PREMESSA AI DOCUMENTI SUI DEL CARRETTO
di Calogero
Taverna
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci
coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del
Duca di Montblanc. Essa recita :
Antes que la armada llegasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia
contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, es ingratissimo a las
mercedes y beneficios que avia recebido del Rey su padre, y se
confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas
de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los barones que se habian
rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la
execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el
officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio
pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y
quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano:
y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don
Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se criasse en la casa del
Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de
Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al
rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de
Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra
los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de
Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del
Rey ...
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona,
che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella nota guerra
che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli
archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo
siano state le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello.
Se attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che
Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese
di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città
ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe Gerardo a
darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa
dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia.
Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non risolvibile
allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del
Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo,
quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove
certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però
Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo
tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può
considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di
Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu
solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al
primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e
burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al
cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di
dare risposte certe.
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta
letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo
Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico,
scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che
il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi
giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce,
così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o
pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto
gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia:
colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di
Sicilia» () è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel
'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del
Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo
quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di
Racalmuto risulta della vedova del malcapitato Giovanni V, la contea
viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia
del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e
chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,() forse perché
oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto,
denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone
Giovanni III Del Carretto () ed intentando contro di esso, presso il
Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una
scottante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto
si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori,
facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e
pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino
alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto
su Racalmuto. Un Girolamo IV (), dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice
Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come
vorrebbe - sulla scia del Villabianca () - il Tinebra-Martorana,
riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre
ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio
che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al
priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ().
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della
«vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del
terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con
pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e
brigantesco» () dal conte in parola, è forzatura storica. Il
terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra
di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del
Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato
finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di
conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609,
quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con
i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto
cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con
una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli
abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più
per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono
irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da
far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il
terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700
le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il
sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il
convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano.
Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirro. Che ragione
avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine
in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione
riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua
opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della
Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai
accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si
chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A
noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena
descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile
in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il
rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura
della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante
famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del
Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO
RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ():
In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore
del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun
titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani
ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine è
soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già
detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse
staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola
insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli
cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli
diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per
qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile
diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da
chiedersi quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso
signor Re Martino a fare la detta cessione di diritti al predetto
Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente
fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra
Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto, ha pienamente il
fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di
Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinchè
si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto
che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di
Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale»,
nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine
abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era
tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione
stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore
deve presentare e la sua investitura e quella del condam Giovanni,
suo padre, nell'interesse della regia curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che,
nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po'
oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del
Carretto. Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del
1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus
jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis
de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et
proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama
publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta
l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo
del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo,
primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è
tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del
Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del
Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca
Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il
1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi
dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto.
Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle
antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico
II Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente
provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con
Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto
Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del
Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di
Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo
(l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo
tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di
Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana
(Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi
avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui
Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ()
aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria
di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della
'predace' famiglia ligure:
· La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel
Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam
Antonio del Carretto.
· Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del
Carretto, come figlio primogenito, che però vendette
definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e
su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei
diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di
eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna,
nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio
del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo
fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ...
al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello
secondogenito del predetto Gerardo.
· Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista
i predetti beni e diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di
3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e
pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo -
VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal
signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei
suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di
tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato
nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto
signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e
concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti
che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi
fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^
indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò
contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti
i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal
detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la
restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e
annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui
emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione
notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
· E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del
Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino
la conferma della detta terra in un diploma ove risultano inseriti i
predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto
condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio
del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e
nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato
nelle carte 177.
· E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo
figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne
dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta
terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio
militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle
costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali
edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno
1453 nelle carte 565.
· E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto
[II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia
cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
· Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto
figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale
del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede
quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo
superiore ad once 700.
· E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del
Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale,
che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del
detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data
31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^
Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il
padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno
della morte del proprio genitore. ()
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi
si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a
Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno).
Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene
indicata come dante causa per ragione di successione e di eredità
di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi
si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo
avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di
cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di
Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di
Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino
riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era
una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei
veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica
dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi,
lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un
punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base
ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura
successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre
testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura,
anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il
Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di
padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco
San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle
origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di
Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché
alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il
nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto
senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo
Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ()
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un
discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di
Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva
molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari
racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo
stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e
Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a
Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D.
Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» () Il Di Giovanni,
invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente
subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per
indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata.
G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale,
consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa
prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è
consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci
permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e
da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo
dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro,
come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da
questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto.
Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo,
qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla
solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei
nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori
come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo,
ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale
fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del
Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero
apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto,
appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo)
nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita
Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove
avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"),
e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è
quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia -
responsabili Vito Amico() ed il Villabianca, quello della Sicilia
Nobile() - su un'evidente distorsione di un passo dell'opera
storica dello storico di Sciacca. () Questi, parlando dei Barresi,
aveva scritto (): Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto
da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando,
Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà
perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio
Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non
sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le
vicende avventurose di quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e
luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei
Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a
capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che
vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo -
conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive,
persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato
- l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è
pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a]
calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso
supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il
Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di
Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di
Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia,
diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti
[.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto
occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci
far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa,
trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse
partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso
conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello
che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la
gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto
nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece
privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione
ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme
giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si
deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a
detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij
promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente
appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et
per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse
restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver
giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di
Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà
ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a
Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio
dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri
et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole
remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don
Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua
terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto
clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a
monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso
lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo
deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario
Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto
Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la
potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di
detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore,
fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di
Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli
prelati.» ()
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i
Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli
encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti
giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di
cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte,
naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel
Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che
diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato
di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don
Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone
di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue
credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra
Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è
diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil
in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una
ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa
pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto
poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ()
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che
rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di
Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato.
Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla
Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva
abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione
del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà.
L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica
e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo
manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra
Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la
piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirro:
ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno
riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della
iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto
degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato
recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico)
della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di
un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe
dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse
la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal
paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la
dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia
Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del
marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic)
Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella
nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del
Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e
XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di
Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 () alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era
inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una
preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del
Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli
culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però,
molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile
narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi
errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo
riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto:
sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del
Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del
Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione
tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli
storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per quelle
omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli).
Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti
succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico
subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti
inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di
Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II
(e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la
precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena
descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben
ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei
padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don
Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del
1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a
Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori
dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino
Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è
all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine
Siciliana, è datato 1661 () e può dirsi che dopo l'esecuzione
di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del
declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto
sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi
moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato
Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti
notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro
nient'altro che un testo di piaggeria araldica. () Si dà il caso che
l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel
trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso
l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San
Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane
raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da
falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo
è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di
Federico II Chiaramonte () è il fulcro della legittimità feudale in
capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere
davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di
Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges (), ma sono
elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del
Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi
d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero
l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie
copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, quando
sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra
il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è
molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare
cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case
da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano
della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.()
Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto
nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta
Antonio Veneziano. ()
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del
Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un
anonimo diarista palermitano. () Quando, ai primi di gennaio del 1650
e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D.
Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo
dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa
maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del
tutto fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor
Vincenzo Auria () che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario
fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26
febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL
CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo
secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e
poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e
Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche
storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese
nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza
di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di
un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni
araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella
ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo
subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento
lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente
Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I
DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto
accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia
Chiaramonte. Ed è proprio così che è andata: dopo i Vespri la
Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi,
ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei
Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta
quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del
Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il
tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del
padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro
avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria.
Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e
talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei
del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto
- escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali,
forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente
boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte
vicino Agrigento.
ANTONIO II
DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si
parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della
sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito
Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge
che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno
che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non bene
accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli
si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri
padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli
agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga
sul fatto che il preteso titolo era fasullo, comunque inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli
Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali,
oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica,
persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel
tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra
generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla
data di un importante documento del 12 marzo 1399 (pubblicato infra).
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex
compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in
compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt
summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di
navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini
pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca).
Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in
particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre
Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria,
morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello
che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e
cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona
feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris
canonicorum civitatis Agrigenti, .... et eciam in quoddam
hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium
magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti
Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici
de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et
alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu
Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum
terris vacuis vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte
civitatis ex parte orientis viam publicam ex parte occidentis et
alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de
Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et
censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac
... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum
segnalibus suis, et in omnibus et singulis bonis stabilibus castris
villis baronijs feudalibus et burgensaticis sistentibus in toto
regno Sicilie.»
Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo
passo del citato documento:
«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia
instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis
ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes
eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini Antoni
de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti
domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum
et heredes suos.»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo
primogenito, Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di
Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto:
non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro
d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere
interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di
Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto
di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino
a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo - pubblicato in altra parte di questa ricerca - ci
accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla
hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a
mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di
Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo
a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto feudale allora
vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella
lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati
racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici
locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III
del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed
altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando
gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso
Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
inerosimile congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore:
per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di
figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna
paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo
“egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene
appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et
egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima () era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris
et amicus noster carissimus”; Matteo viene relageto in secondo
ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster
dilectus”.
MATTEO
DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite
della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse
un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel
sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a
contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo
decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un
solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e
consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse
figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in
Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto
barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il
futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo () ne fornisce
indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra
maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini
di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti
generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali
cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et
imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu
di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari
constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri
tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di
li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia
bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa
cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra
persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben
complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto
vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è
palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli
aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra
come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le
campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono
infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è
già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è
alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti
sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha
modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e
pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando
oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi)
”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per
quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della
serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin
allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta
incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martelo del
vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui
vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo
del Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte
di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei
Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio
di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino
Duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio
delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391.
Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno
dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno
e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso
anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando
più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna.
Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo
cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel
Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena
politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con
aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette
abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i
suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a
dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel
Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel
secolo non sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere
racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in
particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei
Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni
tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe
i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite,
decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle
torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore -
per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso
rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma () del
1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro
dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio (): «
Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum
Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si
rese non osseuiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra”
al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il
“Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il
Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini
passa nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo
del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per
quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini
nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. ()
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del
1395 concernono i seguenti passaggi dell’andiriviene opportunistico
del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del
Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa
credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua
cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a
prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere
l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona,
conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte
panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e
fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a
domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta
plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de
tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li
quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio
de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato
et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" -
Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus,
quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio
di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere
l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato
irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta
dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li
quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale
condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi
ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi
fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza
emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani".
Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato
assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne
attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so
castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi
constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano
fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma
drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di
libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento
di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei
campi coatto.
Remictimus et gratiose relaxamus Matteo preditto omnem penam,
culpam et offensam, dolum, delictum, fraudem, malitiam et omnem
crimen et spetialiter crimen lese maiestatis in omnibus suis
capitulis, depradationes, dampna homicidia et robberias et omnem
culpe causam que prefatus Mattheus commiserit hactenus et
perpetraverit, quesiverit et ordinaverit motu proprio vel alieno, tam
contra personas quam contra statum nostrarum maiestatum, nec non
contra consiliarios nostros atque fideles et vassallos atque
extraneos et loca fidelia serenitatis nostre, parcentes et
indulgentes ipsi Mattheo eius uxori et filijs, familiaribus et
domesticis suis ac restituentes eosdem ad statum pristinum et honores
et famam integram tam quo ad personam quam etiam ad baronias et omnia
bona feudalia et burgensatica ubique existentia mobilia et immobilia,
et specialiter ad terras et castra predictorum
Rachalmuti et ad jura et actiones sibi hactenus competentes et ad
bona omnia quocumque nomine censeantur, que omnia etiam si opus est
de novo conferimus, concedimus et donamus prefato Mattheo et suis
heredibus in perpetuum, eo modo et sub illis oneribus et servitijs
quibus ea tenebat et possidebat ante perpetrationem criminis
supraditti; donationibus, concessionibus et alienactionibus
quibuscumque de bonis ipsis aut alterius ipsorum alicui per nostras
serenitates factas quas de certa nostra scientia plena concientia et
absoluta potestate pro bono pacis et beneficio publico revocamus,
irritamus et penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito etiam
quod in prefatis nostris concessionibus sit adietta clausula
remissionis fatta et fienda non obstante, vel eciam si in illis
nostris concessionibus diceretur quod quecumque remissio non
preiudicet illis nisi in ea ponantur forma dittarum concessionum de
verbo ad verbum vel forte alia formula verborum sub quacumque
conceptione verborum sit in illis [3] apposita, quibus clausulis
derogamus expresse de conscientia nostra et plenitudine potestatis
regie annullamus etiam et irritamus omnes sententias, editta de certa
etiam iuditia contra ipsum Mattheum edita, lata et promulgata per
magnam regiam curiam de crimine lese maiestatis ac si contra eumdem
numquam prolata fuisset.
