Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro. Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
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L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla nuca.L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni.Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova. I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione racalmutese del Seicento.Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a Racalmuto.Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale Doria.
In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'. II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato) nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova” usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però, molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636.
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un tempo comprato dai Vernagallo .La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo. Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.» Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: «Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina . Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque: «Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis». Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.» Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare.
Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di nemesi storica, viene riesumato a danno sul nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ( ) Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo. Ma che diavolo era avvenuto?Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi universali. In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale. Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti, confraternite etc.)Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si consegue l’avallo delle superiori autorità.La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo.
La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani. Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende prima ricordate.Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile! Ma si racchiude tutta qua la giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può. Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia. Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae RacalmutiE’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali: ( )
Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet. Panormi die octobris 4^ inditioni 1636. Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [ ] et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara. Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis. Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo. Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata. Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico. Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti. Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano: 30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. GratisOve giaccia in Matrice, si è persa la memoria.Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
L’interregno di Maria Branciforti
Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto torna in potere dei del Carretto. Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo. Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla Gancia di Palermo:(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso - in mano dei Gaetani.Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine. La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674) ; Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile.Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. Sono ricavabili questi estremi:"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO 1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice: Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATISSappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:
10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.Girolamo III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. Il conte ha modo di dire di sé:Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:delli Gibillini e feghidelli Cometi;e fegho delli Bigini;del fegho di Zalora;del fegho di Scintilìa;del stato e ducato delli Grotti;del fegho e principato di Campofranco;e fegho della Ciumicìa e altri confini ... Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte. Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -
Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto. La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica). Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari. Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine. Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto. Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi: - dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici; - dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici; - una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici. Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento. Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
GIUSEPPE I DEL CARRETTO
Continuiamo Con il Villabianca: « Videsi questo nell'onorato impiego di Capitano di Palermo nel 1698, e premorendo al padre senza figli fece estinguere nella sua persona la Famiglia illustrissima del CARRETTO de' Signori di SAVONA, che prendendo origine Reale, stimavasi una delle più cospicue Prosapie di questo Regno (f) [Caso di Sciacca del SAVASTA cap. 15. f. 43]. Fu sua moglie BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la quale per il credito della sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla R. G. Corte nel 1711. pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo Titolo a 10. luglio 1716. Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata a Giacomo P. Lanza, il di cui figlio
ANTONINO LANZA e SCHITTINI se ne investì a 26. Agosto 1739. Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B. dello Stato di Calamigna, etc.» Don Giuseppe del Carretto riceve l’investitura di Racalmuto il 21 marzo del 1687 « ob donationem inrevocabiliter inter vivos sibi factam per illustrem d. Hieronymum del Carretto eius patrem vigore donationis per acta notarii predicti de Cafora et Tagliaferro die 17 maij X ind. 1687 sicuti depositione dicti ill.is d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris V ind. 1666.» E’ costretto a ripetere il rito per la morte di Carlo II il 20 gennaio 1702. Altre spese. Altri dissi con il padre che risulta ancora vivo. Nella documentazione palermitana abbiamo:«Si può passare l'investitura per la presente possessione tantum ob mortem Caroli Secundi regis Domini nostri in Palermo a 20 gennaro 1702 - Don Giuseppe Bruno.» Giuseppe del Carretto nel 1702 è plurititolato;questa la sfilza dei suoi feudi e titoli:Die decimo nono Januarii X ind. 1702 illustris d. Joseph del Carretto possessor ac dominus comitatus Racalmuti ducatus Bideni Marchionatus Sanctae Eliae et baroniae terrae Ferulae.Il padre don Girolamo III risulta ancora vivo a quella data del gennaio 1702. Se è vero che il figlio gli premorì, tale morte avvenne tra questa data e qualche tempo prima del 1711, quando ad avviso del Villabianca fu pronunciata la sentenza di assegnazione della contea di Racalmuto alla vedova di Giuseppe I del Carretto, BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA. Girolamo III del Carretto cessava di vivere il 9 marzo 1710. In un documento del fondo Palagonia riguardante don Luigi Gaetano si parla infatti «de morte sequuta dicti ill.s D. Hieronymi per fidem mortis Parochialis Ecclesiae Sancti Nicolaj de Calsa h. u. sub die nono martij 1710 sicuti de possessione dicti quondam ill.s d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris 5 ind. 1666.»I nobili del Carretto cessano quindi di essere i feudatari di Racalmuto il 9 marzo del 1710. Con tale data si chiude anche la nostra ricostruzione della vicenda feudale carrettesca in quel di Racalmuto. Quel che avviene dopo - e dura un secolo - è storia del baronaggio locale con gli Schettini, i Gaetano (la parentesi Macaluso non rileva) ed i Requisenz protagonisti. I nobili del Carretto racalmutesi - quanto al ramo maschile - si sono piuttosto malinconicamente estinti, prima dei grandi sconvolgimenti storici del 1713 allorché vi fu il breve avvento in Sicilia dei Sabaudi.FATTI E MISFATTI, FACCENDE E VICENDE RACALMUTESI
Il 1622 fu anno fatale per Racalmuto: sarà vero, non sarà vero, fatto sta che il pressoché impubere Girolamo del Carretto vi rimise la pelle. Per malattia, come noi pensiamo, per mano omicida di un servo, come tutto Racalmuto ha voglia di credere, poco importa. La peste è alle porte: Marco Antonio Alaimo a Palermo si diletta di letteratura latina e trasforma gli antichi saggi romani in maestri incommensurabili di medicina. Beatrice del Carretto, giovane vedova e bella ereditiera, forse tresca con il cognato arciprete, figlio illegittimo dell’irrequieto Giovanni Del Carretto.Il popolo soffre e tace: ma qualche tratto di penna cade nei registri della Curia Vescovile, a discreta memoria futura. Cataldo Morreale è racalumtese ma chissà perché langue nelle carceri (pare, personali) di tal Raffaele Gnandardone; e così Paolo La Licata, figlio di Pietro. Il vescovo viene a saperlo; se ne intenerisce (forse per denaro) e ne dispone “gli arresti domiciliari”. Ecco quel che oggi possiamo leggere nei sotterranei della Curia Vescovile di Agrigento:REGISTRI 1622 et 1623f. 181 Eodem ( die 21 9bris VI ind. 1622)Pro Cataldo Monreale Terrae Racalmuti ad presens carcerato in domo Raffaelis Gnandardone, et Paolo la Licata Petri terrae praedictae ad presens carcerato in Castro ..ANNOTATO provvisus et mandatum ... quod isti Cataldus Monreale et Paulus La Licata habeant facultatem et licentiam non obstante clausola contenta in prox.a accedendi ad terram Racalmutiibique commorandi per dies quatuor a crastina die numerandos trium et dumtaxat .. \
La giustizia curiale agrigentina era, diciamolo pure, compiacente con gli ottimati racalmutesi. E Laura Barba poteva allora vantare accondiscendenze episcopali, atte ad avere il sopravvento su Martino Curto, che non era poi l’ultimo venuto, anche se qualche vezzo usuraio dovette averlo. Una Laura Barba ubbidiente al marito fino all’autodistruzione della propria cospicua dote, non ci pare del tutto sincera. Non vuol essere spergiura e con palese menzogna si prostra al Vescovo per intenerirlo e farsi assolvere dai giuramenti (in campo economico) profusi in azzardate operazioni finanziarie. Il Vescovo ha voglia di crederle: noi, francamente, no. Al nostro paziente (eventuale) lettore lasciamo il destro di credere a chi voglia.
