Per
una storia del Castrum di Pescorocchiano
di
CALOGERO TAVERNA
Pescorocchiano
Se noi, venuti da fuori
ed incantati da questa aprica “rocca”, siam curiosi di sapere
qualcosa sulla storia di Pescorocchiano e consultiamo Internet, poco
o nulla riusciamo a sapere: tolta sorse la segnalazione i una
interessante saga delle castagne, restiamo a bocca asciutta. Ecco
perché questa paginetta di una visita pastorale del 1574 è cosa
davvero ghiotta.
Un vescovo, arcigno
metodico inflessibile, mons. Pietro Camaiani. Preso disacro furore
nei prodromi della riforma tridentina, ecco ad esempio come folgora
il prevosto di Pescorochiano: frater Franciscus Antonius de Arce
Ranisii [ordinis S. Francisci] imperitus ac ineptus in confessionibus
audienis, quare inhibitum sibi fuit. – INEPTUS. Il francescano,
dunque, era fin troppo birichino specie quando a confessarsi erano le
donne. Giudicato addirittura INETTO lo si interdice dalla
somministrazione del sacramento della Penitenza. Per il resto,
inesperto e carente, il vescovo Camaiani lo stronca con un aggettivo
dequalificante: INEPTUS, come dire INSUFFICIENTE, come nelle
pagelline dei miei tempi della scuola elementare.
Ma chi era questo
grifagno visitatore apostolico? In fondo una lunga nota su di lui lui
per chi abbia ben più di una semplice curiosità storica.
CAMAIANI,
Pietro
Dizionario
Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)
di
Gerhard
Rill
CAMAIANI,
Pietro. - Di famiglia patrizia, nacque ad Arezzo il 1º giugno 1519.
Della sua immediata parentela sono noti i fratelli Onofrio e
Bernardino, imprigionato nel 1548 nel carcere romano di Tor di Nona.
Nulla sappiamo dei suoi anni giovanili e della sua formazione
culturale; poiché in seguito gli venne rinfacciata la sua scarsa
conoscenza del latino, possiamo assumere che fosse privo di una
solida formazione umanistica. Entrato nel 1539 al servizio di Cosimo
I de' Medici, divenne nel 1545 segretario del Consiglio di stato col
compito precipuo di sottoporre al segretario ducale Cristiano Pagni
le relazioni degli ambasciatori.
Già
nel maggio 1545 cioè ancor prima dell'inizio della prima fase del
concilio, Cosimo aveva inviato a Trento suoi agenti perché gli
riferissero gli eventi della sede conciliare. Inviato dal duca, il C.
giunse a Trento nel febbraio 1546, inizialmente era stato incaricato
di proseguire per Regensburg, ove doveva assistere alle discussioni
tra cattolici e protestanti, ma apparentemente questa missione fu
revocata, ed egli rimase a Trento quale agente fiorentino, cioè
relatore e non rappresentante ufficiale del duca. I rapporti che
inviò regolarmente dalla metà di febbraio si distinguono per
precisione e sicurezza di giudizio oltre che per l'esattezza delle
informazioni, che egli doveva in primo luogo alla sua dimestichezza
con Angelo Massarelli, segretario del concilio. Quando questo decise,
l'11 marzo 1547, di trasferirsi a Bologna, il C. rimase inizialmente
a Trento con la minoranza imperiale, ma ben presto riconobbe
l'inutilità di una ulteriore resistenza, per cui Cosimo, alla fine
di maggio, lo inviò su sua richiesta a Bologna. Qui conobbe il
cardinale Giovanni Maria Del Monte, successivamente papa Giulio III e
protettore del Camaiani. La definitiva partenza del C. da Bologna, il
4 giugno 1549, offrì il pretesto al Del Monte per riferire a Roma
sull'inutilità di una prosecuzione del concilio. Nel settembre 1549
il C. ritornò ancora a Bologna, ma era solo di passaggio per
Venezia, ove fu per breve tempo "secretarius et agens" del
duca Cosimo.
Giulio
III affidò ripetutamente al C. missioni di rilievo politico,
anzitutto in connessione col conflitto parmense. Quando Ottavio
Farnese, che aveva riconosciuto la sovranità feudale del papa su
Parma, cercò di ottenere in Francia un appoggio contro le minacce
sue e dell'imperatore, Giulio III affidò al C. la missione di
dissuadere il suo vassallo dal ricercare tale alleanza.
Le
istruzioni impartite al C. il 16 febbr. 1551 stabilivano che
l'impegno scritto del duca a revocare l'alleanza con la Francia
avrebbe dovuto essere controfirmato dai suoi fratelli, i cardinali
Alessandro e Ranuccio. Ottavio dichiarò al C. che non poteva
revocare gli impegni contratti senza il consenso del re di Francia, e
anche tre brevi in data 27 febbraio indirizzati a Ottavio, Paolo
Vitelli e Ranuccio Farnese rimasero senza effetto, per cui il C.
ritornò a Roma e l'8 marzo fece il suo rapporto.
