commerciavano al mercato “nero” della principale risorsa del
paese, il grano. Protezione non del tutto disinteressata, a dire dei malevoli.
Vi fu atto di corruzione da parte del Sindona nei confronti del neo-sindaco
degli “alleati”? Non può più chiedersi ad alcuno. Sindona è oggi esule negli
Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto
ammazzato, un anno dopo la vicenda che si narra [o forse pochi mesi,
ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese,
conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu
condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che
solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo essere stata di Tinebra e
Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto dell’innocenza del padre. Finì
in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse
in paese.»
Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore ma cercò
di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane narratore che
riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di Sindona.
S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non so se mi
è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che mi sono
molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.» Poiché
voler narrare non significa saper narrare, retoricamente mi sono domandato se
il giovane fosse riuscito nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son
cavata da gesuita smaliziato: «”amicu miu ora ti cuntu un fatto”». Il
fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta voce i “cunti
mia e chiddi di l’antri”.
Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo a pagina 67: i
caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora Aurelio ha
voglia di cuntari lu cuntu: ci mette della fantasia, vediamo un
po’. Non comincia con il classico e racalmutese «s’arraccunta e
s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un
palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però
subito: comincia ad essere accattivante.
«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dismessa del
banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma
nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è
Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande
Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.
V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di
umana effusione.
Spaccato della vita economica e politica romana.
La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino
con il governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno
al grand-commis della finanza nazionale che ascolta la
versione del banchiere sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di
raggelante distacco.
Poi d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate
dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della
capitale.”
“Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con
l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali
valutari.”
Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro
indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”
Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza
umiliazione il banchiere.
L’incontro con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe
palese della soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un
socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata
telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza
… quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge
alla bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi
impubere all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche
proprio per curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il
grosso prete americano.
All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica
famiglia di banchieri inglesi.
Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo,
il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere
del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda,
redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera,
Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la
difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito
della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle
trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce
e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco
americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui,
lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce.
E’ notte!
All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella
gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento
dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a
loro volta sovvenzionate dagli Hambro.
Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR
l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita
dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento
ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta
trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e
l’accordo immediatamente siglato.
Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del
presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva
contribuito con consistenti elargizioni.
E l’iniziativa ha felice esito.
A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del
suo successo. Giù, telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di
mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti
azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza
abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono
fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti
giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino
mistico.
Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso
giro di cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre
quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di
trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e
poi a quelli (meglio generali di casa nostra). Fondi alla Nova Scotia,
camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto
dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da
qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti.
Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro
dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di
finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande: compra
banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman
Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers e
tecnici dal gergo per iniziati (outright; spot; swap; forward rate; time
deposits, stand-by …)
All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di
amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60
a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi”
abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera
a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore
nominale.
Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più
ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alle
banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici”
degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione
monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.
Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi
presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono
l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso
le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie
del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare.
Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive
nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I
pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto
democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze
approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in
religiosa estasi.»
- Oddio! … Oddio! …. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la
morte, gli affari e gli intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera,
eccetera.. si sussurrava Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il siciliano e
racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era panzana.
Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia aveva avuto mai a che fare
con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta di
imbecilli … ed anche sanguinari. Un mafioso artefice di volpini intrecci
affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende
delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era
un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.
“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando con la
solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale “mangiata a
la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel giorno.
Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una
sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava
scritto, a matita,:
la donna
del Mossad
in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave daltonismo non
consentiva di miscelare passabilmente.
- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia per come si ostinò
a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta. Se
ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli israeliani, no. Sono
sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù alla Vecchia Maniera.
Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette culinarie. In quelle
eccello … sono imbattibile.
Capitolo III
Cavatieddi
cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri
cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo
Cavalieri di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma
per poco: promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha
dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che
mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di certo non lo
erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica,
neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe troneggiato il sindaco
Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe tentato di disarcionarlo.
Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle ultime elezioni, era più
abile: qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no.
Aveva inventato i caffè letterari, finanziati dall’industriale Illy che pur
doveva essergli avversario politico, ma ignavo nel leggere si faceva
sunteggiare il fatterello del letterario parto dal proprio figliolo.
Introduceva quella variante nel suo dire ormai stereotipato; una qualche
bella figura, invero, riusciva a farla. La voce sensuale ed il petto
latteo in generosa mostra della subrettina avevano già ammansito il rado
pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi coitali.
Poi Popò, evanescente in tutto, e
l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano. Anche l’arciprete, materialone
e loquace. Immancabile il “riddilio di la chiazza”, un ex minatore mai stato in
miniera ma con pensione di invalidità cospicua e irridentemente ostensa. Ed
anche “lu cammaratisi” sempre pronto a vantare l’inesauribilità del suo
attributo, a suo dire debordante ogni umano confine. Era il cuciniere e qui
davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici cacciatori: tutti, da Giacumino
Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a Miserere ed altri. Un bel po’
di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a
Meluzzo, bando a tutta la sua intelletualitudine, gli invertiti maschi
(per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a tavola.
A tavola, invero, “li ‘arrusii” si
potevano dire, era però preferibile “la futtuta cu li fimmini”. Meluzzo – che
le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria – rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare
nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere.
Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le
confidenze del giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti
racconta a un amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito
gli scaricava dietro due colpi. …»
I suoi commensali si professano grandi
amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo qualche attricetta dopo il variété.
(Ora, però, si sussurra di un prete tenutario e di un napoletano prosseneta e
sedicente regista che spingerebbero giovanissime al sesso compiacente per un
miraggio artistico …. malelingue! … male lingue!). Fa eccezione, di sicuro,
l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suadente, non ha difficoltà a portarsi a letto
giovani donne, moglie ribelli e pare qualche amica delle figlie. A
Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha trangugiato le grazie di tante
procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto però subito deluso per
l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era subdolamente spinto a
confidare e le conquiste romane subito scemarono per il Lasagne.
Con la sua vecchia 131 Fiat giunse sulla
radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di taglia piccola ma non sardignola,
riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome.
Era spettacolo sconcio eppure non seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto
bianchiccio fu al culmine della foia solitaria. «Che anche lui soffra di
complesso di castrazione?» si disse con celia Meluzzo, in fondo per reprimere
il senso di vergogna di cui si vergognava.
Erano tempi in cui leggeva di
psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile, della cui
conoscenza si sentiva a digiuno e che voleva sondare per non essere
superficiale nel parlare di donne nei suoi romanzi.
Si era sciroppati i testi di Janine
Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di Helene Deutsch, di Ruth
McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di Ernest Jones etc. Nomi
prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle donne, “monismo
sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”, “fase fallica”,
“femminilità assimilata alla passività, mascolinità all’attività”, “bambino
anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”, “mater dolorosa”, e via
di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo l’aforisma: «l’orgasmo è
maschile. La donna femminile non ha un acme orgiastico. La vagina è l’organo
della riproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua esperienza – ed era stata
tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva capito niente delle donne o
era mistificazione. Forse la donna sino a metà del secolo scorso aveva tutte
quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario. Erano i maschietti a ritrarsi
nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio le prossime sortite oscene con
i suoi simpatici commensali …- senza problemi erotici … almeno a tavola, alla
“vecchia maniera”.
Il genio mittel-europeo aveva lanciato
una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud, in contesa, pensarono a
strutture di base con sovraccarico di complicazioni esistenziali. Il momento
economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le sovrastrutture pensabili,
l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere moderno (dell’uomo e della
donna, afflitti in diverso modo a seconda della diversa età): chi dei due ha
ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo, avrebbe detto Marx: ora è in
bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma filosofo sì - la spunta sempre più
su Marx se si investiga in tante latebre del cuore umano o se si ha
voglia di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta
voglia procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali,
vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma
irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo,
tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane
quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra
le classi per Marx.
Marx morto e sepolto, dunque? Manco per
niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato. Occorre “Marx oltre Marx”. E
fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota, riassunti i valori della
critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony Negri, a rispolverare i suoi
appunti, a vivificarli e ad aggredire gli idiomatismi telematici di una
rincitrullita cultura avversa, blaterata da nicodemi, notturni
amici di un rinnegato cristo socialista, il destino di partiti non più di
massa e neppure di idee è miseramente segnato.
Si diceva di Meluzzo che quando passava
agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago, passionale, enunciatore astratto
di incomprensibili principi, vacuo di fatti, contumelioso. Si rifaceva con i
suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso gassose ghiacciate, gradevolissime
nelle arsure delle estati siciliane.
Sesso e consorzio umano, economia e
società quali interconnessioni? C’era circolazione sanguigna, magari
extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in
amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000?
Non c’era, non c’erano, diamine!
*
* *
Al simposio andava come convitato
d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un rito pagano; andava a
dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti risorgere dagli smarriti usi
del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola, partorita dal genio liso
ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano ora adunando per
l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il primo germe l’aveva
avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina.
Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè in un rollo della Matrice.
L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e compiacente: quello attuale
faceva il mistico in chiesa, il materialone con qualche beghina ancora elastica
in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei banchetti, specie se prodighi di
libagioni. Quanto a cultura e quanto a sensibilità per la storia religiosa
degli antichi padri, il nulla. “Rolli”, registri, pergamene, sediole,
“altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed anche piviali e cingoli,
amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e balaustre lignee, come gli
smantellati stalli del coro settecentesco per i mansionari voluti
dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal registrate nelle
denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S. Grigoli.
Aurelio era riuscito a decifrare il
primo volume della «FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO D'INTROITO ED
ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di D. Lucio
Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica della
Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in discorso di visita a
28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume, rogato con grafia davvero
bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna, fra i libri vecchi poco
richiesti. Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che
il manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata
traslata ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva però trascritto con il
vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci
incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt.
20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana» Era il mese di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del
1658? Ancora migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi
erano venuti i porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi
quelli con il venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso,
smarrito. Ne parlò Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista
e botanico sommo (come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi
maiali nel sottobosco degli Agliannari al Castelluccio. Ignari
gliAvareddi vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento
dei lecci e dei verri. Il tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia:
il veleno fu più sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al
simposio.
Vini antichi – si sperava simili a
quelli che nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane
delle verrine memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu
Marchisi seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche
zibbibbo e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in
pensione – citava Marziale:
- mescesi … il Massico
vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma
Nucciu Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non
si parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col
miele: era come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da
considerare balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele
speciale però si ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi”
(“thimus capitatus”, non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con
mandorle “muddisi” – qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella
insegnata a Federico II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che
Chandonnay aveva ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni
che si teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa:
appena laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo
dell’entomologo di fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una
sua idea: coniugare “saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare
fattualità al titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo
di confondere i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e
citrosella, cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico:
l’olio sapeva di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e
dava appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla
combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle
olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i
suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano
salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito. Solo
lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania dell’omertà
bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze
ereditarie, seppe risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi.
Pregevolissima, la “bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo.
Giacuminu Beddocchiu e compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano
– il coniglio autoctono a li “Pantaneddi”: nella voragine prodotta
dall’insipiente sfruttamento del salgemma poté annidarsi una coppia di leporidi
nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti che
incauti cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla Jugoslavia
ed avevano figliato a iosa, sani e gustosissimi. Questo dicevano Giacuminu e
compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il cronista
riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei
per tomi interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel
dannato caso della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci
cenno, altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità,
intrisa di malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato.
Trovai l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla
gola come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater, invocare la benedizione
celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi «gloria patri et
filio et spiritu sancto» (il latino approssimativo era il massimo che
l’arciprete potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma
ecclesiastica di Paolo VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno di
celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte
le verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente
miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo
Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …
e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte
dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette
(memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano
fatte con la “tumminia”. Cipolle e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi
ditumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto
senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre,
incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso …
ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo
chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari
toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altricrapara
del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA. Erano i residui dei
sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non subire sudditanze e
sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloistava imponendo
nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola
dell’odore del sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare
“li cavatieddi” come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di
pastaro della sua famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza
delle prelibatezze – i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale
allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre
specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante.
Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta
della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con
vocazioni culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del
pranzo, per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci,
amaretti, alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda,
eccellenti i taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare
meglio, e deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste
libagioni, ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur sempre meno rosso, a
tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico rosolio: ma non riuscì. Si
imitarono i “marsala” e si superò il porto ed anche le celsitudini dei
Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo
gratias.
*
* *
Appisolato ma con inframmittenze lunghe,
sostenuto, diciamo che ero immerso in una bolsina per affaticamento delle
frattaglie che si annidavano nel mio ventre: sbracato in una poltrona-letto,
quelle da spiaggia per intendersi, venivo piano piano acciuffato da mal di
testa (non dico emicrania per odio alle donne). L’esofago, il fegato e quegli altri
arnesi della digestione chiedevano vendetta per il sovraccarico di lavoro, ed
in cuor mio maledicevo Chandonnay cui davo debito di insolenze chimiche nel
maneggiare i valenti ma scabri vini racalmutesi: non era enologo, era
dilettante ed esagerava.
Mi apostrofò nel peggiore momento di
quel giorno Cicciu Vitacchia, figlio del nostro cuoco «lu cammaratisi».
Lo conosceva, ma in confidenza ero solo con il padre. Il figlio ebbe certezze
di eredità necessitata.
