Calogero Taverna
La donna del Mossad
CONCOMITANZE
Alla Farnesina
d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era
da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone,
lucide d’oro, allicchittate[1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori
di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in
minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì,
il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino
ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici
salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di
colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte:
spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente,
fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla
poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici
verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza
ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche
crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine
fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti
e remissive, anche il V***** s’era lasciato andare ad assiomatiche
inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per
momentanea permissione di monsignor R**** modenese
in eterno astio verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure
benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Valter e sparì di scena:
sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero arricchire
nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio
del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi
padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per la lasciva
contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima
generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane.
Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi
spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
-
ma che cavolo mi porti?
-
dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore
Michetti.
-
ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora
trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui
anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli
… che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci
amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
Il dottor
Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero:
nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica
nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
-
non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel
telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua
eccellenza, prima che altri lo notassero.
Quell’eccellenza
non si poteva più usare, non si doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru
piaceva. Se era trasmigrato a destra da Lotta continua (perché da giovane il
guru lì militò) non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli
ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante carriera del
guru approdava al lido dell’ «eccellenza».
Il guru si
ammansì di colpo:
-
dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa?
Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei …
versetti, è proprio stramba…
Il guru ebbe un
moto di autocompiacimento per quel “versetti”…. si sentì eruditissimo come di
sapiente “in utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso per
quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in seminario.
Restituì il
foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:
Fino
all’anglicismo e-mail il guru
arrivava; Mefisto neppure lì.
-
Che ne faccio?
Un fuggevole
istante per il solito tic: aggiustare gli occhiali sul naso mentre la fronte si
aggrottava.
- Passalo agli infami.
-
Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia
essere preciso il Mefisto.
-
Ed a chi? Se no?
Tornò ingrugnito
il guru.
Era pomeriggio
duro, non tanto per il caldo che l’incombente temporale non riusciva ad
addolcire, ma per l’inane gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor
ministro degli esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee
fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i santi padroni
di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma avvenente, nella pausa
antimeridiana doveva sobbarcarsi alla “fellatio in ore” in quella che nel gergo
ministeriale si definiva l’ora erotica,
dalle 14 alle 15. Sciamavano dal ministero le frotte impiegatizie per
l’onanistico food nei bar dei
dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto grado che usufruivano di
stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano nel loro ufficio con la
collaboratrice e consumavano l’ora erotica, appunto.
Il guru, prima
da direttore generale ed ora da ministro, si avvaleva della bella Elisa, cui
incombeva il bacio della lascivia. Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non
era Clinton. Nessun timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto
semifloscio stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa
alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi. Conservava
la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse al guru annientato da
collera gelosa l’imene violato dal suo priapo biondo, massiccio ed
inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli uomini di Tom Ponzi non ebbero
nulla di impudico da riferire. Mentivano?
E quel
pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il disagio dell’estate
incipiente in una Roma al caldo-umido ed il telex biblico snervavano il guru
come in un preludio tetro e cupo del meritato castigo eterno. Già, il guru
all’occiduo stagionare della vita era tornato cattolico, roso da scrupoli
intrisi di religiosa tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare
l’ultima assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in
cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe forse
salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che fortuna nascere nella
terra protestante dell’America clintoniana.
La porta si
riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto sibilò:
-
come glielo mando?
Il guru
trattenne l’insolenza scurrile che l’esser distratto da pensieri di chiesa e da
rabbie dell’eros stava per ingozzarlo con furia di non facile controllo:
-
ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi
raccomando: sii conciso!
-
Dovrò portargliela alla firma?
-
Firma tu, firmala tu stesso.
* *
*
Così quella
“nota d’accompagno” è lì ora sul mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla
Zingarella. E qui è d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
Dottore in legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in
preda alla mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati gialli che
la gente (pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia notorietà – oh quanto
l’avrei voluta da giovane! – è divenuta mitica; si è accoppiata – con mio
disappunto – autorità indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero,
persino Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si
avvalgono di me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per dipanare i
misteri dei tanti, troppi omicidi che si consumano in questa Italia di destra,
che di efferati fatti di sangue, specie a sfondo politico, non dovrebbe registrarne
di taluna sorta.
La “nota
d’accompagno” reca in agghindata grafia la firma di M. Giliberti. Non
scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto. Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello?
Marzio? Massimo? Metello? Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel
cognome tanto italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare
il Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti (tanto
modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma non ne ho voglia
alcuna. Diciamo: non mi va.
Vorreste sapere
se vi sono le tante note di colore che prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure
gli ipotattici incisi, alla Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi,
s’intende) e i miei irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche
se non vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si data
29 giugno duemila…..
Siete curiosi e
vorreste sapere dell’altro? Con comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad
un giallo di consueta fattura.