Dalla
fine di marzo ai primi di aprile il C. si recò nuovamente a Siena
presso l'oratore imperiale Diego de Mendoza per la questione
parmense, e con lui ritornò a Roma per colloqui con il papa. Dalla
fine di maggio agli inizi di giugno soggiomò a Bologna nella veste
di commissario pontificio, per raccogliere informazioni sulla
situazione finanziaria e gli apprestamenti difensivi della città,
oltre che sulla situazione militare di Parma. A metà giugno compì
un altro viaggio informativo a Urbino, da dove inviò dettagliati
rapporti sulle intenzioni dei Farnesi e del duca di Urbino, e sulla
disposizione degli animi a Fano, Rimini ed Ancona. Quale
plenipotenziario pontificio concluse ai primi di luglio col
comandante delle truppe imperiali Ferrante Gonzaga un accordo inteso
a coordinare le iniziative degli alleati contro Parma e Mirandola. Il
25 agosto Giulio III nominò il C. - tornato a Roma l'8 agosto -
"cubicularius secretus" e "continuus commensalis",
dotandolo anche di benefici a Firenze, Fiesole e Arezzo.
Il
papa, che aveva inviato ai primi di settembre 1551 il cardinale
Verallo a trattare la questione parmense con Enrico II di Francia,
decise di inviare presso l'imperatore un nunzio straordinario che lo
tenesse al corrente delle trattative, e destinò per questa missione
il cardinale Rodolfo Pio da Carpi e infine, quando questi si ammalò,
il Camaiani. Dato il modesto rango del C. - non era neppure vescovo -
questa designazione attesta la particolare considerazione in cui egli
era tenuto dal pontefice.
In
base alle istruzioni in data 10 ottobre, il C. doveva addurre le
ristrettezze finanziarie e l'amor di pace del papa a giustificazione
delle trattative con la Francia, ed assicurare contemporaneamente
l'imperatore che Roma non avrebbe concluso una pace separata.
Inoltre, nonostante le trattative condotte dal Verallo, egli doveva
concordare le ulteriori misure da intraprendere contro Parma.
Il
C. passò per Firenze, ove conferì con Cosimo, e giunse ad Augusta
il 21 ottobre; il giorno successivo accompagnò Carlo V a Monaco;
ritornò a Roma il 5 novembre. La sua missione riuscì solo
parzialmente, poiché l'imperatore, mentre acconsentiva a procedere
energicamente contro Parma, si dichiarava ora disposto a pagare
soltanto la metà dei 100.000 scudi precedentemente promessi. Pur
continuando le trattative con Enrico II, Giulio III permaneva
scettico nei confronti della Francia e il 21 dicembre inviava di
nuovo il C. presso la corte imperiale, con l'ordine di attendere colà
i risultati della missione Verallo e, se necessario, concordare un
piano di azioni contro Parma. Prima della sua partenza, il C. ottenne
l'ulteriore incarico di trattenere a Trento gli elettori di Magonza e
di Treviri, che volevano partirne a causa dei disordini in Germania;
era anche latore di brevi pontifici che dovevano facilitargli il
compito. Assolto con successo questo incarico straordinario il 30
dicembre, giunse ad Innsburck il 1º genn. 1552, accolto
amichevolmente dal nunzio ordinario alla corte imperiale, Pietro
Bertano, presso il quale fissò la sua dimora. Ma la loro
collaborazione, inizialmente buona, diede ben presto luogo a
divergenze.
Il
C., abituato ad agire autonomamente, vedeva nel cauto e malaticcio
Bertano un ostacolo alla sua libertà d'azione; inoltre voleva avere
al più presto una propria dimora e domestici (li ebbe solo alla fine
di febbraio). Finalmente trattò con l'imperatore e col Granvelle
all'insaputa del Bertano - cui tenne celata persino la chiave della
cifra - sicché il Bertano era costretto nel corso delle trattative a
simulare di fronte agli interlocutori di essere a conoscenza di
quanto il C. gli aveva consapevolmente nascosto. Il modesto Bertano
ne trasse le conseguenze, e chiese il proprio richiamo.Il 10 febbr.
1552 il C. veniva nominato nunzio ordinario e, contemporaneamente,
vescovo di Fiesole; il 26 marzo il Bertano partì da Innsbruck.
Il
C. aveva ottenuto così la desiderata autonomia, ma si era suscitato
anche molte inimicizie. Persino diplomatici di solito divisi da aspro
antagonismo, quali il rappresentante di Cosimo alla corte imperiale
Piero Filippo Pandolfini e l'ambasciatore di Ferrara Ercole Rangoni,
furono concordi nel giudicarlo: il C. ambiva soprattutto a
conquistarsi il maggior prestigio possibile nel minor tempo
possibile; epperò era "huomo senza lettere et poco pratico de'
negoti"; parlava e scriveva molto, ma in un latino scadente, il
che gli era valso il nomignolo derisorio di "il dicevolo".
Con questo giudizio concordava il Granvelle, che lo definiva
vanitoso, incostante e verboso.
Questi
giudizi sono confermati in parte dai rapporti del Camaiani. Il nunzio
vi criticava violentemente Carlo V e la sua corte; né dall'uno né
dall'altra v'era da aspettarsi aiuto o comprensione perché essi,
mancando di discernimento politico, badavano soltanto al vantaggio
immediato. L'imperatore desiderava ardentemente la pace universale,
perla quale aveva bisogno del papa, e pertanto non era necessario che
questi si sforzasse di adempiere ai propri doveri di alleato.