- Sapissi, chiddu chi
sacciu io sull’ammazzatina del dottore Agrelio Matina e la commissaria, nun lu
sapi nuddu.
- Beato te, mi venne di
rintuzzare, indispettito e scocciato.
- Fu la giudea, fu la
giudea.
- Ma quale giudea?
- Chidda ca vinni di
Sraeli.
- Perché è venuta una da
Israele?
- Sissì e ddu voti.
- Andiamo con ordine,
fui pedante ad arte.
- Chidda vinni
orallannu. Cu nn’amicu. Ma li masculi nun ci piacivano. Fici fotografie na
jurnata di ‘nviernu. Duoppu si nni partì. E mi mannà chisti fotografie.
Mi porse un plico con foto veramente
abili. Scattate da un professionista di grande valore. Vitacchia era
confusionario, io era avvinazzato. Optai per un rinvio.
- Senti, vieni domani su
nella “roba” del dottor La Matina a Bovo. Sai dov’è.
- E dda ssusu, dda
‘mpacci.
- Bravo. A domani
dunque.
Non v’era ombra di dubbio, la sicula e
racalmutese fantasia, la voglia di darsi importanza, la lusinga di venire
considerato da me (chi si contenta, gode) spingevano il Vitacchia a quegli
sproloqui là. Quella che indicava come esecutrice di un duplice omicidio (ma la
commissaria era morta per un incidente stradale) era una brava e caruccia
giornalista d’Irsraele. Sì, la conoscete già: Melissa Cohen (sopra
descritta, direbbero i burocrati). Sospettare di lei era peccato sommo.
Giudizio temerario da buscarsi sette inferni in una sola volta. Vitacchia,
paura dell’inferno non ne aveva, però. Sua nonna era stata la celebre Carmena
l’acqualora. Donna bellissima, maliarda nella vita, soave nel canto. Tutta la
mascolinità racalmutese – se capace di andare a puttane – l’aveva posseduta. A
pagamento. Il marito sussiegoso chiedeva «Picciuò, v’addivirtistivu?». Il prezzo
del meretricio doveva essere “scuttatu”. Carmena appagava, valeva, le cinque
lire erano “scuttati”. Poi, mai in disuso ma rarefatte le richieste, ebbe
mistici trasporti, religiosità quasi bigotta. Come cantava lei “Maria passa” il
venerdì santo, nessuno, neppure Mulè. Ora erano le picciutteddi che
sfacciatissime amoreggiavano nelle macchine, quasi alla vista degli occhi.
Carmena guatava, scuoteva la testa, aspettava il passante e segnando a dito
catoneggiava: «E po’ dicunu ca la buttana sugnu iu!»
*
* *
Mi alzai davvero infastidito: Viatazza
mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con presunzione somma (vizio
racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una soluzione semplice, semplice
di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante. Una valente poliziotta vi
aveva speso tante energie e non è che non fosse arrivata ad una soluzione; vi
era arrivata ma portava lontanissimo dalla bislacca supponenza di Vitacchia.
Era un filone mafioso che vi si snodava. E prove, ed indizi, e riscontri là in
effetti conducevano, indefettibilmente. La morte della poliziotta dava esca a
qualche sospetto, ma il buon senso portava a concludere che si era trattato di
un momento di panico di un frettoloso camionista, che catapultando nel vuoto
una fragile peugeot 305 con la sua motrice si era precipitosamente eclissato.
Cose d’ordinaria amministrazione. Non si era trovata la motrice; qualcuno
diceva che non era targata; Giuggiu Marino sproloquiava. Note di colore
paesano. Il mio notorio buon senso mi dice di smetterla con questo tornare e
ritornare sul recaltritrante dialetto siciliano del Vitacchia: cacciamolo via,
cacciamolo via.
Frattanto guardo le fotografie di
Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine a Racalmuto in
un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi, in filari
scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una stradetta
serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo della
prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello ferroviario
lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco, il casotto
memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere meglio il
treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della strada
ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una sull’altra
nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non credo che i
superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste casello. Vi
abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni, solitari,
prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena ventenne,
passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il podestà ne
avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo della milizia
volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e fondatore
unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il podestà aveva
fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un padre medico
e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il podestà e
l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per disarcionare
l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare l’imputato la sua
idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di quasi ventun’anni;
portò certificati medici di impotenza congenita, ma il montante moralismo
fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto il regime democristiano
l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane procuratore legale,
continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era stato il padre
casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente ebbe vecchiaia
isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente se dopo giorni
gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza all’esterno,
anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad un
avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi
affascina: «poiché il paese è pieno di adulteri, / a causa della maledizione
tutto il paese è in lutto, / si sono inariditi i pascoli della steppa. Il loro
fine è il male / e la loro forza è l’ingiusizia.» La geremiade mi va
di ripetermela in latino, altro suono, altra atmosfera: «quia adulteris
repleta est terra. Arefacta sunt arva
deserti: factus est cursus eorum malus , et fortitudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).
Altra foto: tetti diruti; miserie
velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con il geometrico campanile
del convento francescano che il de Carretto volle nel 1540 e che padre Cipolla
non poté finire nel 1930, imperante il fascismo. La scalinata del Monte sa ora
acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del trasandato palazzetto: tetri a
commento i lampioncini di vecchia memoria. Ora è la volta di Vitacchia (assieme
al comico Serpia, inanellato basco cappotto e occhio ceruleo e vivo); in fondo,
la matrice tra nebbiolina come nell’esordio del Giorno della Civetta di
Sciascia. Ed ora il comico a solo, mentre si appoggia all’ombrello, come
se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si sperde tra accoppiamenti
spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le violentate case di
Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e Vitacchia che vuole
l’immagine a solo: manca però di fotogenia.
Ed eccolo che arriva, chiassoso ed
indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella villetta del dottore La
Matina messami gentilmente a disposizione dalla famiglia del defunto. Tutto si
può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e se ospitano, statene certi,
sono disinteressati. Non esagerate nel ringraziarli; però non fategli capire che
pensiate ad una qualche loro capziosa gentilezza: diventerebbero subito bruschi
ed ostili.
* *
*
- Allura, aieri cci
diciva ca orallannu …
- Sì.sì, me lo ricordo:
l’anno scorso è giunta qui una israeliana … che ha fatto fare le
fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta
giornata invernale …
- Ma sapi comu si
chiamava?…
- Lo so - in
effetti avevo consultato le carte della poliziotta.
- Melissa, chi bieddu
nnomi…
Ma qui debbo dare un taglio allo stretto
racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la libertà di tradurlo,
possibilmente alla lettera, con qualche concessione al “volgare eloquio”.
- Melissa era …
bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri …
senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?
- Pise… che?
- Inzumma, duttu, faciva
arrizzari. Addunca, chidda arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me
sembrò tanticchedda ‘rricchiuni’ – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi
venne di pensare).
- Perché, ti adocchiò?
- Veramente no, si vede
che capì subito ca a mia mi piaci sulu la cucchia!
- Tu sei sboccato,
Vitacchia. Con me parla .. latino – e pensavo al termine come Sciascia lo
cerebralizza.
- Arriva la sera, li
porto nel «trilocale con tre camere da letto e bagno a L. 20.000 a persona per
notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo insomma.
Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano in
contatto. Non conosce il sito dottò? Insomma li portai nella vecchia
casetta di Mariano Zuccalà a S. Francesco. Che si presenta bene e per essere casa
d’affitto, è comoda. Non c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche,
una per ogni stanza. Si stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto
prima, s’immaginassi duoppu chiddu ca vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.
- Già, ogni cosa a suo
tempo: non divagare Vità.
- Sissi, duttù. Li
lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che
le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è
luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si
nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru
e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu,
‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un
grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno
non comprendeva. Io mi annoiavo.
In preda a noia galoppante veramente ero
io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un sussulto.
- A mmia mi piaciva.
Accussì cercai di forzare i tempi. Ritornai la sera, era a dire la verità
notte. Si era dimenticata di mettere il lucchetto del portoncino. Era aperto,
entrai, salii, e restai di stucco. Era nuda, abbracciata con Rosalia pure essa
nuda .. e si amavano … come un maschiaccio con una femmina di strada … che
schifo!. Non si erano accorte di me … continuarono. All’improvviso un urlo di
Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda e si nascose nel bagno. Melissa rimase
impassibile, anzi mi sorrise, ma più che un sorriso era un ghigno beffardo.
«Non te lo avevo detto che non c’è trippa per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti
masculazzi». Non disse propriu accussì, ma chiddu era il senso.»
Mi indignai e lo bloccai. Gli offrivo,
liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che latte, però. Gli detti
savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende Campanella. Io il mio
soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva insegnato Gennariello
al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già dispensato con il solito rito
mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello famelico imperversò. Vitacchia
si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi interi, a metà intingendoli nella
brodaglia bianconera, a metà divorandoli in un solo boccone. Spruzzava saliva e
briciole intrise di caffellatte, in bestiale ingordigia. E questi si permetteva
di censurare amori sublimi di mirabili donne. Puah!
Mi ritirai nell’altra stanza, quella che
fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia mi aveva ridestato un ricordo
soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne avevo viste di cotte e di crude
in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce oscene, pederasti,
invertiti, trans, e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle
passive, omoerotiche e bisex. Una deliziosa fanciulla, candida,
cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso, incantevole mi
aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza sensi, con
trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed intelletto e
sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano mirarsi
negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una relazione
ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una carissima
amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai teneramente. Ed
ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei scaraventato
da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo piano di un
grattacielo newyorchese.
In bell’evidenza stava nella
libreria di Aurelio un testo commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era
colto, sapeva anche di greco antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non
per nulla era stato in seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma
gli studi classici te li sanno imporre).
- … passi
leggiadri ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito
d’ali giù dal cielo per gli spazi dell’etere …
- mi piace questa
traduzione di Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna?«Infatti anche se
fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni, anzi ne offrirà, / e se
non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere». Ma io sono greco,
sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei letto quei versi?
Sentiamo – e ad alta voce declamai:
- kai gar feughei
takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei / ai de me filei, takheos
filesi / koiik etheloisa.
- Decisamente
improbabile. Oh grande lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo
smarrita! Come? Quando? Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in
greco malmenarono gli scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il
furto dell’Ercole bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo
– gli agragantini cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores
Herculis non minus hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium
referri opertere» (dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel
novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un
Verre non meno del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per
tutto l’impero romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo
Gregorio del III secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di
eruditi ma non colti canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad
Hermes e ad Eracle nel chiostro di S. Nicola. Gli arabi furono di
passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una grande
lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento del
greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non fu
facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora. Il buon Aurelio
così scriveva: «Per esser normanno, venne descritto dalla pur tardiva
storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di
nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale
versione risale al secentesco Pirro. Il personaggio non è inventato e
questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità,
come può arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio
Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando
che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore
«beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che, invece,
lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e
musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che aveva
poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più
tenaci. Questo vescovo borgognone, che chissà quale lingua parlasse,
dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e questi, come ancor
oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue
prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di
stucco i 'fedeli' musulmani.
- Occorre tornare al
greco, recitare in recinti sacri a Dioniso (a Racalmuto, lassù al Castelluccio),
fornire una scolarità greca, tornare grecofoni, bilingui, sentire tragedie
greche in originale e capirle (i diplay moderni saprebbero supplire alle
lacune). Se religiosi dobbiamo essere che ciò avvenga almeno nell'irriducibile
conflittualità tra l’umano ed il divino dei nostri antenati greci. Odio questa
Roma papalina, cattolica che prima uccise il greco in Sicilia ed ora anche il
latino. Che c’importa a noi dell’incolto Bossi? Parli lombardo lui? Se ciò gli
dà senso?
Imbattutomi nelle Storie di Erodoto
tornai a declamare il VI, 21 quasi furente (storpiando il testo greco):
- …. kai poiesanti
Frinikho drama Miletu alosin kai didaksanti es dakruà te epese to
theetron kai ….
- Ma dottò, che fa?
Mi interruppe sbalordito Vitacchia.
- Che faccio? Che
faccio? Leggo Erodoto. Lo conosci?
- Nonzi!
- E figurati non lo
conoscono neppure quelli che dovrebbero conoscerlo. Stai certo, nessuno a
Racalmuto. Un tempo Macaluso, quello che fu gesuita. Ora Michelangelo. E si
dice qualche professoressa di greco ... due o tre ... non di più
- Ma cu è ssu chissu?
- E’ uno storico greco
ed io vorrei scrivere come scriveva lui.
- Ma vossia è chhiu
bravu.
- Che Dio ti benedica,
ma non è così.
- Veramente mi pariva
che vossia legesse pi babbaria.
- Era greco Vita’ era la
lingua che parlavano i nostri antichi padri, qui a Racalmuto, là a casa mia a
Giurgenti.
- Però nun si capiva
nenti.
- Purtroppo. Vorrei però
anch’io scrivere una dramma – meglio una tragedia più bella di quella scritta
da Frinico (ignota, persa). Una tragedia sulla Sicilia del 2000 presa da orde
azzurre, incolte. Arraffata da un medico sottratto alla guida di corriere. Con
una Eckklesia composta da bambine dell’azione cattolica, da chierici d’incerto
sesso trasmigrati dalle parrocchie alla politica, da giovincelli blesi senza
cultura, da divoratori di lasagne, da protofascisti, da nazionalisti della
Favara: che coro beota, che peana, che musica suonata da sfiatati! Lasciamo
andare, va!
- A vossia cu lu
capisci?