Sto rimestando
carte, appunti, rapporti, ritagli, missive, libri ed ho già consultato l’intero
hard-disk del dottore Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di
mutarne i connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare
Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il dottore
Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo. In che senso? Ma
nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli,
Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle
opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi
peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili,
contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria
o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il
vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni
collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina,
nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti,
specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
* *
*
A trovarlo
riverso sul tavolinetto di ignobile fattura era stato il fratello il pomeriggio
del 19 gennaio del 20…, quando messosi in apprensione per una lunga giornata di
silenzio, anche a telefono, si era deciso ad andare a vedere che cosa fosse
successo. Era giunto tra fanghi quasi invalicabili alla cascina di contrada
Bovo, aveva bussato e non avendo risposto alcuno, col piccolo chiavino [2]
di cui aveva copia aprì il portoncino in metallo dal colore stinto ed ebbe la
violenta visione:
-
Liù! – gridò e dopo il balzo in vorticosa angoscia
toccò di spalla il fratello per averne la tragica conferma della morte.
Non pensò,
certo, a morte violenta, credette a “morti subbita”: del resto anche la vecchia
mamma se ne era andata per improvviso cedimento cardiaco. Spostò il cadavere -
ormai irrigidito, pendula la bocca, stravolti gli occhi - nel letto della
stanza accanto, disfatto come d’abitudine per quel settantenne fratello, non
privo d’ingegno ma nevrotico, eccentrico, loquace e senzadio. Solo, scosso ed
anche lui non più giovanissimo, Girolamo La Matina Calello, stentò parecchio in
quelle mortuarie incombenze. Alla fine si decise: telefonò alla moglie in
paese. Insieme al figlio giunsero quasi all’istante. Il figlio sentenziò:
-
non toccate nulla! C’è qualcosa che non mi convince.
Innanzi tutto chiamiamo il medico.
Laureato in
legge da poco, aveva conseguito autorevolezza in famiglia.
Faceva
impressione sul tavolinetto dozzinale la tazzina di caffè ancora piena fino a
tre quarti; frantumata per terra un’altra analoga tazzina, senza caffè sparso
per terra, comunque.
Non tardò molto
il dottore, don Lillì Merillo. Politico sempre fallimentare, come medico
curante, bravino lo era davvero. Girò e rigirò il cadavere. Tentennò, scosse
varie volte il capo canuto ma folto di capelli. Sentenziò:
-
il dottore non è morto d’infarto: è stato avvelenato …
addirittura ieri.
Il giorno prima
aveva diluviato a Racalmuto: dalla Montagna e da Bovo fiumare d’acqua erano
scese a valle; avevano trovato occluso il ponte del Carmine. Colpa di un
vecchio tecnico comunale che aveva fatto otturare il canaletto sotto la strada
provinciale. Il deflusso di acque dalle terre di Troisi aveva sradicato alberi
e con il pietrisco in crescita si eresse sbarramento all’entratura del
sottopassaggio del ponte ferroviario, ché follia era stata nell’Ottocento
quella barriera sopraelevata per fare accedere alla stazione gli sbuffanti ma
stracchi treni dell’epoca. Il fratello del tecnico ancor oggi vuol teorizzare
dovute ad imperizia dei costruttori delle case popolari le allaganti
ostruzioni.
Girolamo pensò
che don Lillì non potesse dunque che sbagliare. Il medico che si era seduto
sulla poltroncina color giallo senape in rudimentale rivestimento di un’anima
in ferro – erano sedie e poltrone comprate d’estate all’imbocco di Canicattì –
si scosse dal suo apparente letargo, non chiese neppure permesso, alzò la
cornetta del telefono, ed ora flemmatico come si addice ad un professionista,
sia pure racalmutese, quasi dettò:
-
qui alla casina di Bovo del dottore Aurelio La Matina
Calello, ho trovato il medesimo deceduto per avvelenamento. Ignota al momento la
natura del veleno. Ritengo risalire al tardo pomeriggio di ieri sera il
decesso.
Imbarazzo,
silenzi, grugniti all’altro capo del telefono.
-
Lascio tutto come l’ho trovato … non faccio toccare
nulla. Penserà la vostra scientifica agli accertamenti del caso. Avvisate il
giudice per la rimozione del cadavere.
La moglie di
Girolamo svenne.
* * *
Rovistando tra
le carte del dottor Aurelio La Matina Calello, m’imbatto in un plico bianco a
doppia tasca. Do not fold – Non piegare ed analoga dicitura in ebraico
che naturalmente non so decifrare: Provenienza: Israele Tel Aviv, par avion. Leggo dietro: SENDER : Melissa
Cohen, address 325 Haligilboa St., code 65223 Tel-Aviv country ISRAEL.
-
Chi cavolo sarà codesta Melissa Cohen?
Allegata vi è
una rivista patinata in ebraico, come dire in turco per me. Ma un foglio è in
italiano, sgangherato quanto si voglia ma in italiano. Del resto magari sapessi
scrivere io in ebraico sia pure sgangherato. Leggo:
Caro Francesco,
Ti ringraziamo di cuore per un bellissimo
pommerigio a Racalmuto: ci hai convinti nel modo pi’ assoluto che c’è chi ama
la sua terra, in Sicilia. Speriamo di rivederti qualche giorno in Sicilia, o,
chi sa, forse in Israele? Purtroppo l’articolo sulla Sicilia (pagine 90-94
della revista rinchiusa, “Massa Acher”) troverai un po’ difficile leggerlo …
comunque c’è anche una foto di Racalmuto, vediamo se la trovi! Grazie anchora e
tanti saluti, anche da parte di Dubi. Melissa Cohen etc.