Conseguentemente il C. consigliava che la Curia, pur senza rescindere
del tutto "il filo dell'amicitia" con l'imperatore, non si
impegnasse in iniziative belliche e rimanesse in contatto con la
Francia almeno tanto quanto bastasse per non porre in pericolo lo
Stato della Chiesa e l'obbedienza della Chiesa francese. A quanto
sembra il C. ebbe l'imprudenza di esternare le sue opinioni anche ad
altri. Carlo V, quando venne a conoscenza della sua asserzione che
l'elettore di Sassonia avrebbe violato i patti qualora si fosse
accordato con l'imperatore, biasimò aspramente il nunzio, all'inizio
di maggio 1552, e il C. chiese il proprio richiamo. Ma Giulio III
rigettò la sua richiesta, e gli espresse nuovamente la propria
fiducia.
Il
C. pertanto rimase ancora alla corte imperiale, che seguì nella sua
fuga dinanzi a Maurizio di Sassonia da Innsbruck, fino a Strasburgo.
Qui, come gli altri ambasciatori, si separò da Carlo V che si recava
in Lorena, e si stabilì a Spira (settembre 1552). I suoi rapporti
avevano corroborato l'opinione del papa che l'imperatore fosse stanco
della guerra e fosse perciò facile convincerlo a una azione di pace.
Conseguentemente tanto più grande fu la delusione quando il 7
ottobre a Landau l'imperatore oppose un reciso rifiuto al C. che era
latore di una proposta in tal senso.
Anche
dopo questo insuccesso il C. consigliò di ripetere il tentativo
entro due-tre mesi, ché l'imperatore - secondo lui vecchio, malato,
avaro e stanco della guerra - e la Francia si ostinavano un contro
l'altro come cani intorno ad un osso e tutto ciò avveniva
probabilmente per volere di Dio, che così allontanava dalla Chiesa
una seria minaccia. Che il papa aspettasse perciò l'ora in cui
avrebbe potuto inserirsi, invocato terzo, tra i due esausti
contendenti. Questo consiglio del C. peccava contemporaneamente di
cinismo e utopia, in quanto non prendeva in considerazione né la
missione della Chiesa né la situazione politico militare in Italia
che non permetteva al Papato di assumere un ruolo di spettatore.
Dal
gennaio ai primi di settembre 1553 il C. rimase a Bruxelles con gli
altri ambasciatori accreditati alla corte imperiale. Quando venne a
sapere del progettato invio di un cardinal legato, prima cercò di
impedirlo, poi sperò che il papa scegliesse il giovane ed inesperto
cardinal nepote Innocenzo Del Monte. Finalmente non fu neppure
avvisato dell'invio del cardinale Girolamo Dandino, che giunse a
Bruxelles nel maggio del 1553. Se ne può dedurre una diminuzione del
prestigio del C. in Curia; in effetti egli, offeso, chiese il proprio
richiamo.
Il
Dandino si lamentava della sua scontrosa riservatezza nei rapporti
personali, e della scarsa disposizione del C. alla collaborazione ed
alla cortesia. Contrastava con questo e con i precedenti giudizi
negativi il parere di Girolamo Seripando, che ebbe frequenti rapporti
col C. a Bruxelles nell'estate 1553. Egli, come il duca Cosimo, lo
stimava "propter ingenii acumen, fidem, diligentiam ac
dexteritatem", e, come i padri conciliari a Trento prima di lui,
per la sua intelligenza superiore e per i suoi modi piacevoli. Il
contrasto col Dandino si concluse formalmente con una
rappacificazione, ma in agosto il C. fu autorizzato a intraprendere
il viaggio di ritorno, e il 2 settembre partiva da Bruxelles.
Il
12 ott. 1554 il C. fu nominato alla nunziatura di Napoli, nella quale
succedeva al collettore pontificio Fabio Cupellato. Questa
designazione ad una nunziatura di scarsa importanza, denotava una
nuova diminuzione del prestigio del Camaiani. In realtà la sua
attività a Napoli si ridusse alle funzioni di rappresentanza e ad
alcuni interventi nei contrasti relativi a questioni di proprietà
tra l'abbazia di Passitano e gli abitanti di Rieti e Civita Ducale.
Con la morte di Giulio III, il 23 marzo 1555, il C. perdette il suo
ultimo sostegno in Curia, come ebbe a riconoscere anche il Seripando,
che gli scrisse una lunga lettera consolatoria. Richiamato in agosto,
scomparve per alcuni anni dalla scena diplomatica.
Il
6 ott. 1561 il C. giungeva a Trento per partecipare alla terza fase
del concilio. Cosimo, pur non conferendogli alcun incarico ufficiale,
desiderava ricevere regolarmente rapporti dal C. che questi in
effetti gli inviò fino alla fine di marzo 1562. Questo incarico
venne poi assolto dall'inviato ufficiale del duca presso il concilio,
Giovanni Battista Strozzi, che giunse a Trento in febbraio e fu
subito coinvolto in una disputa di precedenze con l'inviato svizzero;
il C. sostenne energicamente le pretese fiorentine. Anche ora egli
appariva sempre ben informato e intervenne più volte nei dibattiti
sull'Indice, sull'eucarestia, sul matrimonio dei preti. In questioni
concernenti la Riforma, si espresse in favore della visita episcopale
a spese del vescovo, per regolari sinodi diocesani, per l'obbligo ai
parroci dell'esegesi biblica nei giorni festivi; sulla questione
della residenza si schierò col partito del "ius divinum",
ammonì contro decisioni precipitate sulla questione della
concessione del calice ai laici e prese in considerazione un
regolamento speciale per l'Ungheria e la Boemia.