Questa la formula assolutoria, ampia, faconda, omnicomprensiva,
rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi
ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
Insuper confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia
et singula privilegia per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo
vel suis concessa seu indulta sub servitijs et conditionibus
contentis in eis et quolibet eorumdem ac etiam expressatis iuxta
modum et formam capitulorum predittorum et responsionum per nos
fattarum eisdem ut superius continetur, nostris tamen et alterius
iuribus semper salvis.
La chiosa finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero
ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei
nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle
plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per
Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria
per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per
i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era
solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani
avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo
trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti
racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare
che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura
francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino
nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è
Giuseppe Beccaria () che ha modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando
de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro
paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca,
approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a
cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del
Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un
certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello
esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria
alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Rex Siciliae etc. Consiliare noster, La nostra maiestati ha gran
plachirj di exercitarj et legirj lucanu in franciscu, maxime per
mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki vui vi
haviti unu bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki
nj dijati complachirj et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo
plachiriti la excellentia nostra.
Data Cattanie sub nostro sigillo secreto quinto Junij, quinte
indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki per portari lu dictu libru
vi mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj nj mandiriti lu
dictu libru. Data ut supra.
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio
Stato Palermo)
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia
che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un
primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a
scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di
Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando
sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al
figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13
aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22
agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del
Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita
dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano
I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e
padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia
genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto,
facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero
ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del
Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di
fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte
capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di
Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un
atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto.
Lasciamo agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla
questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è
qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e
tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone
di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio
canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di
Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti
scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione
dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue
ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a
metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva
diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu
la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei
Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una
inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato
del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il
re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati,
prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella,
entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene
la vicenda il documento che qui riportiamo in altra parte del
presente lavoro.
Il documento fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava
acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di
Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa
poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di
Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al
‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente
da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511,
nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata
alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia.
Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata
l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di
dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina
da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può
benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia
vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi
Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a
peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV
SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del
Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era
arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe
questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli
Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace
esportatore di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di
Siculiana. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di
feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La
baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix
moyens des fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna
sull’argomento in pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e
nella sua madre lingua, visto che mostra gallica diffidenza verso un
traduttore siciliano di una precedente sua opera storica di analogo
argomento - à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on
s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe
féodale dans l’administration des domaines fonciers et des
seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de
sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert
d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert
d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di
nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ()
sembra escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non
spregevole latinista, addentro di sicuro alle segrete cose dei del
Carretto, è smaccatamente elogiativo per dargli eccessivo credito.
Come può vedersi dai lunghi passi in latino riportati in calce,
l’interruzione della baronia dal 1422 al 1553 (data del processo
d’investitura, varie volte qui richiamato) non viene neppure
sospettata. Così è anche in una lunga comparsa giudiziale della
fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto
nel 1418 (); il personaggio è arrogante, intraprendente, si dà
all’usura, sa farsi nominare mastro portolano. Il Bresc è prodigo
di notizie sul suo conto. Tra l’altro, compra per 10.000 fiorini la
castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op. cit. pag.
857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi
nominare feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per
ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Ma nulla emerge che possa accreditarlo come padrone - sia pure
temporaneo di Racalmuto. Il Sorge, nella sua pregevole opera su
Mussomeli, parla sia pure per un tempo di poco successivo di un
barone di Ragalmuto che avrebbe acquistato quote dei locali feudi.
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto
Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata
l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in
Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei
- in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si
verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’
l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un
documento del 7 luglio 1474, Ind. VII vengono narrate le circostanze
raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen da'
commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi a Racalmuto per punire
coloro che uccisero il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare
un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna
del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto.
Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra
essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle
usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva
persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni
antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte
irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto
a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la
corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si
direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi
dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu
profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una
“venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu
certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa,
della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai
parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne
scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire
sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da
intendere, intenda.
certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a
definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei
del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a
questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto impero.