- Neppure io, neppure io
mi capisco, se ti fa piacere Vita’
- … cci l’a’ cuntari
chiddu chi sacciu?
- E che cosa vuoi
sapere, tu uomo venuto da lontano.
- Iu a Racarmuto
nascivu.
- E’ vero, è vero – ma
il nonno di tuo nonno da dove veniva?
- Boh!
- Perché non scrivi che
anche per te «tutto finisce, nel risalire del tempo, a un Leonardo Sciascia,
nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino
paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli.» Anche
tu mentiresti, ma pensa a quale transustanziazione affideresti la tua
ancestrale salvezza? Meglio che ad un figlio di Dio.
- Iu, però, nun sugnu
nadurisi, né cci vuogliu essiri; né nadurisi era ma nannu né ma
catanannu.
- E neppure Sciascia, né
suo padre né il padre di suo padre e neppure il suo bisnonno. La verità però è
prosaica, è banale, annoia, meglio la menzogna, il falso ben condito, quello
letterario poi non è giammai eguagliabile dal vero cupo e meschino.
- Nun la capisciu … mi
facissi diri chiddu ca aiu a diri.
- Nulla hai da dirmi
Vita’ … perché quello che mi vuoi dire già lo so. Vedi quei cosi lì … si
chiamano “faldoni”, sono dieci e me li sono dovuti sorbire tutti. Lì c’è la
verità. La verità secondo la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni
Mistretta, … vergine e martire.
- No, vergine non era.
Questo lo so per esperienza personale.
- Non sottilizzare, Vita’;
vergine di cuore e di mente … castissima poliziotta dello stato.
- Ma anche la commissaria
le è antipatica, dotto’? ….
- Manco per niente; non
era però quello il suo mestiere, non lo doveva fare, l’ha voluto fare e ci ha
rimesso le penne.
- La ‘Sraeliana l’ammazzà,
duttu’.
- Ti sbagli Vita’. La
‘Sraeliana tu l’accusi ingiustamente perché ti ha fatto cornuto con una donna,
il massimo per uno stallone siciliano come te.
- Nun voli, allura ca
cci cuntu chiddu che sacciu?
- Tu mi vuoi dire: venne
da lontano, da Israele una graziosa fanciulla nigrigna (nigra sum sed formosa)
e venne in una sera d’inverno, tra lampi tuoni e diluvi. L’accompagnava un
macilento sionista, d’origine russa. Si spacciava per fotografo: diciamo che lo
era. Stettero insieme fino a quando la ‘Sreaeliana non incontrò Rosalia,
scialba accompagnatrice turistica racalmutese. Fu grande amore. Tu non capivi,
hai semi lascivi, hai pulsioni ereditate da coiti violenti nei tuoi precordi,
per capire, per rispettare almeno. Ti sfruttarono le due donne: li hai
introdotte da Aurelio. Castissimo, lui; ancor di più ora risucchiato dalla
casta agonia dei sensi senili. Hai pensato a chissà cosa, Melissa voleva
scrivere un libro sugli ebrei di Sicilia prima della cacciata voluta da
Isabella di Castiglia. Aurelio era dotto: sapeva e fu utile al libro. Il libro
in ebraico sta lì, nei faldoni, con la bella traduzione inglese. Diversamente
chi lo leggerebbe? Anche la sera prima Melissa fu da Aurelio; infernale pure
quella notte. Ci andò con te … ma se ne tornò con Rosalia, in macchina con
Rosalia, come da testimonianze raccolte dalla poliziotta.
- Veru è, anch’io fui
interrogato da Adelaide, buon’anima.
- Ecco, vedi. Alibi di
ferro. L’indomani Aurelio fu trovato morto, avvelenato. Evidentemente dopo che
Melissa se ne era andata. Chi fu allora? Adelaide, come la chiami tu, sospettò,
ma sospettò della mafia … e fondatamente. Qualcuno spiava … Dalla Cava di
Fulvio ciò è un gioco da bambini … poi s’introdusse … Certo che Aurelio lo
conosceva .. Ma potevi anche essere tu …
- Chi ddici duttu’ –
lassammu perdiri, va’
Vitazza cambiò di pelle. Irascibile, ora
e diffidente. Soprattutto impaurito, terrorizzato. Finire in sospetto della
Legge, in Sicilia, con la mafia e l’antimafia. Meglio a Santa Maria, al
cimitero … Meluzzo l’aveva proprio folgorato. E con malizia. Si alzò, quasi
senza salutare, prese le sue cose. Meluzzo sentì lo sgommare della macchina. In
gran fretta si tolse di mezzo com’era nei desideri dell’ospitante.
Capitolo IV
I QUAQUARAQUA’
Il ritorno alla terza persona, al
racconto anodino, a questo punto è d’obbligo. I fatti che ora si succedono
investono Meluccio Cavalieri con tale veemente cointeressamento da costringerlo
a toni distaccati, a collocarsi al di fuori delle parti. E già prima si
era citato per un paio di volte come se si trattasse di un estraneo.
Or dunque, verso le ore quindici del
giorno dopo, una violenta telefonata a Bovo investì il nostro scrittore:
- hanno arrestato mio
figlio … l’hanno portato alla Petrusa … la guardia di finanza si lu portà … sì,
sì, a ma figliu.
Era il padre di Vitaccchia, esagitato,
comprensibilmente stravolto.
Meluccio restò basito.
- ora vengo .. ora
vengo.
Tutta la famiglia di lu Cammaratisi, in
cerchio come se in mezzo vi stesse un catafalco, abbassate le serrande, nella
penombra, stava a commiserare la propria sventura. Qualche singhiozzo, un
lamento, sospiri, pianti a dirotto del padre o del fratello: l’eco immediato
delle donne, a squarciagola, imprecazioni, allusioni, nonne e vecchie con
bianchi fazzoletti in testa di antica memoria si concedevano cantilene
ataviche, erano prefiche risorte, l’antica Grecia piangeva nei loro cuori nella
prisca maniera.
Meluccio chiamò da parte lu Cammaratisi
e cercò di farsi spiegare. Notò astio che non comprendeva.
All’alba diversi militi in giallo,
elegante nella sua accurata divisa ed impettito il comandante, in assetto di
guerra, impudichi erano entrati come di forza, avevano scaraventato dal letto
uomini e donne senza delicatezza alcuna, indifferenti all’impacciato ricoprirsi
di vecchie e giovanette. Avevano setacciato, sfondato porte, divelti lucchetti,
sparpagliato biancheria. Mutissimi ma efficienti, febbrili. A Vitazza, verso il
quale un paio di graduati s’indirizzò all’istante, strinsero subito ai polsi le
manette e lo portarono via su un cellulare già pronto, a sirene spiegate.
- Mezz’ura fa mi
purtaruni sti carti.
Meluzzo guatò quei fogli: erano verbali,
prolissi, indicate ore e circostanze, firme della sostituto procuratore La
Mezzana.
- ma qui si parla di
esibizioni di mandati, di ordini di sequestro del magistrato, di mandato di
cattura?
- Tuttu chissu ant’ura
mi fu datu!
- No, le ore segnate
sono di questa mattina.
- Un gnè bberu .. un gnè
bberu.
- Non sarà vero ma qui
così è verbalizzato e c’è la tua firma di accettazione.
- Pur di togliermeli
dagli occhi, pure la mia condanna a morte avrei firmato – bestemmiò in stretto
racalmutese lu Cammaratisi.
- Capisco! Ma hanno
trovato qualcosa … già è tutto verbalizzato qui.
- Cosa? … cosa?
- … bustine di sospetto
contenuto da analizzare … scatola in caratteri mediorientali …. carteggi vari …
rubriche telefoniche … tronconi di assegni … ed altro. Sono tre fogli
fitti fitti.
- Ma, se non hanno
trovato niente?
- La tua parola contro
la loro … vincono loro … non c’è scampo.
Strazianti grida delle donne … si
fingevano assenti .. tutto avevano sentito e capito.
- Curpa so … curpa so, è
- Come colpa mia?
- Dicivano ca vussia
l’aviva accusato
- Io? Accusato di che?
- Vussia diciva ca aviva
li provi ca era stato ma figliu ad ammazzari lu dutturi Matina ed anche la
poliziotta.
- E chi dice queste
minchiate? … tuo figlio sarà un burdunazzu ma omicida mai né amico di
assassini. Lo conosce bene.
- Mi lu dissi lu
marasciallo.
- Questo qui dei
carabinieri?
- Nonzi, chiddu di la
finanza.
- E secondo te, se ero
il colpevole di una tale infamità, venivo qui da te come un incallito Giuda
Iscariota?
L’uscita di Meluzzo, non protocollare,
sorprese e convinse lu Cammaratisi: i suoi occhi, prima cupi e sospetti, si
schiarirono di colpo e subito si velarono di lagrime.
- Lassami nni iri.
Lasciami andare, vediamo se riesco a fare qualcosa. Mi dispiace davvero… siamo
caduti nella barbarie. Povera Sicilia, in preda alla barbarie giuridica. Non
c’è più diritto in questa terra antica, nobile e poetica: c’è solo l’antimafia
dei continentali. Maledetti!
*
* *
Trafelato giunse allo spiazzo laterale
della caserma dei carabinieri vicino al vecchio campo sportivo: brutta
palazzina, arrogante piantone, spioncini che guatavano e portone che non si
apriva; già ad essere sereni c’era da incazzarsi; figuriamoci con tutti quei
nervi a fior di pelle. Per poco Meluzzo Cavalieri non si faceva denunciare per
oltraggio alla forza pubblica nell’esercizio delle proprie funzioni. Il
piantone, aitante marcantonio del nord, allocco almeno all’apparenza, di certo
là in Sicilia quale semplice ausiliario, per sfuggire alla leva militare, - vai
a sconfiggere la mafia, va’ .. va’ – era fin troppo cerimonioso eppure irritava
nel volere indagare senza sapere su che cosa.
- il suo riverito nome?
- Sono Meluccio
Cavalieri di Giorgenti.
- Di professione?
- Scrittore … o meglio
mangia pani a tradimientu?
- Prego?
- Mi faccia parlare con
il suo comandante, perdio!
- Stia calmo e si moderi
… il comandante…
Per fortuna di Meluccio stava passando
il vice brigadiere Pizzillo … suo vecchio conoscente; andava di fretta, colmo
di nervosismo.
- dotto’ lei qua?
- Voglio parlare con il
comandante.
- Venga con me.
Il comandante lo ricevette nel
corridoio: uscì dalla sua stanza.
- Sa, c’è il colonnello
di là.
- Che è sta cazzata
dell’arresto di Vitacchia?
- Lo vorremmo sapere
pure noi. Il colonnello è di là appunto per questo. Ma lei dotto’ che cosa gli
ha detto a Vitacchia?
- Io? … e siete due …
io, niente.
- Ma non è stato lei che
ha intimidito il Vitacchia parlando di sue responsabilità negli omicidi del
dottore Aurelio La Matina e della dottoressa Evelina Mangoni?
- Manco per niente?
Baggianate del genere semmai le dico per ridere!
- Lei le avrà dette per
ridere, Vitacchia però ci ha creduto e si è messo a telefonare come un matto a
destra ed a manca … andandosi ad incastrare … lo vedo brutto, brutto,
brutto… Ma entri, il colonnello la riceverà di buon grado … anche lui è un suo
ammiratore, come me, come tutti qui ..
- Meno il piantone!
- Ah! Quello è un
minchione del nord … veste la divisa della benemerita .. ma carabiniere non lo
è. Ci si nasce carabiniere .. non ci si diventa … cosa vuole che capisca il
ragioniere di Abano Terme … figlio bello e ricco di un albergatore veneto.
Frutto dell’unità d’Italia … entri … entri.
Ancor più gentile il colonnello.
Tarchiato, panciuto, intelligenza negli occhi, nel sorriso, nei gesti. Un
siciliano, un greco: comandava la stazione di Canicattì. Coordinava l’antimafia
della zona. Col colonnello Micciché c’era consuetudine collaborativa. Varie
volte aveva suggerito spunti letterari, tecnicismi, consulenze
sull’organizzazione della giustizia, quella togata e quella militare. Un
guazzabuglio in cui Micciché navigava come un pesce nell’acqua del mare. E per
i gialli di Cavalieri, quelle precisazioni, quelle rettifiche, taluni preziosi
segreti erano sale che ben condiva e meglio faceva vendere.
Si scambiarono complimenti, frasi
cortesi, reciproci riconoscimenti; andarono un po’ per le lunghe,
spagnoleggiarono per l’insidia del sangue imbrattato da antiche nozze aragonesi;
se non altro sbollì un tantinello la rabbia che ognuno di loro covava in seno.
Interruppe per primo il capitano:
- esimio dottore, il
fatto è che Vitacchia, dopo essersene andato da lei ieri sera, perse davvero la
trebisonda. Non so che cosa lei veramente ebbe a dirgli. Lui, per
telefono, si è messo a strombazzare che lei sospettasse di lui, anzi era certo
che lei aveva le prove del duplice omicidio, che erano prove che portavano a
lui, prove rinvenute in “farzuna” (usa questo strano termine..)
- voleva dire:
faldoni.
- Allora lei qualcosa
sa?
- Ora mi rammento che
per zittirlo, accennai ad intrighi che affioravano dai dieci faldoni della
Mangoni … ma le mie erano dicerie, tanto per dire qualcosa e soprattutto
togliermelo dalle palle.
- E quello ci è rimasto
fottuto.
- E’ così grave?
- E’ in mano alla caina,
dottore mio, non c’è scampo.
