RACALMUTO
NEI MILLENNI
di Calogero
Taverna
GEOLOGIA E PREISTORIA
Se l’età della terra vanta un’età di cinque miliardi di
anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca
miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno
rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di
moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi
morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi
e quindi di humus. A noi va di rappresentare così l’ipotesi scientifica che
Pratesi e Tassi [1]
volgarizzano in questi termini: «la terra delle miniere di zolfo, le celebri
zolfare inscindibili dalla storia della Sicilia perché teatro di tragedie umane
legate al triste fenomeno della schiavitù dei carusi … riveste ancora un notevole interesse naturalistico, per
chi voglia comprendere la storia della formazione di queste singolari montagne
erose, incise, deforestate, che hanno l’aspetto caratteristico di certe regioni
interne mediterranee, dalla Castiglia all’Anatolia. La cosiddetta serie
gessoso-solfifera, intercalata da depositi di salgemma che sono tra i rarissimi
d’Italia, non è che una formazione miocenica comprendente antichissimi tripoli
in basso e poi calcari di base e calcari solfiferi, per giungere infine ai
gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi si è inclini a ritenere che
questa formazione abbia avuto origine dalle grandi lagune terziarie
progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione che avrebbe avuto
per protagonisti non solo i principii della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio
e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che,
attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»
Quanto al sale racalmutese, ci pare illuminante
quest’altro passo dei due citati autori[2]:
«le rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille
gessose e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono
qua e là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e
proprie. L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenici
del Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì
un sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime
lagune salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di
sale, gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico si evolve con la formazione di
strati silicei. Sempre secondo il Pratesi e il Tassi: «tra i due strati di
rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e sabbiose) sta
un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli o farina
fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici quali
radiolari e diatomee.»
Anche per l’Altipiano di Racalmuto può affermarsi con i
due autori che «la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da
depositi marini più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di rocce calcaree, in genere tufi
composti da un impasto di gusci e di conchiglie che proteggono i più molli
terreni sottostanti. Si formano così come delle zattere di roccia calcarea galleggianti sulle formazioni
gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa
tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la
formazione di cavità carsiche dette zubbi
o addirittura grandi avvallamenti …»
Cerchiamo di
raccapezzarci un po’ meglio: nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il
territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali
dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso
relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque
milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]).
Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa.
In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il
progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in
epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una
cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan [4]
Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del
periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario,
in pieno Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di
recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei
dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi,
distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5]
- i terreni che compaiono nella zona
studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di
età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano,
costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano
e Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Trivellando la
zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo dunque una stratigrafica
sovrapposizione geologica, a conferma delle varie ipotesi degli studiosi prima
sommariamente chiamati in causa.
RACALMUTO PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E
SALE
Racalmuto sorge,
si popola e si accresce per due grandi vocazioni economiche: l'agricoltura e le
risorse minerarie. Già nella preistoria sembra che siano presenti due flussi
migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante
sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Bompensiere, Montedoro.
L'immigrazione
agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne
documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6]
I pochi
reperti fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano
ed attualmente risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite,
smantellate dalle successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate
locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di
Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi -
che le competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di
Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di
gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i
cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una
vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei cosiddetti
antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche
lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana
lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso
si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe,
dunque, ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che
le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a
quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di
zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu
e cioè il grisou il venefico
idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei
malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile
racconto: L’Antomonio, appunto. Così
lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou
si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti
investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così,
a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.
Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo
della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore,
sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni ..
furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire,
immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì
santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e
mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [9]
per tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Sull’altipiano di Racalmuto -
che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro
millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta
prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto
sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a
partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione
che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli
influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale
e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare
testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La grotta di fra
Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio avviso, un
inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei fenomeni
detti zubbi che abbiamo sopra in
qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo con tanti
altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo ebbe di
certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle antistanti
colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi, dall’alto
della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una zona archeologica
di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di Milena – un
personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli archeologi che
hanno reso famosa la contermine Milocca sicana – rinveniva in quell’avvallamento un continuum ceramico sicano, greco,
romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si era dispiegato
l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti tombe a forno ne
sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita non si era
fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso luogo, con i
greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati si
rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai moderni
trattori. Forse la Gardûtah della geografia
dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la necropoli sicana di fra Diego. Va a finire che aveva
proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]:
«da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome
con molta probabilità sarà stato Gardûtah,
più tardi corrotto il Gardulâh, donde
si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al
tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato
villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove
miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del
Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo.
Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di
scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la
salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia
profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi
dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa
le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo
erectus. Più probabile che ebbero a trascorrere centinaia di anni prima che
l’Homo sapiens riuscisse a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [11]. Ed
ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata
e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la
prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore,
quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a
partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche
continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un
periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I dilettanti non
si danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa dell’autunno del 1983 in
Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente
a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924
presso Taungs nel Bechaunaland
(Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello di Sicilia lo si vuol far
risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in piccoli gruppi: Sapeva
accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come utensili.
Più possibilista
ci appare De Miro secondo il quale [12]
«dal territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di
Capo Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una
estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie
calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza
notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente
italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua
comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble
Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del
Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa
tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un
terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il
Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte
ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella
stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni specialistiche per
avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare
al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che
sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della
medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì
arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un
ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle
ferrovie, Mauceri ([13]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14])
Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse
«erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([15])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([16]) -
conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel
rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti
nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana
resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo
sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture
socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma
esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti
testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento
sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla
necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno
presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di
Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un
avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma
non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che nel
XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata
iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo
miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del
Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa
parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri
stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse
alla ricerca della via del salgemma.» ([17])
Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia qui sparita sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Scompaiono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono
dimostrare.
