lunedì 23 novembre 2015

Gli antenati racalmutesi di mister Ron PUMA

ESTRATTO DALLA NUMERAZIONE DELLE ANIME del 1822 /24
Statodellafamiglia di DI PUMA SALVATORE DI GAETANO n"
 6549 e seguenti

6549 PUMA (DI) SALVADORE DI GAETANO      
6550 PUMA (DI) M. ROSA MOGLIE  
6551 PUMA (DI) CARMELA F.A 9  
6552 PUMA (DI) VINCENZA F.A 6  
6553 PUMA (DI) MARIA F.A 3  
6554 PUMA (DI) GAETANO F.O 1  



 
 
 
Questo è il nucleo familiare del bisnonno di mister Ronald Puma ora cittadino statunitense, penso newyorchese: il nucleo familiare quale emerge nell'ultima NUMERAZIONE DELLE ANIME svoltasi tra 1822 e il 1824 a Racalmuto.

Le Numerazioni delle Anime erano particolari censimenti che la Chiesa faceva a fini suoi che erano sostanzialmente di natura fiscale. Alla Chiesa si pagavano tasse dalla culla alla tomba. Erano tasse che si aggiungevano agli altri tributi di natura civile e persino feudali.

Se si moriva si pagavano le quartuarie, un quarto per il vescovo, un quarto per l'arciprete,  un quarto per il cappelano e un quarto per la CORPORAZIONE laica che ne curava la tumulazione nella chiesa di spettanza.

Alla Numerazione dele Anime non si sfuggiva. I preti sapevan essere agenti fiscali dalla diligenza inflessibile.

Tra il 1822 e il 1834 dunque a Racalmuto le "anime" erano settemila  come d'attestato in calce allala medesima numerazione. In quest'ultima Numerazione sono indicate le localit' viarie tra cui si ripartiva Racalmuto. Un documento dunque molto importante per la conoscenza della genuina struttura abitativa del nostro glorioso paese. Paese nostro e di nessun altro. Dal dodicesimo secolo costantemente chiamato RACALMUTO, al massimo in vernacolo Racarmutu e mai ha avuto a che fare con quel Grotte là,  quel feudo tardo che il Barone GaspareMontaperto potè polarechiamando bridadri ed evsori da tutte le parti in forza della LICENTIAPOLUANDI ottenuta il 15 dicembre 1527.

Racalmuto a quel tempo aveva quas mezzo millennio d storiadietro di sé. Partita come Libera Unversitas dopo un interesse di tal Musca di Modicaaveva subito l'onta dei Ctalani e quindil'arraffamento dei Chiaramonte pe passare sotto il dominio talora con qualche ombra ma di norma piuttosto illuminato dei el Carretto-

Oh, il 15 dicembre del 1527: erano già 22 anni che avevamo aureolata di leggenda una gaginesca mdonna sul bel monte  tra la montagna il serrone e a cattolico ammonimento al osrrusco Castelluccio, il corrusco maniero degli aspri dominatori chiaramontani.

Deceduto Ercole del carretto, quello della favola della venuta della Madonna del Monte era dal 28 gennaio della settima indizione del 1519 che stavolta permanentmente governava Racalmuto dal cestello dalle due torrirotnde e svettanti Giovanni Terzo del carretto.Nel Seicento un palermitanoche si proclmasma suo parente nel cercare di Restaurare un spedaccona e molle Plermo ha finit col farne un codardo vendivatoe di omici Del Carrento in queldi San Pietro presso Castronovo. Frttle.? ne saremmo convini se ancora adesso posti pregeli di casa nostra nn vi si aggrappareo per immondi gemellaggicon l'estranea algida terra montagnosasotto Cammarata.

Ma Giovanni III dfu un gran barone di Racalmuto. Il suo testamento fiule per fede adamantia e per munifica attenzione a qusta sua diletta terrainfìdeudatagli.

e ha a che fare Grotte con questa nostra spettacolare storia  fervida colta ardente miracolsa_ Ben fa mister Ronald Puma a cercare certoinamente le sue ancora in lui pulsanti agnazioni racalmutesi estranee ad ogni inquinamento grottesco.



GIOVANNI III DEL CARRETTO


 

 

Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.

Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.

Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)

 

Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto


 

 

 

Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n.  1175: ([1]) abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal latino.

 

«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio  del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la data del  28 gennaio, VII^ Ind., 1519.

 

«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.

E tanto per prendere l’investitura della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto, suo  padre.