- Mi chiarisce un po’ le
idee?
- Ho qui la trascrizione
di quanto il capitano Bonadies, quello della finanza …
- Non è siciliano?
- No!, milanese … di
Arcore … compaesano del capo insomma.
- Siamo fottuti!
- Penso di sì. Ha
trascritto in milanese un parlare racalmutese fitto, agitatissimo … s’immagini
gli inguacchi! Ho fatto dei confronti con la cassetta che pure, bontà sua, mi
ha mandato in copia. Siamo alla follia pura. Ma mi dica chi potrà contestare
Bonadies … una denuncia per falso in atto pubblico? … non troverà uno straccio
di avvocato che ci provi … con quella strizza che hanno, con quel terrore della
finanza che tengono, grandi evasori come sono … tutti.
- Vitazzia, dunque, esci
da me e che fa?
- Da quanto emerge da
questo diario riservatissimo … si sarebbe messo in contatto con Bastiano Saldì,
il prosecuto degli “stiddara” di Racalmuto che ricerchiamo da oltre un anno …
omicida .. l’artefice della strage di piazza Castello. Ancor oggi a capo di una
cosca che smista droga da Porto Empedocle in Germania, Francia, ed anche
Montecatini Terme, Abano Termine, il casinò di … ma che c’importa?
- E perché avrebbe
telefonato a Bastiano Saldì? Non aveva di meglio?
- Cercava un alibi?
- Un alibi?
- Sì. In effetti la
terribile notte in cui fu avvelenato il dottor La Matina, Vitazza era insieme
con Bastiano Saldì … sulla spiaggia dello Zaccanello … faceva da corriere della
droga … droga che doveva giungere dal mare con una barca … quella notte però
non giunse nulla … il mare era tempestosissimo .. non consentiva ad alcuna
imbarcazione di traghettare dal grande panfilo ormeggiato chissà dove, nascosto
agli occhi nostri e della finanza. Vitazza, che aveva i numeri dei telefonini
di Bastiano, lo cercò, di ritorno da lei, per pregarlo di fare qualcosa che
potesse scagionarlo … ed invece fu come consegnare la pecora al lupo.
Controllava Bonadies (anche noi veramente) controllava, individuò il posto in
cui Saldì ricevette la telefonata … era piazza della Libertà a Palermo … vallo
a beccare … registrò … trascrisse. Fu certo che Vitazza era stato colui
che aveva messo il veleno nel caffè del dottor La Matina … d’incarico della
mafia che faceva capo al Saldì … Noi sappiamo che Vitazza era stato agganciato
per far da palo in certo trasbordo di merce, ma sappiamo che, al di fuori di
una partecipazione passiva, inconsapevole, nulla aveva fatto. La sera in
questione Saldì l’aveva solo pregato di accompagnarlo al mare. Vitazza si era persino
scordato che doveva andare a prelevare la giornalista israeliana dal dottore La
Matina. I pedinamenti della mia squadra sono tutti verbalizzati. Eccoli qui. Li
ho riscontrati. Innocente dunque il Vitazza. Vitazza fu da lei punzecchiato
come capita a voi intellettuali, per amore della battuta, della provocazione …
ma il poveraccio era stato sospettato anche dalla dottoressa Mangoni. Quella,
nella speranza di farlo parlare, se l’era portato persino a letto. Si era
convinta dell’innocenza di Vitazza e l’aveva messo sull’avviso. Qualche indizio
contro Vitazza restava, che stesse attento dunque. Disperato, dopo l’incontro
con lei, aveva cercato il latitante Saldì. Lo ha invocato di fare qualcosa, di
scrivere una lettera, magari, far sapere alla legge che quando fu avvelenato il
La Matina entrambi erano lontani, al mare. Saldì si è imbestialito, si è messo
a bestemmiare, ha cominciato a parlare a baccaglio … in effetti è ambiguo …
mille frasi smozzicate possono far pensare che, invece, c’era un accordo a testimoniare
un alibi compiacente. Tutto combinato per coprire l’omicidio che il Saldì
avrebbe commissionato al Vitazza. Non le leggo il ciarlare di Bonadies;
non ha letto i suoi romanzi e scrive da nordico; quelli parlano fluido ma
scrivono da cani … non sanno scrivere (salve le grandi eccezioni s’intende; io
Manzoni lo salvo), s’immagini poi se sanno verbalizzare o fare rapporti decenti
o peggio chiedere in fretta e in furia mandati di cattura.
- Ho visto la richiesta
del mandato di cattura …
- Prefabbricato, dottore
mio. Questa è un’altra sporca vicenda. Il capitano ha nelle sue mani la giovane
sostituto procuratore, una ragazzina del Veneto. Innamoratissima dicono. Ad
Agrigento ci sta solo quando proprio non ne può fare a meno. Subito scappa per
il Veneto. Il capitano la controlla; finge di esserle amico e le dice che la
protegge. Quella firma tutto ciò che fa comodo al capitano della finanza, senza
fare storie.
- Me ne sono accorto.
Meluccio Cavalieri aveva bisogno di
pensare. Era in uno stato confusionale, che per uno scrittore è cosa
gravissima. Anche lui però era un essere umano; anche a lui capitava quanto
succede ai comuni mortali.
- Colonnello, le
confesso che non ho per nulla le idee chiare.
- Onestamente non è che
qui tutto brilli per consequenzialità, per rigore, per stringatezza. Bonadies
sa essere oscuro e non per omertà mafiosa. Per peculiarità del suo intelletto,
diciamo. Mi pare, però che questo possa affermarsi: primo, lei – senza volerlo
- ha messo in ambasce il suo amico Vitazza; secondo, il disgraziato si è visto
perso e si è incollato ad un telefonino; terzo, non curandosi delle tecniche di
controllo della polizia, va a confidarsi con un latitante pericolosissimo, un
tempo suo amico; quarto, sperando aiuto, si è messo a sproloquiare ed ha
consentito a Bonadies uno scoop poliziesco, un teorema inossidabile, uno smacco
all’antimafia, cioè in definitiva … a me. Questa storia finisce male, dottore.
- Perché tanta voglia in
Bonadies di far male ad un innocente.
- Innocente, il capitano
della finanza non crede in buona fede che Vitazza lo sia. Se non avessi gli
elementi che ho, anch’io lo crederei colpevole e l’avrei già sbattuto in
carcere da molto tempo.
- Nella Sicilia del 2000
non si può più essere impunemente dei balordi?
- Dottore mio, manco
prima. Prima anzi si finiva sul patibolo, sul rogo … e lei lo sa.
- Meno, tuttavia, di
Roma o Firenze …
- Sarà! … un brutto
processo a Vitazza non lo leva nessuno ..
- Devo cercare di fare
qualcosa per quel ragazzo..
- Chissà Sciascia come
mi avrebbe definito: uomo … o quaquaraquà. Il quaquaraquà onomatopeico,
l’anatra che sguazza nella pozzanghera … e mafia, e antimafia, e giustizia, e
gialli, e caini, e benemeriti, e procuratori … tutti nella pozzanghera, in
un’arida Sicilia con uno strato di melma vasto quanto una sconfinata palude …So
come andrà a finire dottore, anch’io senza essere Sciascia sono profeta, perché
intelligente (già, leggo dentro le cose) e perché so (ho tutte le carte segrete
… della mafia … dell’antimafia … della finanza … dei carabinieri … della
procura). Mafia uguale omertà: sicuro. E l’omertà di stato? Quanti suicidi che
sappiamo omicidi di stato? Restano silenziosamente impuniti. Se Calabresi
muore, Sofri paga … e se Pinelli muore, nessuno deve pagare? E i suicidi del
mondo della finanza? Dobbiamo ancora credere che Sindona, che Calvi che … (si
vedrà, si vedrà) Sabbanadica duttu’. Se potrò esserle utile, sarò sempre
a sua disposizione. Se lei potrà essere utile a Vitazza, non si risparmi …
forse solo lei è in grado di fare qualcosa … dalla sua c’è sempre la penna e
quella continua ad essere l’unica spada capace di far pendere il piatto della
giustizia dalla parte giusta … solo raramente però.
*
* *
Si attaccò al telefono con la
furia di un demone imbufalito. Chiamò Palermo, la redazione del Corriere. Sì,
voleva Roberto Caballero.
- Robe’ lascia stare i
convenevoli … vieni subito qui a Racalmuto … sì a Bovo, in casa di Aurelio La
Matina … buon’anima…. Ti passo uno scoop che ti farà rimbalzare nelle prime
pagine di tutta la carta stampata ed in quella imminchionita dei mezzi-busti televisivi
… Sì, si tratta dell’omicidio dell’ispettore bankitalia La Matina Calello …
notizie in esclusiva .. svelate da Meluccio Cavalieri di Giorgenti …
l’ineguagliabile scrittore dei gialli … straingurgitati dagli imbecilli
del momento … e sono la quasi totalità della razza italica … sì specie se
dipinta di azzurro … Si sta mandando all’ergastolo un innocente e Meluccio
Cavalieri non vuole … posso consentirmi il divieto della giustizia cieca …
ingiustissima? … Sì. sono incazzato, incazzato nero … vieni e ne
parliamo.
Roberto Caballero, giornalista
cinquantenne, racalmutese, ancora alla cronaca regionale, si era attirata la
simpatia di Cavalieri senza merito alcuno, per un empito umano dell’affermato
scrittore, segno di unapietas che non sai mai perché finisce per
far capolino nei cuori più induriti .. e quello di Meluccio era molto arido …
non duro ma impermeabile ... o così pensava lui..
Giunse a notte fonda, strombazzando,
come a svegliarlo. “Sono sveglio … sta’ calmo che arrivo”. In vestaglia aprì il
portoncino metallico, accese la luce esterna. Roberto si precipitò dentro,
sciatto come sempre, barba lunga jeans vecchi e malandati, niente concessione
all’andazzo di portare falsi jeans provocatoriamente laceri: quelli di Roberto
erano semplicemente indecenti. Apparteneva ad una cospicua famiglia
racalmutese, notai sin dal Settecento, quando erano piombati predoni e saccenti
da chissà dove; Aurelio, ricercatore imbattibile della locale microstoria,
diceva da Assoro. Al Circolo Unione si spettegolava che i Caballero stessero
sempre sopra uno scalino … qualche volta scendevano, quando avevano
bisogno … diventavano umili, sussiegosi, supplici … poi finito lo stato di
necessità, eccoli subito salire su due scalini, più in alto, più ingrati,
altezzosi in odiosa supponenza. Roberto, però si distingueva …
intelligentissimo, stravagante, caustico di parola e di penna, aveva preso
dalla mamma, non racalmutese, finissima donna che suo padre aveva fatto morire
di crepacuore e di stenti, intento a ficcarsi nei talami altrui. Pare che vi
riuscisse. La Sicilia cambiava: essere cornuti cominciava a divenire un fregio
nobiliare, come i nobili di un tempo, solo che ora anche la plebe si
nobilitava.
Ebbe tempo di mirare lo spettacolo del
cielo stellato, Meluccio Cavalieri. Gli sovvenne una pagine di Aurelio, letta
nell’attesa di Roberto. Non gli era sembrata spregevole, la memoria ora
agghindava ancor di più il pezzo letterario. Risorgeva l’antica Grecia. Anche a
Racalmuto, anche a Bovo. «….. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento
come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi
per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei
carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi
vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e
profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia
agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se
qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per
refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola
estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di
Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma
sensibile all'alta poesia.: “certo per i mortali non sta/ fissa una
soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine
in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno
vengono agli uomini” eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino
greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le
stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. »
“Bisognava tornare all’antica Grecia,
alle mirabili origini di una Sicilia colta e libera, della Sicania civilissima
e soave, stellare, senza diritto romano, senza terrori cristiani, senza cupi preti,
senza Bossi, senza Berlusconi, senza magistrati stranieri, senza capitani in
giallo venuti da Arcore …”
- Ma che cazzo sussurri?
ghignò Roberto.
- Va ‘ffa ‘nculo. Ti do
un caffè di quelli fatti da me, ricetta di Gennarino … così mi stai sveglio.
Sorbitosi il caffè, Roberto andò a
stravaccarsi sul rustico divano color senape. Si concesse una sigaretta,
infastidendo Meluccio che da accanito fumatore pentito inforcava ora le cuspidi
di tutte le campagne contro il fumo, anche se passivo, e si offrì in olocausto
ai furenti sfoghi del suo amico scrittore.
- Dunque, che è
successo?
- Hanno arrestato
Vitazza.
- Tutto qua?
- … è innocente ..
- non è il primo né sarà
l’ultimo.
- Qualche responsabilità
c’è l’ho pure io
- L’hai denunciato?
- Ci mancherebbe
altro … se lo reputo innocente?
- Pur di scriverci un
libro, non saresti capace?
- Strunzu!
Con varie interiezioni, digressioni, sberleffi, contumelie, Meluccio
ricostruì gli eventi dei due giorni passati. Roberto alla fine s’impazientì:
- questo Vitazza, non so
se è innocente o colpevole. E come faccio a scrivere un pezzo innocentista?
- Perché è innocente!
- Sei sicuro? Sputa
fuori allora la verità … secca, senza fronzoli, giornalistica …
- Dimmi pure evangelica?
- In che senso?
- Non dice Gesù di
Nazareth: “il vostro parlare sia: sì, sì … no, no”
- Vorrà dire che domani
scriverò: “Vitazza da Racalmuto è innocente? Rispondiamo: sì”, sai che successo
giornalistico.
- Non mi imbrogliare ora
tu le carte.