– le ricchezze archeologiche di Milacca ed
il ritardo racalmutese
Vincenzo La Rosa
dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4 dicembre 1977 il
territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi succedutesi. Il
volume Dalle capanne alle “Robbe” ne
attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti (specie
agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella contermine
area racalmutese, ciò è impensabile. L’attenzione è tutta protesa alla Valle
dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto solo se ha attinenza
al mito minoico del re Cocalo. Al
momento, Racalmuto può solo usufruire del riverbero delle risultanze pre e
proto storiche che gli scavi e gli studi della contermine Milena sfornano a
ritmo davvero sostenuto.
E se lì sono
ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale, .. le culture
sicane della media e tarda età del Bronzo» [18]
restiamo autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio
di Fra Diego.
b) Le affinità geomorfologiche.
Gli studi sul
sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [19]
si attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo
non in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce
dalle falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Vallanuova
s’immette in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto
racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua
in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di
“modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del
reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi
vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.
In pieno invece
attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del Saia: «I termini
stratigrafici risultanti dall’esame
superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono descritti come
appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una “successione di
sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille del Tortoniano
superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale, depositatisi in corrispondenza
ad una crisi di salinità interessante l’area mediterranea” (Decima & Werzel, 1971» [20]
Aggirate le difficoltà della terminologia scientifica, il succo del discorso
conferma, specie per i riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di
rappresentare sopra sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci
troviamo quindi di fronte «ad una successione continua costituita
schematicamente dalle seguenti unità dal basso verso l’alto, in successione più
o meno continua sulle argille basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e
gessareniti con lenti di sale; 4 – Trubi con l’elemento basale
dell’Arenazzolo.» In definitiva – esulando da questo lavoro approfondimenti
scientifici dell’assetto geomorfologico racalmutese – possiamo agganciarci alle
recentissime conclusioni di quanti ritengono «il territorio [che ci occupa]
tipico della zona centrale della Sicilia [con] elementi di uniformità geologica
a quella fascia centro meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un
territorio che ha avuto una “storia” geologica relativamente recente se
raffrontata al susseguirsi delle ere geologiche, ma la caratterizzazione in
termini litologici plastici o comunque riconducibili a forme non proprio
consistenti o resistenti all’erosione ne ha determinato un paesaggio
geomorfologico piuttosto “appiattito” che ha consentito facili ed agevoli
insediamenti umani.»
c) Lo zolfo
Dalle ricerche
su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia, sulle
“mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord del
Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni
classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo
zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..»
«Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora
salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si
verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaCO4), con formazione
intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi da parte di acque ricche di CO2,
che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione
riducente dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo
anaerobico. D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono
precipitare direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a
sua volta derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [21]
La riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con
produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe
spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [22],
considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine vulcanica.»
Qui, si esplica,
in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto fantasiosamente
abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione “desulfuricante”, reo
di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di obbrobri sociali avverso
gli imberbi “carusi”.
d) Il salgemma.
Ma passiamo al
sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata
dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere
sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove,
sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di
temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze
bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato
l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché
sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche
anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e
superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide
dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano
anche potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo
Don Filippo]e magnesiaci.»
e) Il gesso.
Ed ora prendiamo
a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La presenza
dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di quelli
nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda di
rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli insediamenti
[sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio quello dei morti
con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»
Racalmuto
conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma
diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che
contrassegnano l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in
soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena
disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a
scavarvi i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della
loro irriducibile fede nell’oltretomba.
A Racalmuto,
come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più modificato il
paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo senza tenere
conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è avvenuto, portato
all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi suoli in parte
inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la loro
impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali che
vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a piene
notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»
f) Le grotte ed il fenomeno carsico.
Il fenomeno
carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente
presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di
fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle
risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena.
Marcello Panzica La Manna [23]
ci fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto,
almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli affioramenti di
rocce evaporitiche di età messiniana
(Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di
estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno
carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna,
1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque
meteoriche, si sviluppa con formeestremamente più marcate e ad evoluzione più
rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa
nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti
tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op.
cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche sono quel
tipo di grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità
meccaniche delle masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi
di tali grotte è da imputare in parte alla fratturazione della roccia,
prodottasi a causa dei movimenti tettonici che hanno interessato l’area, in
parte a fenomeni di tipo gravitativo che hanno disarticolato gli affioramenti
gessosi in blocchi di varia dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono quelle
che si originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera
delle acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in
acqua molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la
quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti
atmosferici, giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e
gallerie presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono
strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie;
esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo
idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono
incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi
le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o
“inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano
chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile
riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano
completamente invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a
decrescere, abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime.
Quasi sempre agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che
costituiscono il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit.
p. 28)
E qui
abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [24],
che non sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare
l’assoluta indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio
ipogeo, di cui manca persino uno straccio di inventario. Grotte pseudocarsiche
abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria
di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei
saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine, sotto via Roma, nei pressi della Madonna
della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora,
se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha
inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel
1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo
Bonincontro [25]:
Et parimente la Parocchia della Nunciata
incomincia del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta
di Pannella[sottolineatura ns.]restando
d.a grutta nella d.a parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa
Maria di Gesù conservato in Matrice [26],
abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno
centro, cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item in et super sex corporibus
domorum sursum et deorsum cum eius antro
[corsivo, ns,] simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus
heredum quondam Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis
seu della Santicella …..