Die 26 novembre 1622 (f. 188) Nos Dilecte nobis in Xristo Laurie relictae quondam Antonini Barba Terrae Racalmuti agrigentinae doecesis salutem . Fuit nobis ex parte tua supplicatum .. ut nos provisum sub forma sequente Videlicet. ... Laurea relicta dello quondam Antonino Barba della terra di Racalmuto espone a V. S. Ill.ma che non potendo resistere essa esponente alla violenza et timore di detto suo marito fu costretta in tempo di sua vita tantum per vim et metus concussam quantum reverentia maritali obligarsi quantum debitoris di detto suo marito con gravissima et enormissima lesione con prejudizio della sua dote, sicome si obbligao contra sua voglia in solidum con dicto suo marito ... di onze 1. 15 di rendita dovuti et da pagarsi ogni anno a Martino Curto. In virtù di questa subjugatione fatti nelli atti di notaro Simuni Arnuni di Racalmuto … et anco detto suo marito la fece obligarsi ad una venditione di certi casalini venduti a D. Giuseppe Sanfilippo. In virtù di questo fatto all'atti di notar Natali Castrogiovanni die 20 octobris XV Ind. 1616 et più la feci obligari sicome lo obligao in una permutatione, et cambio di una vigna di detto suo marito con una vigna di Angilo ...... per la quale permutatione essa esponenti si acollao pagare in solidum con suo marito o. 1 ogni anno allo Convento di S. Maria di Gesù di Racalmuto. In virtù di questo fatto nelli atti di notaro Simuni Arnuni di Racalmuto et similmente la fece intervenire et obligare a certi terraggi dovuti a Fabricio di Trapani. In virtù di questo fatto nelli atti di notarr Natali Castro Gio: dicti et anco in uno altro contratto debitore di onze 40 dovuti ad Angelo Duno (?) In virtù di ... li quali obligationi benche de jure siano nulli et nullissimi tutta volta a maggior cautela pretende detti atti far dichiarare invalidi et nulli et rescindere et obstandoli li giuramenti prestati et contenuti in detti contratti li quali non devono esser vinculo di iniquita per tanto non resultandoli tanto grave preiudicio et interesse di sua dote della quale non può ne deve restare indotata de iure. Supplica perciò V. S. Ill.ma resti servita ordinazione che sia absoluta da tutti et singuli iuramenti in genere et in specie facultate et expresse presbiti et presentem ab illo iuramento petendo absolutionem et ea obtenta non ... ad effectum agendi et concederli ditta absolutione . In forma ... Agrigenti die 8 novembre VI ind. 1622. Ex parte fuit provisus et .. quoad absolvatur ab omnibus et singulis iuramentis in genere et specie presbiteris ad effectum agendi tunc et dumtaxat .... Non erano tempi quelli in cui i Curto riuscivano ad intessere buoni rapporti con il vescovo di Agrigento. Una condanna in contumacia se la becca Antonino Curto fu Bartolo. Il vescovo dà incarico al locale Vicario per l’esecuzione dell’episcopale afflizione.(f. 191) die 29 novembris 1622Contumacia Antonini Curto quondam Bartholi terrae Racalmuti et tali fermiter huius episcopi ... agrigentinae diocesis directa R.do Vicario d.ae Terrae Di casa sul colle vescovile era ovviamente il chierico, già ricco, famoso e felicemente sposato. Ha voglia di andare in giro in abito clericale. Fa voti al vescovo ed il vescovo è ben felice di esaudire il mistico desiderio del pittore racalmutese. Die 29 dicembre 1622 (f. 213)
Nos dilecto in X.sto filio Cle: Petro d'Asaro terrae Racalmuti. quia ex parte tua fuit nobis suplicatum ut tibi observaternales (') litteras ... licentia abitum clericalem insumendi ac gerendi expositis concedere digneremeur ideo fuit per nos ad relaciones .....in dorso memorialis ebibis quod fiant ... in forma ut sequitur .. Bonincontro ... filio Petro de asaro d.ae terrae Racalmuti salutem ... ex parte tua fuerit nobis .. expositum quod cum fueris
Il 5 febbraio 1621 s’erge già imponente l’attuale Matrice intitolata a Santa Maria dell’Annunziata: certo non era ancora il tempio a tre navate che oggi contraddistingue Racalmuto e quella strana svolta del corso principale che gli ottocenteschi massoni racalmutesi hanno voluto dedicare all’eretico ed ostile Garibaldi. Ma non era più l’ecclesiola degli anni ’40 del 500. Vi officiava anche don Santo d’Agrò, e se pur accarezzava il sogno (lugubre) di farsi seppellire sotto il primo altare della navata laterale, non si può dire che avesse tutti quegli alumbiamenti che dopo gli appioppò, infondatamente, Leonardo Sciascia. Vicino c’era già un altare che veniva servito dai confrati di S. Giuseppe. E sotto la detta data del 5 febbraio 1621, quel sodalizio (confraternita senza dubbio della buona morte) ottiene dal dottor don Gabriele Salerno (U.I.d. e vicario generale) tanto di bolla episcopale che avrà reso felice il Governatore (della religiosa confraternita, s’intende) Francesco lo Brutto ed i notabili (i confrati “officiali”) Jacobo Grillo, Benedetto Troyano, Girlando Gueli e Vincenzo Macaluso. «Cupientes – scandisce oltremodo solennemente, il Salerno – vobis [concediamo] licentias et facultates .. fundandi ac oratorium costruendi sub titulo S. Joseph, sacchos et mantellos apportandi et deferendi in processionibus et exercitia spiritualia exercendi in dicta ecclesia S. Mariae Annunciatae in cappella S. Joseph …» Saremmo stati veramente curiosi di vedere questi nostri secenteschi antenati, tristi e compunti, nelle sacre processioni e goderci lo spettacolo di codesti allucinati figuri nei loro lunghi “sacchi” e con quelle azolate mantelline, mistificante sagra di un contristato rito religioso con attori poco sinceri, reduci forse da orge vinaiole consumate nelle tante “putie di vino” nei bassi del Castello o negli anfratti di Zia Betta.
