PARTE PRIMA
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri periodizzanti
L’oggetto
della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale,
organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra
agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una
profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda
l’istituto podestarile.
Per
convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non
è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la
vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in
coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa
sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia,
ormai sterminata, sul fascismo.
Sono
criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali
e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce
è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista
definendola «funesto regime che è stato
una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]),
non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve
svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la
“rivoluzione fascista”.
Per
l’Ercole ([2]),
ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla
“marcia su Roma” al discorso del 3
gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle
“corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista -
dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23
marzo-28 ottobre 1922.
Ma
nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un
succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito
del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il
vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il
momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
“insurrezionale”, ‘violenta’, che non è
da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per
l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la
reiterata minaccia della cosiddetta seconda
ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei
gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione
Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe
stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed
effimeri» ([3]).
Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione
periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura
antifascista del dopo guerra. ([4])
In
campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una
svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre
1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto
allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni
sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per
il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il
dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si
sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])
In
campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo
cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina
ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi
del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag.
2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime
reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né
conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella
persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 -
cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è
persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo
sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una
ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri
decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])
Quanto
alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del
Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il
diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della
società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito
del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile
distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36,
1936-39, 1939-43.» ([8])
Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo
nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento
intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936
viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo
fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il
latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte
intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il
Lupo, ([9]) un
affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del
fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve)
trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele
Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel
primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di
Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra
nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si
definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in
periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e
verticale dove le autonomie e i
conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del
passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi
incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal
1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima
impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento
di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
* * *
Il
segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di
microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti.
Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto
significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica
storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», “sosta
estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione
istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto
qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926
il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini
sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno
della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione
dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del
regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata,
istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati
dei datori di lavoro e dei lavoratori ad
organi indiretti della pubblica
amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del
tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno
sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([10])
L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n.
1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni
del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro
per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che
consentiva ad un proprio capo-popolo uno
scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra
conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile
territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna
dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per
lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta
Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per
le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure
no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929
e nel 1934.
* * *
Il
1931 viene assunto come dies ad quem
scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della
legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al
1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e
dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo
dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per
impieghi pubblici di qualsiasi genere o
per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per
le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma
subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia
dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il
contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag.
2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario
del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in
effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica
dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto.
Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’
- come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva
tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano
locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha
dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio
arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire
‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ([11]).
Le
cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate
rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.
Il
24 gennaio 1924 ([12]),
con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei
sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per
un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il
18 maggio 1936 ([13]).
Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura,
praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese
sono in effetti cinque:
1°)
la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°)
il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo
podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°)
il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°)
la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata
in guerra nel 1940;
5°)
il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.([14])
Racalmuto prefascista
Dal
1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato
da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare
titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio
baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di
Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il
Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I
Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto
e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale
del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei
Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio,
dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero
economicamente e sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella
gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi
che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque
gli ottimati locali, i cosiddetti “galantuomini”, con la loro boria di nuovi
ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro
risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi
definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre
peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a
dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà -
trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto
si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale
segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che
hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a
Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino
Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi
Agrigento) il dott. Raffaele Rocco ([15])
partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di
miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in
«Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. ([16])
Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla “marcia su Roma”: avvedutezza degli
zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal
socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle
famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose
sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta costituita a
Racalmuto il 26 dicembre 1926. ([17])
Racalmuto
si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale
del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto -
Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett.
4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla
sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani.
Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo
greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio
(bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale:
Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao
Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame:
(negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio.
E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli
(negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.)
Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè
Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè
Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono
Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco -
Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore -
Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona
cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo -
Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu
Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci
Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli -
Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè
Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore;
Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello
Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode:
(negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone
Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè
Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio
d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore -
Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri:
Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari:
(fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca
ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a
vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo
Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti:
Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano
Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il
quadro economiche che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre
63 esercenti di miniere di zolfo (per
converso solo 4 esercenti di miniere di
salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto
fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore;
paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche
un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di
sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro
effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo:
negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai
ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la
serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della
rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente
racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati;
e poi tanti (troppi) medici (ma molti
sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un
orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il
quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo
- che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben
delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i
mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo
titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico
prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi
Pirandello ne I vecchi e i giovani ([18]
accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi
include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla
giustizia: miseranda la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di
Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per
testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse
un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione
che Nino Savarese ([19])
fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento
fascista. «I fazzoletti di seta
sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con
lo scricchiolìo, il berretto sulle
ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi
della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di
campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche
di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe
nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici,
quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione
domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in
vita e con le tasche piene di danaro ben
guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre,
c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una
certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove
avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli
abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli
occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...]
