mercoledì 11 aprile 2018

L’ARCHEOLOGIA DI …. REGALPETRA


 


 


Sull’archeologia di Racalmuto (l’archeologia di Regalpetra) tanto ormai si è scritto, tanti vincoli sono stati apposti (magari in località sbagliate, magari invertendo le particelle catastali interessate), frettolose ricoperture (ma non tanto da evitare le spoliazioni dei tombaroli) di affioramenti di arcosoli (confusamente designati come databili nel periodo “greco-romano-bizantino” – come dire in mille e cento anni con in mezzo la nascita di Cristo) si sono impunemente potute perpetrare, e così via di seguito in un cahier de doléances chissà quanto lungo.


 


Ma il desolante risultato è quello di una Racalmuto archeologica ignota alla scienza e solo appiglio a locali eruditi (compreso chi parla) per congetture le più sballate e le più cervellotiche che si possano immaginare: e dire che questo centro dell’omonimo altipiano può considerarsi un archivio del vivere dei sicani (molto di più della vicina e reclamizzata Milena), uno scrigno di testimonianze micenee, greche, romane, bizantine ed proto arabe. Ora l’ing. Cutaia dimostra inconfutabilmente che la ceramica araba normanna era di casa a Garamoli. Il sottoscritto è certo della presenza di ceramica protoaraba sotto le torri del Castello Chiaramontano. Il padre Cipolla - su cui ci intratterrà per la prima volta in modo serio lo scrittore compaesano Pierino Carbone – ha rinvenuto nell’atrio del Castello un sorcofago romano del IV secolo dopo Cristo ed un coperchio bizantino di un sarcofago coevo evidentemente ancora non rinvenuto.: segni evidenti di un continuum cimiteriale romano-bizantino nei prati poi edificati da Giovanni III del Carretto ultimo barone di Racalmuto (ante 1560).


 


Sempre, chi parla, per la sua passionaccia per l’antico Racalmuto, ha scoperto una necropoli bizantina al confine tra Vircico ed il Ferraro. Una strana tomba, a mezzo tra la tomba sicana tipo Fra Ddecu e quella a tholos d’influenza micenea, resta negletta in contrada Ciaula: zona quest’ultima di discarica comunale pur annoverando nel raggio di 500 metri questa testimonianza pre-micenea, vecchie miniere di zolfo abbandonate ove si rinvennero nell’Ottocento quelle Tabulae o Tegulae sulphuris che non diedero gloria al rinvenitore avv. Picone (ma al già illustre Mommsen, sì) e un magnifico esemplare di mulino ad acqua, operante già nel 1576, capolavoro di ingegneria idrualica.


Le tombe a tholos disseminate alla Noce sono state fagocitate dalle casine dei nuovi ricchi o dei nuovi portenti letterari; i ruderi romani della Menta e di Culmitella volatilizzati; i manufatti arabi di Musciarà (contrada Culmitella) deperiscono ignoti e maltrattati; le varie necropoli sicane del Castelluccio, del Serrone, del Saraceno, della Scorrimento Veloce sparite (c’è chi dice perché dopo i bulldozer arrivano camion targati RM e partono – si sussurra - per ripostigli di primari ultra locupletatisi); una razzia postbellica di reperti funerari di Grotticelle, Judì, Casaliviecchi, Ruviettu, Sirruni servirono ad una indebita assoluzione di sequestratori di persone, data la passione per le antichità di un piccolo giudice aliunde, poi, osannato; apposto un vincolo archeologico di primo grado alle Grotte di Fra Ddecu, invece di segnare per il vincolo le particelle catastali a valle (ove il sig. Palumbo reputa vi sia una frequentazione umana sicana, quindi sicano-micenea, quindi greca, e poi romana, bizantina ed araba), si vanno a segnare quelle a monte, archeologicamente neutre, danneggiando gente e terre sterili di reperti ma valide per l’agricoltura; una fontana araba dell’anno Mille al Vozzaro si è potuta salvare solo per la intrusione del meritevole Giacomino Lombardo, ma dopo rapaci coltivatori diretti stanno rastremando l’area circostante per improbabili coltivazioni agrarie – ma la Cee ci crede; le colture d’alabastro stanno tutte sparendo perché al contempo occorre dimostrare aree sconfinate produttive all’ex AIMA; chi autorizza lo spietramento non sa che autorizza il non archeologicamente sterili ma perché si tratta delle zone nobili del paese (il comunismo sarà crollato, ma lo sfruttamento delle classi ingenue continua e l’eccezione per chi è di riguardo pure); in cambio i BB.CC di Agrigento ci tengono vincolata la contrada di Pietralonga (che non sta a Racalmuto ma a Castrofilippo; e così godiamo di libertà edilizia noi ed i castrufilippisi).


