Castrum Racalmuto Domani
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mercoledì 20 marzo 2013
COMMIATO
Come
nella vita, come tutte le cose, anche questo blog, Castrum Racalmuto
Domani, ha avuto un inizio ed è arrivato il tempo che abbia una fine.
Esattamente un anno fa cominciava questa avventura che ha dato soddisfazioni,
tante speranze e qualche amarezza, come è normale
che sia. Voglio adesso terminare qui, con dispiacere. E lo faccio quando ancora
il blog è in perfetta salute, ha i suoi lettori e i suoi commentatori. Ho
raccontato una Racalmuto che vorrei vedere secondo un mio punto di vista. Non ho
la presunzione di aver detto verità, né assolute né parziali. Ho scritto,
però, col cuore, spinto da un attaccamento a questo paese che non mi ha dato i
natali ma che ho assiduamente frequentato e amato. Una volta dissi che qui ho
tutti i miei ricordi, tutto il mio passato, tutti i miei affetti. Mi auguro e
auguro a tutti i racalmutesi, residenti e non, che Racalmuto possa risorgere e
vivere, finalmente, un lungo periodo di positività. Ringrazio tutte le persone
che hanno collaborato a questo blog. Quelli che hanno smesso, quelli che hanno
continuato, quelli che si sono aggiunti. Ringrazio tutti i lettori e quanti
hanno inviato i loro commenti. Esprimo il mio dispiacere per qualche commento
non pubblicato, ma non avrei proprio potuto farlo…Mi dispiace se qualche post
fosse stato interpretato in maniera negativa o se qualcuno vi avesse letto
attacchi o offese personali. Non era mia intenzione. E’ stata, comunque,
un’esperienza fantastica che ha permesso di confrontarmi, di conoscere nuove
persone e rinsaldare rapporti con altre. Ringrazio tutti e idealmente vi
abbraccio, augurandovi tanta, tanta fortuna.
Racalmutese
Fiero
martedì 19 marzo 2013
SAN GIUSEPPE
Lo
vedevo passare ogni giorno davanti casa accompagnato da uno stuolo di gatti.
Camminava a passi lenti, misurati, affidando ad un bastone la stabilità del suo
incedere. Era un vecchino piccolo di statura e magro, infagottato in una giacca
dal colore incerto, di almeno due taglie più grande. Viveva da solo, ma aveva
la compagnia di tutti i gatti randagi del circondario che aveva adottato. Stava
a contatto più con loro che con gli umani. La sua casa, ad un centinaio di
metri salendo su per la strada dove abitavo, era una sorta di magazzino a
pianterreno, dove ammassava tutto quello che riusciva a raccogliere. Se ci si
trovava a passare da lì ed era una bella giornata, capitava, a volte, di vederlo
seduto fuori a prendere il sole attorniato dai suoi gatti con cui, solitamente,
divideva i pasti. Non di rado lo si vedeva salire con scatole e scatoloni di
cartone raccattati in giro per il paese. Aveva poi una singolare abitudine,
quella di prendere tutte le immaginette di santi e i pezzetti di carta che
trovava in giro e infilarli, dopo averli ripiegati con cura, nelle fenditure dei
muri delle case vecchie. Quando scendeva giù per la strada era preceduto da
almeno due, tre gatti che lo scortavano fino ad un certo punto, e poi se ne
tornavano indietro, troppo pigri, forse, per proseguire o semplicemente perché
il loro compito finiva lì. Lo andavano poi a riprendere quando risaliva. Era
questa una cosa veramente strabiliante. Come riuscissero a prevedere il momento
del rientro era proprio un mistero. Il suo modo di respirare somigliava al
ronfare di un gatto e noi bambini pensavamo fosse causato proprio dallo stretto
contatto con i felini. Non ne conoscevamo il nome e neanche la voce, per noi era
semplicemente san Giuseppe. Questo perché una volta mia madre, come ex voto a
san Giuseppe, a cui era devotissima, aveva allestito una tavolata, invitando,
tra gli altri, anche lui, il vecchino che passava davanti casa. Noi figli, per
l’occasione, eravamo stati istruiti a dovere. Mia madre, che solitamente era
molto dolce e comprensiva, si dimostrava intransigente sul comportamento.
Dovevamo essere silenziosi, educati, cortesi, quasi invisibili. Nessuna deroga
sarebbe stata tollerata. Avevo nove anni io e undici mio
fratello.
Quel
san Giuseppe improvvisato, seduto a tavola, aveva un’aria molto decorosa,
dignitosa anche se un po’sperduta. Andava tutto benissimo e noi eravamo
orgogliosi di noi stessi. Mia madre ci guardava con approvazione e gli ospiti
erano a loro agio. Il pranzo procedeva magnificamente quando, all’improvviso,
quel vecchino pago forse di quanto fino ad allora aveva mangiato e pensando
magari agli amici gatti, cominciò, con estrema naturalezza, ad infilare nelle
tasche della giacca le polpette che aveva nel piatto davanti a lui. Noi
guardavamo e non credevamo ai nostri occhi. Quella scena, rimasta indelebile
nella mia mente, ebbe su me e mio fratello lo stesso effetto che provocano gli
argini di una diga che cedono improvvisamente e l’acqua, fino ad allora calma e
tranquilla, diventa impetuosa e prorompente, travolge e sommerge tutto quello
che incontra. Il nostro comportamento, fino ad allora irreprensibile ed
encomiabile, miseramente smise di esserlo per lasciare posto ad un ridere
scomposto che ci costrinse ad alzarci velocemente e riparare nella stanza
vicina, da dove ci fu impossibile uscire per un po’.
Da
quel giorno, quando quel vecchino passava, lo guardavamo con occhi diversi,
come se fosse entrato, oltre che nella nostra casa, anche un po’ nella nostra
vita. Mi capitò poi di rivederlo tempo dopo, ancora una volta nelle vesti di san
Giuseppe, in una tavolata organizzata nella piazza del paese. Allora il 19 di
marzo era festa nazionale e non si andava a scuola.
Non
ho mai conosciuto la sua storia, il suo nome o saputo se avesse mai avuto una
famiglia. Non ricordo neanche quando, da quella strada, non passò più assieme
agli inseparabili gatti. Per me, però, era ed è rimasto quel san Giuseppe che
a casa mia, con tutta la sua compostezza e dignità, infilava polpette nelle
tasche.
Brigida Bellomo
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