La questione si riproporra a fine ’500. Apparentemente risolta a
favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola
e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella
seconda metà del ’Settecento e l’avranno vinta, forse perché
allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del
Carretto, abbiamo dati alquanto biografici di questo barone di
Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
magnificus
dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro
dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et
proventus paficice et quiete et de hoc fuit et est vox notoria et
fama publica et ..
dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus
iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis
de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et
proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama
publica et ..
ex
dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus
natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de
Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam
filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta
percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est vox
notoria et fama publica etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del
Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il erede nella
baronia Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito
a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo
lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data
del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben
32 anni) lascia adito a dubbi, specie se si dà credito allo Bresc
che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per
una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto,
inopinatamente divenuto sperperatore delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del
Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto
1401 giungeva una lettera () da Catania per la sistemazione delle
pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria
relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de
Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto:
v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni
I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella
relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante
l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un
carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una
quietanza attesta che la posizione è stata sistemata come segue: 30
once in contanti e dieci a compensazione di un mutuo a suo tempo
approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri
Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) :
«Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi
medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento
sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio
residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della
classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle
signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua
baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert
Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la
fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella
nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è
qualcosa in più: viene precisata la fonte.
Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua
baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato
a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore
del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre -
que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la
noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on
s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe
féodale dans l’administration des domaines fonciers et des
seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de
sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert
d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non
trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron
vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux
yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment
rahonable”». [Per ACA Canc. s’intende: “Archivio de la
Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808
riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op.
cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben
ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto
affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto
sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò
di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico.
Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir
miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la
successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole
(donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche
saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei
del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote
della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da
Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta
nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico
del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di
figure dei vari rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e
naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i
processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di
Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza
genealogica è indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino
sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto
è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure larvatamente al
requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della
primogenitura (). Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa -
non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del
Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale
Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano
l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto
vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti
della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli
altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel
libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » ()
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi
per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi
dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della
regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso
d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno
alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini
per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso
d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:
- presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
- renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
- restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
- e del pari restino riservate alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
- resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato
nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da
Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di
Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con
Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450
contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc
[op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse
spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di
forward in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita
presso il "Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND
G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai
Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra interessante
notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893,
Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta
antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata
è un libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in
Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette
essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo
per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non
sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del
Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum
familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem,
ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque
semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per
colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle gesta che
affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e
noi non ne abbiamo nessuna ... memoria. Accontentiamoci del fatto
che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il
successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna
del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno
tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di
Racalmuto ().
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli () che «lu
fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ...
vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno
vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il rendiconto è del
1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni
si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si
legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli
anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il
contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro
Del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le
nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in
particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili
etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum
et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non
ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del
Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita
del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del
Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del
Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed
abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni
di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto,
in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti:
nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in
Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro
racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu
teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet
quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno
uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru
quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a
la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di
Pasqua.» ()
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del
Carretto - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II,
ha questi appunti critici:
«E morto il
cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il
quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese
giammai l’investitura della detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto,
quello che le saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano
“Conte”. Il Barberi annota su di lui:
«Morto il
detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e
naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non
risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra
per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad
once 700.»
Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita: un accenno
trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran
fulgore che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del
Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il passaggio :
al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once
700.
Settecento once di reddito - a meno che non trattisi di esagerazioni
fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei moderni accertamenti
degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che sia,
Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del
Carretto - ha un salto quantitativo, un empito verso il grande
centro. Nostri precedenti studi () hanno messo in evidenza questo
significativo passaggio demografico e sociale. Dal rivelo del 1505
(un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404)
erano poco più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era
stata molto felice e varie strozzature demografiche e sociali si
erano verificate. Le abbiamo notato in quello studio, ma tutto
sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti. Era persino sorto un
clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna
del Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era
signore di Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che
la statua è della scuola dei Gagini, e appare molto improbabile sia
finita in Africa; ma di più di ogni altra è inquietante la
considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni e il del
Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come
l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor
Pende, perché proprio al professore, perché al del Carretto,
perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la
popolazione di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini
onesti e di delinquenti, di intelligenti e di imbecilli.» () Ma
è proprio lui che poi negli Amici della Noce se la prende con
l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di avere cercato un
po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi siamo
legati.
Neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il
valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati
Requisenz ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per
fare apparire i Conti del passato, ma intenzionalmente quelli del
presente, quali grandi benefattori del paese: così il barone Ercole
Del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad essere
presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della
Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ()
Osta se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di
Racalmuto il 28 gennaio 1771 () ed a quella data la saga era ben
salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex
voto che si ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di
Francesco Vinci (pubblicato secondo lo stesso padre Morreale, pag.