Chi davvero fosse Pietro d’Asaro, se un pittore, o un appaltante o un banchiere camuffato da chierico, non si sa. Se in un primo tempo, Sciascia lo voleva famiglio del Sant’Ufficio, dopo lo scrittore si ricredette e lasciò padre Alessi nell’imbarazzo della scelta, scrivendogli che degli antichi ricordi gli era rimasto un segno tanto sbiadito da non ricordare, tutto sommato, più nulla. Certo, Pietro d’Asaro un gruzzoletto se l’era fatto, ed anche se proveniente da famiglia non poverissima (è dubbio se fosse di antica origine racalmutese) un bel salto nella scala dei valori sociali il pittore, cieco di un occhio, l’aveva bellamente compiuto. Ecco un suo “rivelo”:
389 - Rivelo che il Cl. Don Pietro d'Asaro, clerico coniugato di questa terra di Racalmuto presenta con giuramento nell'officio del signor D. Giacomo Agliata capitano d'arme del Regno nella nuova numerazione delle anime, e facultà in virtù di bando d'ordine di d. sig. cap.no d'arme in detta terra a 25 novembre Va ind. 1636 [cfr. Maria Pia Demma: Percorso biografico ed artistico, in Pietro d'Asaro «il Monocolo di Racalmuto» - Racalmuto 1985, p. 23 e pag 30 - "Archivio di Stato di Palermo - Tribunale del Real Patrimonio, Riveli del Comune di Racalmuto, anno 1637, vol. 607, f. 389 r.]Anime
m Cl. d. Pietro d'Asaro c. di casa d'anni cinquantasetteo Vincenza mogliem. Michel Angilo d'anni dodicim. Gio:battista d'anni quattordicio. Rosaleao. Dorotheao. Ninfa figlio. Gioanna madrem. e. Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolom. Angilo Lo Sardo garzone d'anni dodicio. Caterina eo. Natala zitelle
Beni stabili
Una casa in otto corpi solerati e terrani in questa terra, quartieri di S. Giuliano confinante con la Casa di Pietro di Giuliana e via publica dove habita, quale un anno per l'altro franca di conti si potria locare onze quattro che à 7 per 100 il capitale di cinquantasette e quattro........................ 57. 4
Una casa terrana in un corpo di detta terra, quartieri predetto,confinante con la casa di Pietro di Giuliana e via pubblica, quale un anno per l'altro franca di conti l'hà soluto e suole locare tarì quindici che à 7 per cento. il capitale onze 7 e tarì quattro............................................. 7. 4
Altra casa terrana in tre corpi in detto quartieri confinante con la casa di Giovanni Lo Sardo quale un anno per l'altro franca di conti l'ha soluto e suole locare onza una e tarì 12 che à 7 per 100 il capitale onze 21 e tarì 12 ..........................21.12
Una vigna di cinque migliara nella contrada del Serrone territorio di questa predetta terra confinante con la vigna di Giacomo Xibetta e vigna di Francesco di Laurenzo, della quale un anno per l'altro ricava botti quattro di musto che ragionato ad onze 2.18. la botte importa onze diece e tarì dodici delli quali deduttine onze sette per tutti conti a ragione di onze 1.12. per migliaro restano onze tre e tarì dodici che à 7 per cento. il capitale onze quarantotto e tarì sei .....................................48.6
[390]
Terra lavorativa salme due con migliara sei di pianta infruttifera dentro nella contrata della Montagna territorio predetto confinante con la Chiusa di Stefano d'Agrò, e chiusa di Giuseppe Casuccio quale ragionata ad onze 2.20. la salma importa onze cinque e tarì diece che à 7 per 100 il capitale settantasei e tarì cinque..............................................76.5
e più terra lavorativa salma una nella contrada di Garamoli territorio predetto confinante con la terra di Salvatore d'Acquista e con la Chiusa di Giuseppe Ferraro, quale ragionata come sopra importa onze due etarì venti che à sette per cento il capitale onze trentotto e tarì due ........................38.2
Rendite
Dà Mario Morreale di questa predetta terra onze tre e tarì quindici iure sub.nis s.a una sua vigna e chiusa nella contrata di la fico territorio di detta terra che à 10 per 100 il capitale onze trentacinque .........................................35.
Dalle infradette persone di d.a terra onze due e tarì quindici sopra l'infrascritti loro beni in detta terra e suo territorio iure subiug.nis cioè onze 1.2 da Francesco la Matina sopra una sua vigna e chiusa et tt. 28 da Maria Macaluso rel. del q.m Vincenzo sopra una sua chiusa e tt. 15 dà Pietro Sferlazza Marramao, su una sua vigna che à 10 per 100 il capitale onze venticinque................................................25. -------------- onze [/'] 308.3 ====================
Beni mobili
Prezzo di detta pianta infuttifera importa onze trenta ...30
Una giumenta di sella di pelo baio di prezzo onze 8 ...... 8
frumento seminativo dentro la suddetta prima chiusa tt.na [tummina] dudici che ragionata ad onze 4.26 lasalma importa onze tre e tarì venti........................3.20 -------- 41.20 =========
Gravezze stabili
Paga ogni anno s.a tutti li suoi suddetti beni onze sei e tarì sei iure prop.tis all'Ill.mo conte di detta terra che à 7 per cento il capitale onze ottantasette e tarì due ...................87.2
e più paga sopra detti beni iure subiug.nis cioè onze 1.18 alla Cappella della SS.ma Nunziata tt.24 alla Cappella del SS.mo Sacramento e tt. 18 alla Compagnia del Suffraggio che a 10 per 100 [391]il capitale importa onze trenta.........................30. ------- onze 117.2 ===============
Gravezze mobili
Deve onze ducento a Leonora d'Asaro di detta terra re: dal q.m Bartholo d'Asaro per causa et compenso delle sue doti assegnatele per testamento di d.o q.m Bartholo in notaio Simone d'Arnone di detta terra di onze....................................200
===============
Ristretto
Maschi d'età 1
d'altri 4
femine 7 _____
anime 12 ======
Giumente di S. .....1Beni stabili .........308.03
Beni mobili........... 41.20 ----------- 349.23
gravezze stabili......117.2.gravezze mobili.......200 ----------- 317.2. ---------- liq. onze 32.21. =========== (Trombino)
Terra Racalmuti die 14 dicembris V ind. 1636
Le chiese di Racalmuto nella ricognizione dei visitatori regi.