 


Ma abbiamo da lamentarci soprattutto perché ancora una lira dello sperperatissimo denaro pubblico deve essere erogata per la ricerca archeologica a Racalmuto. Se l’ENEL, che costruisce ad onta del diniego della Commissione edilizia racalmutese addirittura allato delle Grotticelle che Biagio Pace considerava un ipogeo cristiano, mette a nudo tesori dell’era bizantina e qualche incauto fa la debita denuncia, il risultato è stato che l’incauto si è vista bloccata la sua costruzione, e i ruderi – molto residui, sono stati risotterrati con la speciosa argomentazione che non vi sono fondi (leggere per credere l’intervista della Fiorentini a Malgradotutto).


Quando la giovane e valentissima e molto proba nuova Vice Soprindentente, dott. Musumeci, sensibilizzata da più parti, ebbe ad includere per la prima volta (sottolineiamo: prima volta) Racalmuto nel piano delle località in cui iniziare scavi ufficiali, ebbene l’assessore regionale di A.N. Granata ha denegato i miserelli cento milioni per incapienza di fondi (ma bastava una piccola scrostatina alle miliardarie erogazioni ai comuni amici) e per ritardo nei termini di presentazione (ammazza dove arriva il potere dei burocrati!)


Scriveva il grande storico racalmutese Raffaele Grillo nel 1935 nella rivista «Bollettino dell’istituto storico e di cultura dell’arma del Genio» Roma Anno I n. 2, agosto 1935 – XIII, pag. 51:


«Un dotto e studioso, Pietro Mantia, racalmutese, ha rinvenuto in contrada Roccarossa interessanti materiali neolitici. La notizia di questo rinvenimento, mi è stata comunicata dal sansepolcrista comm. Avv. Giuseppe Pedalino che pubblicamente ringrazio.» Che ne è stata di quella contrada? Un selvaggio sfruttamento del pietrisco l’ha ormai totalmente rastremata. Il generale in camicia nera si guardò bene dall’intervenire; il sansepolcrista aveva a cuore solo le chiesuole del Paese. Già le chiese? Mi si obietterà che tantissimi fondi comunitari et similia sono stati profusi per la ricostruzione cadente delle chiese. E’ vero! Francamente però avremmo desiderato che a S. Maria si lasciasse intatta, se non si era capaci di decifrarla, l’esoterica e demoniaca invettiva in versi che vi era e che noi abbiamo filmato a futura memoria 13 anni fa; che a S. Anna si salvaguardassero le sepolture dei miei  antenati e di quasi tutti i racalmutesi DOC; che le “carnarie di lusso” di pietro d’Asaro, di lu parrinu Agrò ed altri di cui sappiamo dai Rolli della Matrice venisse non profanate e conservato anziché venire ricoperte di cemento; che si salvaguardasse la «coniuncta et collegata” ecclesia canonicale di S. Margherita (che il pio sacerdote e vicario foraneo don Bondì aveva bene restaurata nel 1608); e soprattutto che si recuperasse la storica cappella palatina dei carretteschi a lu Cannuni (appunto).


 


 


Per fortuna abbiamo un signore di Barcellona Pozzo di Gotto, ma sposato felicemente con una racalmutese DOC che ha a cuore le sorti degli antichissimi sicani di casa nostra. Attorno al 1995 ebbe a portare alla caserma dei carabinieri una “fazzolettata” di reperti; ne ebbe copia del verbale di consegna (purtroppo andata smarrita); di quei reperti oggi nessuno sa più nulla.


Ma in seguito il Calderone ha avuto la ventura di immettersi in un profluvio di materiale archeologico che trattori e bulldozer andavano scompaginando: ne ha fatto una diligente ed approfondita silloge e ha consegnato il tutto ai BB.CC:


Eccone, in appendice l’inventario. Possiamo considerare Orazio Calderone di Barcellona Pozzo di Gotto il padre dell’archeologia racalmutese, che – ne siamo certissimi assurgerà a rilevanza platenaria per quanto ha tratto con i sicani, i sicani.micenei, e dopo  i bizantini.