Quando
il cardinale di Lorena assunse la guida dell'opposizione, gli si unì
anche un gruppo di vescovi italiani, tra cui il Camaiani. All'invito
rivoltogli da Cosimo assieme a Spinello Benci vescovo di
Montepulciano, di mutare tale atteggiamento, il C. rispose nel
gennaio 1563 con una dichiarazione coraggiosa ma poco diplomatica:
egli non ammetteva ingerenze in questioni puramente ecclesiastiche e,
poiché si occupava di questioni conciliari da ben diciassette anni,
era capace di decidere autonomamente secondo la propria coscienza.
Nell'estate 1563 avrebbe dovuto comparire in un processo dinanzi al
duca ma rifiutò di assentarsi dal concilio, benché il papa fosse
disposto a dispensarlo. Caduto in disgrazia presso il duca, benché
il papa avesse dichiarato, nell'ottobre 1563, a lui e agli altri
vescovi dell'opposizione che non avrebbe tenuto conto nella loro
carriera del loro atteggiamento, il C. non fu più chiamato, durante
il pontificato di Pio IV, ad assolvere incarichi
diplomatici.Finalmente Pio V gli affidò di nuovo una delicata
missione. Richiamato a Roma nel settembre 1566, il C. ripartiva il 4
ottobre nunzio straordinario presso Filippo II. Le sue istruzioni
contemplavano tre punti: doveva convincere il re a recarsi
personalmente nei Paesi Bassi. doveva ottenere il trasferimento a
Roma di Bartolomeo Carranza, l'arcivescovo di Toledo da anni
prigioniero dell'Inquisizione spagnola; doveva infine persuadere il
re che l'indiscriminato esercizio della monarchia sicula (le
prerogative della Corona spagnola a Napoli ed in Sicilia) determinava
la condizione di abbandono in cui versava il clero.
Il
7 ott. 1566, mentre viaggiava alla volta della Spagna, il C. fu
nominato vescovo di Ascoli Piceno, ma con le entrate della mensa
episcopale ridotte a 1.000 ducati annui.
Nel
frattempo l'ambasciatore spagnolo a Roma aveva avvertito Filippo II
di diffidare del C.; egli dubitava che il re ne sarebbe rimasto
contento, comunque Carlo V non lo era stato. Filippo manifestò
sdegno per la missione che sembrava mettere in dubbio la sua
precedente promessa di comparire personalmente nei Paesi Bassi. Vari
colloqui preliminari condotti insieme col nunzio ordinario Giovanni
Battista Castagna e alcune argomentazioni presentate per iscritto
condussero alla fine a un parziale successo: l'impegno vincolante di
consegnare il Carranza (la consegna ebbe effettivamente luogo alla
fine di aprile 1567). Sugli altri punti delle istruzioni il C. non
riuscì ad ottenere alcun risultato. Egli si adoperò anche per la
proibizione delle corride in Spagna. Il 12 febbr. 1567 fu richiamato
a Roma.
Al
suo arrivo nella sua nuova diocesi il C. trovò un clero
prevalentemente simoniaco; non pochi erano coloro che si erano anche
macchiati di gravi delitti. Egli si dedicò in primo luogo a mutare
questa situazione, e ad attuare i decreti conciliari. Il 28 giugno
1567 annunziava la riforma del clero mediante un decreto affisso alla
porta del duomo; seguirono le prime visite pastorali, nel luglio del
1567 e del 1568. I successi ottenuti dal C. nella sua diocesi
convinsero Pio V, e poi Gregorio XIII, ad affidargli ripetutamente,
nel periodo 1571-74, visite apostoliche, soprattutto in Umbria
(1573-74). Il C. ricorse a norme particolarmente severe durante una
visita della sua diocesi iniziata il 23 genn. 1575: controlli
dettagliati dell'amministrazione e dell'edilizia del duomo;
emanazione (25 febbraio) di rigorose disposizioni per la riforma del
clero. Contemporaneamente alle visite, il C. aveva dato inizio alla
regolare celebrazione dei sinodi. Il primo sinodo diocesano ebbe
luogo il 22apr. 1568, e i risultati furono fissati nelle
Constitutiones Synodales S. Ecclesiae Asculanae... (Romae
1568).Seguirono altri sinodi nel 1571 e 1572.
Particolarmente
meritevole la fondazione, all'inizio del 1571, del seminario, con
impiego di benefici vacanti e anche di proprie risorse. Negli ultimi
anni il C. tentò anche di influire sull'amministrazione cittadina,
ma la morte lo colse prima che egli potesse vedere i risultati di
questa come di altre sue iniziative, come per esempio l'introduzione
in Ascoli dei cappuccini, perseguita sin dall'anno 1567.
Morì
ad Ascoli il 27 luglio 1579, e fu sepolto nella chiesa di S.Biagio,
da lui fatta rinnovare, e presso la quale aveva istituito una
Confraternita "Corporis Christi".