 

«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra  di Racalmuto, con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi da vero signore e padrone.    

 

«Del pari, si testimonia che il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.

 

«Del pari, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.

 

«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo  procuratore, prese e conseguì  l’attuale, reale e corporale possesso della detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.

 

«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti i suoi  dominî e regni la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e naturale. Così fu ed è la verità. 

«Del pari, si afferma che al fine di prestare il debito giuramento e l’omaggio della dovuta  fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.

 

Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto


 

 

Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.

Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.

Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis  Domina Aldonsia, la si indica nel testamento. 

Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.

Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non più  di n.° 500 abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese, fragili e malandate.

In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.

Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:

Censimento del 1548
Ceti paganti
ceti esenti
evasori
totali
N.° Fuochi
896
 0
90
986
Abitanti (fuochi * 3,53)
3.163
0
316
3.479

 

 

Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.

Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.

 

Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto


 

 

Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.

In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.

Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.

 

 

 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.

 

Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [2] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del  vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[3]

Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).

Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)

Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).

Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).

Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata  confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie»   Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.

Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.

 

Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo  sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.

Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»

Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa  inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.

L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.

Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:

1)         Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;

2)         “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;

3)         Chiesa di Santa Maria del Monte;

4)         Chiesa di santa Maria di Gesù;

5)         Chiesa di Santa Margherita;

6)         Chiesa di San Giuliano;

 

Nella precedente visita del 1540 abbiamo:

1)         Chiesa della “NUNTIATA”

2)         Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)

3)         Chiesa di Santa Margherita;

4)         Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;

5)         Chiesa di S. Giuliano.

(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)

Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:

 

·      la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);

·      Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo  di borcati vecho stagnato);

·      Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.

 

Il testamento di don Giovanni III del Carretto


 

 

 

Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([4]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.

In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.  “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.

 

Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.

Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla  condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.

 

Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):

·      5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;

·      5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;

·      10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;

·      5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;

·      5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano

·      5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);

·      5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.

Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.

Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto  «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»

I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.

 

 

Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).

 

 

 

Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.



[1]) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -  BUSTA 1487 -  PROCESSO n.°  1175 - ANNO 1518-21
[2]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[3]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[4] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.



 

 ESTRATTO DALLA NUMERAZIONE DELLE ANIME del 1822 /24
Statodellafamiglia di DI PUMA SALVATORE DI GAETANO n"
 6549 e seguenti
 
