Un
vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Mi
impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli
aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei
tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con
moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio
squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta
stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su
questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo
IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre
1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già
lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata
in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni.
Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini
di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”.
Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è –
trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e
in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure
del vescovo Trahina.
Denis
Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia
medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi
Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro
possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti
spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle
città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché
ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è
invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il
vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover
cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue
prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il
luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo
sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX,
pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di
Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e
leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo
frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di
venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco
avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con
guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa:
onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa
a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi
in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e
lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri,
Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La
sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il
Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d.
Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D.
Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci
avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di
Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese
stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si
festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le
scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati
dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò
quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso
il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del
giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto
colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe
De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco
della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla
spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia.
Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma
inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a
pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi
del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare
Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore
della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in
grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed
espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso
pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico
scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo
di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a
due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano
desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi
crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando
venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che
consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto
alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue
genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e
fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del
popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole
di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran
tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i
preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di
quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro
il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del
vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote
Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più
accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di
archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il
secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il
vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento.
Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi,
chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde
atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto
in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del
vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata
entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu
tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo
della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D.
Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco
Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo
fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al
duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il
frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10
ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli,
ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì
nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua
stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro
dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno,
chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il
vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom
di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di
cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per
racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma
poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il
vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di
nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri
della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare
del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare
con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e
preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi
una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime,
significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare
il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e
dare indulto pel cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro
scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a
cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno
rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18,
confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.
«Frattanto
egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato
il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo.
Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’
giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione,
navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta
di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel
lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon
messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma
di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò
dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’
soldati spagnuoli.»
Pare
sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti
particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli
eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo
dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di
somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero …
summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase
scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia
Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al
vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum
laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la
nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del
1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647?
Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi
non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule
un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero
agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a
guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la
cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato
anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo
che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato
campanilistico.
Altro
difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un
suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo
riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il
Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed
a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non
sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per
quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il
celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso
il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si
dice la piaggeria verso i potenti!
Il
vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella
procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando
l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo,
cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di
Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra
essi il Napoli, che era il più vecchio»
.
Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul
presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche.
Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo
che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati
da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e
IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della
mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il
nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta:
subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende
non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il
palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi
sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti
l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di
quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi
aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius
Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente
peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi –
in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’
errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la
pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il
re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano
VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa
indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni
vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati
di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il
cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come
non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille
scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente
il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere
pontifice speciali praerogativa benigne annuente – e noi per
gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e
nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Saleno
agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbia trovato
assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A
visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il
canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A
chi assegnare quell’appetibile canonicato. Il papa da Roma
l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu
lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità
non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la
prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino,
colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti.
E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che
percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua
pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo
diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis caussa,
adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un
qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.
E
finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la
diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il
14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio
Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole
cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si
mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più
prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor
De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di
un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà
d’animo e generosità?
Sei
candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle
del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il
palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e
fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per
gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per
essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più
vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla
grande, praestantiores spactabilioresque. Vanitas vanitatis,
omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la
pensavano così.
Ampliò
il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine:
mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme
dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il
papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita
triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della
giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata,
in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il
cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25
febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di
Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.
A
Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie
manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel
che si mostreà dopo a noi risulta qualcosa di dicerso. Per il
Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium
laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come
dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Senonché,
non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un
prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato
di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di
Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento,
vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati
a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il
vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo
esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile
vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto.
La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso.
Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia
soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione
(o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti
feudatari locali, imponendosi il totale riprisino dell’antica
giurisdizione.
A
questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa
agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster
Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in
pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis
sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum
marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur
tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra
ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del
Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un
affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la
documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare –
ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto
presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature
che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie –
prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria
“testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da
vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio
che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M.
DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine
lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette
anni al servizio degli invittissimi re di Spagna, Filippo III e IV,
con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha
tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino,
acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui
difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario,
adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio
sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si
addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri
mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come
recitavano le formule testamentarie dell’epoca.
Spetta
al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua
e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus
Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu della
chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S.
Francisci.
Un
semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi
sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni
popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il
Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di
un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune
ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro
non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di
girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione
spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di
siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di
fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente -
di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di
novembre, addì 24.
Redige
testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre
1650. I soliti legati alle chiese, qualnche beneficenza ai poveri,
appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciè fossero
diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania
di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si
sottrae. E un occhio particolare per le repentite: suffi
d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per
la dotazione libraia del seminario, ben 20 once annue, e questo è
tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E
così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4
ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella
cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a
mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere
tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire
immarciscibilmente la gloriosa ed edificante vicenda di monsignor
Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico
De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la
sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del
vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano
solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri.
(cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera
chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di
plaudente valutazione.
Altro
laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo
avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentisca il racconto
del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag.
541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di
commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti,
quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso
non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi
alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la
storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che
Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento,
ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la
dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a
lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia
biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la
ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino
piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I,
pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra
chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni
prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia
in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto
dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è
mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee
e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La
generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più
palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in
cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli comprova la città
nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua
cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi
eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi
consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo
qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle
calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non
dovettero esser pochi».