- E tu dammi le carte
giuste ed essenziali.
- Aurelio La Matina
Calello viene dunque trovato morto avvelenato il giorno dopo; i medici
stabiliscono che il decesso era da retrocedere di dodici quindici ore. La morte
sarebbe avvenuta dunque nelle prime ore della sera del giorno precedente,
quando a Racalmuto diluviava. Fu sera da tregenda, tutti se lo ricordano qui in
paese. Continuava per altre quattro cinque ore, avremmo avuto il diluvio
universale; sarebbe stato il momento della verità con tutte quelle manomissioni
del sottosuolo del paese, a cominciare dalla Matrice. Vi erano le carnarie, ora
non vi è più nulla: le colate di cemento sospinte dalla pressione a 10/15
atmosfere sono state sbattute contro le occlusioni di piazza Castello. Quando
torneranno le grandi piogge, dell’intensità di quella sera ma più continue,
avremo un grande sifone a «lu chianu castieddu»; con quanti morti?
- Stringi
- Nel primo pomeriggio
si era recata da Aurelio la giornalista israeliana, accompagnata da Vitazza,
che subito però tornò in paese. La giornalista si accomiatava da Aurelio per il
suo ritorno in patria. Aurelio era stato prezioso nel fornire dettagli e letture
inusuali sugli ebrei di Sicilia e su quelli di Racalmuto.
- Fino a che ora vi è
stata da Aurelio?
- Non più di
un’ora. Il tempo era ancora buono. La giornalista telefonò allora alla sua
amica, l’accompagnatrice turistica racalmutese. Questa si precipitò subito a
Bovo. Non entrò neppure in casa. L’israeliana l’attendeva all’imbocco della
stradetta. Si fece accompagnare in gran fretta a Canicattì a prendere l’autobus
per l’aeroporto di Catania delle ore 17. Non riuscirà a prendere l’aereo
per Roma da Catania: le grandi piogge impedirono il decollo. La giornalista si
fece accompagnare in taxi in un albergo delle vicinanze. Tutti questi movimenti
sono stati ricostruiti con diligenza da romanzo giallo dalla dottoressa
Mangoni. Aurelio sino a sera era vivo: lo dicono i medici. La giornalista ha un
alibi di ferro. Vitazza, dopo avere portato la giornalista da Aurelio,
s’incontra con Bastiano Saldì, quello latitante. Sono amici da vecchia data. Il
Vitazza viene invitato dal Saldì a fargli compagnia ed in macchina se lo porta
allo Zaccanello. Si godono lo spettacolo della tempesta a mare. Non succede
nulla. A tarda ora, i due se ne tornano a Racalmuto, quando Aurelio era morto
da almeno due tre ore.
- Non è che l’ispettore
bankitalia sia morto ad opera di spiriti maligni, scesi sulla terra di Bovo in
quella notte da tregenda? Se fossi inglese, ci scriverei un libro di magia
nera.
- Non scherzare. Non
spiriti vennero a Bovo quella sera, ma uno strano cingolato creò un casino
forsennato rompendo il muretto dell’ingresso, lasciando orme che neppure le
grandi piogge riuscirono a levare. A guidare quel cingolato doveva essere un
solo individuo, non colto e tuttavia amico di Aurelio, che ebbe ad aprirgli in
quell’ora insolita senza sospetto. Gli offrì persino un caffè.
- E questo è certo?
- No, questo si suppone
… ragionevolmente.
- Il cingolato è stato
rinvenuto?
- Non se ne sa niente.
Nessun mezzo che possa giustificare il tipo delle orme è stato rinvenuto. Si
pensa ad un mezzo straniero. Dopo la morte della Mangoni, la polizia sta
tentando connessioni con il mezzo che uccise la poliziotta. Ma senza risultato
alcuno … almeno per quello che mi si dice. Io del colonnello Micciché mi fido
ciecamente. Perché mi dovrebbe imbrogliare?
- Siamo quindi di fronte
ad un assassinio senza omicida?
- Sino a quando il
capitano della finanza non ha creduto di essere l’inviato del Signore che in
quattro e quattr’otto ti svela l’arcano.
- E questo non ti
sfagiola, non foss’altro per questione di prestigio professionale.
- Me ne sbatto le palle
del prestigio … è l’innocenza di Vitazza che mi sta a cuore.
- Non è che mi hai
convinto proprio tanto su questa conclamata innocenza …
- Non sono solo io ad
esserne convinto … anche il colonnello Micciché ne è sicuro .. nell’incontro di
oggi mi ha svelato piccoli segreti che hanno fatto chiarezza anche a me … tanti
lati oscuri mi si sono chiariti. Pensavo cose inesatte, facevo confusione …
Micciché ha fatto luce … il verdetto è indubitabile: non colpevole.
- Andiamo, dunque, dal
giudice e con l’autorevolezza che tutti ti riconoscono, con la testimonianza di
Micciché e con i flash dei miei fotografi tiriamo fuori quest’angelo dalle
patrie carceri.
- Fosse facile!
- Cosa lo impedisce?
- Il capitano della
finanza Bonadies.
- E’ così potente?
- È impotente e per
questo è imbattibile: l’imbecillità, la testardaggine, la ruggine fra i corpi
militari dello stato, la voglia di carriera, il sentirsi infallibile è un
intruglio che a noi semplici mortali suona idiozia, per i militari si chiama
senso dell’onore.
- Protervi!
- Domani, anzi stanotte,
tu scrivi un bell’articolo, lo pubblichi e vedrai che le acque si smuovono.
- E che scrivo?
- Scrivi che ti sei
incontrato con Meluccio etc., che ti ha confidato i segreti più ghiotti sulla
morte dell’ispettore della bankitalia, che li ha desunti dalle carte
dell’ispettore e da quelli della polizia. Un granchio prende la Finanza: non sa
leggere i bilanci delle società sotto verifica e vuole leggere nei misteri dei
servizi segreti …
- Come? Come?
- Servizi segreti, sì:
l’omicidio di Aurelio La Matina Calello è un omicidio commissionato all’estero,
da uno stato estero ed eseguito dal servizio segreto di quello stato.
- Tu vuoi scherzare?
- No, no … scrivilo …
scrivi che te l’ho detto io. Scrivi che sono pronto a riferire al ministro
degli interni italiano … quello è un grassone ma è un cervellone … mi è amico …
ha stima .. ed io di lui .. anche se è di destra, anzi è passato a
destra; mi stava meglio quando scriveva a Lotta Continua … allora non aveva
capito niente ma stava dalla parte giusta … ora capisce tutto, ma gli piace
stare dalla parte sbagliata .. controcorrente: è nel suo stile (e forse anche
nel mio).
- Tu mi mandi dritto,
dritto in galera.
- Ti farebbe bene: così
rinsavisci un po’
- Anche a te farebbe
bene; pure tu hai bisogno di un po’ di saggezza.
- Spiacente, per limiti
di età non sono più carcerabile.
- Eseguirò a puntino.
Resto, però, sicuro del fatto che Vitazza, stinco di santo non è. Amico e ..
compare di Bastiano Saldì: mafia, droga, stiddara, stragi
- Contiguo? E chi non è
contiguo di questi tempi? Io, tu, i reprobi ed i santi, i preti ed i
malandrini, lo stato ed i magistrati, i militari ed i politici …
- Quante denunce per
calunnia, oltraggio alle istituzioni, vilipendi ..debbo prenotarmi?
- Nessuna .. perché sai
scrivere e queste cose le sai dire senza farti cogliere in fallo. Complimenti.
- … violazioni del
segreto istruttorio, d’ufficio …
- quelle non le escludo
… e ci metto anche violazione dei segreti di stato .. anzi di stati esteri …
suona meglio.
- A la faccia?
- Non per nulla sei
giornalista … devi rischiare ..
- E’ una vita che
rischio. Il risultato? Capo cronaca di una periferica regione, di un giornale
milanese che della Sicilia gliene frega un cazzo.
- Ma è il primo giornale
d’Italia.
- Appunto.
- Là c’è un computer,
c’è il modem .. datti da fare e subito. Dai la stura alla tua fantasia … usa il
paravento: il noto scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti … scrivi sempre
“da Giorgenti” … ci tengo … ognuno ha le sue fissazioni … la mia tutto sommato è
veniale. Sì: il noto scrittore ci confida; sostiene; ci ha svelato; contesta; è
sicuro … e via di questo passo. Puoi anche sostenere che il papa è stato
sodomizzato da un asino in erezione … fa ancora effetto, sai.
- Vitazza esce ed io
entro, ho capito.
- Finalmente giustizia è
fatta.
Roberto, sigaretta in bocca, si chinò
sulla tastiera del computer e di getto scrisse i tre o quattro fogli
dell’articolo. Inviò l’e-mail; si alzò, un gugno di saluto a Meluccio ed andò a
buttarsi sul primo lettino che gli sembrò di potere usare. Quasi di colpo
cominciò a russare. Meluccio non volle disturbarlo, spense le luci e cercò di
addormentarsi anche lui. Non fu facile.
*
* *
In prima battuta, la corrispondenza finì
nel foglio regionale. In tarda mattinata, però, vi fu un’edizione
straordinaria. L’articolo apparve in prima pagina con un titolo mirabolante,
inusuale per un giornale tanto compassato come il Corriere della Sera: «Omicidio
ex ispettore bankitalia – La GdiF di Agrigento depista – Certo lo zampino di un
servizio segreto estero».
- Titoli così sono
sospetti, disse Roberto.
- Articoli così sono
pugni nello stomaco; bisogna saperli sferrare, ed il Corriere il mestieraccio
suo lo sa fare, rimbeccò Meluccio.
Trillò il telefono. Segreterie
particolari. Interrogatori. “Sì, lo scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti,
in carne ed ossa”. “Attenda, Le passo il signor ministro degli interni”.
- Ah Melu’, che mi
combini – e giù una risata chiassosa, veramente divertita.
- Se il ministro della
polizia si disturba, l’avrò fatta veramente grossa.
- Guarda che sono stato
io ad imporre l’edizione straordinaria al Corrierone; anche il titolo ho
dettato. Come ex giornalista, sono licenze che mi posso permettere.
- Come ministro degli
interni .. che come giornalista il Corrierone ti mandava a fare in culo.
- Come sei volgare?
- Mai quanto un ministro
di mia conoscenza. Ma a che gioco stai giocando?
- Al tuo Melu’ … al tuo
…
- Dannato di un uomo …
il mio è solo voglia di rimettere in libertà un mio amico di Racalmuto, un tale
di nome Vitazza. Ti dice qualcosa questo nome?
- Nulla di nulla ..
- Allora dimmi quale è
il tuo gioco …
- Quello che tu hai
fatto sbandierare a quel povero ragazzo …
- Chi?
- Il giornalista ..
- Ma quello ha
cinquant’anni.
- Sempre ragazzo per noi
Melu’ .. Non so se la storia dei servizi segreti tu la conosca davvero o
è stata una tua stronzata. Credo che hai inventato .. non dal nulla, però ..
avrai letto qualcosa nelle carte che ho detto di consegnarti. Tu non sai e
parli .. io so e non posso parlare. Ci completiamo. Bella trinità, visto che
entrambi ci serviamo del cinquantenne giornalista. Polizia, letteratura e
giornalismo: giustizia sarà fatta. Speriamo, almeno. Approfondisci Melu’,
approfondisci .. spero davvero in te.
Ed era la seconda volta che nel volgere
di 24 ore due diversi esponenti della polizia di stato gli affidavano il
sovrumano incarico di fare giustizia, con la forza della penna, con la magia
della fantasia. Non c’era più religione.
Nella tarda mattinata del giorno dopo,
quando Roberto si decise ad alzarsi, Meluccio si accinse a fare una scappatina
a casa sua, ad Agrigento. Teneva abitazione avanti la curia vescovile. Occupava
la magione che era stata dei Del Carretto. Le carte di Aurelio parlavano di un
palazzetto del 1300. Era detto in un atto notarile esibito ai Martino nel 1400,
in un processo d’investitura. La contea della sciasciana Racalmuto nasce da un
baratto fra due fratelli, Gerardo e Matteo del Carretto: a Matteo finisce
“lu cannuni” ma non solo quello: questo sedicente nobile genovese in
effetti si insedia a Giorgenti, vicino al vescovo naturalmente, «in
quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta
hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam
S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici
de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios
confines.» I grandi predoni di Agrigento stavano tutti lì. “Ed ora vi sto
io” si sussurrò tra il compiaciuto e lo stomacato Meluccio. Veramente,
stava al solo secondo piano: stanzoni enormi, oscenità pittoriche del Sozzi
consunte, gelo d’inverno … ma d’estate c’era gradevolissima frescura, meglio
qui che a San Leone. Solo che da qualche mese si era fissato per Bovo di
Racalmuto: tutto l’opposto. Sperava di farsi vendere quell’anodina casetta
dell’avvelenato Aurelio. Gli eredi, prima o poi, gliel’avrebbero ceduta. Non
era questione di soldi. Meluccio pensò al suo antenato vescovo e botanico:
forse per questo propendeva per gli orti di Bovo: Veramente, lì orti non ce
n’erano: ma un progetto bolliva in pentola. Per un intuito di Aurelio si era
costituita a Racalmuto una strana associazione che si denominava “IDESAM” come
dire “istituto dissalatori acqua del mare”. Dal vicino Mar Mediterraneo si
doveva portare l’acqua dissalata. Scavalcando politici e faccendieri, la
cosa stava andando avanti. Prodi in persona se ne era interessato. I fondi
comunitari stavano per arrivare. Un invaso agli sprofondi di Sacchitello era
più che un progetto. Da lì acqua dappertutto, anche a Bovo, per orti,
agricoltura intensiva, primaticci. Meluccio vi stava dando l’anima perché il
sogno di un mare d’acqua sulla terra di Sicilia si avverasse. Ostacolavano, e
di brutto, gli acquaroli di Canicattì, non mafiosi si diceva eppure molto
somiglianti, con il Lasagne come loro occulto protettore sotto sembianze di
verde irriducibile. “Il dissalatore inquina l’aria. Le condutture distruggono
l’ambiente.” il suo slogan ad effetto. Un mare di voti lo subissava ad ogni
elezione. Frotte di autobotti pompavano acqua dallo Zaccanello di Racalmuto e
la portavano nei vigneti di Canicattì; si deprimeva sempre più il livello di
quella falda acquifera; c’erano voluti diversi milioni d’anni per formarsi, dal
pleistocene; in dieci anni, dicevano pozzaroli incolti ma esperti, il livello
era sceso di sei metri. Prossimo il prosciugamento totale; incombente il
fenomeno dello zubbio: volte in gesso che si erodono per reazioni chimiche e
sprofondano; addio scorrimento veloce, addio terre ubertose della Menta e
dintorni; povera incolumità pubblica.