Fonti
e Bibl.: Correspondance de Philippe II sur les affaires des Pays-Bas,
a cura di L. Gachard, I, Bruxelles 1848, p. 487; G. Frascarelli,
Monumenti lapidarii delle chiese esistenti nella città di Ascoli nel
Piceno, Ascoli 1853, p. 24; Briefe und Akten zur Geschichte des
sechzehnten Jahrhunderts mit bes. Rücksicht
auf Bayerns Fürstrnhaus, a c. di A. v. Druffel, I, München 1873,
pp. 582 s., 777; II, ibid. 1880, pp. 44 s., 49, 82, 167, 266, 782;
III, 1, ibid. 1875, pp. 238-256; Concilium Tridentinum, ed. Soc.
Goerresiana, I, Friburgi Brisgoviae 1901, passim;II, ibid. 1911,
passim, III, 1, ibid. 1931, p. 12; V, ibid. 1911, p. XVI; VIII, ibid.
1919, passim;IX, ibid. 1924, passim;X, ibid. 1916, pp. 380, 435, 450,
497;XI, ibid 1937, passim; Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 1,
XII, a C. di G. Kupke, Berlin 1901, passim;XIII, a c. di H. Lutz,
Ubingen. 1959,
passim;XIV, a cura di H. Lutz, ibid. 1971, p. XVII, 7; Die röm.
Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV. Aktenstücke zur
Gesch. des Konzils von Trient, a C. di J. Šusta, III, Wien 1911, pp.
156 s.; IV, ibid. 1914, pp. 96, 98, 340; Corresp. diplom. entro
España y la S. Sede durante el pontif. de S. Pio V, a C. di L.
Serrano, I, Madrid 1914, passim;II, ibid. 1914, pp. XLV, 7 s., 37 s.,
81, 88; Hieronymi Seripandi "Diarium de vita sua", a C. di
D. Gutiérrez, in Analecta Augustiniana, XXVI (1963), pp. 96, 98,
100, 107 ss.; Il carteggio degli ambasciatori e degli informatori
medicei da Trento nella terza fase del Concilio, a C. di A.
d'Addario, in Arch. stor. ital., CXXII (1964), pp. 14, 17-70, 74-81,
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col. 472; III, ibid. 1718, col. 264;G. I. Ciannavei, Compendio di
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VII, 2, Venezia 1848, pp. 773 s.; L. Gachard, Don Carlos et Philippo
II, II, Bruxelles 1863, p. 372;Id., Les archives du Vatican,
Bruxelles 1873, pp. 55 s.; Ch. Ruelens,
Notes sur les bibliothèques de Milan, Rome, Florence, in Bull. de la
Comm. [belge]
royale d'histoire, s. 3, IX (1866-67), pp. 245 s.; G. de Leva, La
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Freiburg i.B. 1913, pp. 71 s., 101 s., 104;VIII, ibid. 1920, pp. 152,
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Meester, Le Saint-Siège et les troubles des Pays-Bas, 1566-1579, in
Recueil de travaux publ. par les membres des conférences d'histoire
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Jahrunderts, Würzburg 1937, I, pp. 477, 483; II, pp. 33, 36 ss., 41
ss., 304, 595-602;Id., La politica conciliare di Cosimo I, in Rivista
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Id., Geschichte des Konzils von Trient, II, Freiburg 1957, pp. 75,
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in Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg i.B. 1958, col.
898; C. Tihon, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés.,
XI, Paris 1949, coll. 504-509; M. Marseletto, in Enc. Catt., III,
Città del Vaticano 1949, col. 420; G. Fabiani, Sinodi e visite
pastorali ad Ascoli dopo il concilio di Trento, in Riv. di storia
della Chiesa in Italia, VI (1952), pp. 265-279; Id., Ascolinel
Cinquecento, I, AscoliPiceno 1957, ad Ind.;P. Villani, Origine e
carattere della nunziatura di Napoli (1523-1569), in Annuario
dell'Ist. stor. ital. per l'età moderna e contemporanea, IX-X
(1958), pp. 315 s., 411-422; H. Lutz, Christianitas afflicta. Europa,
das Reich und die päpstliche Politik im Niedergang der Hegemonie
Kaiser Karls V. (1552-1556), Göttingen 1964, ad Ind.;D. Gutiérrez,
Testi e note su l'ultimo quadriennio del generalato di Seripando, in
Analecta Augustiniana, XXVIII (1965), pp. 361, 379-82.
Il sullodato vescovo
visitatore, appena giunto “a lu Pescu”, viene subito attratto da
un rudere: sono i resti della chiesuola dedicata a S. Massimo e S.
Pietro. In tempi remotissimi chissà chi (ma certo un facoltoso)
aveva eretto quel piccolo tempio per farmi recitare un paio di messe
all’anno per la salvezza dell’anima sua. L’aveva dotata con tre
salme di frumento annue. Si trattava di un non cospicuo beneficio
perpetuo che nelle carte del vescovo inquisitore risulta un paio di
simplex beneficium (simplicia beneficia, nel gergo del Camaiani). Il
diruto tempietto del “territorio Pesculi”, va ora abbandonato ed
i benefici vanno trasferiti “in ecclesia S. Andree, parocchialem
intus dictum castrum Pesculi”. Ma qui va eretto un altare dedicato
ai predetti S. Massimo e San Pietro. Esiste ancora quest’ara?
