Calogero Taverna
La signoria racalmutese dei Del Carretto
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Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e
prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di
Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza
Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II Chiramonte,
era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del
pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta:
ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi
oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo
abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che il coautore, prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni
’novanta di questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi
di Stato di Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro sono
talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare
titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico
travalicare i limiti di una fioca
credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio
del cadetto Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i
noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono
sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe
Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo
la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta
ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui
riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan
dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo -
disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a
giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi
strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni
all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi;
addio preti in “alumbramiento; addio
terraggi e terraggioli vessatori;
addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio
storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro -
ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente
complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testomoniare una vita a
Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che
verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il
vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di
aver riconosciuto titolo di marchesato che fasullamente in esordio avevano
contrabbandato.
Certo se
Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio
per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei
del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni
briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
E quel che si scrive su data e struttura del
Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta
canta e villan dorme!
UN EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO
ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO
Ricerca storica di Calogero
Taverna
Dalle brume dell’archeologia locale affiora, flebile
ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila anni fa
lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra
eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le
più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i
greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il
II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo
verso la fine del secolo scorso.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo
racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di
Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti
significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di
Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso
ed in luogo che all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque,
sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede
fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano.
Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i
mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare,
depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI
secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta
probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un
fortilizio, un Rahal: da qui il
toponimo Rahal Chamuth, a seguire
l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II,
ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone.
Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli
altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi
latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due
decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse
Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi,
verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un
nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il
vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel
1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne specificava - prima di esser distrutto dai
nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per altro verso,
quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed
incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal periodo si è
scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo
cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici
di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci
di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto
acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica
pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75
fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480
abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da
Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella
prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di
Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure
Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria -
forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli
archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino
al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio
illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto
Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo,
farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente
previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor
più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540
abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del
Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il
barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un
delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di
Castronuovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo
di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione
su Palermo Restaurato, ove rammenterà
quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel
del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto
carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo.
Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e
tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento
per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano
che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.°
896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così
devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del
1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento
del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena
n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta
fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di
quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577
non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione
della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la
soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi
con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli
abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano
rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri
viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni
sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.
La questione feudale racalmutese
Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a
teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu
in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né
Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia
vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e
se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo
il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed
a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto un
centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto
impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come
asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come
tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri
iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de
communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei
Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso
era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi
abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI,
sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis
armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire
dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di
Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra
demaniale.
La dizione del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi
che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla
tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate da Federico
Chiaramonte poco prima del 1311.
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di
Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre
cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci
tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile, avendo
più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia di
rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti
notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione,
visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il primo
feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei
Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie aprocrife baronie dei
Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria
che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè
nel 1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto
è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto.
Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si
avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente terra
feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e
sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di
Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.
GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO
A RACALMUTO
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica
figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni
effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio
Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla
morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad
investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture
di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio
Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle
fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio
II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo
Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che
siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo
il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in
compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua
quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la
sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino
I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo,
come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie
dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo punto a
Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo
promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle cointeressenze date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione
della detta vendita.»
La svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi
Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si
venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non sembra
potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte]
ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino
Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro,
Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella,
Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti,
Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti
coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese
appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con
certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia
nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era
stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per
un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la
scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici
eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto
questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un
massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della residua,
falcidiata popolazione. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il locale
sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto
professore del Continente che: «Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. Questo borgo fu sotto il
dominio della famiglia Chiaramonte, passò quindi in feudo della famiglia
Requisenz, principi di Pantelleria. (Alcune delle surriferite notizie debbonsi
alla cortesia dell'on. Sindaco di questo Comune).» [6]
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel Messana, [7] secondo il
quale: «A
Racalmuto le cose andavano bene, la popolazione cresceva, sempre attorno
al castello. Vista insufficiente la cappella del Palazzo che nei primi tempi
dopo il 1355 fu aperta al culto dei pochi superstiti alla calamità, si costruì
la chiesa dedicata a S. Antonio Abate, eletto patrono del paese, alla periferia
del nuovo centro abitato, verso l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni
passavano, e al barone Antonio Del Carretto erano succeduti i figli Gerardo e
Matteo. La baronia di Racalmuto con altri possedimenti era toccata a Matteo, a
Gerardo invece Siculiana col resto dei
feudi. I due germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari
del regno. Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i
Chiaramonti, anche perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte
le volte che non vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e
dedizione. Negli anni di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici
infatti Racalmuto è annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del
Carretto erano i signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e
dipendenti dai Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei
potentissimi parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di Andrea Chiaramonti, che
avevano seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di
Martino e ricoverarono all'interno. »
In questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se
si dà in qualche modo credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il
1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è
possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe
le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il papato
che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad Avignone,
versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad
una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame
papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa:
bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito
direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi
eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un
nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII
era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a
Limoges nel 1329; morirà a Roma
nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia
ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo
pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane.
Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede
la guerra degli «8 santi», novanta città e castelli dello Stato pontificio si
sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate
antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata
causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più
a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della
Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi
avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con
richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie.
Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a
partire dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina
la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia
in favore del patrimonio della Santa Sede. [8] Scoppia
quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei
sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la
devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata
a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374
raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del
1373. Dopo, nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte
che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di
circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo
aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che
continuava più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra
difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza
contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la
percezione dell’obolo è un totale fallimento nel reame di Napoli e,
specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di
Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava
ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e
dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là
25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da
mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i
contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per
calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4
giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una
situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni.
I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e
rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a
frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera
apostolica. Gregorio XI si fa prestare
somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al
finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento
finale della fiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello
Stato pontificio e si estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto
pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio
XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da
dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è
perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono
perdonate; lo può Racalmuto ed il 29
marzo 1375 viene solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità”
di una colpa mai commessa.
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento
comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo
processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura.
Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato
spirituale e temporale insieme.» [9] Ma ciò per
un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il precedente
mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si ritirò
dinanzi all’impellenza delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento
ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si
mettono in cammino lungo percorsi nuovi,
in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati.
La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per
lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il
tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso del
suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della
potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le pubbliche autorità rigettano le idee di
sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la
borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di
costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di
imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di
difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scisma. I papi
poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva
adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’
questo un momento culminante della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed
in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In
cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto,
frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il modesto,
gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo
una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
[1]
) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977,
pag. 10 e segg.
[2]
) ibidem, pag. 18.
[3]
) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola
- Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4]
) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti -
Palermo 1891, pag. 14.
[5]
) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[6]
) DIZIONARIO
COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano
(Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.
[7]
) Eugenio
Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec - Canicattì - Giugno 1969. pag. 77.
[8]
) Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in
Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno V . n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[9]
) L. von Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.
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