A Meluccio venne fatto di pensare
all’improvviso: va a finire che cerchiamo chissà dove l’omicida di Aurelio ed
invece eccolo là a Canicattì, in seno agli autobottisti.
A Meluccio la strana mania delle cose
della terra veniva – o così amava pensare – da un antenato vescovo e botanico.
Si chiamava Antonino Cavalieri. E’ rimasto celebre per una sua originale
richiesta al re borbone: «S.R.M. – Sire – Antonino Cavalieri – scrisse il 14
gennaio 1789 – vescovo e cittadino di Girgenti, umilissimo vassallo di vostra
reale maestà, umiliato al regio trono le rappresenta, come per doppio titolo
della nascita da lui sortita in quella città, e del supremo grado
ecclesiastico, al quale per vostra real clemenza è stato inalzato, sentendosi
in obbligo di promuovere con tutte le sue forze i vantaggi spirituali, e
temporali di quella popolazione, à considerato, che tra le altre cose manca ivi
il comodo dell’erbe medicinali, perché non essendovi colà mai stato orto botanico,
né persone esperte nella cognizione de’ semplici manca agli ammalati il
soccorso di taj rimedj …» Dove impiantare quell’orto botonaco? «Esiste
in distanza di un miglio in circa dalle mura di quella città un conventino già
de’ PP. Riformati .. a cui è annessa una piccola selva ...» Il conventino
era stato soppresso tre anni prima. Espropriamolo - chiede il vescovo - «sarebbe
questo un sito opportuno alla formazione dell’orto botanico, dopo che ivi si
ridurrà un'altra volta la piccola vena dell’acqua sorgente ….. » Le
idee di Aurelio avevano avuto un precursore, nientemeno un vescovo ed un
vescovo della famiglia di Meluccio. Certo, allora era il Settecento, secolo dei
lumi anche in Sicilia, anche per i vescovi giurgintani – ma della
prosapia dei Cavalieri – mentre, ora nel duemila i vescovi giorgintani si
preoccupano solo degli espropri, di salvaguardare gli estirpatori del verde,
gli uomini del cemento … in cambio di chiesuole antistanti a templi greci.
Meluccio se ne adontava e s’imponeva il compito di saldare l’antenato vescovo
illuminista con il tetro Aurelio.
Decise di far visita al suo presule del
Settecento: si recò in cattedrale e portò il solito garofano rosso che depose
sul sacello: dall’alto, dal medaglione marmoreo lo mirava con sorriso spento;
rubizzo, testa incassata nel tronco, privo quasi di collo, ma ondulata l’ampia
gorgia, dovette somigliare tanto a quei canonici descritti dal Brydone; per
tanti versi dovette essere simile al vescovo di quel viaggio dell’impertinente
inglese. “molto rispettato”, “nel fare a botta e risposta … è maestro”, “uomo
affabilissimo e gentile”, “appartiene ad una delle prime famiglie dell’isola”,
“è un omettino onesto e una persona piacevole”, “è fuori del comune che abbia
raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco
del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia di cose antiche che
di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto”. Ma c’è da giurare
che l’antenato fosse proprio quel canonico che dopo il pranzo fu preso da «una
violenta crisi di stomaco, e mentre vomitava si volse a me con una faccia tutta
pentita, e scuotendo il capo gemette: “Ah! Signor capitano, sapevo che Ponzio
era un grande traditore” … mi ha detto che basterebbe che stessimo un po’
con loro per convincerci che sono gli uomini più felici della terra. “Abbiamo
escluso dal nostro sistema”, mi disse, “tutto quello che è triste o
malinconico, e siamo persuasi che di tutte le vie dell’universo quella che mena
al cielo deve essere la più bella e la meno tetra. Se non è così”, aggiunse,
“Dio abbia misericordia di noi, perché temo che in cielo non ci arriveremo
mai”.»
- Ah! zzi parrì nni
diciva di minchiati chissu, picchì ingrisi cridiva di fari lu spertu ed era
babbu … minchiati, zzi parrì, minchiati … Ah! ccà nun si po’ diri? … semmu in
chiesa! Ma chista è la catridali di San Giurlannu, è nurmannu puru iddu .. a
nnantri nun nni po’ capiri.
Meluccio scese in via Atenea, si recò
dall’avvocato Pujades, amico suo d’infanzia.
- Carme’ quel
mandato di Vitazza te lo sei fatto dare?
- Sicuro; appena mi hai
telefonato sono corso alla Petrusa e subito il ragazzo si è affidato a me.
- Quando esce?
- Non lo so. Ho parlato
con il procuratore capo e niente; la veneta non l’ho vista. Come al solito è
scappata per casa sua, dal suo amoroso. Bonadies è schifiltoso … ma ha trovato
una scusa per non ricevermi. Ho pronta l’istanza al giudice per la libertà provvisoria.
Ci mancava però che tu ti mettessi a fare lo stronzo con quella intervista dei
miei coglioni … e temo che dopo averlo fatto rinchiudere gli stia serrando le
porte per non farlo più uscire ..
- Minchia!
- Proprio così, stiamo
tutti finendo a minchia. Già, perché ti stanno preparando un bel papiello con
dentro una sequela di reati da accumularci sopra una ventina d’anni: violazioni
dei segreti di stato, di quelli d’ufficio, di quelli istruttori, oltraggio alle
forze pubbliche, calunnia etc. etc.
- E come lo sai?
- Vengo dal tribunale;
sentivo strillare Bonadies nella stanza della veneta. Mi ha visto il
procuratore, mi ha chiamato ed in gran segreto mi ha detto che non può impedire
alla veneta di inviare una comunicazione giudiziaria a te ed a quella povera
vittima del tuo giornalista a comando.
- Mi porterai le arance.
- Sei troppo importante
per farti il piacere delle manette, diventeresti un martire; troppa pubblicità
per te e troppi guai per il procuratore … che di guai ad Agrigento ce ne ha da
vendere. Gli mancava pure quel Bonadies.
- Che ha Bonadies?
- Bonadies è un
ufficiale della finanza onesto; fanatico, sì … ma integerrimo. Si era messo in
testa che tutti sono uguali dinanzi alla legge, anche quella fiscale che
sappiamo essere un colabrodo. Manette agli evasori? A tutti sostiene Bonadies.
Anche ad un vescovo che si era dato all’usura. Voleva addirittura metterlo
dentro. Questo no, non c’è riuscito … un rinvio a giudizio, però, glielo
procurò … ed un invio ad Agrigento se lo procurò, alla città delle tre p:
punizione, promozione, pensionamento. Guarda che per tanti versi quel capitano
che tu tanto odii, mi è simpatico, per me è una vittima del dovere ..
- che fa tante vittime
della giustizia. Il fanatismo dei militari … te lo raccomando: buio mentale
e crudeltà di cuore.
- Ricordatene nel
prossimo romanzo.
Il telefonino di Meluccio trilla;
Roberto Caballero di là si agita, inveisce, protesta.
- ho capito, so, il mio
avvocato mi sta già informando … lo consiglio pure a te … è gratis, cioè a mie
spese.
- Guarda che non posso
difendere due coimputati … interruppe Pujades.
- Non ne hai bisogno.
Meglio. Scattava già un’incompatibilità. L’Italia è la terra delle
incompatibilità … e tutti stanno insieme … il diritto naviga a destra, la vita
a sinistra. … mi dici che il tuo giornale sta inviando i pezzi da novanta
dell’avvocatura milanese … sai che ci fanno ad Agrigento? Un piffero … ad ogni
modo contento tu, contenti tutti. ….. Pujades mi dice che i fastidi non saranno
per noi … è il povero Vitazza che patirà l’anima dei guai suoi … al solito,
giustizia all’italiana maniera che inventa le colpe dei deboli ed affossa i
misfatti dei potenti … pare che stavolta i potenti siamo noi … io perché scrivo
gialli di successo e tu perché c’hai il corrierone dalla tua parte. Sì, ci
vediamo presto … arrivederci.
L’avvocato Pujades accentuò i suoi tic
nervosi. Si fece rilasciare un mandato ampio e pieno. Si accomiatò di mala
grazia dallo scrittore amico e si precipitò in tribunale. Meluccio tornò a
dimensioni normali, si sentì uomo ormai vecchio come capita a tutti i
settantenni. Non era paura la sua, solo angoscia, avvilimento, avversione
per tutto quanto sa di stato, di potere, di procure, di capitani e di avvocati,
anche. Li avvertì come nemici ed ebbe in uggia anche la vita. A passi lenti,
bolso e vecchio si incamminò per le scalette che conducevano su, al seminario.
La sera agrigentina sapeva di morte, quasi un preludio funebre. L’uomo, questa
misera cosa con empiti di onnipotenza subito in cenere. A Meluccio cessò la
voglia di lotta … rintanarsi nell’ospizio dei del Carretto ora era
l’unico suo desiderio, emergeva l’infanzia, quando si sentiva protetto dal
corpo della madre, sotto al rifugio, per ripararsi dalle bombe che dal cielo
piovevano nella guerra del Quaranta.“Memento homo, quia pulvis es et in
pulverem reverteris”, la polvere del mercoledì delle ceneri quale
saggissimo simbolo! - in questo era profondamente cattolico, cupo, senza
speranza, dannato all’inferno. Non per nulla amava proclamarsi: cattolico non
credente.
CAPITOLO QUINTO
Incupito, Meluccio si decise di far
visita a Vitazza. Aveva rinviato troppo ed un po’ gli sembrava di essere vile.
Trovò il giovane spoglio della sua abitale iattanza. Due o tre convenevoli e
lagrimoni solcarono il viso espanso di Vitazza.
- Ti trattano male?
- interloquì Meluccio.
- Nonzi duttu’. Stavanu
cominciando .. ma subito arrivò la raccumannazioni di Bastianu e tutti
addivintarunu umili e mansueti, persino ruffiani ed amici. Anche gli ‘nfami, i
secondini. Certo debbo chiamarli «comanda’», ma così per educazione. Bastianu
Saldì è proprio potente.
- Tu gli amici potenti
te li sai scegliere.
- Vossia e Bastianu siti
amici mia.
- E tutti e due ti
abbiamo fregato.
- Nun ci criu.
- E non crederci, non
crederci. Io ti voglio bene. Mi sento in colpa con te. Però tu sei uno
scervellato. Che ti metti a parlare con Saldì al telefonino, usando il suo
numero segretissimo?
- L’avevo fatto tante
volte e nessuno niente mi aveva mai detto.
- Fino a quando a
controllarti non è intervenuto il capitano Bonadies.
- Io da ccà quando esco?
- Prima possibile, Vita’
… hai visto che ho dato incarico a Pujades … il principe del foro di Agrigento
…
- Una volta era
Cavallaro … il mio grande paesano ..
- A Racalmuto ne avete
avute tante di teste fini … ma di cose buone ne avete fatte sempre poche.
- Iu mali a nuddu
nn’haiu fattu.
- Tu non hai fatto male
a nessuno … io neppure, e tutti e due siamo qui alla Petrusa.
- Ma iu dintra e vossia
fora.
- E la differenza non è
poca … Io il carcere comincio ad avercelo dentro, ed è peggio. Una persona
intelligente quando comincia a non capire finisce in un carcere dell’anima da
cui nessun giudice della libertà è in grado di farti uscire.
- Capisco.
- Su col morale. Dai
nostri due diversi carceri dobbiamo uscire al più presto, Vita’.
- Sissi.
Torno a Bovo Meluccio e subito si
ingolfò nello studio delle carte. Noiosissime quelle della Mangoni.
Impenetrabili quelle di Aurelio. A dire il vero, l’interesse per gli appunti di
Aurelio veniva anche dal gioco di rintracciare nel computer i file cancellati.
Il “temp” non veniva pulito da Aurelio, che per di più usava trascrivere mille
volte le poche briciole di un velleitario memoriale autobiografico che non finì
mai: il ritrovamento di appunti scritti e cancellati consentiva sorprese che
una qualche intima soddisfazione la destavano. Come in un giallo: vari indizi
che potevano portare alla scoperta dell’assassino. Del resto, per Aurelio un
assassino c’era stato davvero. Ora Bonadies diceva di averlo scovato. Meluccio
era convintissimo del contrario. Scoppiava un contrasto fra due intelligenze:
quella poliziesca e caina e quella libresca. Quale avrebbe vinto? Meluccio
tornava ad avere fiducia in se stesso.