La foto la trovo
subito ed è splendida. La precede una sfilza di mirabili squarci fiorentini con
la solita iconografia rinascimentale. Che birichina quella Melissa a propinare
alle pudiche lettrici della terra della casta Susanna la tizianesca “Venere
d’Urbino”, la cui masturbazione femminea, sfacciata ed irridente, è ostensa con
maliziosissima impudicizia. E non solo, «bellezza tizianesca, bellezza fisica,
colta nell’intimità della sua alcova, nella sua naturale esistenza» come
singultiano i nostri scolastici testi d’arte.
E qui mi vien
voglia di pensare ai fatti nostri, alla nostra cultura cattolica, all’ultimo
catechismo del cardinale Ruini, a questa nostra cappa di moralismo sessuofobo
di vaticanesca ispirazione.
Tiziano qui non
si diletta nella pornografia? Proprio come oggi la chiesa censura: «la pornografia consiste nel sottrarre
all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli
deliberatamente a terze persone. Offende la castità perché snatura l’atto
coniugale, dono intimo l’uno all’altro. Lede gravemente la dignità di coloro
che vi si prestano (attori, commercianti, pubblico) poiché l’uno diventa per
l’altro l’oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno: Immerge
gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. E’ una colpa grave. Le
autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali
pornografici »(Ciò recita con sussiego catechistico l’art. 2354).
Caro Berlusconi,
beccati questa: non tu (che il gusto del sesso ce l’hai) ma il tuo evirato
improbabile successore chissà se non finisca per accogliere l’anatema del
successore di Ruini e pronuba, magari, la casta pronipotina del castissimo
Formigoni – sia pure incinta, o appunto perché incinta – non metta all’ndice il
pornografo Tiziano e svelli dagli Uffici cotanto materiale masturbatorio,
addirittura femminile. Lo mandiamo a Tel-Aviv. Mi piacerebbe, al mio
consanguineo Gheddafi (ma quello è costretto a ripudiare le immagini, se no,
che arabo sarebbe?).
Non v’è rimedio:
l’art. 2521 sancisce il pudore senza limiti «Esso è una parte integrante della
temperanza.» Tiziano non è di sicuro un “temperato”. «Il pudore preserva
l’intimità della persona». Tiziano ha voglia di diffondere, in tempi senza foto
e senza cinema, le più intime voglie erotica di una bagascia insoddisfatta.
«Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto» E l’intimo
piacere poche donne hanno voglia di svelare, ancora ai nostri pecaminosissimi
giorni. «E’ ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.» La Venere
d’Urbino, tutto al contrario. «Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla
dignità delle persone e della loro unione.» Caro Berlusconi, come “autorità
civile” acclamata dagli ecclesiastici, non hai scampo. La condanna è da
cassazione: svelli il Tiziano.
Tralascio di
commentare la botticelliana nascita di Venere, tutta cerulea, conchigliata,
presa da sublimità erotica, di certo splendida nudità ridestativa del fomite
carnale e del deliquio visivo. Irridente per la tenebrosa bellezza delle
figliole di Sion: nigra sum sed formosa. Giammai, però, glauche ispiratrici di concupiscenza,
botticelliane. Ma in Israele non v’è censura? Non v’è l’analogo della mora
cattolica? La licenziosità quali spazi di permissibilità consegue?
Mi accorgo, a
questo punto, di avere sfogliato la rivista nel verso sbagliato: dovrei girarla
dalla fine all’inizio come si addice ad una pubblicazione ebraica. Non ne ho
più voglia. Mi soffermo solo sulla fotografia del panorama racalmutese. Vi è
allegato un appunto del dottor Aurelio La Matina Calello. Invero è uno squarcio
della lunga missiva inviata alla negroide Melissa (che se è quella che appare
nella rivista è un’appetitosa gnocca, insomma una gran cucchia[3]
).
E’ cerimonioso
il dottore Aurelio, alquanto ipocrita però: «Quella magnifica fotografia che avete pubblicato nella Vostra
insuperabile rivista (peccato per noi, in caratteri ebraici inaccessibili) mi
richiama lembi di terra d’Israele che ebbi la fortuna di visitare 33 anni fa.
Quando parlo di terra d’origine, non è a vanvera: a Racalmuto vi fu fino a
tutto il Quindicesimo secolo una prospera colonia ebraica: fu la famigerata
Isabella di Castiglia a disperderla. Quanto ricca, quanto potente fosse quella
colonia si evince da un celebre documento dei fratelli Lagumina.
Ho detto disperdere – ma impropriamente. Fu
invece una violenza cattolica che spinse degli industriosi e colti ebrei a
diventar marrani, a mimetizzarsi quali cattolici osservanti, persino bigotti
pur di sopravvivere in questa plaga che si dice Altopiano di Racalmuto. Poter
continuare a godere del sole di Sicilia, del suo occiduo chiarore rifluente
dalla Montagna poteva valere il mantenere peccaminosamente frenate le pudenda.