Le campagne
erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti. I vari Rolli della Matrice ne riportano
diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un
esempio [27]:
Die nono mensis
Januarii x^ ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et
eius anima titulo donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per
eos et successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus
eius nepotibus terrae Racalmuti absentibus
.. pro eis et eorum heredibus et
successoribus in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam
nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in
aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas
itur versus civitatem Agrigenti ……
Quanto alle
grotte paracarsiche, il fenomeno più
appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del
Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo
in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo
bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per
protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i
cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.
Racalmuto ha per
il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico – indagato e
fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni Salvo, che sta
davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà tanta gratitudine
per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie, sui lineamenti
floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.
Il nostro
territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco
in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si
rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto
di culture.» [28] Si
può affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo
stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono
erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi
(camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella
lyrata (Cruciferae), il lathyrus
odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis
oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella
anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon
porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed
inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek
(Cruciferae), l’ Astragalus huetii
Bunge (Leguminosae), la Lavatera
agrigentina Tineo (Malvacee).
Continuiamo a
citare: «Purtroppo questa successione di ambienti è ormai in gran parte
alterata e ridotta. Solo qua e là ne rimangono frammenti importanti e
significativi, come avviene per le quattro specie di pini presenti in Sicilia
allo stato spontaneo, di cui non sussistono ormai che esigue colonie: dal pino
laricio (Plinus laricio) sul
massiccio etneo, al pino domestico (Pinus
pinea) sui Monti Peloritani; dal pino marittimo (Pinus noster) di Pantelleria, al pino di Aleppo (Pinus halepensis) delle pendici
dell’altipiano meridionale e di varie isolette circumsiciliane.»
Il pino
siciliano è ormai entrato nella più pretenziosa letteratura. Artefice
principale: il pino di Pirandello. E si sa che anche il nostro Sciascia ebbe a
dire la sua; a dire il vero riportando le apprensioni di un grande entemologo
agrario racalmutese Giovanni Liotta, titolare di cattedra all’Università di
Palermo. Sciascia lo ebbe presente nelle sue conversazioni – in articulo mortis – con il defunto
giornalista Domenico Porzio e l’apprezzamento elagiativo, cui certo Sciascia
non indugiava –nel bellissimo libro “Fuoco all’Anima”, purtroppo oggi censurato
dalla famiglia. Lo Scrittore si era rammentato di una notizia sul pino di
Pirandello che stava per morire che gli era stata fornitagli nell’autunno del
1988, quando già il Liotta era dal febbraio “professore di Ia” dell’
Istituto di Entomologia Agraria di Palermo. Il Liotta ci fornisce ora la
versione autentica di quell’episodio [29]
commentando: «Quando riferivo di questa notizia Leonardo Sciascia non annuiva,
non dissentiva, non faceva alcun cenno palese che desse la certezza di un suo
interesse. […] La notizia di mummificare il pino in realtà l’aveva fatto
inorridire. […] Leonardo era fatto così: era un grande, paziente e infaticabile
ascoltatore e quello che ascoltava, lo scremava, lo elaborava e, se necessario,
lo riproponeva sotto una prospettiva di grande interesse.»
Anche Racalmuto
ha il suo pino “letterario”: quello della casina di campagna dei matrona alla
Noce. Lo rievoca Sciascia, lo celebra Bufalino ( … mantello verdissimo, sormontato all’orizzonte da un antico albero
solitario …. [30]),
ne coglie l’ineffabile incanto, in un momento di corrusca tempesta, il
fotografo Pietro Tulumello (e qui davvero Sciascia ha malie evocative: un paesaggio del tutto simile all’Amor
sacro e all’Amor profano del Tiziano: e la sera trascorre in esso come una
delle tizianesche donne serene ed opulente … [31]).
Noi continuiamo a mirare le chiomate piante che ancora avvolgono la casina di
campagna del Barone Tulumello, al Cozzo della Loggia, sotto il Serrone. Ma
quanto resisteranno?
-
un micro orto
botanico per Racalmuto
Auspichiamo che
i denudati cozzi attorno alla Fondazione Sciascia ospitino un micro-orto
botanico ove si rinserrino le piante ed i fiori cari a Sciascia. Come, ad
esempio, le magnolie e non tanto per il loro profumo o perché queste
«splendevano … [come] luminose e
profumate donne, di mai più vista bellezza» [32]
E si ricostituiscano le sciasciane “siepi di fichidindia” [33]
e non manchi un tocco rievocativo «dell’intensa coltivazione di alberi di noce»
con «quei grandi alberi che i contadini chiamano di bellu vidiri, con disprezzo: cioè belli a vedersi ma inutili: il
corbezzolo, il caccamo, qualche varietà di ficus. E ci sono gli orti. E queste
sono le oasi, nella gran calura del giorno; né manca, a darne l’illusione, la
palma. La palma de oro y el azul sereno: e questo verso di Machado, palma d’oro in
campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo.» [34]
E noi auspichiamo anche che nell’«orto» sciasciano abbiano rimembrante dimora
le piante, i fiori, le erbe e pure le gramigne di autoctona progenie
racalmutese. Vorrà il chiarissimo prof. Liotta collaborare ad un siffatto
progetto? Vi è contrario il competentissimo dott. Salvo?
Confessiamo di
avere avuto un moto di stizza nel leggere alcune notazioni botaniche del Renda:
[35]
alcune caratteristiche piante arboree racalmutesi sono tutt’altro che indigene.