35) nel 1760 e forse anche quello di Nicolò Salvo. Ma soprattutto
appare dirimente il fatto che già nel 1686 la curia vescovile di
Agrigento considerava “miracolosissima imago” (imagime molto
miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte
di Racalmuto. () Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì
rilevante complessità religiosa. Umilmente riteniamo che Ercole del
Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una
precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun
documento probante) ed ebbe a corredarla facendo venire da Palermo
una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea,
così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e
rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei
contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu
semplice e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel
simulacro era maestosamente eretto sull’altare maggiore della
Chiesa del Monte: il vescovo - recita il testo episcopale -
“Visitavit altare maius super quo est imago marmorea S.mi Virginis,
ornata et admodum deaurata”.
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto.
Non sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio
del 1517. Sposò tal Marchisa di cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo
abbozzare questi altri dati: fu “signore e barone della terra di
Racalmuto e tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo
castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e
pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che
gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e
proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”.
“Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e
naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come
veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità
di signore e padrone della predetta terra e padre del signor
Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della
terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo
avere redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio
Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio,
ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore
Giovanni”.
Nel suo processo d’investitura si legge che: a «Johanni de
Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius
legitimus et naturalis.» ()
Crediamo che il noto giurista operante a Racalmuto Artale de Tudisco
fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile del suo
entourage fu il nobile Alonso de Calderone che così
testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di
lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia
dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella
permutari li officiali et rescotirisi et fachendosi rescotirj li
renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni et
canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo
primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu Garrecto a lu
quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlio
unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et
reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in
lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et
secondo intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi
testamento.»
Testimoniò anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto
barone, così come il “nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi
egualmente di risalto furono i “nobili” Antonino Palumbo, Alfonso
de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il cennato processo include anche uno stralcio del testamento di
Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra traduzione dal
latino (il testo dell’originale è pubblicato altrove):
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del
quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno
dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile
signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime volontà
testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è
l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e
spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo
erede universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del
Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e
dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un
tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore
sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e
stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in
ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e
designati, e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori
di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti,
proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo
spettanti e pertinenti, secondo la serie ed il tenore dei suoi
privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi
privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in
prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III.
Ercole contrasse sicuramente altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Di quale madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non
è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile districare.
Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di
Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma
nel testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato.
Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora
va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre
un secolo dopo, nella rinomata Palermo restaurata? Siamo
propensi per l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel
1630 circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni
scrisse per sé secentesche memorie che oggi sono una miniera di
notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e addirittura
da Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò un racconto
truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano.
Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non possiamo
esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato
Dio solo sa.
«Nel tempo che
fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di
Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso,
che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo
paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa
Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra
loro gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a visitare
suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25
cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla
piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e
potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e
si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si venne
tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e ne
morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico,
era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto,
quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo
mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a
salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire
Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una
giornata di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte
Borrello, figlio del viceré, perché mantennero un ponte tutti e
due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal che si evitò gran
danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà,
spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e
fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni
Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici,
in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di
gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato il
padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro
Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia
ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di
Camastra, anco della città di Naro, manteneva a sue spese cento
cavalli, ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li quali
faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne temeva
tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del
predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era
amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si
volesse adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché si
sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da
Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico
con quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco
delle Fiaccate, per quel cammino assaltò i predetti fratelli con
molta compagnia. I quali non prima si videro Enrico addosso, che
sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti, presi ed
uccisi.
E se ne presero le teste, che furono portate
al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli
di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si
estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo
ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
“Più solidità e più stabilità” Eugenio
Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa che possa avera il suo
congetturare sulla genisi della saga della Madonna del Monte, quale
trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la
sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che
Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero figlio del
barone Ercole.
Probabile invece che una volta conosciuta la
tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi
del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della
vetusta e pia memoria della “venuta” di quella adoratissima
immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo
recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è coevo certo
alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici che
sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da
Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - ,
“intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran
Signura”, sono scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a
lu conti cci arrivà mmasciata”, il riferimento è decisamente
postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo. Il carme
dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso
l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna
del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla
panoramica altura della omonima chiesa.
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