lunedì 4 luglio 2016


mercoledì 20 marzo 2013

COMMIATO


Come nella vita, come tutte le cose, anche questo blog, Castrum Racalmuto Domani, ha avuto un inizio ed è arrivato il tempo che abbia una fine. Esattamente un anno fa cominciava questa avventura che ha dato soddisfazioni, tante speranze e qualche amarezza, come è normale che sia. Voglio adesso terminare qui, con dispiacere. E lo faccio quando ancora il blog è in perfetta salute, ha i suoi lettori e i suoi commentatori. Ho raccontato una Racalmuto che vorrei vedere secondo un mio punto di vista. Non ho la presunzione di aver detto verità, né assolute  né  parziali. Ho scritto, però, col cuore, spinto da un attaccamento a questo paese che non mi ha dato i natali ma che ho assiduamente frequentato e amato. Una volta dissi che qui ho tutti i miei ricordi, tutto il mio passato, tutti i miei affetti. Mi auguro e auguro a tutti i racalmutesi, residenti e non, che Racalmuto possa risorgere e vivere, finalmente, un lungo periodo di positività. Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato a questo blog. Quelli che hanno smesso, quelli che hanno  continuato, quelli che si sono aggiunti. Ringrazio tutti i lettori e quanti hanno inviato i loro commenti. Esprimo il mio dispiacere per qualche commento non pubblicato, ma non avrei proprio potuto farlo…Mi dispiace se qualche post fosse stato interpretato in maniera negativa o se qualcuno vi avesse letto  attacchi o offese personali. Non era mia intenzione. E’ stata, comunque, un’esperienza fantastica che ha permesso di confrontarmi, di conoscere nuove persone e rinsaldare rapporti con altre. Ringrazio tutti e idealmente vi abbraccio, augurandovi tanta, tanta fortuna.

Racalmutese Fiero
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martedì 19 marzo 2013

SAN GIUSEPPE


Lo vedevo passare ogni giorno davanti casa accompagnato da uno stuolo di gatti. Camminava a passi lenti, misurati, affidando ad un bastone  la stabilità del suo incedere. Era un vecchino piccolo di statura e magro, infagottato in una giacca dal colore incerto, di almeno due taglie più grande. Viveva da solo,  ma aveva la compagnia di tutti i gatti randagi del circondario che aveva adottato. Stava  a contatto più con loro che con gli umani. La sua casa,  ad un centinaio di metri salendo su per la strada dove abitavo, era una sorta di magazzino a pianterreno, dove ammassava  tutto quello che riusciva a raccogliere. Se ci si trovava a passare da lì ed era una bella giornata, capitava, a volte, di vederlo seduto fuori a prendere il sole attorniato dai suoi gatti con cui, solitamente, divideva i pasti. Non di rado lo si vedeva salire con scatole e scatoloni di cartone raccattati in giro per il paese.  Aveva poi una singolare abitudine, quella  di prendere tutte le immaginette di santi e i pezzetti di carta che trovava in giro e infilarli, dopo averli ripiegati con cura, nelle fenditure dei muri delle case vecchie. Quando scendeva giù per la strada era  preceduto da almeno due, tre  gatti che lo scortavano fino ad un certo punto, e poi se ne tornavano indietro, troppo pigri, forse, per proseguire o semplicemente perché il loro compito finiva lì. Lo andavano poi a riprendere quando risaliva. Era questa una cosa veramente strabiliante. Come riuscissero a prevedere il momento del rientro era proprio un mistero. Il suo modo di respirare somigliava al ronfare di un gatto e noi bambini pensavamo fosse causato proprio dallo stretto contatto con i felini. Non ne conoscevamo il nome e neanche la voce, per noi era semplicemente san Giuseppe. Questo perché una volta mia madre, come ex voto a san Giuseppe, a cui era devotissima, aveva allestito una tavolata, invitando, tra gli altri, anche lui, il vecchino che passava davanti casa.  Noi figli, per l’occasione, eravamo stati istruiti a dovere. Mia madre, che solitamente  era molto dolce e comprensiva, si dimostrava intransigente sul  comportamento. Dovevamo essere silenziosi, educati, cortesi, quasi invisibili. Nessuna deroga sarebbe stata tollerata. Avevo nove anni io e undici mio fratello.

Quel san Giuseppe improvvisato, seduto a tavola, aveva un’aria molto decorosa, dignitosa anche se un po’sperduta. Andava tutto benissimo e noi eravamo orgogliosi di noi stessi.  Mia madre ci guardava con approvazione e gli ospiti erano a loro agio. Il pranzo procedeva magnificamente quando, all’improvviso, quel vecchino pago forse di quanto fino ad allora aveva mangiato e pensando magari agli amici gatti, cominciò,  con estrema naturalezza, ad infilare nelle tasche della giacca le polpette che aveva nel piatto davanti a lui. Noi guardavamo e non credevamo ai nostri occhi. Quella scena, rimasta indelebile nella mia mente, ebbe su me e mio fratello lo stesso effetto che provocano gli argini di una diga che cedono improvvisamente e l’acqua, fino ad allora calma e tranquilla, diventa  impetuosa e prorompente, travolge  e sommerge  tutto quello che incontra. Il nostro comportamento, fino ad allora irreprensibile ed encomiabile, miseramente smise di esserlo per lasciare posto ad un ridere scomposto che ci costrinse ad alzarci velocemente e  riparare nella stanza vicina, da dove ci fu impossibile uscire per un po’.

Da quel giorno, quando quel vecchino passava, lo guardavamo con occhi  diversi, come se fosse entrato, oltre che nella nostra casa, anche un po’ nella nostra vita. Mi capitò poi di rivederlo tempo dopo, ancora una volta nelle vesti di san Giuseppe, in una tavolata organizzata  nella piazza del paese.  Allora il 19 di marzo era  festa nazionale e non si andava a scuola.

Non ho mai conosciuto la sua storia, il suo nome o saputo se avesse mai avuto una famiglia. Non ricordo neanche quando, da quella strada, non passò più assieme agli inseparabili gatti.  Per me, però, era ed è rimasto quel  san Giuseppe che a casa mia, con tutta la sua compostezza e dignità, infilava polpette nelle tasche.

                                                                                                                     Brigida Bellomo
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