Sulle visite del De Ciocchis attorno agli anni Trenta del 'Settecento v'è ampia letteratura.
Mi diffondo sull’argomento perché indottovi da alcuni documenti trovati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma sui poteri inquisitori della Monarchia della Sicilia sullo stato delle chiese. Basilare, in ordine al diritto ecclesiastico di Sicilia, appare la visita di Mons. De Ciocchis che si svolse tra il 4 maggio 1741 (data iniziale dell’incarico ricevuto da Carlo III a Portici) e il 27 giugno 1743. Il De Ciocchis fu un visitatore molto diligente, sino forse alla pignoleria. Le risultanze di quella visita devono trovarsi a Palermo, ma non posso escludere che in gran parte siano finite a Napoli, presso la corte borbonica. Molti suoi provvedimenti saranno stati raccolti in processi lasciati presso le varie curie vescovile. Mi pare che il prof. Manduca abbia trovato qualcosa ad Agrigento, tra i documenti dell’Archivio Vescovile. Ma è certo che, data l’importanza delle varie disposizioni del De Ciocchis - considerate valide sino all’unità d’Italia -, si è proceduto nel 1836 alla pubblicazione in due volumi del materiale di quel visitatore regio. Nel primo volume dedicato alla Valle di Mazara, alle pagine pp. 235-372, si parla della diocesi di Agrigento. Là, di certo, v’è molto materiale sulle chiese di Racalmuto. Per le tue ricerche vi possono essere spunti preziosi. L’opera s’intitola: DE CIOCCHIS, GIOVANNI ANGELO: SACRAE REGIAE VISITATIONIS PER SICILIAM ACTA DECRETAQUE OMNIA, Palermo 1836, Diari Letterarii . L’opera è praticamente introvabile fuori della Sicilia. Riscontro in una pubblicazione specializzata “CLIO” che una copia trovasi presso la Biblioteca Universitaria di Messina. Ma qualche copia deve pure essere disponibile in Palermo. Guarda, dunque, un po' se puoi procurarti le fotocopie almeno delle pagine che riguardano Racalmuto.Per le vicende di Santa Rosalia, andrebbero consultate le visite dei predecessori del De Ciocchis. Secondo quel che ne leggo in un importante libro del 1846 (GALLO AVV. ANDREA CODICE ECCLESIASTICO SICOLO - PALERMO DALLA STAMPERIA CARINI - 1846 VOL. 1 E 2 - ) essi sarebbero:- Pietro Pujades «Si elegge un visitatore di tutte le Chiese di Sicilia, al quale si conferisce la potestà di far decreti relativi al culto divino.L'imperatore Carlo V re di Sicilia - A Pietro Pujades Ab. del Monistero di Noara dell'Ordine di S. Bernardo. Bruxelles 22 dicembre V Ind. 1516 apud Di Chiara de regio Sacram. Visit. per Sicil. jure; Mantis. monument. num. III, pag. 5».- D. Nicolò Daneo «Si elegge altro Visitatore di tutte le chiese regie di Val di Mazara e di Valdemone, con gli incarichi come sopra. M. Antonio Colonna Vicerè di Sicilia.Nel nome del re al rev. D. Nicolò Daneo ab. di s. Maria di Terrana, Palermo 19 maggio VII ind. 1579 apud cit. Di Chiara n. VI pag. 10 (pag. 135)DIPLOMA CCXXI... vi eligemo, deputamo, e nominamo visitatore, e commissario generale delle Prelazie, Abbatie, Commende, Priorati, ed altri beneficii del jus patronato regio, i quali siano fondati nelle Valli di Mazzara, e Demini, et anche etc. .. e delli loro membri, pertinentie, grancie, acciocché abbiate a provvedere ... Datum Panormi die 19 Maii 7 ind. 1579»
- D. Lupo del Campo «Si nomina un visitatore delle chiese di regio patronato, per la reintegrazione dei beni usurpati ed alienati in danno di dette chiese, al quale si conferiscono pieni poteri.Filippo II re di Sicilia.A Lupo del Campo. Madrid 24 febbraio 1588. apud. Cit. Di Chiara n. VII pag. 12.DIPLOMA CCXXII... tibi dicto Doctori D. Lupo del Campo commictimus, praecipimus, et mandamus etc. ....Datum Matriti die 24 mensis februarii anno a nativitate Domini 1588 - YO EL REY».Ma stando agli studi di Virgilio Titone (Origini della Questione Meridionale - Riveli e Platee del Regno di Sicilia - Milano 1961, pag. 56) abbiamo un elenco completo di codesti Visitatori Regii (ad eccezione invero di d. Lupo del Campo di cui sopra, anno 1588).Il Titone a pag. 56 dice sul Puyades: «Le sacre visitazioni di cui abbiamo memoria, hanno inizio quasi nello stesso tempo dei riveli. La prima sembra essere stata quella di Pietro Puyades, abate di Nohara, negli anni 1511, 1514, 1516, e parecchie se ne ebbero nel corso di quel secolo.. Ma dal 1580 al 1743 se ne ricordano solo due, l’una fatta nel 1603, l’altra iniziata, ma non compiuta, nel 1683.»Il Titone ci indica anche dove si trovano gli atti a Palermo. Aggiungo, da parte mia, solo che ho riscontrato nella “GUIDA GENERALE DEGLI ARCHIVI DI STATO ITALIANO” 1986 - N - R nella parte riguardante Palermo a pag. 303 la seguente voce che ci conduce agli atti di quelle visite: CONSERVATORIA di REGISTRO. Al suo interno, trovo: <VISITE ECCLESIASTICHE>. Queste ultime contengono sicuramente i documenti del Vento (1542, n. 1305-07); dell’Arnedo, anno 1552, nn.° 1308-10; del Manriquez, anno 1576, n.° 1314-17; dell’Afflitto, anno 1579, nn.° 1310 e 1319; del Daneo, anno 1579, nn.° 2015-16; del Pozzo, anno 1580, nn.° 1326-29; dello Iordio, anno 1603, nn.° 1330-34; di Fortezza e Manriquez, anno 1683, nn.° 1337-39.Il Titone non dà estremi d’archivio per il Puyades perché la sua visita è antecedente alla raccolta di Palermo che come si è visto parte dal 1542.Per il De Ciocchis, il Titone - non so perché - si limita a citare soltanto il libro del 1836 (quello per me introvabile qui a Roma).