Avremo,
dopo, modo di provare che la “storia – purtroppo – volle
rivelare” e ciò ebbe il tramite nell’indubitabile archivio
segreto vaticano. Niente meno! L’assonanza di giudizio tra il
nostro quasi racalmutese e l’esimio monsignore cammaratese –
entrambi sinergici per idee e per opzioni politiche e sociali e
chissà poi perché non tornato il primo, un secolo dopo, gradito al
secondo – è sorprendente. Per una variazione sul tema, mi si lasci
dire che il Camilleri prende il racconto sul vescovo del Re di
Girgenti dalla mediata narrazione del Picone, stravolgendo per le
sue necessità letterarie il costrutto storico.
Premettiamo
che per il momento ci assilla la questione della natura della
giurisdizione dei vescovi nella Sicilia feudale, in particolare in
quella del Seicento. La feudalità siciliana, dopo le graffianti
puntualizzazione di Mazzarese Fardella, resta un’incognita almeno
sotto il profilo giuridico. Cosa non di poco conto se si ha a cuore
la verità, almeno quella storica.
Gli
abusi giurisdizionali in cui sarebbe incorso il Traina e sui quali
ebbe ad interessarsene, con atteggiamenti ostili al vescovo, il
Vaticano non sono stati sinora adeguatamente investigati. Monsignor
De Gregorio – che pure è quel mostro di ricercatore che è e che
non indulge a semplicionerie – ci pare riduttivo quando afferma che
l’accusa del 1630 fosse quella di semplici “abusi di
giurisdizione in alcuni paesi”, di tal ché ad Urbano VIII fu
d’uopo “accettare la sua discolpa” anzi dovette il papa lodarlo
“per il suo governo e il suo modo di vivere”. L’epilogo fu
quello di “un accordo [raggiunto] con i baroni delle terre
suddette” [e cioè Cammarata, S, Giovanni, Giuliana, Burgio, Chiusa
e Racalmuto] e pertanto le dette terre “furono riportate all’antica
giurisdizione”.
Purtroppo
non fu così! Un fondo dell’Archivio segreto vaticano i cui indici
siamo riusciti a consultare solo a fine del 2003, e ciò perché
recentissimi, getta luce sull’incresciosa controversia tra il
Vaticano ed il vescovo agrigentino, che ci pare burbanzosamente
riluttante agli ordini romani, salvo, dopo, a dovere abbassare la
cresta e con scottature che si faranno sentire nelle successive
vicende dei moti – che la storia seppe tramandare in una luce non
tanto favorevole al Traina.
Il
fondo si denomina: Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche
ed è tutto rubricato nell’indice 1182. Abbiamo consultato il reg.
2: 628v; 228-229; 425; 386-563-616-628-649-650; 326v; il reg. 3:
24-421v; 464v; 65v; il reg. 4: 83-100; 85v; 217v; il reg. 5: 169v;
191v; 298v; 301v; il reg. 13: 529v; il reg. 15: 16v; il reg. 18: 25v;
il reg. 21: 62v; il reg. 23: 55r.
L’esordio
è soft eppure si apre uno spiraglio su un contesto curiale
non proprio edificante: il clero locale è tutt’altro che
entusiasta del nuovo vescovo; già in dicembre nel 1627 la curia
romana deve chiamare il presule agrigentino per una difesa presso il
Vaticano; che informi almeno la sacra congregazione delle immunità
ecclesiastiche sul “memoriale dato per parte del clero di codesta
città” si scrive il 20 dicembre 1627; si vuol sapere “la verità
del contenuto di esso” memoriale, ma nel frattempo il vescovo “non
lasci difendere la esenzione degli ecclesiastici”.
Ci
pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti
curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle
immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo
(Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile
“inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle
per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che
repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della
medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento
del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso
reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E.,
reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo
a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di
Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio
notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso
quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle
storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di
sovente nella microstoria di Racalmuto.
Eppure,
ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina
costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato
palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel
territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento”
pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il
“tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dosesse
respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste
e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è
costretto a fornire informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del
18 novembre 1629).
Chi
la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con
la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale:
«Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che
V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi
in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri
Limini [si noti, non erano passati neppure due anni
dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio
tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto
anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa
nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che
ammonitoria, n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa
li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese
di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà
inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità
di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che
siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il
Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra
indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice
congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre
famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un
semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro
o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci
credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che
siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando
si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane
cancellerie.
La
pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere
l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra
congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5
di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e
si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò
inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da
incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad
arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre
il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia
accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma
giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà
e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il
cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha
preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per
la visita e la rassegna della prima relatio ad limina
(ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel
terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il
sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria,
arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il
riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma ….
ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto
grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandayo il zelo, et
osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto
rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso
nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à
dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta
Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli
liminibus 1con
procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et
comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità
Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).
Per
quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività
di ricerca scientifica – una tale gravissima censura è passata
sotto silenzio. Che il vescovo Traina non abbia poi avuta comminata
formalmente la scomunica e la sospensione a divinis? Che il
cardinale Doria si sia intenerito verso il suo pur dispettoso
subordinato? E sì perché la diocesi di Agrigento era assoggettata
all’arcivescovado palermitano; il vescovo ne era suffraganeo.
Monsignor
De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
- non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
- il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;
- ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le propaie localo poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero
è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la
composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di
reggenze in tempi di vacatio – era varia ed i canonici
riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a
condizionarla. del regio La composizione del capitolo: Al tempo di
monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo:
Torresilla ; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò
il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio
del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a
Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici
emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo
Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno
riesumato dall’oblio dei tempi.
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