Quanto alla demolizione
della chiesetta, per il vescovo va eretta una “crux lapidea”,
nella forma ora imposta dal Concilio di Trento. Esiste ancora questa
croce in pietra? dove è (o era) collocata”? Non sono uzzoli
archeologici, ma voglia di far emergere da tali brume le
testimonianze di questa nostra simpatica (ed obliata, almeno
storicamente) cittadina
Si affaccia così il
rettore parroco, un francescano dai costumi non proprio esemplari: il
visitatore lochiama con nome e cognome anche se francescano: d.
Joannes Antonus Petronius. Fruisce dei citati benefici (edi quelli
più congrui, come vedremo). Da ventidue anni gestisce questo lembo
del Cicolano, di qua e di là del fiume. Lo ha legittimato con tanto
di bolla autorizzatoria il vescovo di Rieti del tempo, il 7 novembre
del 1548.
Pescorocchiano vien
chiamato molto più semplicemente (e per noi più simpaticamente)
PESCULUM. Per noi Pescorocchiano significa Rocca a Picco.
Parafrasiamo Benedetto Croce:
Il nome Pescorocchiano
sembra derivare da "Pesculum Roccae", cioè roccia sorgente
a picco (dal tardo latino "pensulum"), o masso che serra,
così come Benedetto Croce definiva la sua Pescasseroli "Pesculum
ad Sorolum", cioè masso presso il piccolo Sangro (le sorgenti),
fiume il cui nome richiama alla memoria antiche trasmigrazioni
pelasgiche. La parte più antica dell'abitato sorge ai piedi dello
sperone roccioso «pesco») su cui si trovano i resti di Castel
Mancino. Nella leggenda marsicana il poeta pastore Cesidio Gentile fa
derivare la fondazione di Pescasseroli dalla vicenda drammatica di un
giovane cavaliere crociato, Serolo, figlio del Conte Maracino,
signore del castello. Serolo, partecipando alla I° Crociata,
incontra in Palestina la bella saracena Pesca, della quale si
innamora e che sposa. In compagnia di un santo anacoreta, che aveva
con se la statuina lignea della Madonna nera, Pesca viene mandata da
Serolo al castello. Una volta al castello, il vecchio Conte si
invaghisce di Pesca che, fuggendo, viene raggiunta ed uccisa in
prossimità di una sorgente.
Con qualche ritocco e
qualche innocente arbitrio quella favola della bella saracena PESCA
la potremmo ritagliare per la nostra località: non per nulla tra le
ville di Pescorocchiano si annovera GIRGENTi dall’ammiccante ma
equivoco toponimo arabo.
L’abbiamo già visto:
svetta una grande chiesa che è dedicata a S. Andrea. La nostra
cittadina è un “castrum”: un castello dunque, che conferisce
prestigio ed importanza a Pescorocchiano, essendo stato nel tempo
punto nevralgico di difesa. Parroco è sempre il citato francescano
don Giovanni Antonio Petronio. Sembra secolarizzato per quel fregio,
per aver ripreso il suo cognome di famiglia e di non essere indicato
con il modesto e francescano titolo di “frater”.
La chiesa viene visitata
in pompa magna. È sotto la giurisdizione della illustrissima donna
Virginia Sabelle (Savelli). Il vescovo ostentatamente elude il
termine giurisdizione per parlare (qui ed altrove) di ditio,
ditionis, che vuol dire tanto se h peso giuridico, se no, nulla.
La famiglia Savelli (o Sabelli) è quella celebre nella storia
medievale romana del Gregorovius per doverne qui parlare. Solo che
nel 1574 era definitivamente decaduta. Questa Virginia chi è allora?
Forse un rompicapo per gli st. Escludiamo che orici. Ci pare per il
momento ignota: appare nelle carte del vescovo quale residuato
feudale come magari erede per via femminile di un castello non più
egemone. Gli epigoni della famiglia sono questi:
Di questa nobile
casata faceva parte anche la principessa Carlotta
Savelli
(1608-1692),
donna dall'animo pio, che regalò ad alcuni terremotati, fuggiti
dalle loro terre, il feudo di Savelli, in Calabria, dove ora si erge
l'omonimo comune. Il simbolo stesso del comune di Savelli
è lo stemma della nobile famiglia romana.
La famiglia si
estinse con Giulio Savelli, morto il 5
marzo
1712,
con l'eccezione del ramo cadetto dei Giannuzzi Savelli (Baroni di
Pietramala, Principi di Cerenzia, Patrizi di Cosenza), nel Regno di
Napoli come condottieri dal 1421, discendenti da Giannuzzo di Antonio
Savelli (Roma, XV secolo).
Possiamo pensare che la
nostra Virginia rientri in una delle tante ramificazioni cadette,
come dire una ramificazione cadette del sunnominato Giannuzzo Savelli
che mise radici nel Napoletano e ricordiamoci che dopo tutto il
Cicolano cade nell’area del Regno delle due Sicilie.