Le
mie ricerche nei registri parrocchiali della Matrice di Racalmuto mi rendono
certo e quindi ambiguamente basito per le mie indubbie origini ebraiche.
Se mi si perdona questo excursus, spero che Ella voglia
omaggiarmi delle copie delle mirabili fotografiche scattate a Racalmuto dalla
Sua Rivista e che forse non sono state tutte pubblicate: edito a mie spese una
periodico dilentantistico dal titolo QR (quaderni racalmutesi) di cui
all’acclusa fotocopia e vorrei lì pubblicarle con il debito commento.»
Davvero
Racalmuto, visto dal pizzo di quel calanco che si diparte dalla Fondazione
Sciascia ha richiami brulli ed opachi come una collina del Getsemani con gli ulivi
divelti. L’idiota che pose quel masso cimiteriale non capì che Sciascia
rinnegava ogni ragionevolezza al Racalmuto od alla Regalpetra che dir si
voglia. Arido e sconfortato dichiarò invece il paese scabro di ragione e di
giustizia, quale forse va man mano divenendo. Il politicante di turno ebbe
fortuna a dichiarare Racalmuto «il paese della ragione», come se tanto avesse
pensato il locale scrittore. Non era vero: l’ignoranza dominò vittoriosa.
L’imbecille fu fatto persino onorevole. Così vanno le cose a Racalmuto. Il
fotografo d’Israele seppe leggere le intime nudità dello spirito, seppe vedere
tra le brume sonnecchianti su miserevoli chiese e su castelli memori d’antiche
ignominie; capì il senso orientaleggiante di donne partorienti con dolore,
senza fisico piacere, di bambinelle arrancanti su basalti scivolosi sotto
l’ombrello di nailon, come la madre giovane ma disfatta. E la tante casupole
che da terranee quali erano nei secoli del primo fiorire dell’era moderna,
furono chiavate ed inseminate di “cammare solerate”, prima in gesso ed ora in
blocchetti d’arenaria o cementizi, ignorata e violata l’ordinanza municipale
dello “scuci e cuci”.
* * *
Proprio stamani
(oh quanto mi piace questo toscanismo: ma
un gnera miegliu si diciva stamatina. Oh Dante, Dante perché sei nato prima
dell’abate Meli?) ho ‘rassegnato’ (e qui mi piace scrivere burocratese) il
rapporto alle ’competenti autorità’ sulla personalità del dottore Aurelio La
Matina Calello. Non lo trascrivo: è troppo burocratese appunto. Il senso generale
però ve lo svelo (verrò incriminato per violazione dei segreti d’ufficio e
forse di stato e forse di stati?).
Nato a Racalmuto
nell’anno del signore 1930, così lo stesso dottore Aurelio amava descriversi:
«racalmutese
da dieci generazioni, nutre per la sua terra attaccamento profondo, tattile,
senza suggestioni borgesiane, schivo di metafisiche devianze.
Nato
a Racalmuto il 1930, da genitori anche loro del luogo, ha fatto gli studi
ginnasiali nel seminario di Agrigento: vi ha appreso latino e greco, religione
e nozioni umanistiche; vi subì le malie liturgiche ed ebbe orecchio per le
monodie gregoriane.
Il
liceo ad Agrigento, l’università a Palermo ma il primo lavoro a Modena quale
funzionario della Banca d’Italia. Carriera fulminea in esordio; incarichi
ispettivi scottanti contro Sindona, Fabbrocini, gli uomini della P2 di Livorno
etc. Finì in rotta di collisione con lo stato maggiore dell’Istituto di via
Nazionale.
Messosi
in pensione anzitempo, si dedica alle ricerche storiche focalizzandole sulla minuscola
vicenda di Racalmuto. Gli vengono in soccorso gli archivi della matrice, della
curia vescovile di Agrigento, dell’archivio segreto vaticano, quelli statali di
Roma, Palermo ed Agrigento. Le carte locali – pure esistenti - sono tuttora
trafugate in sotto-terrazze inaccessibili.
Pubblicazioni
a proprie spese scandagliano i vari momenti del vivere racalmutese, dai tempi
più antichi - dieci mila anni fa dicono certe ceramiche – a quelli del passato
prossimo; dai parossismi geologici alle devastazioni recenti, proprio quelle in
cerca del sale, dello zolfo ed anche del potassio.
Una linea, un filo, un defluire che dura da oltre cento
secoli, ora tenue ora in tumulto, senza gloria ma pur sempre umano, sofferto,
scandito in una sorta di memoria demente, comunque un vivere tenace ‘come erba
abbarbicata alla roccia’».
Il profilo di smaccata autobiografica compiacenza se lo
ritagliò a proposito di un libretto di storia locale «la signoria racalmutese
dei del Carretto». 500 copie stampate, 15 vendute.
Ma a me il dottore Aurelio non la dà a bere: alto
allampanato, misogino frustrato, malato di sesso, dedito all’autoerotismo sino
alla morte, scapolo, ebbe casa spaziosa a Roma in via del Casaletto 2123 (con
fondi dispensati dalla sua pur tanta odiata Banca d’Italia), ma dimora abituale
(dopo il pensionamento baby) nello squallido villino in contrada Bovo di
Racalmuto.