Per questi ultimi Racalmuto ha interessato moltissimo il più grande bizantinista, il francese André Guillou: il tesoretto trovato in località montagna in un fondo bene individuato rivelava effigie di imperatori bizantini.    Quelle monete ora giacciono, confuse e nascoste, nell’eternamente chiusa Sala IX (Antonino Salinas) del Museo di Agrigento. Ai racalmutesi – salvo che non siano racomandatissimi – non è dato di vedere le monete dei loro antenati racalmutesi. Al Comune non sono state fornite neppure le fotografie. Ma il Comune le ha mai chieste? Ne sa forse qualcosa?


Nel 1879 l’ing. Delle ferrovie di Caltanissetta riusciva a salvare alcuni reperti sicani rinvenuti a Racalmuto (in contrada Pietralonga, dice impropriamente). Ebbe ad inviarli ad un precisato Museo ed oggi non si è più in condizione di ritrovarli.


Dovrà finire così con i reperto del Calderone? Riusciremo a convincere i BB.CC. che è meglio custodirli in Antiquarium già disponibili quali sono gli ultra idonei locali della Fondazione? Non mi si venga a dire che tutti i fondi spesi per la Centrale, quelli (120/milioni) erogati per la gestione (a quanto pare consistente solo in un lauto stipendio ad un Vice-bibliotecario straniero il cui unico merito non vorremmo che fosse la sua agnazione magistratuale), devono servire solo al mesto cerimoniale di una cattedrale nel deserto, un silente mausoleo al più grande figlio di Racalmuto.


 


Grande è il valore scientifico dei reperti del Calderone:


Noi non ce ne intendiamo, ma che a S. Bartolomeo-Garamoli vi siano 4 pestelli della cultura Pantalica Nord significa che siamo attorno al tardo XIII-IX secolo  , in epoca quindi di comprovata presenza micenea. Cade la mia ipotesi che i sicani dopo il XIII secolo si potessero essere ritirani nelle montagne interne per paura delle genti di mare: resta invece comprovata la mia tesi alternativa e cioè che le caratteristiche tombe a tholos, pur esistenti, fossero state manomesse fino a renderle irriconoscibili. Invero sappiamo che talune di codeste tombe esistenti nei dintorni sono state fagocitate, come insinuato in esordio. Se il Calderone dovesse avere ragione circa l’appartenenza della rinvenuta amgdaloide alla cultura campignana, allora bisogna retrodatare all’epoca neolitica la presenza umana organizzata nella zona più esposta del nostro paese. Il peso da telaio greco si aggiunge alle tante monete, ai tanti pegasi, (ai cavalli alati superdotati per intendersi dell’avv. Burruano) che tutti sappiamo molto presenti nelle finitime zone dei nobili, non toccate incomprensibilmente da vincoli archeologici.


Ma è alla Grotta di Fra Ddecu che troviamo di più e di meglio: vi sono reperti in ossidiana. Questo è di grande rilevanza archeologica; l’ossidiana – che giustamente il Calderone reputa di proveniente da Pantelleria e non dalla solita Lipari, comprova un assetto civile e commerciale dei nostri primitivissimi antenati davvero ragguardevole. Materia di studio dunque da rendere l’auspicato Antiquarium alla Fondazione una palestra di studio, un centro d’alta cultura, una grande possibilità di lavoro specializzato ai tantissimi laureati e diplomati racalmutesi che stanno a passeggiare (ciò evidentemente se per non essere “campanilisti” i nostri amministratori non pensino di assumere ‘stranieri’ magari di Enna). I falli fittili poi - diciamo sconciamente - attestano il culto della virilità che a Racalmuto è stato sempre imperante, senza obnubilamenti pervertiti.


Da questo convegno verrà fuori una sensibilizzazione dei nostri politici, di quelli regionali, di quelli provinciali e delle Autorità tutte – specie quelle di settore – ad essere tanto illuminati da comprare fra Ddecu, anche se lo chiede il consigliere Mulé; da accordare alla Soprindendenza un fondo adeguato anche per la negletta Racalmuto che è poi quello di Sciascia, nome di cui la Regione tanto si avvale per chiedere ed ottenere; da pensare a parchi letterari intestati a Sciascia ma per fiinanziamenti alla patria di Sciascia e non ad avvenenti attrici nissene?


Interrogativi ai quali siamo sicuri si daranno risposte positive. E questo auspicio è  anche la nostra conclusione.


 






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