534 POMO CRISTOFARO   NOTARO DON
535 POMO MICHELA MOGLIE  DONNA
3920 POMO ANTONIO   MASTRO
3921 POMO ANNA MOGLIE
3922 POMO ARCANGELO F.O 6
3923 POMO PAOLINO F.O 3
3924 POMO LUIGI F.O 1
4124 POMO MICHELANGELO   MASTRO
4125 POMO VINCENZA MOGLIE
4126 POMO MARIA F.A 23
4127 POMO CALOGERO F.O 29
4128 POMO ANGELO F.O 25
4129 POMO GERLANDO F.O 11
4130 POMO M. CONCETTA F.A 8
5688 POMO FRANCESCO   NOTAR D.
5689 POMO ANNA MOGLIE  DONNA
6680 POMO GIUSEPPE   MASTRO
6681 POMO MARA MOGLIE
6682 POMO FRANCESCA F.A 23
6683 POMO AGATA F.A 17
6676 POMO E LA ROCCA GERMANA VEDOVA
400 PONTICELLO SR. MARIA SERAFINA
333 PRINZI DOMENICO VEDOVO  MASTRO
334 PRINZI AMODEO F.O 14
335 PRINZI SALVADORE F.O 12
336 PRINZI CALOGERA VED.
337 PRINZI CALOGERO   MASTRO
338 PRINZI MARIA ANNA MOGLIE
3683 PRIZZI CARMELA VEDOVA
3684 PRIZZI CARMELA F.A 18
630 PROIETTA RAFFAELA  MESI 1
1984 PROIETTO ANASTASIO
4448 PROJETTA ROSALIA  20
3419 PROVENZANO CALOGERO DI GIROLAMO
3420 PROVENZANO AGOSTINA MOGLIE
3421 PROVENZANO VINCENZO F.O 14
3422 PROVENZANO CALOGERA F.A 6
3423 PROVENZANO GRAZIA F.A 4
6556 PUMA SALVADORE F.O 20 CHIERICO
6557 PUMA CARMINE F.O 10
252 PUMA (DI) GIUSEPPA VEDOVA
2134 PUMA (DI) FRANCESCO DI FRANCESCO
2135 PUMA (DI) MARIANNA MOGLIE
2136 PUMA (DI) SALVADRICE F.A 12
2137 PUMA (DI) FRANCESCA F.A 10
2138 PUMA (DI) GIUSEPPE F.O 5
2139 PUMA (DI) CALOGERA VEDOVA
2140 PUMA (DI) SALVADORE F.O 16
2141 PUMA (DI) MARIA F.A 13
2142 PUMA (DI) FRANCESCO DI GIUSEPPE
2143 PUMA (DI) MELCHIORA MOGLIE
2144 PUMA (DI) SALVADORE F.O  D. SAC.TE
3384 PUMA (DI) MARIA LIBERA
3385 PUMA (DI) ANTONIA NIPOTE 23
4511 PUMA (DI) GIUSEPPE
4512 PUMA (DI) CALOGERA MOGLIE
4513 PUMA (DI) ANTONIO F.O 1
5003 PUMA (DI) GIUSEPPE DI GIROLAMO
5004 PUMA (DI) ANGELA MOGLIE
5005 PUMA (DI) VINCENZO F.O 3
5499 PUMA (DI) SALVADORE
5500 PUMA (DI) ROSALIA MOGLIE
5501 PUMA (DI) ANTONINA F.A 14
5502 PUMA (DI) GIUSEPPE F.O 12
5503 PUMA (DI) ANTONINO F.O 10
5504 PUMA (DI) ANNA F.A 3
6317 PUMA (DI) GIUSEPPE
6334 PUMA (DI) PIETRO
6335 PUMA (DI) ANNA MOGLIE
6336 PUMA (DI) CONCETTA F.A 11
6337 PUMA (DI) GASPARE F.O 5
6338 PUMA (DI) SALVADRICE F.A 2
6339 PUMA (DI) CARMIINE F.O 1
6500 PUMA (DI) SIMONE
6501 PUMA (DI) SALVADRICE MOGLIE
6502 PUMA (DI) GIUSEPPA F.A 3
6516 PUMA (DI) GIOVANNI DI PASQUALE
6517 PUMA (DI) GRAZIA MOGLIE
6518 PUMA (DI) GIUSEPPE F.O 19
6519 PUMA (DI) CALOGERO MAG. F.O 11
6520 PUMA (DI) CALOGERO MIN. F.O 2
6521 PUMA (DI) GIOVANNI DI PAOLO
6522 PUMA (DI) MARIA MOGLIE
6549 PUMA (DI) SALVADORE DI GAETANO
6550 PUMA (DI) M. ROSA MOGLIE
6551 PUMA (DI) CARMELA F.A 9
6552 PUMA (DI) VINCENZA F.A 6
6553 PUMA (DI) MARIA F.A 3
6554 PUMA (DI) GAETANO F.O 1
6558 PUMA (DI) GAETANO
6559 PUMA (DI) ONESTA MOGLIE
6560 PUMA (DI) DOMENICO F.O 6
6561 PUMA (DI) VINCENZA F.A
6565 PUMA (DI) CARLO
6566 PUMA (DI) ANNA MOGLIE
6567 PUMA (DI) ANTONIA F.A 10
6568 PUMA (DI) CALOGERO F.O 7
6569 PUMA (DI) M. GIUSEPPA F.A 4
6570 PUMA (DI) FRANCESCO F.O 1
6592 PUMA (DI) PLACIDO   DIVISO
6593 PUMA (DI) SALVADORE DI PLACIDO
6594 PUMA (DI) ANTONINA MOGLIE
6595 PUMA (DI) CALOGERO F.O 5
6596 PUMA (DI) CALOGERA F.A 3
6603 PUMA (DI) ROSARIO
6604 PUMA (DI) LUCIA MOGLIE
6605 PUMA (DI) GAETANO F.O 13
6606 PUMA (DI) RAFFAELE F.O 11
6630 PUMA (DI) BALDASSARE
6631 PUMA (DI) GIUSEPPA MOGLIE
6632 PUMA (DI) SALVADORE F.O 6
6633 PUMA (DI) GREGORIO F.O 4
1077 PUNELLO IGNAZIA LIBERA
 qualmente il n° delle anime di suddetto Comune di Racalmuto arriva al n° settemillecentosessanta, onde in fede di ciò ho formato la nota scritta di alieno carattere, e sotto scritta di mio proprio pugno    

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