Non v’era ombra di dubbio: bisognava
indagare tra le ispezioni di Aurelio per trovare le orme del futuro assassino.
E due erano le piste: quella ovvia della mafia che Mangoni prima ed ora, con
sicumera, Bonadies ritenevano foriera della morte dell’ispettore e quella
tenebrosa ed inafferrabile che Meluccio e, a ben vedere, il ministro dall’epa
incommensurabile, pensavano doversi scandagliare.
Di ispezioni pericolose, Aurelio ne
aveva fatte non molte ma sufficienti a procurargli l’esecuzione o da un
versante o dall’altro. Le prime erano incolori, ma qualche sintomo e qualche preoccupazione
vi si annidava. Guardiamo, ad esempio, la prima di una triade di verifiche
fatte a strane banche ebree di Milano. Aurelio vi aveva notato strani giri di
assegni. Aveva contestato: «l’azienda consente il pagamento, per contanti, di
assegni circolari di altrui emissione». Assegni di cui al momento
dell’ispezione non si sapeva o non si voleva svelare il beneficiario. Aurelio
citava il caso «dei valori cambiati a certo sig. Sandro Vercelli le cui firme
sulle diverse distinte di presentazione risultano palesemente difformi.»
Meluccio aveva cercato, e trovato dopo
non poca fatica tra carte impolverate, quel vecchio “rapporto ispettivo”. In
moduli ristampati nell’aprile del 1971. Con foderine color cenere, rilegatura
con nastro marrone, incuriosì molto Meluccio l’antico elaborato ispettivo della
“Banca d’Italia – Ispettorato Vigilanza sulle Aziende di Credito”. Si parlava
della “visita effettuata dal 5.10.1971 al 28.1.1972” all’azienda di credito
Pincherle-Levi & CC. – Spa – Milano”. Quella banca non esiste più:
assorbita da una popolare lodigiana, che da piccola banchetta, per sostegno
della banca centrale, oggi domina il mercato italiano e si è espansa anche tra
le latebre misteriose della finanza siciliana – quanto pulita, non si sa. Forse
nei 35 fogli A4 il mistero della morte di Aurelio.
La lettura deluse molto il settantenne
scrittore. Ingenuo il dire, inelegante l’accusa, insignificante il contenuto.
Si vedeva lontano un miglio che Aurelio non sapeva fare altro ancora che
sciommiottare il burocratese della vigilanza bancaria. Il “pro-memoria per il
signor governatore” era particolarmente striminzito e disadorno.
L’aristocratico Carli l’avrà accantonato con un gesto di annoiato sprezzo.
Eppure la banchetta era peculiare:
posseduta da una famiglia ebraico-egiziana, aveva potuto combinare circuiti
finanziari i più conflittuali dell’epoca. La pingue finanza araba, quella degli
emirati, la finanza che si denominava dal dollaro e dal petrolio messi assieme,
i petro-dollari, e l’acume bancario ebreo, senza patria, schivo persino,
tutt’altro che sionista, si coniugavano quasi in un sottoscala di via Verdi a
Milano. Le armi acquistate dall’Egitto, prima durante e dopo la guerra dei sei
giorni, si pagavano tramite lo sportello giudaico di Milano. Quei micro
banchieri di padre ebreo e di madre egiziana consentivano una saldatura
finanziaria, diversamente impossibile. Il gioco degli assegni circolari - una
concessione tutta eccezionale che la Banca d’Italia aveva dato a ristoro dei
danni della persecuzione razziale del fascismo – permetteva traslazioni in
dollari tra aree addirittura in guerra. Aurelio confessa nelle sue manie
autobiografiche di non averci allora capito nulla. Il gioco degli assegni manco
lui l’aveva scoperto. Era stato un suo collaboratore napoletano, e lui, da
siciliano, l’aveva in gran sospetto e in gran dispitto.
Il rilievo passò del tutto inosservato,
l’ispezione fu archiviata senza lasciare traccia alcuna. C’era dunque da
perdere tempo se si avevano uzzoli polizieschi e si voleva là rinvenire chissà
quale arcano che portasse all’avvelenamento del povero ispettore.
Grande importanza, invece, annetteva
Aurelio a questa esperienza milanese. Il suo primo incontro col mondo ebraico
fu per lui un grosso flop. Non ne aveva capito molto, di quell’intrecciarsi di
conti correnti passivi, di afflussi di mezzi illiquidi, di assegni circolari
trattivi sopra e di ritorno degli assegni a chiudere un circuito apparentemente
inutile. Molto proficuo, però per la banca. Gli ebrei-eziziani sapevano
ricavarne un conto economico pingue che il povero Aurelio aveva descritto al
suo governatore come “soddisfacente” per l’equilibrio che si riusciva a
conseguire tra costi anche elevati nella raccolta e ricavi più che compensativi
rivenienti dai servizi e soprattutto dalle provvigioni e commissioni.
Anzitempo, quel malconcio sportello del sottoscala prefigurava la banca ideale
per la Vigilanza di Roma: scarsa raccolta, impieghi accorti e tantissima
intermediazione finanziaria di natura non creditizia.
Restava, però, una lezione illuminante
per Aurelio. Dopo si ricorderà del tipo particolare del servizio che gli ebrei
denominavano “cambio assegni”. Non era il solito gioco di assegni circolari
emessi dopo accrediti di assegni bancari post-datati. Non era ciò che in gergo
si definiva pudicamente “autofinanziamento delle imprese”. Era compiacenza,
cointeressenza, compartecipazione agli utili dell’istituto bancario. Erano
tempi di separatezza tra banca ed impresa, ed i banchieri aggiravano l’ostacolo
con i giochi del giro di assegni circolari che permettevano aumenti di capitale
sociale delle industrie, anticipazioni per acquisto delle armi da parte di
intermediari collusi con entrambi gli stati in armi - egiziani o ebrei che
fossero - primi esperimenti del riciclaggio in grande e con circolazione extra
nazionale (extra corporea, la chiamava un grande giornalista) del denaro
sporco.
Fu Sarcinelli – bisogna dirlo –
che per primo comprese il forte elemento inquinante del “cambio assegni”.
Decise di stroncarlo ma a modo suo. Sarcinelli fu il tecnocrate della Banca
d’Italia sicuro che godesse di una extraterritorialità giuridica. Considerava
giuristi, diritto e giudici l’orgia del formalismo sterile. Vi lasciò le penne
come tutti sanno. Pochi, però, sono quelli che si sono resi conto che
l’incidente penale del tecnico di Via Nazionale è più legato alla stroncatura
del giro di assegni (a vuoto, per traslazione di denaro sporco, e via di questo
passo) che alla vicenda Sindona (come pretendeva il giudice Viola) o alle
storie del caso Rovelli (su cui però accentrò la sua devastante attenzione il
giudice Alibrandi). Con circolari e numeri unici, Sarcinelli tentò di impedire
alle banche la copertura ai falsi movimenti monetari. Non è che il gioco fosse
ancora di precipua importanza. Marpioni milanesi avevano raffinato il gioco; si
erano dati ai time-deposit, a rimbalzi con l’estero, specie con la Svizzera,
per impedire riscontri impertinenti. Tuttavia, il disposto di Mario Sarcinelli
andava a colpire le minuscole banche, le cooperative e quelle importanti –
quasi tutte – erano democristiane, si legavano alla Federconsorzi, godevano
della protezione dei potenti dell’epoca, dei cavalli di razza D.C. come allora
si diceva. La supponenza di Sarcinelli ebbe il tonfo che ebbe. Aurelio si
scontrò e duramente con Sarcinelli. Veniva dall’ispezione di una cassa di
risparmio romagnola. Il piccolo ispettore siciliano si era imbattuto con il
potente ICCRI, quello degli assegni speciali con i quali si erano profusi i
fondi neri delle casse di risparmio milanesi e nazionali. Non aveva avuto
remora a stigmatizzare compensazioni di partite tra la periferica cassa ed il
proprio istituto centrale. Si era messo in testa di soppiantare il fisco. Aveva
censurato comportamenti fiscali non ortodossi. Aveva avuto a ridire sulla
politica dei tassi passivi ed anche su quelli attivi. Aveva ficcato il naso nei
rapporti di lavoro. Non gli erano piaciuti incarichi remunerativi a figli di
amministratori. Criticò la politica di bilancio. Tutto questo indignò
Sarcinelli. Definì ogni cosa “bolle di sapone”. Che importanza ciò poteva avere
se «l’azienda veniva definita patrimonialmente robusta», se «ottima era la
situazione di redditività». Il tecnico gongolava, l’ispettore – ormai
ideologicamente inquinato – contestò. Fu arrogante. «Se lei considera bolle di
sapone, il peculato, il peculato semplice, il peculato mediante distrazione …
vuol dire che abbiamo visioni diverse. E siccome faccio parte della chiesa che
invoca il centralismo democratico, le consento come mio capo di avere
un’opinione diversa dalla mia.» Si adirò davvero Sarcinelli. Apostrofò in malo
modo Aurelio, lo definì sarcasticamente: Pangloss. E soggiunse: «Sa quanti sono
i magistrati? Due mila? Tre mila? Ebbene io non consentirò a costoro di
disintegrare le banche. Se le banche vanno bene è mio dovere difenderle, se
vanno male, è mio dovere correggerle.» Qualche mese dopo l’uomo che si credeva
al di sopra dei giudici finì malinconicamente a Regina Caeli … per pochi giorni
s’intende.
Qui Meluccio cominciò a distrarsi per
noia. Erano faccende tecniche in cui non riusciva a districarsi. Aurelio vi
annetteva molta importanza nei suoi spezzoni autobiografici. Emergeva
solo che un giovanissimo ispettore, preso dalle zolfare o dalla terra di
Racalmuto, veniva catapultato nei gangli dell’alta finanza senza che gli si
fornissero competenze professionali. La Banca d’Italia, eccelsa negli studi
economici, risultava molto fragile nei campi della ragioneria e soprattutto
della più avveduta tecnica bancaria. Era il colmo. Aurelio dovette farsi le
ossa da sé, da autodidatta, in un contesto competitivo dovendo fronteggiare
colleghi incolti quanto lui ma decisi a far carriera. Si bleffava, si
strombazzavano risultati ispettivi eclatanti. I capi ci credevano o facevano
finta. A loro importava solo la statistica: il 10, il 20 per cento in più
dell’anno precedente, in relazione al numero assoluto, in relazione alla massa
fiduciaria ed altre corbellerie del genere che acquietavano lo stato maggiore,
intento ad altre preoccupazioni, di sicuro più nobili. Il nuovo ispettore capo
lanciava i giovani: costoro s’industriavano a far fare bella figura alla
Vigilanza, sia come sia. I vecchi erano in difficoltà: erano disposti anche
loro a barare, ma mancavano di elasticità mentale, oltre naturalmente ad essere
privi di ogni idoneità professionale. Il mondo della finanza correva a mille
all’ora in Italia – a Milano a velocità supersonica; la vigilanza arrancava con
frustri rilievari in cui emergeva la drammaticità di “conti d’ordine” in
disordine, come Aurelio andava celiando.
Furono approcci al mondo delle banche di
un ingenuo dipendente venuto dalla Sicilia, da famiglia non adusa alle tecniche
dei movimenti dei capitali, appartenente ad un mondo contadino e zolfataro ove
il denaro ha senso quale rado elemento di scambio, non certo di ricchezza
finanziaria e speculativa. Comprensibilissimo lo smarrimento di Aurelio. Tentò
una mimesi professionale. Impacciato nel parlare, evitava per quanto
possibile il dialogo. Diceva che nella banca v’era un dio ascoso – anzi,
riferendosi a Mammona, un demone ascoso. Bisognava far silenzio per scoprirne
gli intimi afflati, sicuramente pestiferi. Del resto, il mondo che indagava era
quello dei numeri. Occorreva saperli leggere.
Fu in un’altra banca d’ebrei milanesi
che acuì il suo intelletto numerico. Vi era una doppia contabilità. Capì
davvero cosa significasse. Vi indagò dentro con acume. Fece un solo rilievo:
amplissimo e consendatamente tecnico. Fece sensazione. Divenne un mito tra i
suoi colleghi giovani che annaspavano anche loro in un mondo che non gli
apparteneva. Assurse a maestro e costrinse quelli della Vigilanza a leggere
Onida, ad infarinarsi di scienze aliene quali l’economia aziendale, quale la
ragioneria. I superiori furono costretti ad apprezzarlo. E lo sfruttarono in
ispezioni cattive ed astiose. Forse lì lo condannarono a morte.
Aurelio, contadino mancato,
ispettore di vigilanza bancaria inventato, subì la sua metamorfosi politica
durante quell’ispezione milanese che lo portò ad indagare sulla contabilità
nera delle banche. A quell’epoca tutte le banche avevano i loro conti neri; si
chiamavano sussidiari del conto economico. Lì facevano affluire proventi
occulti e da lì prelevavano emolumenti riservatissimi. Non è che non ci fosse
contabilità: le banche non possono permettersi di omettere minuziose evidenze
di ogni loro fatto di gestione. Se danno una regalia, la devono contabilizzare.
L’occultamento consiste nel tenere conti che apparentemente significano una
cosa, in realtà seguono minuziosamente ma cripticamente gestioni cosiddette
parallele. Fu quella l’epoca in cui si dava ai depositanti più cospicui il
“sottobanco”. Enti statali, enti pubblici, grandi imprese dirottavano cospicue
giacenze liquide presso gli istituti di credito a tassi irrisori. “Sottobanco”
l’azienda bancaria erogava ai politici, agli alti dirigenti, agli intermediari
integrazioni dei tassi prelevandole dai conti sussidiari del conto economico.