b) la possibilità di reperire alcuni documenti su Diego La Matina
La vicenda di fra Diego La Matina sta diventando una mia ossessione; reputo la questione molto falsata da Leonardo Sciascia nel suo libro “Morte dell’Inquisitore” per preconcetto anticlericalismo.Sciascia scrive: «Volentieri ci daremmo al diavolo con una polisa, se in cambio potessimo avere quel libro che fra Diego scrisse ”di sua mano con molti spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze...”». (pag. 219 dell’edizione Laterza 1982)Quel libro - semmai fu scritto - difficilmente si troverà. Bruciato da Caracciolo, forse, nel rogo del 27 giugno 1782 ( )Forse qualche accenno alle eresie - se mai queste vi siano state - poteva trovarsi in un manoscritto del Consultore del Santo Officio, il Matranga, tanto citato e tanto bistrattato da Leonardo Sciascia. Consultando il Mongitore della “Biblioteca Sicola”, la mia attenzione si è soffermata su questo passo: «Pre parata reliquit haec opera, quae in Bibliotheca S. Joseph Panormi servantur, nempè: «Fidei Acropagum, in quo propositiones innumerae quas ferrea nostra aetas, aut temerè vomit, aut callidè evulgandas protulit, subtilissime examinantur, et nota theologica incrementur; plurimaeque reorum causae ad Tribunal S. Inquisitionis spectantes referentur; Criminum qualitas, et circumstantiae expendentur, deque iis judicium fertur». [vedi Biblioteca op. cit. pag. 281 - ove Girolamo Matranga viene segnato come palermitano chierico regolare, nato nel 1605, che prese l’abito il 25.3.1620. Fu per 40 anni consultore del S. Ufficio, censore oculatissimo. Esaminatore sinodale dell’arcivescovado di Palermo. Conosceva latino, greco ed ebraico. Morì in Palermo il 28 agosto 1679 all’età di 73 anni.]
Mi ero chiesto se in quel FIDEI ACROPAGUM fossero riportate anche le tesi che avrebbe sostenuto fra Diego La Matina e quali contradeduzioni avesse addotto l’erudito Matranga. Sciascia, che ha fatto (e per quel che mi risulta, ha fatto fare) indagini sul nostro frate di Racalmuto, non accenna a questa opera del Matranga. Resta da vedere che cosa intendeva il Mongitore riferendosi alla “Biblioteca di San Giuseppe di Palermo” ed eventualmente dove sono andati a finire i manoscritti che quest’ultima conteneva. In ogni caso bisognerebbe vedere che fine ha fatto il manoscritto del Matranga citato dal Mongitore.
In un primo momento, ho ritenuto che il tutto fosse reperibile nella Biblioteca di Palermo o nell’Archivio di Stato di Palermo. Per quest’ultimo, la consultazione della relativa Guida mi porta ad escludere manoscritti provenienti da quella Biblioteca di S. Giuseppe. Resta la Biblioteca del Comune. Investigazioni fatte qui a Roma in proposito, purtroppo mi sono tornate infruttuose.
Quanto a fra Diego La Matina, non è da escludere che nella sezione del “Tribunale del S. Ufficio” dell’Archivio di Palermo (vedi Ricevitoria ed anche Carceri 1604-1765, vol. 8 <pag. 315 della Guida generale citata>) possa ritrovarsi qualche cosa. (La pubblicistica su questa sezione dell’Archivio è, nelle mie conoscenze, limitata a Notizie Archivi di Stato NAS 1954 pp. 79-81 e Rassegna Archivi di Stato RAS 1971 pp. 677/689).
Le date su cui concentrare l’attenzione potrebbero essere queste:
- 1644 fra Diego la Matina commette un reato che ricade sotto la giustizia ordinaria, ma viene rimesso al Sant’Uffizio (Sciascia op. cit. pag. 195, ma dai Diari del D’Auria );
- 1645 “fra Diego è di nuovo davanti al sacro tribunale” (sempre Sciascia, pag. 199);
- 1646 - ritorna per la terza volta sotto il giudizio del Santo Officio che ne “volle punire l’ostinazione se non l’eresia” (Sciascia, pag. 200);
- 12 gennaio 1648 fra Diego «usci allo spettacolo la seconda volta assoluto, e tornò in galera» (Auria, citato da Sciascia ibidem);
- 7 agosto 1649 «sedusse alcuni forzati di galera» (ibidem. pag. 201);
- 1650 «uscì per la terza volta allo spettacolo ... condannato e recluso murato in perpetuo in una stanza» (ibidem);
- 1656 «Dallo Steri fra Diego evase nel 1656: aprì con meraviglia di chi vide il loco, ed il fatto udì, delle segrete Carceri fortissimo muro (Matranga) e fuggì con il laccio della tortura, quale trovò in certo luogo (Auria)» Sciascia, pag. 202);
4 aprile 1657 - «Si seppellì - annota Auria (Sciascia, pag. 176) - ...D. Giovanni Lopez Cisneros, inquisitore [morto per le molte percosse dategli da] fra Diego La Matina della terra di Ragalmuto, dell’ordine della Riforma di s. Agostino, detti li padri della Madonna della Rocca..»;
- 2 marzo 1658 Matteo Perino annuncia per il 17 marzo 1658 lo Spettacolo Generale di Fede, nel piano della Madre Chiesa (Sciascia, pag. 208);
- 17 marzo 1658 - Si abbandona «fra Diego al suo destino infernale ... (bruciato vivo sopra un) mucchio di legna, nel piano di S. Erasmo» (Sciascia, pag. 212).
c) la questione dei “maragmeri”.
Il Titone scrive (op. cit. pag. 58 nota 8): «Maramma val quanto fabbrica: masse e maramme si chiamano quindi le amministrazioni delle rendite destinate al mantenimento e restauri dei sacri edifizi». Il termine “maramma” è dialettale, ma risale a data antica (lo ritrovo in un diploma del 15 luglio 1489). E’ termine giuridico, tant’è che trovo un intero titolo del Codice Ecclesiastico Sicolo di Andrea Gallo (libro III, pag. 121 e segg.) dedicato appunto alle maramme. Stando ad alcune disposizioni del De Ciocchis, emergono la seguente terminologia e le seguenti locuzioni:« XIV. Della riparazione delle chiese, delle Maramme e degli spogli dei prelati.»; « introitus Maragmatis»; «reditus Maragmatis administrantur antiquitus per duos Maragmerios qui a rege tamquam Ecclesiae Patrono eligebantur»; «.. hi duo Maragmerii non ecclesiastici a solo Senatu [eletti]»; «Caeterum quod expensiones, quietantiae, mandata syngraphe de recepto, ac omnes quicumque actus, ab utroque simul Maragmerio fiant sub poena nullitatis»; «capsa depositi Maragmatis, servetur in thesauro Ecclesiae»Ferdinando II di Castiglia Re di Sicilia e per lui Ferdinando di Acugna Vicerè di Sicilia sancisce che «niuno officiale marammiere che ha incarico della costruzione di una Chiesa, vi possa apporre, dipingere o scolpire le sue armi gentilizie.» [ Palermo 15 luglio 1489. Prag, Regni Siciliae Tom. II. tit. 42. pragm. Unica pag. 404].