L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere,
in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro
viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi
si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro
esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono,
che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di
nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le
linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel
punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento
innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un
disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di
una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di
preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora
basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi,
le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa
maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del
tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente
come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto
per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena
segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si
arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone.
Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto
al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per
Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore
locale così riferiva alla Giunta per
l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([20]):
«Il contadino di questi luoghi non è un
servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è
ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L.
Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia
Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e
costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in
pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto
quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso
ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente,
sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro
modello i piconieri, anzi con un più
completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo
nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un
odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([21])
[1]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal
1871 al 1915, Bari 1977, pag. VIII. Una
“parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il
Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”. Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo
napoletano affermava che «non si poteva
aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul
quale formulava il seguente giudizio: «esso non è stato un infatuamento o un
giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni
animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione.
Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non
lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza
e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il
sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e
non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi
sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di
trasformazione.» [cit. Da Antonio
Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg.
264-265]. Risale al maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
attribuibile al Croce, in risposta al
gentiliano Manifesto degli intellettuali
fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità
ad oggi - pag. 2174].
[2]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista
- Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista” cfr. pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg.
155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.
Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo. L’Ercole adotta la terminologia dei “due
tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano.
Mussolini, infatti, in Gerarchia del
1925, p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44)
distingue tra primo e Secondo tempo.
Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un
ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota
confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni
del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo,
tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla
storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda
(Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che
il fascismo, con con l’adesione dei
“nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,
«si arricchì delle prime
personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e
prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale.»
[3]) Benito Mussolini - Il 1924 - vol. IV Milano HOEPLI 1934-5,
pag 236.
[4]) vedasi ad esempio Ernesto Ragionieri nella cit. Storia
d’Italia, pag. 2145.
[5])
Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da
pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio
1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni
possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un
giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle
opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta,
come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda
ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri
termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò
contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della
collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin
dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni
politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti si accorsero, impotenti, del guoco di
Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario,
legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro
gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a
tutto’.»
[6]) Renzo De Felice - Mussolini
il fascista, Einaudi, Torino, 1966, p. 729.
[7])
Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno
precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu
piuttosto, come talune testimonianze asserirono
e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto
dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto
Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione avanzata
C. Silvestri, Matteotti,
Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.
e confutata da L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e
nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967,
pp. 474-79], che esso costituì un
intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del
fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio
sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non
lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle
vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la
strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione
da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di
governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione
dell’ordinamento costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un
disegno coerente ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a tentoni
e con ampi margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo che Mussolini espresse
sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era
nella logica delle cose ...»
[8]) Francesco Renda, op. cit.,
pag. 374.
[9]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo
(1918-1942) in Storia
d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -
La Sicilia - Einaudi 1987
- pagg. 380- 482.
[10]) Franco Catalano - L’Italia dalla dittatura alla democrazia
1919-1949, Feltrinelli 1970 - vol. I pag. 117.
[11]) In nostre ricerche
all’Archivio Centrale di Stato abbiamo, sì, trovato fascicoli su tale
atteggiamento del fascismo riguardo ad alcune località dell’agrigentino, ma non
investivano in alcun modo Racalmuto.
[12]) R.D. 24 gennaio 1924
pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 73 del 26 marzo 1924.
[13]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Affari generali - Podestà e rettorati provinciali -
busta 51.
[14]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 401.
[15]) Il
prefetto dott. Raffaele Rocco non era di nomina fascista; proveniente da
Grosseto fu prefetto di Girgenti dal 18 giugno 1922 al 16 marzo 1923, data in
cui viene collocato a disposizion (cfr.
Mario Missori - Governi, alte cariche
dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma
1989 - pag. 304.)
[16]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[17]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[18]) Luigi Pirandello - I vecchi e
i giovani - Oscar Mondadori 1973 - pag. 142-143
[19]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in
Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag.
254 e segg.
[20])
Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa
Agraria sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc.
III, Relazione generale, Roma 1885,
pp. 661-662.
[21]) Cfr. L. Hamilton Caico, Vicende e costumi siciliani, Epos, Palermo 1983, pp.
118-121.
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