«Il limone [già, le Lumie di Sicilia,
n.d.r.] – discetta lo storico – raggiunse la Sicilia e la Spagna nell’alto
medioevo, durante il dominio arabo. L’arancio arrivò più tardi e, a quanto
sembra, non ebbe importanza apprezzabile fino al XV secolo. Gli arabi portarono
on Sicilia e in Spagna anche il mandorlo, la canna da zucchero, la palma e
altre specie esotiche, come il melograno, il melocotogno, il nespolo invernale
ecc. Il processo di riutilizzazione agronomica di queste numerose specie non fu
univoco. Alcune, come l’ulivo e il mandorlo, ebbero incremento notevole. Altre
decaddero e furono abbandonate. Fra queste, sono da ricordare la canna da
zucchero, il riso, il gelso per l’alimentazione del baco da seta, il legno da
bosco, l’allevamento, e poi il lino, la canapa, il cotone, la soda vegetale
ecc. »
Un tempo a
Racalmuto si coltivavano cotone, lino, canapa ed altre piante da vestiario:
oggi, culture del genere, sono del tutto ignote. La coltivazione più estesa è
stata sempre quella del grano, di varie specie ivi compresa quella c.d. tumminìa, alternata alla semina di
avena, orzo e fave nelle annate di riposo. Se già nel XIV secolo Federico del
Carretto operava una sorta di outright
sui futuri raccolti di grano racalmutesi con Mariano Agliata, [36]
al tempo di Filippo II l’approvvigionamento di grano al caricatoio di Girgenti
consentì un proficuo commercio dei baroni del Carretto, che così assurgono al
rango di conti, in quei calamitosi tempi
di guerra mediterranea contro il Turco. E così nel Seicento, quando anche le
Clarisse racalmutesi, amministrate da un prete Traina, possono conferire, a
pagamento, il loro frumento in esubero presso il caricatoio racalmutese.
Oltre alla
composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo
cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della
raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)
panizzo del popolo;
2)
frumento per simenze in forte
e timilia [o tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
3)
paraspolari e tenetieri;
gabbelloti e societarij;[37]
4)
simenza per soccorso e
per governare le vigne e per mangia
di propria famiglia;
5)
Grillo don Gaetano, come
procuratore del fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli
magasini di quel fego s. [salme] 306
ffr. [frumento] raccolto nella XIa
In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto
fego;
6)
per simenze di forte e
timilia s. [salme] 40 per soccorso di detto seminerio
e sem. [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)
simenza fumento forte s. 10,
salme 5 per soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina]
d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria
casa;
8)
s. [salme] 55 [di frumento]vendute a questa un.
[università] di Racalmuto per il
pubblico panizzo;
9)
Grillo don Antonio come
Governadore della Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere
nelli magazini della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute
a questa unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello
Stato di Racalmuto;
10) Di Salvo Filippa vid.a
[vedova] del quondam Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] ..
quali li bisognano: s.6 per mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11) Saldì m.° [mastro]
Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3
per soccorso di detto sem., sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di
propria casa;
12) Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli
quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra [Traina, vocabolario: mandra: luogo ov’è
rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo
e ligumi e colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria
famiglia;
13) Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano
s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto
simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni;
14) Picone Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte]
quali li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per
soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di
vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15) Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per simenza, per soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio
di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego
di casa;
16) Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per
1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a questa Un.tà [università] per il pubblico panizzo ed il
resto per mangia di propria casa;
17) Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per
1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la festività di S. M.a del Monte come
Governadore della Confraternità di detta Chiesa;
18) Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento
di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per
1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento;
19) Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento di S.
Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia
per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto convento;
20) Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del
Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10
per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia
convento;
21) Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano
de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e
s. 6 per mangia.
-
i preti, il grano, il pane
Ed ecco i dati del folto clero:
a)
Grillo sac. d.
Salvadore Maria, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi
bisognano simenze in ff. s. 24, simenza in similia s. 30 per colti scarsi le
s.te tim. s. 30, per coltura di vigne s. 20, per serviggio della mia casa e
famiglia per mangia s. 16, per due famoli in campagna esistenti di capo d'anno
s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si devono pigliare a società il
sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano per quelle occorrenze che
potranno insorgere;
b)
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli
quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano
di Salvo;
d)
Lauricella
sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi
bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci
persone;
e)
Pumo cl. Francesco, rivela s.
otto ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza,
soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)
Borzellino sac. d.
Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind.
1763, delli quali li bisognano per mangia di casa;
g)
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,
s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due
possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)
Crinò diacono d.
Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI
ind. 1763, quali li servino per mangia
di casa;
i)
La Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4
per mangia di casa;
j)
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80
obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse;
k)
D'Amico sac. d.
Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo
Sacramento e s. 5.8 per mangia;
l)
Savatteri sac. d.
Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto
XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per
soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo
di casa;
m)
Scibetta e Franco sac. d.
Giuseppe, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4
ff. per simenza, s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s.
8 per lo soccors o di un predio di vigne
e s. 14 p. mangia e commodo;
n)
Picone sac. d. Ignazio,
rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per
simenza, s. 1 per soccorso e s. 2, comp.
di d. s. 4 per mangia di casa;
o)
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria;
p)
Mantione sac. d. Baldassare,
rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa;
q)
Mantione sac. d. Antonino,
rivela s. 27.10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff.
per simenza, s. 5 per soccorso di detto
seminerio e socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2.
per mangia di casa;
r)
Pitrozzella sac. d.
Baldassare, rivela s. 10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s.
8 ff. per simenza, s. 4 per coltura di detto seminerio;
s)
Montagna diacono d. Onofrio,
rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per
simenza, s. 1.8 per soccorso e s. 1.9.
per mangia di casa;
t)
Baeri sac. d. Ignazio, rivela
s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763, quali
li bisognano . per mangia di casa;
u)
Baeri sac. d. Casimiro,
rivela s.2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali
li bisognano per mangia;
v)
Nalbone sac. d. Benedetto,
rivela s. 360 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per
mangia, s. 2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa
università] per pubblico panizzo e s.78
commodate;
w)
Fucà diacono d. Giuliano,
rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,
quali li bisognano per mangia;
x)
Fucà sac. d. Pasquale, rivela
s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia;
y)
La Matina sac. d. Pietro,
rivela s.13 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso e s. 6 per
mangia;
z)
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2
per mangia ed impiego di mia casa;
aa)
Busuito sac. d. Antonino,
rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso sem.° di
legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il
resto. per mangia;
bb) Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ. panizzo,
s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso delli
metatieri di legumi ed orzo e p. migliari dieci di vigna e più per fare
l'arbitrio di campagna;
cc)
Farrauto sac. d. Saverio,
rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,
quali mi servono per mangia;
dd) Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind.