Da quanto sopra mi pare che emerga che il “marammeri” o “marammiere” (alla latina “maragmeri”) più che un tecnico simile al nostro “geometra” era un amministratore (religioso, ma qualche volta laico) di istituzioni per la costruzione o la conservazione di edifici sacri (Fabbrica, massa , maramma, dice il Titone).
Quanto a Racalmuto, trovo tra i miei appunti questo passo del registro della “Fabrica” della Matrice:
31.8.1677 A m.° Vincenzo Picone mandato di maramma onze setti, e tarì dudici per haver fatto altri ripari alla matrice chiesa, cioe per fare lo Campanaro per gisso, mastri, petri et acqua, et altri -/ 4 - per molti adobbi al solo della chiesa -/ 1. per mettere tre legnami ... per gisso et altre -/ 2.12. come per mandato spedito, et apoca in d. notaro a 15. 8bre p.ma Ind. 1677 dico -/………………………………………………………………………………………..12
Alla luce delle precedenti puntualizzazioni, debbo quindi ritenere che il Picone non era ‘marammieri’ ma soltanto destinatario di incarichi da parte della “maramma” della Matrice.
Spostiamoci di qualche decennio. A Racalmuto si ruba, si fa dell’abigeato. Del resto, accanto ai poveri in canna, v’è gente che possiede varie terre, ha frumento, ha casa in paese, possiede capre, si permette persino “una mutanda”. Tale Lorenzo Pitruzzella è uno di questi. E’ preso di mira dai paesani poveri – e ladri – e se ne dispera. Ricorre al vescovo: spera che una delle tante “monitoriali”, con la comminazione di gravi pene religiose, di plateale scomunica, possa commuovere il protervo ladro, sicuramente un vicino senza beni di fortuna. La Monitoriale arriva: i beni rubati - siamo sicuri – no.Die 11 agusti 1643Factae Monitoriales directae rev. Archipresbytero terrae Racalmuti ... Semo stati significati da parte di Lorenzo Pitruzzella di ditta terra qualmenti ci sono stati sgarrati novi bestioli, rubati salmi mutanda nella sua casasei di furmento nel suo magazeno, rubati dui crapi, una naca afforata alla Menta …»
Correva l’anno del Signore 1686: il francescano Francesco Maria Rini dominava la diocesi di Agrigento. Racalmuto sembra preso da un empito religioso, e, quel più conta, ha voglia di subordinarsi fino all’inverosimile alle autorità ecclesiastiche del capoluogo. Nella chiesa di San Michele – poi divenuta il Collegio per sopraffazione degli arrampanti Tulumello, più o meno in veste di neo-baroni – si vuole una sorta di perenni Quarantore: vi suol conservare il Santissimo in perpetuo. L’uomo “pio” è il racalmutese arciprete Vincenzo Lo Brutto, la cui ladipe funerea giace nell’abside dell’estreneo S. Giovanni Bosco in Matrice, almeno finché il calpestìo delle locali beghine – ed il loro furore postmestruale – lo consentiranno. Vi era in S. Michele la confraternita del Purgatorio: ve l’aveva dirottata l’autoritaria pietà di Donna Beatrice Del Carretto, nata Ventimiglia, sfrattandola dalla chiesuola di Santa Rosalia. Il vescovo francescano ha stima di quei “frati” laici e gratificandoli della “salute sempiterna nel nome del Signore” (Dilectis nobis in Xhristo filiis devotis Gubernatori e confratribus Venerabilis Societatis animarum S.ti Purgatorii fundatae intus venerabilem Ecclesiam S.cti Michaelis Arcangeli Terrae Racalmuti … salutem in Domino sempternam) gli affida nientemeno che l’ «augustissimum Eucaristiae Sacramentum.» La chiesa era, del resto, decenti muro et in loco satis ad hoc comodo constructa, reddittum dives, iocalium omnium bene ornata, lampadam diu noctuque accensam habens.» Era il 17 giugno del 1686. Firmava il provvedimento il vescovo fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus. Controfirmava il canonico Lumia. Rogava il notaio Vincenzo Calafato.Qualcosa di analogo avveniva nella Chiesa del Monte ove era insediata la più coriacea confraternita di Santa Maria del Monte. Intermediario il solito arciprete Lo Brutto. Quando assistimiamo impotenti all’agiografico osannare il padre Signorino, pur meritevole prete racalmutese ma del settecento, ci viene in mente questa lapidaria descrizione della Chiesa del Monte risalente alla metà del Giugno del 1686: «ecclesia – vi si dice - decenti muro et in loco satis ad hoc comodo constructa, reddittum dives, iocalium omnium bene ornata, lampadam diu noctuque accensam habens», che sarà stata stantia formula rituale ma qualcosa di vero doveva pure contenere.Forse è annotare che in tempi tanto calamitosi, con miseria e pessima nutrizione, con tanti braccianti alloggiati ancora in grotte o in case “copertae palearum” come ai tempi del’esattore papale, l’arcidiacono Du Mazel, tanta voglia di esporre il Santissimo in troppe chiese – sontuose al confronto del circostante ludibrio abitativo – appare irridente, forse addirittura sacrilega. * * *Francesco Lo Brutto aromatarioScrivevo qualche mese fa:Non sono disponibili dati anagrafici su Francesco Lo Brutto. Riteniamo che fosse molto più anziano del sac. Santo Agrò e gli sia premorto, ragion per cui non può avere sostenuto le spese di miglioria della nuova matrice, specie quella a tre navate che sappiamo operante solo dopo il 1662. Nella numerazione delle anime del 1660, il nominativo non figura per nulla e quindi era deceduto da tempo.
