Il cataclisma del 1837 a Racalmuto
Eccoci giunti nell'anno del Signore 1839: un briciolo di arcobaleno spuntava a Racalmuto il temendo
cataclisma che era stata la peste del 1837.
Un fraticello del Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa tremenda testimonianza : «Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone perticolari; poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo, che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.»
In quel torno di tempo si era dunque nella solita euforia esistenziale che segue ai grandi sconvolgimenti demografici: voglia di vivere, di procreare, di lavorare, di arricchirsi, di consociarsi, di amare e di divertirsi. Il Casino nasce per conversare, giocare, ma soprattutto per scambiarsi idee, per saggiare il terreno delle opportunità commerciali. Racalmuto era stato invaso dalla febbre dell’oro giallo, dello zolfo che le viscere delle sterili terre del nord contenevano a profusione. Nel quadriennio 1834-1837 erano state attivate a Racalmuto 35 solfare su un totale di 332 in Sicilia: il prodotto medio annuo era stato di 34.696 cantari su una produzione intera della Sicilia calcolata in 1.478.254 cantari. Presso il circolo di conversazione si radunavano quindi i maggiori proprietari di solfare; s’informavano reciprocamente su quelli che erano gli umori del mercato; sulle prospettive, sulla faccenda complicata del monopolio solfifero accordato dai Borboni allaTaix, Aycard e C. (con decreto reale del 5 luglio 1838). La compagnia si obbligava a comprare ogni anno 600 mila cantari di zolfo prodotto in Sicilia "avendo la sperienza comprovata eccedente e di gravi danni produttrice ogni maggior produzione" . La produzione doveva quindi autodisciplinarsi. Non saranno stati grandi ingegni quei nostri proprietari terrieri, trasformatisi all’improvviso in imprenditori minerari, ma il bisogno dovette acuirne l’ingegno; al circolo era possibile, magari sotto forma di feroce dibattito e di reciproche contumelie, avere modo di giungere ad un qualche chiarimento, ad un orientamento delle proprie scelte produttive. Erano i problemi della nuova società borghese ed anche i ‘civili’ racalmutesi ne venivano inghiottiti. Sono aspetti per ora in nessun modo indagati dalla storiografia, ancora anchilosata da ideologismi e prevenzioni intellettualistiche oscuranti la ricerca del vero evolversi sociale di quel tempo.
Il circolo era tutt’altro che il punto d’incontro di neghittosi nobilotti di paese, alle prese con il problema del molto tempo libero da occupare in qualche modo. V’era spirito imprenditoriale: vi accedevano, se non i gabellotti arricchiti, freschi di studi universitari. La stampa cominciava a farvi capolino. Il circolo è dunque più di un’occasione per attizzare una certa vivacità culturale. E la cultura cambia in paese: esso non è più la contea alle prese con i problemi del terraggio e del terraggiolo; anche il nuovo barone Tulumello - un prete suo antenato aveva acquistato per due terzi il feudo di Gibillini il cui titolo doveva essere assegnato a persona da nominare - deve ora accontentarsi solo del vacuo trofeo di un blasone nobiliare che deve condividere con il barone Girolamo Grillo. In quel torno di tempo ben 3 personaggi racalmutesi si arrogavano quell’altisonante fregio. Eccoli secondo le annotazioni di un rivelo coevo:
[segue ... ma chissà quando!]
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