1763, delli quali li servono per mangia;
ee)
Alfano sac. d.
Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4
ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare
la vigna.
Nel mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346
salme di frumento per la “mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la
numerazione delle anime” del quale si custodisce in quel mirabile scrigno
(purtroppo in gran dispitto alle locali autorità) che è l’archivio della
Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime sotto n. 1537 capi-famiglia. [38] Il panizzo pubblico
richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che significa che oltre
l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per sostentare il
proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico “panizzo”. Solo 126
possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi compresi i quattro
conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e diaconi) che costituivano
il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non disponiamo, purtroppo, notizie sul
frumento che, finito nei pubblici caricatoi, emigrava per esportazioni o per le
cosiddette “tratte” che per secoli avevano foraggiato il “biscotto” degli
eserciti spagnoli.
-
i vigneti.
Ma non tutte le terre erano destinate al frumento. da un
rollo della Confraternita di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che
il culto dei trapassati è stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo
potuto enucleare qualcosa come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di
18.000 viti che i fratelli Taibi vantavano in località Montagna, dislocati
pressoché dappertutto, e coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire
che fra vite e vite si poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o
altro); “vinea cum suis arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto,
almeno fino a quando non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente
coperta con teli di plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius
clausura” (una bella vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane); “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo”
(una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum
domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il
potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con
il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il
vigneto di Antonino Gugliata).
I vigniti,
sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada
Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a
Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del
feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune
contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini,
Gazzelle, Granci, Malvagia, Manchi,
Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti
neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci
testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.
Integrando i
dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in Matrice
– abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade quali:
Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro, dei
Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto, Muccio,
Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della Pergola, Santa
Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo, Arena, Muccio
(feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello, Castilluzzo (feudo
di Gibillini), Carmelo.
- il
sommacco.
Una piantagione,
che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII secolo, è quella
del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi, allignando nei
costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con intensità tale
che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si riesce ad estirpare.
La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685 questo documento che
attiene ad una ipoteca :
Item in et super
salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et torculare
sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam Francisci de
Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.
Apparteneva ad
una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al
fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del
nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era
racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del
1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a
suo volta associato con mastro Pietro Picone.
-
gli alberi da
frutta
Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto
diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed
i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo
nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio
Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [39]
Il convento – ove da giovane divenne
diacono fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è
davvero prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di
alberi da frutta:
«Beni stabili rusticani
Possiede questo venerabile
convento salma 1 e tumoli 8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato,
contrata S. Giuliano, confinante con il detto venerabile convento e via
pubblica di tutti i lati, che secondo l'estimo dell'esperto di questa terra
ragionati ad onze 120 per salma, sono di valore cento ottanta onze, o. 180;
Item in dette terre vi esisteno alberi di
diverse sorti, cioè mandorle n.° 70
a tt. 6 per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o,
fanno o. 12
Alberi di olive n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo
l'estimo dell' esperto ;
Alberi di pruni [albero che fa le
susine = Prunus domestica culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8
per ogn'uno secondo l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri n.° 15 secondo l'estimo
dell'esperto ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche [ pistacchio =
Pistacium L.) n. 8 che secondo l'estimo
dell'esperto a tt. 15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze
due;
Alberi di pomi [pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di
“cutugna”, cotogno, Pyrus cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo
dell'esperto a tt. tre per uno sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati [melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città
spagnola, a memoria dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo
dell'esperto a tt. 3 per uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di
valore onze due.»
Mancano aranci e
mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli, ciliegi ed
altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto. Notisi la
prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la gerarchia: noce
(un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni (tarì 8 ad albero),
nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard di 6 tarì ad albero)
e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i melograni con i pomi a soli
3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che dovevano pur esserci.
- le risorse agricole degli agostiniani di
S. Giuliano.
Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri
rilievi agrari:
«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato
contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135.
Possiede più detto venerabile convento
tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli
Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto,
ed altri, e via publica, che secondo l'estimo
Possiede pure detto venerabile convento in
detto stato mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso
di seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135
Possiede più detto venerabile convento
tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli
Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto,
ed altri, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12
per migliaro sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/
125.10.
In dette vigne esiste il Palmento per
commodo della vendemmia e con altre due case di abitazione terrane e cioè una
entrata, e l'altra paglialora, e due camere di sopra, che secondo l'estimo
dell'esperto di questa sono di valore onze trenta
................................................................... -/ 30
In dette vigne vi sono n.° trenta quattro
alberi di mandorle, peri, fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di
questa ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro
.........................................................................................................................
-/ 6.24.
Possiede di più detto venerabile convento
tumoli 8 di terre atte a seminerio confinanti coll'istesse vigne di sopra ad
onze 64. salma secondo l'estimo dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32
In dette terre vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100
alberi di Pioppo che prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana
uno, sono di valore onze quattordici e tarì 20 ..-/14.20»
Lo spaccato
contadino del mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto
non proprio edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla
questua lungo le campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che
trascurabili “introiti spirituali”:
«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti provenuti per
questua ragionati a tt. 40 salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti
per questua importa
............................................. -/ 4
E più salmi 4 fave provenute per questua
ragionati a tt. 24 salma importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie] provenuti per
questua a tt. 42 salma importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per questua
ragionati ad -/1.26 salma importa
.................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a onze 1.7
botte .................................................................-/ 6»
I frati
questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e
ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della
gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono
vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un
valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la
“fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di
pioppi, né di acque fluenti. Il pioppo,
come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle
costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica”
sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della
nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie
attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento. Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto
di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di
facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A
comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo
figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna
che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere
fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti
burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et
Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali
navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel
dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia - era
morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della
Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere
dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che
ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei
grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof.
Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove
impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che
all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle
chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla
Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non
esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li
vuole della famiglia populus alba? Si
potrebbe pensare ad una colonia di pioppi
neri (p. nigra)? O ad
altre specie di alberi ad alto fusto?
Perché sono spariti?
E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente
– il grande entomologo mi precisava:
Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del
canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che
debbano essere attribuite alla specie Populus
alba, (il pioppo più comune della zona).
Ma noi
continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati
di appositi studi: Racalmuto li merita.
h) La fauna
Così come a
Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo
tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul
46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [40]
Anche a Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la
volpe, la lepre ed il cinghiale.
Ci pare
pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens:
«Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi
marini (Murex trunculus, Glycymeris
sp., Glycymeris violacescens), marini
fossili (Dentalium sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania
vermiculata, Leucochroa candidissima).
Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la
presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati
trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»
Nell’Eneolitico,
in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la
percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La
caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo
e la volpe. […]Tra gli ovicaprini
prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un
frontale femminile con cavicchie.»
Risale al Bronzo
antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il cane.
Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la
macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5
mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di
adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le
possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e
comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli altri
frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie selvatiche
sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la tartaruga.»
Verso la fine
dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una
mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso
lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato
ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano
utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo a
Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens:
«Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza
secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici
raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un
allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone
percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I
bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di
carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti
in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte
rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza
verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […]
Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo pare
che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in livelli
di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si tratta
quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece da
attribuire ad animali di piccola taglia.»
In definitiva,
«tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel Neolitico
(volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con regolarità in
quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di Serra del Palco.
[…] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il gatto.
In millenni di
attività venatoria e di braccognaggio, la facies
faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata. Naturalmente vi ha contribuito
l’antropica modificazione della locale vegetazione. Il degrado degli ambienti
per il dissennato utilizzo di fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si
aggiunga la vulnerazione che le tante strade hanno determinato nell’ecosistema
del territorio..
Resiste,
comunque, nella zona la Volpe (Vulpes
vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e
grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o
trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone). Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto
selvatico (Felis silvestris Schreb.).
Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix
cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo
largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono
ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di
lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma
provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento,
purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e
contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus
corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.) sono per ora preda - al Castelluccio, al
Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella
fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.
Sembrano tornare
a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i rapaci
notturni quali: il Barbaggianni (Tyto
alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e
rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui
sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al
Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel
crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di
topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto
l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo
imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il
richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui
ora là nella notturna pastura.
Corvi,
cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi,
merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in
fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora,
la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili,
di solito innocui (i familiari scursuna)
continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi,
sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini
nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis
wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis
sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di
gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola
mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire delle
lumache: a Racarmutu aviemmu li babbaluciara,
diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi,
babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a tutti i racalmutesi.
Proverbi:
-
Sparaci,
babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-
Quannu la sorti
nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-
Cu va a sparaci
mangia ligna,/ cu va a babbaluci mangia
corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia
sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui
non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E
la zoologia sciasciana di Occhio di capra,
oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-
a cuda di surci,
per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);
-
a li piedi di lu
cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato:
più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di
fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad
aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-
a piedi d’agnieddru,
«si dice del naso alla francese» (p.29);
-
culuri di cani ca
curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-
e iddu pirchì
sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come
un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-
e lu cuccu ci
dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru ..
pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia
col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. …
Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E
senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline
rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-
lu cani di don
Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu
sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari –
lu puorcu all’organu – lu sceccu di
Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la
Vicaria (pp. 83-88);
-
‘mmucca a un cani,
modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno (
94).
L’animale
domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella
racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio
nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei
passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento
pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e
capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo
l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a
fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori
estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di
Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio,
cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente
venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13
giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la
salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e
partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono
tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima
entravano in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella
devota tradizione.
Una terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un
mulu di pilu baiu”; una jnizza; in
primis, due muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo
bajo;
dui muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla
destr; un cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia
sinistra con la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in
fronte bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra;
cavallo stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo
argentino mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo, rotato,
facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia
sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della
razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro
causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la
gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi
darreri malato.
Certo, nel gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608: erano tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti, la scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:
Item uno scavo masculo chiamato
Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto,
mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo
di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18,
sbarbato, pocho mustazzi; un altro scavo
nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune
statura, olivastro, barba castagna con alcuni
pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di
paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli;
uno scavo d’età d’anni . . .
in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome
Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con
alcuni signi al barbarozzo; un’altra
scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro;
item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età
d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e
barbarozzo con alcuni stizzi azoli.
Presso la Chiesa
Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire per il
trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di colonne per l’edificanda
Matrice nel 1655:
6.1.1655
|
A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì
undici, quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata
con Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di carrozza
per portare le colonne della d.a fabrica…
|
Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei
possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi
fiscali:
·
il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in paese vi erano 52 cavalli;
·
le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei
lavori agricoli;
·
le “vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche
gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di
3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio.
Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel
manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [41]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era
sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e
forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il
barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello
abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile
condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il
barone, mi si faceva un racconto minuzioso:
ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue
spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità
piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di
lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire
popolare la canna, forse perché data all’ecce
homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra
del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio
dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia
campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i
Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata –
ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale
Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si
scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo
elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà
del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso
non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si
pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette
dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o
meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore
del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
i)
Archeologia
e preistoria
In sintonia con
Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico.