Uscito dal seminario dopo il ginnasio (conseguita la
licenza ginnasiale, di diceva allora) fece i tre anni di liceo ad Agrigento,
senza donne, come quasi tutti gli altri suoi coetani, del resto. All’università
palermitana, facoltà di legge, ebbe il povero Aurelio a prendersi una cotta con
tutti i sacramenti per una tale Mara Cipollara, una sventola alta, bionda con
deretano a chitarra, ma con mammelle alla francese, come dire inesistenti. Non
sembrava della terra dei berberi, traccagnotti e scuri. S’era messo a “taliarla” con maniacale
perseveranza. Si convinse della sua irrefrenabile corrispondenza dell’amoroso
senso, La “fermò”, si dichiarò. Ebbe risposta allibita, di ineffabile sorpresa.
-
ma tu sei innamorata
di me, grignò Aurelio;
-
no, io amo Michele,
graziosamente piagnucolò lei;
-
non è vero! E giù un
ceffone.
Venne aggredito da una folla inferocita, portato in
questura. Fu processato ebbe una lieve condanna con la condizionale.
Questo non gli impedì di concorrere ad un posto di
segretario in esperimento presso la Banca d’Italia. Per sua fortuna, i
carabinieri di Racalmuto non gli avevano apposto il famigerato segno rosso
nelle schede segretissime. Quanto a politica, era decrocratico cristiano ad
oltranza. Nelle risposte segrete
all’Istituto di Emissione, i carabinieri scrissero “fervente sostenitore del
partito dell’ordine”. Aurelio vinse il concorso ma fu sbattuto a Modena, che
raggiunse un pomeriggio del 31 gennaio, quando ferveva la festa di S.
Geminiano, protettore sommo della città e titolante la banca cittadina,
affidata alle cure del nipote del pro-segretario di stato, mons. Tardini. Il
giorno dopo ebbe a cadere tanta di quella neve a Modena (“la cacca degli
angeli”, diceva Aurelio sentendosi spiritosissimo) da intristire
irrimediabilmente il poco ilare cuore del neo dipendente della Filiale di
Modena della Banca d’Italia. Non ebbe più donne, salvo un’avventura che forse
dopo rivelerò.
Mara frattanto si era sposata col suo Michele, un appuntato
dei carabinieri anche lui bello, aitante, nordico, seppure nato a lu Naduri. Mara, vergine, fu deflorata
in un alberghetto nei pressi della stazione centrale di Roma. Michele fu
maldestro: Mara, prima esplose in risa isteriche vedendo quell’uomo per la
prima volta nudo col suo affarone gonfio ma frettoloso. Poi strillò anche per
il dolore fisico. Ebbe ripugnanza del sesso. Subì dopo qualche coito, con lui
sempre ‘precox’. Alla fine si ignorarono entrambi: entrambi avevano ormoni
sovrabbondanti dell’altro sesso. Trovarono splendidi amanti, tutti e due nel
versante della peccaminosa omosessualità. Solo i vicini del piano condominiale
capirono qualcosa: sembravano coppie di coniugi amici. Si sussurrò di orge: non
era vero. L’amore veniva consumato in due camere separate, in due letti
diversi, tra appartenenti allo stesso sesso. La coppia estranea cambiava: non
erano coniugi, lo davano solo a vedere. Mara appassì presto: morì giovane,
senza figli, senza rimpianti. Di Aurelio non ebbe mai modo di ricordarsi o non
volle mai. Michele sparì, nessuno ne sa più alcunché.
Aurelio a Modena trascorre n biennio oscuro ed ingrato:
finito in tesoreria, doveva vedersela con catorci, antenati dei moderni
computer in rete, a battere barre nere e barre rosse e rilasciare quietanze e
documenti similari nella sterile sudditanza ad una contabilità di stato
ottocentesca. Se non veniva da Roma l’ordine dell’assegnazione all’ufficio
segreteria, cambi e vigilanza, il dottor La Matina Calello, manco segretario di
ruolo passava.
Nel nuovo ufficio, dovette subito cimentarsi con il
burocratese ed aveva la peggio nei confronti del collega un tantinello più
anziano di lui. Il capo ufficio aveva una figlia appassita e negretta ed
avrebbe voluto appioppargliela. Aurelio non se ne dava per inteso ed il capo
ufficio finì con perseguitarlo, irridendo agli strafalcioni (o meglio alle
inadeguatezze stilistiche dello scrivere lettere volte ad ottenere
l’autorizzazione ad accordare tre zampilli anziché due ai bidet
dell’appartamento di servizio del signor direttore) ed alle reiterazioni
concettuali nelle mensili relazioni dell’andamento dell’edilizia modenese
(sulla quale Aurelio era del tutto disinformato).
Una bella pezza di pecorino col pepe – fatta venire da
Racalmuto – ammansì il capo ufficio segreteria, cambi e vigilanza, frustrato
per le bocciature annuali nel concorso interno al grado di vice direttore ed
angustiato da una famiglia spendacciona ben oltre il pur lauto stipendio della
Banca d’Italia.