Una recentissima consultazione del Rollo Primo del Suffragio apre qualche spiraglio sulla identità di questo speziale del seicento tramandatoci dal Pirri. Ai fogli 72 e seguenti abbiamo la cronistoria di un legato di don Gaspare Lo Brutto alla Confraternita del Santissimo Suffragio delle Anime dei defunti fondata nella Matrice. La lettura degli atti ci consente di stabilire che il sacerdote è figlio di Antonino Lo Brutto e che l’aromatario Francesco Lo Brutto era un suo fratello. Gli atti risalgono al 20 ottobre 1616 ed al 3 ottobre 1617.Da qui è piuttosto agevole risalire al nucleo familiare secondo quel che emerge dal Rivelo del 1593. Non vi dovrebbero essere dubbi che il “fuoco” in questione sia il seguente:
LO BRUTTO ANTONINO CAPO DI CASA DI ANNI 48 - CONSTANZA SUA MUGLERI - VINCENZO SUO FIGLIO DI ANNI 18 - GIAIMO SUO FIGLIO DI ANNI 17 - FRANCESCO SUO FIGLIO DI 15 - JOSEPPI SUO FIGLIO DI ANNI 10 - GASPARO SUO FIGLIO DI ANNI 5 - ANTONELLA SUA FIGLIA - NORELLA SUA FIGLIA
L’aromatario del Pirri dunque nacque a Racalmuto attorno al 1578 da Antonino e Costanza Lo Brutto. I suoi fratelli, oltre al sacerdote che morì molto giovane (il 4 ottobre 1617 secondo il Liber c. 2 n.° 31), furono Vincenzo (nato attorno al 1575), Giaimo (nato attorno al 1576) e Giuseppe (nato il 19.1.1585); le sue sorelle: Antonella (nata il 26.9. 1581) e Norella. Quest’ulima si sposò con un fratello di Pietro d’Asaro:23 10 1622 D'ASARO BARTOLO di GIOVANNI q.am e di GIOVANNA con LO BRUTTO Leonora di Antonino q.am e di Constanza. Testi: Curto cl. Panphilo e Sferrazza Mariano. Sacerdote: Sanfilippo don Gioseppe Trattasi del fratello del Pittore . Bartolo era nato il 10.12.1597.
Don Gaspare Lo Brutto morì dunque all’età di 29 anni come dal seguente atto e fu sepolto a S. Giuliano:
4 10 1617 Lo Brutto don Gasparo S. Giuliano Per lo clero gratis
Ecco come è ricordato nella visita del 1608:cl: Gasparo Brutto an: 20 cons. ad duos p. min. ord. die 19 maij 1606 PanormiUn giorno prima di morire fa testamento e dispone il seguente legato in favore della Cappella del Suffragio delle Anime del Santissimo Purgatorio fondata nella Matrice chiesa:Est sciendum qualiter iner alia capitula donationis mortis causa condite per condam don Gasparem Lo Brutto in actis meis infrascripti sub die iij octobris prime ind. 1617 extat capitulum pro ut infra:Item dictus donans donavit et donat legavit et legat Confraternitati SS.mi Suffragij Animarum SS.mi Purgatorij fundate in Hac Terra Raclmuti tt.os viginti quatuor redditus de summa supradictarum unciarum trium anno quolibet debitarum per dittum Don Antoninum Capoblanco ad effetum celebrandi missas viginti quatuor de requie pro animas defunctorum anno quolibet in perpetuum scilicet: missas duodecim in quolibet nono die mensis novembris cuiuslibet anni et missas duodecim hoc est in die lune cuiuslibet mensis unam missam in perpetuum quoniam sic voluit et non aliter.Ex actis meis not. Natalis Castrojoanne Racalmuti.Il 20 ottobre del 1616 don Antonino Capobianco era ancora chierico. Egli è costretto a sistemare una intricata vicenda giudiziaria proprio con don Gaspare Lo Brutto. Questi è però già infermo e manda al suo posto proprio l’aromatario ricordato dal Pirri, Francesco Lo Brutto appunto. Il resoconto trovasi nell’atto del Rollo del Suffragio (f. 72)Die xx octobris XV ind. 1616Notum facimus et testamur quod Franciscus Lo Brutto Aromatarius huius terre Racalmuti tamquam commissariatus D. Gasparis Lo Brutto eius fratris a quo dixit habere tale specialem mandatum ... sponte quo supra nomine pro heredibus et successoribus dicti D. Gasparis in perpetuum vendidit et alienavit .. clerico Antonino Capoblanco eiusdem terre Racalmuti ... unam vineam de aratro arboratam cum eius clausura in duabus partibus cum suis puntalibus domo torculari limitibus maragmatis gessi et alijs in ea existentibus sitam et positam in feudo predicto Racalmuti et in contrata Garamolis secus vineam Hyeronimi Capoblanco ex una et secus aliam vineam dicti clerici Antonini emptoris et secus vineam heredum quondam Nicolai Capoblanco minoris et secus vineam Antonini Curto Bartholi et alios confines; et eademmet bona quae possidebat Nicolaus Capoblanco maiori, dictoque don Gaspari uti ultimo emptori et plus offerenti predicta bona liberata per primum et secundum decretum et actum possessionis inclusive redactum penes acta curie dicte Terre Racalmuti diebus etc. banniata et subastata ad instantiam quondam Antonini Lo Brutto et pro ut melius est expressatum et declaratum in dictis decretis superius calendatis ad quae in omnibus et per omnia plena habeatur relatio et me refero et non aliter nec alio modo.Totam dictam vineam cum omnibus supradictis etc. subiectam dictam vineam cum arboribus ... cum eius solito onere census proprietatis et directi dominii debiti et anno quolibet solvendi ill.i Comiti dicte Terre Racalmuti a quo ill.e proprietario prefati contrahentes ad invicem proprio eorum nomine licentiam auctoritatem et consensum reservaverunt et reservant cum debita et solita protestatione medianteEt hoc pro pretio unc. triginta quatuor p.g. de pacto et accordio inter eos absque estimatione ... de quibusquidem unc. 34 quoad uncijs quatuor dictus clericus Antonius dare realiter et cum effectu solvere promisit et promittit dicto d. Gaspari absenti ..Et pro alijs uncis triginta ad complementum dictarum unc. 34 dictus clericus Antonius vendidit et subiugavit dicto d. Gaspari Lo Brutto uncias tres redditus censuales et rendales .. super dicta vinea Item in et super quamdam aliam vineam sitam et positam in dicta contratasecus supradictam vineam et secus dictam vineam Antonini Curto de bartolo et secus vineam dictorum heredum quondam Nicolai CapoblancoItem in et super duabus domibus terraneis existentibus in dicta terra et in quarterio Fontis secus domos heredum quondam Vincentij Mannisi ex una et secus domos dicti Hieronimi Capoblanco ex alteraTestes Franciscus Manueli D. Michael Barberi et Joannes Franciscus PistoneEx actis meis not. Simonis de Arnone.In actis curie juratorum ..Grillus mag. not. Franciscus