La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti
di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [42]
comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C.
La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto
discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica
colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero
essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo
comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in
Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un
insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età
del rame.» [43] Fu
epoca questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le
capanne abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del
recinto”» e ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [44]
E continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della
neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo sprofondo di
Gargilata - con le sue acque (ora
purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per la difesa),
con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate – fa
affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non potranno
che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra racalmutese:
e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del Griffo ma risulterà
di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C., anche se, a quanto
pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla
Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio
nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto
analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva
età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo
costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili
scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [45]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un quadro
d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo queste
note di sintesi di Laura Maniscalco: [46]
«L’età del rame
… è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati, sia
attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di
carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa
all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e
presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»
Discorso questo
valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle
affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli
di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del
secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della
vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono
incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a
Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo
neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del
bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di
mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi recenti a
Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi finali del
bronzo antico; [47]
quelle del bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel
1988 dal prof. Vincenzo La Rosa [48].
Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di nota
conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica della
civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di Fabrizio
Nicoletti [49]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata
popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in tutti
i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a grana
fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede così il
periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti
metallici [50].
Racalmuto non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di
quella civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo
che ha fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe a
tholos dell’età del bronzo il Tomasello [51]
ha individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba di
Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali
costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica
significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del
bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio
geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano
culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con
il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di
matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale
panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i
territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali.
Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e
assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la
penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia
centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione. Infatti la tradizionale datazione delle
tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da Paolo Orsi
all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora sostenibile.»
Risalirebbero
addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i
micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga
l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV
secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a
chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli
per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale,
articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel
lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona
agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo
dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a
tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato
da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a
calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico
incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da
lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando
fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al
Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in
un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il
popolare abbrividire al ricordo «delle
antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne
trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in
interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo che
quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga periodizzazione
dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo quello che hanno
fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e di fisica
nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così, potuto
stabilire età, sì, presunte ma con
approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono davvero
una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato possibile
operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [52]
che sono termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età
presunte in BP e cioè a dire before
present (prima del presente):
sito strato
|
età presunta
|
Serra del Palco recinti
|
|
Recinto maggiore
|
NEOLITICO MEDIO
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6893
|
864
|
864
|
4893
|
5757
|
4029
|
7445
|
1068
|
1068
|
5445
|
6513
|
4377
|
6852
|
871
|
871
|
4852
|
5723
|
3981
|
7770
|
981
|
981
|
5770
|
6751
|
4789
|
7055
|
739
|
739
|
5055
|
5794
|
4316
|
10148
|
2292
|
2292
|
8148
|
10440
|
5856
|
6773
|
398
|
398
|
4773
|
5171
|
4375
|
MEDIA ETA'
|
MEDIA ETA' MASSIMA
|
MEDIA ETA' MINIMA
|
5361
|
6278
|
4443
|
RECINTO
MINORE
|
NEOLITICO
MEDIO
|
|
7000-6500
BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6387
|
447
|
447
|
4387
|
4834
|
3940
|
6923
|
600
|
600
|
4923
|
5523
|
4323
|
MEDIA ETA'
|
MEDIA ETA' MASSIMA
|
MEDIA ETA' MINIMA
|
4655
|
5179
|
4032
|
FONTANAZZA IV
|
|
CAVE
|
RAME
|
5500-600O
BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|||||||
4759
|
427
|
427
|
2759
|
3186
|
2332
|
|||||||
4773
|
615
|
615
|
2773
|
3388
|
2158
|
|||||||
MEDIA ETA'
|
MEDIA ETA' MASSIMA
|
MEDIA ETA' MINIMA
|
2766
|
3287
|
2245
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO MEDIO
|
|||
3400-3200 BP
|
||||
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
3248
|
590
|
590
|
1248
|
1838
|
658
|
3690
|
820
|
820
|
1690
|
2510
|
870
|
MEDIA ETA'
|
MEDIA ETA' MASSIMA
|
MEDIA ETA' MINIMA
|
1469
|
2174
|
764
|
SERRA DEL
PALCO – SOMMITA'
|
|||||||
SEQUENZA
STRATIGRAFICA
|
BRONZO
ANTICO
|
||||||
3800-3600
BP
|
|||||||
Età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
||
3420
|
367
|
367
|
1420
|
1787
|
1053
|
||
4205
|
461
|
461
|
2205
|
2666
|
1744
|
||
4303
|
619
|
619
|
2303
|
2922
|
1684
|
||
MEDIA ETA'
|
MEDIA ETA' MASSIMA
|
MEDIA ETA' MINIMA
|
1976
|
2458
|
1494
|
Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica
presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361
anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro).
Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.).
Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di
Agrigento sarebbero quindi confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco |
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto
minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei
dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto
millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici
oscillano attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del
chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a
ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la
galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle
note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e
ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del
bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non
faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere
ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro piacimento
in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo antiche di
svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999
in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche
manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai
consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da
un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro specialistici
ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere l’epigeo
funereo databile attorno all’anno mille a.C.
Lungo tutto il pendio di quella vallata sporgono qua e là massi
similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto, sotto un’ansa della rotabile
del Ferraro, un altro analogo masso gessoso, reclinatosi di recente ad opera
dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per fattura e caratteristiche ci paiono
bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il sesto e l’ottavo secolo d.C., ai
tempi cioè del tesoretto di monete bizantine trovate negli anni Quaranta in
località Montagna. [53]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia
per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che
l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il
territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse
possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di
tegole, di canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al
Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in
insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali
recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.