E fortuna su fortuna, a Modena giunse il dottor Pelillo,
reduce da una rappresentanza della Somalia, con voglie amatorie (giustificabili
con quella moglie bresciana, svuotata di carne e di sesso, acida, impura ma
tutta all’interno – sposata per denaro, era per di più risultata intestataria
di quote societarie in irrimediabile stato di decozione). Il direttore fiutò in
Aurelio uno scrittore ed uno storico mancati: lo mandò in biblioteca per
ricerche sulle tresche tra Maria Cristina di Svezia ed il cardinale Borri.
-
sa, dovrò farne una
conferenza al rotary, alla conquista delle disponibili signore della borghesia
modenese, appetibili anche se alle prese con la cellulite.
Aurelio si smarrì.
-
che dottore? Non sa
che cosa è la cellulite? Non ha mai goduto delle bellezze posteriori di una
quarantenne?
Uomo di mondo, il dottor Pelillo, intuì e non imperversò.
Aurelio fu abile nelle ricerche sull’alchimia del cardinale
Borri; non trovò molto, o non seppe, su solleticanti fatti delle secentesche
alcove cardinalizie o sulle reali debolezze di una donna dal volto mascolino,
dalle zinne prorompenti, dal cervello di prim’ordine, colta, grecista,
latinista e poliglotta. In questo supplì mirabilmente il direttore Pelillo:
giammai scurrile, sinuoso, ammiccante, ottenne strepitoso successo. Risero
sboccatamente le signore; nessuna – pare – che si sia concessa al brizzolato
direttore. Ai due figli – elegantissimi ed aitanti – sì. Usavano la macchina di
servizio. Vi lasciavano con grande incuria preservativi ricolmi. Il custode era
furente.
Il dottor Aurelio La Matina Calello cotali aspetti non
interessavano per nulla. Continuò in ricerche letterarie, funse da segretario
in arditi incontri sindacali presso la filiale della Banca d’Italia di Modena,
ispirò relazioni inconsuete al direttore. Non toccò più pratica alcuna.
-
lasci a quei cretini
dei suoi giovani colleghi lo studio e l’applicazione del profluvio di numeri
unici, roneate, circolari e disposizioni con cui Roma ama inondarci. Noi
abbiamo intelligenze per non provare tedio delle imbecillità.
Al concorso a sottocapufficio Aurelio superò persino
l’attuale direttore generale della Banca d’Italia; promosso al minimo, superò i
suoi più anziani giovani colleghi ( ma per questo non gliene vollero). Rientrò
in Sicilia: sottocapufficio alla filiale di Messina.
Qui la vigilanza era poca: solo la Banca di Messina dei
Martinez, imparentati col Sindona.
Sindona era un mito: il direttore della Banca d’Italia lo
sublimava.
-
Tratta alla pari con
gli Hambro!, sentenziava inappellabilmente.
Le faccende di segreteria, minuscole ed asfissianti, misero
a dura prova il sistema nervoso di Aurelio. Per un biennio. Superò ancora più
encomiabilmente la valutazione per la promozione al grado di capoufficio. Fu
tra i sei che con il nuovo sistema valutativo, su base informatica, introdotto
dal dott. Zoffoli, con appena due anni di anzianità risultarono non solo
promuovibili ma andavano a scavalcare i quotati ed intoccabili ragazzotti del
servizio studi voluto e benvoluto dal governatore Carli. Fu quasi crisi al servizio
personale della Banca d’Italia; Zoffoli non si poteva però sconfessare, il
fratello in vaticano vigilava, il dottor Occhiuto gli era ancora amico. Si
decise un compromesso: i sei biennali furono piazzati in coda a ridosso degli
altri più titolati e più anziani concorrenti. Aurelio ebbe la soddisfazione di
precedere il dottore Vincenzo De Sario, l’astro nascente d’origine pugliese.
A Roma, Aurelio subì graffi esistenziali (lievi però). Il
capo della vigilanza Biserni non ebbe neppure il tempo di riceverlo. Il
segretario, bell’uomo – fascinoso proprio – fu gentile ma lo mandò
letteralmente a spasso.
-
si goda Roma, per ora,
lo congedò come ricolmo di munifica benevolenza.
Il neo promosso disorientato ed in fondo umiliato cercò di
congetturare quale servizio dovesse accoglierlo. Non riusciva. Si aggirava per
i viali del Pincio: da una panchina passava all’altra per non disturbare le
coppiette in amore. Era guardone ma si impediva il piacere. Dedito all’amore
solitario, neppure gli squarci sino all’indumento intimo dell’accaldata
ragazzotta in effusioni si permetteva di guatare men che fuggevolmente. Nella
tarda ora della sera, la rimembranza accendeva frenesie indecenti. Via del
Corso, stretta tra i due filari di altissimi palazzi, lo opprimeva e sgomentava con morsi di rattristante claustrofobia
Alla fine, venne assegnato all’ispettorato vigilanza. Per
un mese rimase solo in una stanzetta di via Milano. Dovette subire le imbecilli
ironie di un capo missione, calabrese, incolto, becero (l’orpello nobiliare
suonava beffardo e stridente). Fu quello il suo primo incarico ispettivo. Ad
Asti, presso la locale cassa di risparmio.
