I DEL CARRETTO DI RACALMUTO
L'avvento dei Del Carretto a Racalmuto
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
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Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([2]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([3]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([4]); e contro la parte abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una terrificante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5]), dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([6]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([8]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
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Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([9]):
In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine è soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re Martino a fare la detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto, ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale», nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve presentare e la sua investitura e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto. Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([10]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio genitore. ([11])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([12])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([13]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura tutt’altro che accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del tutto incolpevole, giusta quanto abbiamo prima illustrato.
Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([14])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([15])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([16]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [17] e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. [18] ( E questo già si disse).
Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[19] Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20]
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano.[21] Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [22] che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di comprimario, con tendenza al mendacio.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era solo millantato, comunque inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo quando e dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399. Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti, .... et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus et singulis bonis stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato documento:
«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum et heredes suos.»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima [23] era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24] ne fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([25]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([26]): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
L'avvento dei Del Carretto a Racalmuto
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([2]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([3]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([4]); e contro la parte abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una terrificante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5]), dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([6]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([8]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([9]):
In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine è soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re Martino a fare la detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto, ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale», nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve presentare e la sua investitura e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto. Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([10]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio genitore. ([11])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([12])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([13]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura tutt’altro che accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del tutto incolpevole, giusta quanto abbiamo prima illustrato.
Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([14])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([15])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([16]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [17] e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. [18] ( E questo già si disse).
Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[19] Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20]
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano.[21] Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [22] che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di comprimario, con tendenza al mendacio.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era solo millantato, comunque inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo quando e dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399. Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti, .... et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus et singulis bonis stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato documento:
«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum et heredes suos.»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima [23] era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24] ne fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([25]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([26]): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
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