In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto
sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto
propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere
forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora,
da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani
del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:
aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se
potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa,
come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non
riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali
congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se
qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la
grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e
per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si
attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche
sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca
d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([54]).
Da quell'era i nostri
progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti
epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi
per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per
difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di
Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto
fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice -
che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca,
né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi
dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro
imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in
patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
[1] ) Fulco Pratesi e Franco
Tassi, Guida alla natura della Sicilia,
pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile -
Hipothèses et problèmes.
[5]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto
-GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L. Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S. Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] ) Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956-1971 – pag. 384, Bompiani Milano, 1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] ) Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre – pp. 13-14 - Racalmuto
1994.
[11] ) Vincenzo Tusa e Ernesto
de Miro – Sicilia Occidentale - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem, p. 111
[13])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata
e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale di
Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di
Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.°
21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ...
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag.
17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
114.
[18] ) Dalle capanne alle “robbe” – La storia lunga
di Milocca-Milena – a cura di Vincenzo
La Rosa – Pro Loco Milena 1977 – p. 7
[19] ) ibidem, p. 15 e ss.
[20] )
Per maggiori dettagli cfr. Decima A.,
Werzel F.C., 1971 – Osservazioni
sulle evaporiti messiniane della Sicilia centro-meridionale. Riv. Min.
Sicil., 22, pp. 172-187.
[21] )
Per approfondimenti, cfr. Carobbi G.,
1971 – Trattato di mineralogia. Vol.
II – Firenze.
[22] ) Vedansi a Racalmuto, ad
esempio, le polle solfuree sopra Gibillini, in contrada Perciata.
[23]) Marcello Panzica La Manna, Aspetti del fenomeno carsico sotterraneo nel
territorio di Milena (CL) , in Dalle
Capanne alle “Robbe”, cit. p. 27 e ss.
[24] )
Fruibili sono le seguenti letture: Calvaruso
E., Cusimano G., Favara R., Mascari A., Panzica La Manna M., 1978, Primo contributo alla conoscenza del
fenomeno carsico nei gessi di Sicilia. Inghiottitoi di M. Conca (Campofranco –
CL), Atti XIII Congr. Naz. Di Speleologia, Perugia, (preprints); Cigna A..A., 1983, Sulla classificazione dei fenomeni carsici, Atti Congr. Naz. Di
Speleologia. Le Grotte d’Italia, (4), XI, 1983, pp. 497-505; Madonia P., Panzica La Manna M., 1987, Fenomeni carsici ipogei nelle evaporiti in
Sicilia, Atti Simp. Int. Il Cars. Nelle Evapor. In Sicilia, Le Grotte
d’Italia (4), XIII, 1986, pp. 163-189.
[25] )
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRO VISITE 1608-1609 - MONSIGNOR Dn
VINCENZO BONINCONTRO - VESCOVO DI GIRGENTI - (INDICE A PAG. 13: RACALMUTO PAG.
244 aggiunto: 203)
[27] ) ibidem,
f. 331
[28] )
Cosimo Marcenò – lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Milena
(CL), in Dalle Capanne alle “robbe”, op. cit., pp.37-41.
[29] ) Vds. Malgrado tutto, novembre 1999 – n. 5 p.
17.
[30] ) Leonardo da Regalpetra, Racalmuto 1990, p. 8
[31] ) Gli amici della noce, Fondazione
Leonardo Sciascia – Racalmuto 1997 – p. 11.
[32] ) ibidem, p. 7.
[33] ) ibidem, p. 7.
[34] ) ibidem, p. 11.
[35] ) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. primo – Sellerio
Palermo 1984, p. 96.
[36] ) Ci si permetta di autocitarci: Calogero Taverna, La
signoria racalmutese dei Del Carretto, Infotar Racalmuto 1999: «Una cosa è certa; Federico del Carretto era
saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse
l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso
l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451
con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450
contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit.
pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini
moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe stata
pattuita presso il "caricatore" di Siculiana..»
[37] ) Renda. F., Storia
della Sicilia .., op. cit. p. 84 «Lo
sfruttamento capitalistico del lavoro contadino riuscì ad elaborare varianti
ancora più gravose del terraggio, quali il paraspolo, o altri analoghi
rapporti, in cui il concessionario fu trasformato in prestatore d’opera senza
salario certo e definito (il compenso sarebbe stato una quota parte del
prodotto conseguito a fine stagione, generalmente grano, nella misura di un
quinto, di un quarto e in casi eccezionali di un terzo).»
[38] ) Per ampi dettagli, v.
il ns. Racalmuto in microsoft, c/o
Biblioteca comunale di Racalmuto.
[39]
) ARCHIVIO SI STATO PALERMO - DEPUTAZIONE DEL REGNO - INVENT. N. 5 - riveli
Vol. n. 4093 anno 1748 – ff. 250-257-
[40] ) Barbara Wilkens, Resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’area di Milena, in
“Dalle capanne alle ‘robbe’ …” cit.
p. 127 e ss.
[41] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[42] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[43] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena,
in Dalle capanne alle “Robbe”, cit.
p. 43
[44] ) ibidem, p. 52.
[45] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena
in età neolitica, in Dalle capanne
alle “robbe” … cit. p. 55 e ss.
[46] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[47] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico,
in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 111 e ss.
[48] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra
del Palco di Milena, in Dalle capanne
alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[49] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della
media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 117 e ss.
[50] )
Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche
nel volume “Dalle capanne alle robbe
..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede
nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[51] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl),
in Dalle capanne alle “robbe” .. cit.
p. 165 e ss.
[52] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p.
241 nota a Tab. 1)
[53]
) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
[54]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
14.
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