La Banca d'Italia non solo sapeva ma voleva sapere con informative riservate: I
giovani ispettori del momento – ed Aurelio in testa – si ribellarono. Dissero
che non era conforme alla legge bancaria che invocava per le aziende di credito
una “funzione di pubblico interesse”. Quella volta vinsero scavalcando persino
gli umori del governatore dell’epoca. Ma era effimero moralismo.
Alla Banca d’Italia cambiava la
filosofia del credito: non si intendeva intervenire nella gestione del credito.
Carli era perentorio: niente controllo qualitativo del credito. Si andava verso
una visione aziendalistica: bastava che una banca fosse patrimonialmente sana,
redditivamente valida, con equilibri finanziari per doverla non solo
rispettare, persino difenderla dal fisco e dalla magistratura. Non si può dire
che Sarcinelli fosse in disaccordo. Le “funzioni di pubblico interesse” –
locuzione derisa – andassero pure al diavolo: la vigilanza non ne doveva tenere
conto. Gli ispettori si astenessero da giudizi di valore che sapevano di
politica o peggio di moralismo. Aurelio dissentiva.
La sua folgorazione avvenne appunto in
occasione della seconda ispezione alla banchetta ebraica milanese. Scoprendo il
sussidiario del conto economico, Aurelio s’imbattè in una strana operazione. Un
esito di poche migliaia di lire per l’acquisto dei diritti di opzione di una
immobiliare entrava ed usciva dal conto economico in modo davvero strano.
Occorse del tempo per capire che in un primo momento l’esigua cifra veniva iscritta
in bilancio quale spesa a copertura dell’esito di cassa; subito dopo si
iscriveva all’attivo una partecipazione di qualche milione che trovava
riscontro a rendite come sopravvenienza attiva.
Meluccio mandò al diavolo Aurelio: che
cosa volesse dire con quelle annotazioni nel suo memoriale non si riusciva
davvero a comprendere. Lo scrittore, d’altra parte, era tutto all’infuori di un
ragioniere. Per fortuna Aurelio si mise a raccontare. Un muratore negli
anni Sessanta, scarpe grosse e cervello fino, capì che le isole cessavano di
essere luoghi di pena e si proiettavano come luoghi turistici d’alto bordo. Il
nostro imprenditore si accaparrò mezza isola d’Elba. Ebbe naturalmente
bisogno di assistenza finanziaria: la piccola banca milanese gliel’accordò di
buon grado. Gli fece costituire un’azionaria a base familiare: marito e moglie,
cioè. Accordò un’anticipazione su titoli. Vennero pignorate, in altri termini,
le azioni in cambio di una decina di milioni. Vai a vedere che vi si annidava
l’insidia dell’art. 2352 del codice civile. Occorreva stilare una “convenzione
contraria” per mantenere il diritto di voto in capo ai proprietari. Ma ill
muri-fabbro milanese chi poteva salvaguardarlo in un campo giuridico così
sofisticato? Alla prima chiusura d’esercizio, il bilancio fu tutto fatto dalla
banca: perdita totale del capitale, azzeramento e ricostituzione entro i minimi
legali. Si chiese apporto di denaro fresco all’imprenditore-speculatore
dell’isola d’Elba. Questi, ovvio, era in difetto di liquidità. (Meluccio si
incantò alquanto di fronte al linguaggio tecnico di Aurelio). La banca fornì
altri fondi, questa volta con un prestito chirografario. Forse scattava la
fattispecie penale di cui all’art. 2358 codice civile in combinato disposto con
l’art. 2630 codice civile. Era, però, epoca in cui in Italia il diritto penale
bancario era tabù per i magistrati: segreti d’ufficio, segreti bancari e
soprattutto incompetenza avevano creato una zona franca nello specifico settore
penale. Libertà di reato, dunque. Alla Banca d’Italia si ritenevano quelle
infrazioni estranee al rispetto della legge cui doveva presiedere: non si
trattava di “legge bancaria”. Guai all’incauto ispettore che avesse osato
addentrarcisi. Neppure Aurelio osò, ma dopo ne ebbe rimorso. In effetti mancava
di cultura giuridica specifica e la Banca d’Italia si guardava bene
dall’addestrare in tal senso i suoi ispettori di vigilanza. Altre le
incombenze, altre le culture.
Il giochetto dell’azzeramento del
capitale per effetto delle spese eccedenti i ricavi, cosa fisiologica in
un’impresa in fase di avviamento, si ripeté per due o tre esercizi consecutivi.
Il debito bancario aumentava a dismisura. Alla fine venne detto che non si
poteva più aumentare il rischio stante il divieto della Banca d’Italia in
ordine ai fidi eccedenti. L’imprenditore buttò la spugna. La banca fece
valutare al borsino di Milano i diritti di opzione. Se li comprò. Mezza isola
d’Elba entrò nel patrimonio della banca, o meglio dei proprietari della banca.
A carico del conto economico ufficiale andò a finire il credito sotto veste di
“sofferenza” ammortizzata. Si iscrisse una posta evanescente all’attivo come
partecipazione immobiliare. Il costo dei diritti di opzione sconfinò nel
“sussidiario” del conto economico. La ripulitura finale passò attraverso gli
storni di cui si è detto. Un capolavoro di ingegneria contabile, insomma.
Comprensibili le reazioni del povero
muratore milanese: istanze al giudice civile, denunce alla procura. Niente di
niente. Lettere e proteste ai giornali, alle autorità, alla Vigilanza: niente
di niente.
Esasperato, maniaco, grafomane, il
malcapitato dirottò per il Quirinale e l’inondò di ricorsi impropri, di
rimostranze e poi di gravi sospetti, di insinuazioni irriverenti, di vilipendi,
di improperi, di calunnie, di inammissibili accuse. La bonomia partenopea
dell’inquilino dell’epoca è cosa notoria. Educate risposte all’inizio, inviti
alla moderazione in seguito, quindi richieste ufficiali di chiarimenti, intese
telefoniche, comprensione verso i ricchi e ossequiosi ebrei meneghini.
Interessamento del CSM. L’inghippo finì al giudice più giovane e più brillante.
Era bello, facondo, ricevuto dai salotti bene di Milano. Anche la grande
scrittrice lo teneva in considerazione. Subirà quel giudice dalla scrittrice la
più sferzante invettiva della storia giudiziaria italiana: «giustizia
all’italiana maniera, che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei
potenti». Ma tutto con bonomia, quasi con ammiccamenti. Il giudice finirà,
poveraccio, crivellato dalle lupare della ‘ndrangheta.
Questo, però, molto dopo. In quel tempo,
rasserenò il Quirinale: si trattava di uno speculatore edilizio andato a male.
Lo si poteva considerare alienato di mente. Emise il provvedimento cautelare
gradito alle alte sfere: il defraudato dell’isola d’Elba finì internato in un
manicomio.
Aurelio ne fu scosso: non fu capace però
di ristabilire un briciolo di giustizia. Scrisse: «appare opportuno adottare
d’urgenza provvedimenti cautelativi». Furono parole buttate al vento.
Meluccio si chiese come mai faccende del
genere siano sempre finite sotto totale silenzio: a motivo della complessità ed
inestricabilità tecnica si rispose. Non ne era del tutto convinto. Il potere sa
essere potente, i miseri sono troppo soli per avere giustizia. Finiscono
persino alla gogna. Il muratore di Milano tentò la speculazione dell’isola
d’Elba. Quasi vi riusciva. Altri più astuti, più integrati con coloro che
comandano ebbero la meglio. Così vanno le cose di questo mondo. Il piccolo
racalmutese poté solo capire. Gli venne consentito. Era già molto.
In quell’ispezione, Aurelio si scontrò
con un’altra realtà, lontana oltre mille e cinquecento chilometri, altrettanto
traumatica, egualmente significativa. Atta a turbare, sconvolgere e ribaltare l’ideologia
di Aurelio. Era stato molto cattolico, poco praticante, però. Si portava dietro
l’impalcatura di valori etici, politici e sociali di un’infanzia vissuta in
paese, plasmata da pii genitori, preti tradizionalisti, monache e bizzoche
addette alla dottrina cristiana dei bambini. Eretico chi non credeva a Dio ed
ai santi; soprattutto chi si atteggiava a comunista.
Tra Stalin ed il demonio nessuna
differenza; Hitler un illustre sconosciuto, Mussolini un grand’uomo amico della
chiesa. Migliori di tutti De Gasperi e l’on. Ambrosini. Reminiscenze infantili
sbiadite, eppure oltremodo condizionanti.
Ora avvenne che durante
quell’ispezione un grave fatto di sangue si consumasse nel lontano paese
natale. In piena domenica, in un pomeriggio primaverile, quando frotte di
paesani col vestito della festa passeggiavano lungo il corso …..
[ ………………………………………………………………………………..]
Il prosieguo dopo, a suo tempo e luogo …. Se dio ed i
troppi miei anni me lo consentiranno.
Grazie comunque!
“Fa alta letteratura
di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro
l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro
l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo
dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può
leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo“Meridiani”. Se
il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità
esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su
Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella del Cinquecento,
quella di prima e quella di dopo - è solo uno scisto della storia ma tutta
quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel
su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo
trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento
racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le scansioni
della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un
completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.”
[Da “QUESTIONI E
PROBLEMI DELLO SVILUPPO DEMOGRAFICO DI RACALMUTO NEL XVI SECOLO”
di Calogero Taverna : conferenza
del 18 giugno 1995alla Fondazione Sciascia, l’unica consentiagli dai maggiorenti
sciasciani, racalmutesi e non].
Postfazione finale
Uomini, cose, vicende,
racconti omonimie sono tutti totalmente immaginari: sogni di un vecchio
demente. Mica lo si può scomunicare per questo. Le vicende più oscene
rassomigliano più a sogni erotici, delizia di ermeneutica esistenziale di
psicanalisti di Vienna e dintorni, che davvero confessioni criminali. Se
risorge questo o quello, potrebbe ravvisarvi la parodia di qualche suo
gongolante racconto. Ma per quanto ne so, tutti costoro sono morti e sepolti da
tempo: come possono reagire? Ma quando lassù (molto improbabile) o laggiù
(probabilissimo) mi quereleranno presso il padre eterno, o mi giubileranno
vieppiù (bello ‘sto termine vetero-burocratico) presso Lucifero o Mammona
(molto più pertinente alla retribuzione del mio lavoro) o Mefisto (demone a me
caro per quella faccenda del Faust, dato l’approssimarsi del mio ottantesimo
anno di vita), oppure un demone blasfemo (corteggiavo mia moglie sussurrando
con Heine: è il giorno del giudizio, i morti risorgono all’eterna
gioia o all’eterno dolore: Abbracciati insieme non ci curiamo di nula, né
di inferno, né di paradiso).
Suppongo che le
disincantate Mariucce del mio paese non rimarrebbero insensibili a siffatti
afflati romantici. Certo non detti da un vetero-vecchietto, quale oggi io sono.
Non temo Eros: io e Desario eravano considerati due monogami irriducibili dell’
Ispettorato Vigilanza di Bankit. Quanto agli altri, beh! Lasciamo perdere:
l’ora erotica in fin dei conti l’ha inventata un capitano di lungo corso,
finito a capo dell’istituto ispettivo.
Se continuo, va a
finire che disvelo il vero che ho tentano di dissimulare. Se qualcuno è ancora
vivo e si riconosce (cosa impossibile) in qualcuno dei sopra estesi apologhi
allusivi particolarmente sfottenti, per cortesia, non si inalberi troppo. Tutto
quanto è scritto qui è solo frutto di fantasia. Tutto è assolutamente
immaginario (volevo dire irrealissimo e uomini e cose e fatti sono del tutto
immaginari: Se qualcosa di vero dovesse emergere è per mera e semplice
coincidenza e da parte mia sottoscrivo le più ampie scuse). Ma non esagero?
Quello che è indubitabile è il fatto che inizio, prosieguo e fine di questo
ampolloso, insenso, vacuo raccontino, si esauriscono oltre un settennio fa.
Come si dice sono cose datate e superate dallo sconvolgente decorso di
quest’ultimo decennio. Berlusconi se ‘nnè ghiuto. V… aspetta la rivincita.
Grassone suona la grancassa a Londra. Qualche arcivescovo è sepolto. Qualche
cardinale resiste ma non conta più niente. Un paio di banchieri si sono fatti
suicidare. I cambi ora non sono né fissi né flessibili. Quattro o cinque
Governatori sono ruotati, taluni melanconicamente, tal’altri gloriosamente,
tal’altri ancora senza infamia e senza lode, uno scandalosamente infilzato dai
poteri forti – adirati per il suo lungimirante vade retro satana rivolto
alla moneta unica, un signorino non autoctono è passato a miglior vita
all’estero.
Ed allora perché
questo racconto? Perché non è consentito ad un vecchietto, privo di lussuriose
rimembranze, di raccontarsi immaginarie oscenità finanziarie a suo uso e
consumo? O orecchie di caste fanciulle non leggetemi: vi annoiereste e forse un
tantinello arrossireste. O voi preti, spesso birichini, leggetemi, divertitevi
e poi anche scomunicatemi: per la bruciatura però non c’è più il braccio
secolare cui consegnarmi.
Ogni riferimento a
fatti e persone reali è meramente casuale. Questo è sicuro.
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