Il capo era noioso, petulante, ignaro di ogni briciola
tecnica. Non sapeva di bilanci, non sapeva di consistenze patrimoniali, ignorava
la struttura del conto economico; di cash-flow
, manco a parlarne.
La sua difesa?
-
ma io so vivere!
La sua battuta migliore (l’unica):
-
io ed Einstein ne
sappiamo più di Einstein solo.
Il suo saper vivere era consistito, dopo i cinquant’anni,
nel portarsi a letto diverse mogli di colleghi coetanei, quelle in fase di
menopausa fisica ma non mentale. La moglie, da parte sua, contraccambiò. Le
signore mogli degli ispettori, a turno erano dannate alla solitudine semestrale
(tanto di solito durava un’ispezione) e tentavano così di consolarsi, ma era
uno schianto. Gli uomini della vigilanza, aridi di cuore, flosci nel sesso,
avvampavano solo nelle fantasie erotiche. Impraticabili per decoro per viltà
per ignavia.
Aurelio doveva tutto apprendere; il maestro nulla aveva da
insegnare. Gli fu affidata l’introduzione del rapporto. Una scheda
sull’economia della zona di competenza della banca. Il giovane apprendista si
scervellò, scrisse, corresse, aggiunse: rassegnò il dattiloscritto. Tre
paginette e mezzo. Il capo lesse, sogghignò e scrisse: f.to Penna d’Oro.
Aurelio ringrizzì gli occhi, avvilendosi tutto dentro. Deglutì. Tacque. Per
mesi bighellonò, neghittoso, succubo, per nulla reattivo ai lazzi dek capo. Il
quale, sadicamente, soffrendo d’insonnia costringeva i suoi due giovani
collaboratori ad eterne e notturne partite a “scala quaranta” nella hall
dell’hotel Aleramo.
Un sabato, quando il capo stava a Roma per il fine
settimana in famiglia, scoppiò lo scandalo: In ABC si affermava di giri di
assegni a vuoto per una speculazione edilizia nell’Agro Romano coinvolgenti il
direttore generale della cassa ed il tale capoccione della Milizia fascista,
quello che aveva schiaffeggiato Toscanini, riluttante ad eseguire “Giovinezza”.
(Ho consultato all’archivio di stato di Roma i faldoni della “segreteria
particolare del duce, e l’episodio mi è apparso dubbio o enfiato).
Aurelio, smarrito, telefonò. Il capo fece subito ritorno.
Giudicò il direttore innocente (autoproclamando un intuito infallibile). Disse
che il lunedì voleva mari di banconote dietro le vetrate protettive delle
casse. ‘Si doveva evitare il panico dei depositanti’, compiacendosi ripeteva di
continuo. Gli astigiani erano gente neghittosa per formalizzarsi su un articolo
di ABC. Non successe il paventato panico.
Dopo settimane telefonò addirittura il presidente
democristiano della camera; consolò il direttore generale; gli accreditò la sua
fiducia. Suggerì imperiosamente che non era il caso di querelare il giornalista
di ABC. Il direttore ubbidì. A tempo debito ricevette una parcella
plurimilionaria. Il presidente della camera esigeva la liquidazione della sua
assistenza legale (mai richiesta). Erano i tempi antecedenti la prima
repubblica.
Supra tuttu, s’iu vi futtu
Iu mi sentu furtunatu,
nun invidiu li ricchizzi
o la sorti d’autri pizzi,
ca li cunni chiù prigiati
si gudisciuni a michiati.
Non chiedetemi perché mi va di scomodare Domenico Tempio,
il diverso Muzzicapassuli della “grammatica pilusa”, nel sentirsi fortunato se
consegue l’osceno coito, mi richiama gli echi di quella era democristiana
quando le propensioni anali erano figurate ma anche vere.
Capitolo
secondo
L’osceno Aurelio
E per stare in armonia con la scurrilità di così spregevole
richiamo letterario (ma in incomprensibile vernacolo), corre qui l’obbligo
(come burocratese non è poi da buttar via) di rimembrare il secondo ceffone
della vita del dottore Aurelio La Matina Calello.
Nel tedio delle sere del sabato, Aurelio, rimasto solo,
amava raggiungere l’uggiosa Torino. Vi si annoiava ancor più ma non desisteva.
Soddisfaceva invero un suo vizietto occulto: comprare riviste porno, complici
ed invoglianti nelle sue solitarie masturbazioni nel vacuo lindore della stanza
d’albergo, che pur era matrimoniale ed ampia. Comprarle ad Asti, si vergognava,
temeva di essere riconosciuto.
Ed una volta l’attrasse un’inserzione osée: coppia
disinibita accoglieva nel proprio talamo purché .‘dotato’. «Lui contemplativo»,
nel gergo di allora (come dire: nessun pericolo omosessuale … ed Aurelio odiava
l’omosessualità virulentemente. “Garrusazzu”, restava per lui vituperevolissimo
figuro).
Si lasciò adescare: “fermo posta”; foto riservata (andò da
un valentissimo fotografo astigiano), etc. etc., tutto l’armamentario per
siffatti incontri, insomma.