Sarà per rispetto ai
Savelli, sarà perche la chiesa madre di Pescorocchiano non era
proprio da disprezzare, Fatto sta che il signor vescovo visitatore
stavolta si limita a dire che essa non è “improbanda”, purché
però si proceda all’assestamento del tetto: “implanelletur aaut
intabuletur”, occorre dunque rifare il soffitto oppure farne in
tavole uno nuovo. Altri lavori da fare sono: intonacare con la calce
alcune parti delle pareti ed imbiancarle; ammattonare in pietra il
pavimento; costruire nuove tombe per la sepoltura dei cadaveri dei
defunti. Per tutte le disposizioni viene fissato un termine. La
prossima raccolta delle messi. Trascorso inutilmente tale termine,
sia proibito inumare sotto il pavimento della chiesa sotto pena di
scomunica.
Il vescovo resta
inorridito da una statua in bella vista nella chiesa madre di
Pescorocchiano: posta su un altare costruito con la calce gli appare
“satis deforme ac vestuste”. Un orribile “monumentum” dunque
deforme, mutilato, cadente “vetusto”: questo prelato
cinquecentesco il latino lo domina, magari quello ecclesiastico della
tarda latinità, e la lingua latina è per sua natura paratattica,
essenziale, efficacissima. La statua va demolita quanto prima
“quamprimum”, ma trattandosi sempre di una sacra effigie
occorrono cautele per evitare impressioni sacrileghe presso il
popolino di Pescorocchiano ( e non saremo certo qui lo sprezzante
spirito aristocratico dell’alto clero del tempo) invero propenso a
pratiche superstiziose atte a utilizzare i resti di una immagine
sacra solennemente benedetta. Allora quella statua va demolita
bruciandola e le ceneri vanno conservate nel “sacrarium”,
sottratte dunque alle tentazioni degli incolti fedeli del luogo,
pronti a abbandonarsi malefici riti.
Vi è un’altra statua
che si ergeva su un piccolo altarino, abbisogna di una mano di
pittura: che vi si provveda, statuisce il prelato visitatore , venuto
da Ascoli. Come potessero fare i pescorocchianesi a trovare un
decente pittore che riabbellisse la vecchia statua, non sappiamo e
siamo in grado di ipotizzarlo.
La sacrosanta eucarestia
va – impone sempre il vescovo – va custodito (asservatur) in un
degno tabernacolo: evidentemente quello che c’era non era per i
gusti del vescovo visitatore “condecente”.Si trovasse uno di
codesti tabernacoli ben testimonierebbe in un antiquarium “condecens”
questo passaggio epocale della chiesa pescorocchianese. E il nuovo
tabernacolo all’interno doveva essere foderato in seta color
purpureo. Il sacro fonte battesimale andava accomodato secondo le
disposizioni che avrebbe impartito il commissario a ciò deputato
cioè il canonico reatino d. Pietro Cappelletti. Questi è il numero
nove della curia, è dottore in utroque, è ritenuto un lodevole
canonico versato nella dottrina della Chiesa e di lui ampiamente si
tratta in positivo nella “camparitione facta sub die 27 decembris
1573”: in una parola “laudandus”.
I rilievi ispettivi sono
ora consueti, ripetitivi: il vasetto dell’olio santo per l’estrema
unzione sia separato da quello dei catecumini (che a Pescorocchiano
vi potessero essere dei catecumini, noi ne dubitiamo fortemente) e
venga custodito in una nicchia chiusa con una fenestrella, anche se
in comune; l’icona dell’altare maggiore venga restaurata e resa
più lucida; gli altari sprovvisti di reliquie ne vengano dotati e si
provveda a tutto quanto difetta erigendosi in particolare una croce
nel mezzo dei due candelabri.
Quanto ai paramenti,
ornamenti e alle altre suppellettili sacre nulla da raccomandare se
non la disposizione a dotare la chiesa di una casula o pianeta
violacea con stola e manipolo, se non di seta almeno di tessuto di
Fiandra, nonché di un pallio bianco; il tutto entro il prossimo
raccolto delle messi..
In conclusione: come si
diceva il rettore è don Giovanni Antonio Petronio, nativo del luogo;
insediato con nomina vescovile il 7 novembre del 1548; il suo reddito
è di scuti venti annui, è il pastore di quaranta famiglie (quasi
duecento abitanti) e sarà da imporre loro di corrispondere tale
sussidio, quello generalizzato e quello particolare almeno in due
rate. La pignoleria ecclesiastica nel tassare i fedeli dalla culla
alla tomba fa qui capolino.
Vi sono poi due
confraternite di Santa Maria e di Sant’Atanasio che non possiedono
rendite certe; salvo gli apporti che i confratelli danno in frumento
per il cibo dispensato ai poveri. Senonché il vescovo non approva
questi atti caritatevoli e impone loro di astenersene per provvedere
invece all’olio della lampada e comprare il baldacchino per
accompagnare il sacerdote quando va a portare il sacramento
dell’eucarestia agli inermi. Un divieto non scandaloso per quei
tempi, ma a noi laici e moderni un certo effetto lo fa. Speriamo che
almeno si rinvenga quel baldacchino per il nostro agognato
Antiquarium, a ricordo di usi e costumi del passato con un tocco di
rammarico: niente pane per i poveri ma olio per la lampada votiva e
semmai un parasole di broccato per il prete dell’estrema unzione.