Anche don Antonino Capobianco ebbe breve vita. Crediamo che sia una delle innumerevoli vittime della peste del 1624. Già il 22 novembre 1626 risulta deceduto. Naturalmente la cappella del suffragio si fa parte diligente nella riscossione del legato. Tocca al solerte don Santo d’Agrò, nella sua veste di deputato della Cappella del Suffragio delle anime del santissimo Purgatorio, fondata nella chiesa Maggiore, di sollecitare gli eredi, come dalla seguente carta notarile (Rollo Suffragio f. 75):Die XXII novembris X ind. 1626Fuit per me notarum infrascriptum ad instantiam don Sancti de Agrò deputati Capelle Suffragij animarum S.mi Purgatorij fundate in maiori ecclesia huius terre Racalmuti ... intimatum et notificatum Vincentio et Vito Capoblanco fratribus heredibus universalibus quondam don Antonini Capoblanco Sacerdotis olim eorum fratris presentibus et audientibus contractum de summa illarum unc. trium redditus annualium per ipsos de Capoblanco dicto nomine debitarum anno quolibet heredibus quondam don Gasparis Lo Brutto subiugantium per dittum quondam don Antoninum dicto quondam don Gaspari vigore huiusmodi contractus subjugationis facti in actis not. Simonis de Arnone die XX octobris XV ind. 1616, habeant et debeant anno quolibet solvere dicte Capelle Suffragij eiusque deputatis tt. 24 redditus e sunt pro alijs dette Cappelle legatis per dittum quondam don Gasparem in eius donatione causa mortis fatte in attis meis not. infr. die iij octobris p. ind. 1617 et nemini alteri solvere sub pena anno quolibet .... undeTestes Antonius Curto martini et Franciscus Curto JosephEx actis meis not. Natalis Castrojoanne. * * *
Giaimo Lo Brutto morì pure giovanissimo, appena ventiquattrenne, ed era ancora scapolo: non può quindi essere quello del noto processo dei Savatteri che rivendivano il beneficio del Crocifisso in quanto eredi del nobile Giaimo Lo Brutto:1 9 1600 Lo Brutto Giaimo Antonino Carmino per lo clero
La madre fu al contrario piuttosto longeva: morì nel 1636 e venen sepolta nella chiesa che il figlio aromatario avrebbe abbellita:27 6 1636 Lo Brutto Costanza m. del q.m Antonino Matrice sepulta in questa magior eclesia.
Su Leonora (Norella) Lo Brutto, sposatasi con Bartolo d’Asaro, possiamo piluccare qualche dato: Nel 1636 era già vedova. Le amministra i beni il pittore Piero d’Asaro che li include nel suo rivelo come sue “gravezze”. Dichiara il 25 novembre 1636 nel documento intestato:Rivelo che il Cl. Don Pietro d'Asaro, clerico coniugato di questa terra di Racalmuto presenta con giuramento nell'officio del signor D. Giacomo Agliata capitano d'arme del Regno nella nuova numerazione delle anime, e facultà in virtù di bando d'ordine di d. sig. cap.no d'arme in detta terra a 25 novembre Va ind. 1636tra le altre, la seguente “gravezza”:
Gravezze mobili
Deve onze ducento a Leonora d'Asaro di detta terra relicta dal q.m Bartholo d'Asaro per causa et compenso delle sue doti assegnatele per testamento di d.o q.m Bartholo in notaio Simone d'Arnone di detta terra di onze....................................200Ella morì a 74 anni nel 1663 come dal seguente atto:8 2 1663 D'Asaro Leonora 74 Uxor q. Bartholomei Matrice presente clero Agro' Libertino
MANSIONARI 1690
[DALL’ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRI VESCOVI 1689-1690 - F. 898 E SS.]
“Racalmuto - Concessione di insegne corali pei 12 mansionarii”
Nos frater don Xaverius Maria Rhini ex ord. min. reg. observantiae Sancti Principis nostri Francisci Dei et Sanctae Apostolicae sedis gratia Agrigentinus Regiusque Comitus etc: Dilecto in Cristo filio Ill.ri Domino nostro D. Hieronimo del Carretto principi comiti terrae Racalmuti huius nostrae agrigentinae dioecesis et salutem in Domino et nostram episcopalem benedictionem.
Perillustres hae imperialis familiae, et antiquissimae nobilitatis genus, multiplica servitia, quae ad suorum perillustrium Antenatorum imitationem, invictissimo nostro Catholico Hispaniarum Regi in muneribus militaris campi ad bellum in revolutionibus Civitatis Messanae, et in bello regio Galliae evidenti cum tuae vitae periculo in fonte inimicorum tuis maximis dispensiis manutendo societates militum siculorum, alemannorum et calabriensium, et vicarij generalis prius in civitate neti, et postea in hac Civitate Agrigenti, eamque repartimentis toto d. belli et revolutionum tempore contra Gallos ad singularem benefitium, et huius regni hi tamen prestiti, et in diem prestare non curans (?), quorum intuitu à predicto invictissimo Rege pias (?) ceteras mercedes habuisti munus Pretoris predictae Siciliae regni et clavem auream uti illius eques; aliaque innumera laudabilia merita nobis satis superque cognita nos inducunt, ut te specialibus favoribus, et gratiis prosequamur. Praemissa igitur prae oculis habentes in exequtione provisionis de ordine nostro factae in domo tuae suppicationis, tenore pretium Bullarum perpetuo valiturum concedimus facultatem, Reverendissimum Archipresbyterum et duodecim Mansionarios, et Chorales distributionarios à nobis eligendos, et qui pro tempore erunt in Sacra distributione de numero duodecim iam ex nostra facultate erecta et fundata pro divini cultus incremento, et Sanctissimi Purgatorii anumarum suffragio, per alias nostras Bullas expeditas sub die 12 Januarii currentis posse deferre capuccium sive Almutium sericum, quò ad rev.m Archipresyiterum et Vicarium nigri, et subtus rubri colorum, et quò ad alios nigri, et subtus violacii colorum..
Mandantes etc. ....
die 13 januarii 1690
OfficiatiSanto d’Acquista terrae Racalmuti (ex 12 coristi);don Antonio de Amico;don David Corso;don Vincentio Casuccio Racalmuti;don Francesco Pistone;don Nicolao Carnazza;don Filippo Cino;don Giovanni Sferrazza;don Francesco Savatteri;don Pietro Casuccio;don Vincenzo Castrogiovanni;don Santo la Matina.
don Caetanus Cirami (in casu vacationis mansionarium);don Fabritio Signorino (de suprannumerariis);
don Sthefanus Faija (soprannumerario della sacra distribuzione);don Calogero Cavallaro ( ‘’ ‘’ ‘’ ‘’ );don Pietro d’Agrò ( ‘’ ‘’ ‘’ ‘’ ).
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