In Pescorocchiano vi
erano ovviamente altre chiesuole. Vi era il beneficio semplice dotato
a don Giovanni Antonio di San Nicola. La fabbrica poteva andare
sempreché si rifaceva il soffitto oppure lo si intavolava; le pareti
le si intonacava con la calce e si imbiancavano; il pavimento veniva
lastricato; l’altare lo si restaurava con i debiti requisiti e
nella parete di fondo vi si dipingevano i canonici tre quadri del
crocifisso, della Vergine Maria e del santo titolare San Nicola. Il
rettore fra’ Giovanni Antonio vantava la provvista vescovile sin
dal 13 giugno del 1561, e per questa rettoria percepiva di reddito
cinque giulii annui. Il termine monetario GIULIO usato nello
stato pontificio nel 1574 ci disorienta alquanto. Di sicuro vi sarà
chi saprà ben spiegare questo aspetto, non irrilevante per la storia
della moneta.
L’altro beneficio
semplice è dedicato a Santa Maria “Montis Falconis” sito sempre
all’interno del CASTRUM di PESCULI. Qui la fabbrica appena
restaurata non è “improbanda”. Bontà sua! Il pavimento tuttavia
va lastricato e vnno costruite nuove tombe “pro sepeliendis
cadaveribus”; nell’altare maggiore vada eretta unna croce e non
altro dipinta e gli altri altari siano corredati di icone nonché di
scabelli e siano rimossi certi vilissimi panni pendenti.
Per l’ulteriore
beneficio di Santa Maria <de monumento>, un tempo esistente
all’interno del paese ed ora diruto, si ricorda che andava
instaurato nel termine di unno, sotto pena di quindici scudi da
devolvere al seminario reatino. Il rettore è ancora don Desiderio di
Colle Alto e vanta n reddito annuo di ei selmae di frumento. Permane
l’onere di celebrare due messe ogni mese di domenica. Di don
Desiderio di Collealto non sappiamo null’altro in questa sede.
Santa Lucia di Fiamignano
Lo stesso giorno 5 marzo
1574
Chiesa parrocchiale di
Santa Lucia: rettore D, Cesareo Antonini
Fu visitata la chiesa
parrocchiale di Santa Lucia del villaggio omonimo sotto la
giurisdizione di D. Pompeo Colonna: la fabbrica della chiesa è
disadorna e non finita (incomposita). E così parte del tetto
mancava di tegole e per tanto vi piove dentro. Le pareti vanno
intonacate a base di calce e quindi imbiancate e vanno aperte due
finestre da ogni lato dell'altare ed un'altra a sinistra del tempio,
tutte da aprire nel muro della fabbrica; il pavimento va lastricato
in pietra e sotto vanno edificate delle tombe per la sepoltura dei
cadaveri: quanto sopra va realizzato entro il prossimo raccolto delle
messi, spirato negativamente tale termine, deve essere inibita la
sepoltura, sotto pena di scomunica.
Non furono rinvenute
custodie sacramentali eccetto un vasetto di olio santo per l'estrema
unzione degli infermi per giunta di piombo: questo quanto prima va
cambiato con uno di stagno e si deve provvedere alla costruzione di
un tabernacolo con pisside in argento in forma <comune>. Si
dovrà usare l'acqua santa battesimale del villaggio del Santo
Pastore, non molto distante.
La chiesa manca di molti
altri paramenti e sacre suppellettili. Tuttavia, per la grande
povertà del villaggio, non fu ordinato nient'altro se non di
confezionare una casula o pianeta di color bianco in tessuto di
Fiandra o di fustagno come si
dice e ciò entro il prossimo raccolto delle messi, sotto pena di
quattro scudi come vorrà il locale vescovo: si dovrà provvedere
altresì ad una stola con manipolo e pallio di cuoio dorato, a due
corporali ed a quattro purificatori. Il calice che è rotto va
riparato e frattanto non lo si può usare. L'altare maggiore va
provvisto di tutti i requisiti, La statua della gloriosa Vergine
unitamente alla tribuna deve essere ripitturata e ciò va fatto anche
in altri due altari che sono disadorni; il resto deve essere
demolito.
Il
rettore è don Cesareo Antonini de villaggio di Sant'Agapito,
autorizzato dall'Ordinario del luogo il 18 settembre del 1568
[giudicato dal Visitatore ineptus (jnidoneo) e ignarus
(culturalmente insufficiente) ndt.]. Percepisce di rendita 15 scudi
annuali. Le famiglie sono 28 [120 abitanti circa, ndt] a spese delle
quali saranno da ripartire in due rate nel complesso e singolarmente
quanto specificato, salvi fatti i diritti che i medesimi parrocchiani
vantano con don Cesareo per l'obbligo e per l'accordo circa la
restauranda chiesa. Gli stessi parrocchiani sono però tenuti a
corrispondere 6 giulii annui per la pensione e l'abitazione di don
Cesareo in attesa che venga fabbricata dai predetti parrocchiani la
canonica che si ordina loro di costruire quanto prima, ma tenuto
conto della loro povertà si accorda un termine di quattro anni,
trascorsi i quali inutilmente dovrà essere loro interdetto l'accesso
in chiesa.
E'
presente la confraternita di S. Agata che non ha redditi fissi se non
quanto in denaro viene versato dagli stessi confrati per le varie
occorrenze: a loro fu ingiunto di astenersi in futuro etc. e di
approntare i capitoli statutari e di fornirsi dei sai a sacco.
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