Quando un sabato sera,
freddissimo ma terso e stellato, suonò alla porta di una signorile villetta di
via Morgari Aureliò dilagò in vertigini, eccitamenti, sensi di colpa,
smarrimenti. Venne accolto da un signore cinquantenne, brizzolato, composto,
quasi ieratico.
-
si accomodi dottore,
ma nell’androne-soggiorno, luci diffuse sì ma rivelatrici, il disappunto
dell’ospite fu palese. Con piemontese autocontrollo, il moto ostile slabbrò
subito in un sorriso affabile ed accogliente.
-
il drink glielò servo
io, capisce la servitù l’ho lasciata libera, ed ovvio, fu inappuntabile.
Aurelio strabiliava: era un bell’uomo, charmant, ricco ed allora perché?
Volle credere a qualche carenza fallica.
-
la signora sta facendo
toilette. La scusi.
E qui l’anfitrione iniziò una loquela inarrestabile.
-
io sono ebreo, sa. Ma
diverso. La mia è una schiatta nobile … molto nobile … ineguagliabile. Non so
se sa di bibbia. Leggiamo Genesi, 19, 30 e successivi: «poi Lot partì da Zoar ed andò ad abitare sulla montagna, insieme con le
due figlie, perché temeva di stare in Zoar, e si stabilì in una caverna con le
sue due figlie. [L’immondo citava a memoria, con presumibili svarioni e
licenze. Io, Meluccio Cavalieri di Giorgenti vado consultando gli “appunti
autobiografici” di Aurelio e lì vi è solo il riferimento al passo biblico.
Integro traslando da una “Marietti 1820”].
«Ora la maggiore disse alla più piccola: “il nostro
padre è vecchio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi … pater
noster senex est, et nullus virorum remansit in terra qui possit ingredi ad nos
iuxta morem universae terrae. Vieni facciamo bere del vino a nostro padre, e
poi corichiamoci con lui … Veni inebriemus eum vino, dormiamus cum eo .. (oh quel
dormiamus per coitiamo, quanto pudore nella ‘vulgata’), così faremo
sussistere una discendenza da nostro padre.
«Quella notte fecero bere del vino al loro padre e
la maggiore andò a coricarsi con il padre … dormivitque cum patre (si chiavò il padre, siamo espliciti) .. ma
egli non se ne accorse (o finse) né quando essa si coricò, né quando essa si
alzò. All’indomani la maggiore disse alla più piccola: ‘ecco, ieri mi sono
coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’
tu a coricarti con lui.» E qui la reiterazione
dell’incesto fecondo della figlia minore. Erano .. erano …. Erano vergini le
due sorelle? Certamente no. Vero è che Lot, pur di salvare integro il deretano
dei due angelici stranieri tentò di offrire l’imene delle due figliole ai
vogliosi sodomiti. “Habeo duas filias, quae necdum cognoverunt virum”. Forse il
vecchio non mentiva; i sodomiti non abboccarono, dunque sapevano … di furtive
concessioni … forse di orge … non escluso il meretricio. Diversamente, dinanzi
ad un virgineo banchetto (anzi duplice) come non assentire? Lot, in ogni caso,
è vecchio sozzo: due avvenenti angeli valgono di più di due intatte (o credute
tali) figlie. Esplodeva anche in lui l’attrazione contro natura? (Tanto non è
mio padre, posso infierire.) Credo che Lot sapesse e vi speculasse .. il
pretium sceleris gli faceva un comodo della madonna. ‘Pappone? A Roma, in
sicilia come si dice? Non v’è lemmo
equivalente … ruffianu .. beccu … mizzanu … non rende … non rende. Curnutazzu
… sì curnutazzu … può andare
… po’ jiri .. Pronuncio bene il
suo dialetto? …. Ah! Ah! Ah! … po’ jiri
? … simpatico … spiritoso. Dunque dicevamo: da quegli incesti proliferarono i
moabiti e gli ammoniti … due popoli infami, reietti, ma veri e prischi ebrei.
Diffusi per il mondo, giungono sino a noi sono diffusi ovunque … anche in
Italia .. anche in Sicilia. Già, quel popolo incuneatosi nelle più profonde
latebre del tessuto sociale della Sicilia del XV secolo da dove vuole che
discenda .. ma dai frutti incestuosi delle due figlie di Lot? E non è vero che
Isabella di Castiglia sia riuscita a far sloggiare i figli dell’incesto dalle
sue terre siciliane … sì nel 1492 appunto. Sappiamo di quel domenicano
Torrecremata capace di terrorizzare la regina (il re, pare, era più laico e più
propenso a preferire le trentamila auree onze di Sicilia alla postuma vendetta
di un deificio mai provato: la regina condivise col domenicano le somiglianze
esecrande tra i trenta denari del tradimento di Giuda e le trentamila onze
dello scellerato patto con i deicidi di Sicilia.) Ascolti il suo paesano
Giuseppe Picone (Aurelio ne ignorava allora l’esistenza, davvero, seppe
poi, il Picone era quasi un suo compaesano, di Racalmuto appunto, nota mia): «.. stanchi gli ebrei del modo onde i regi
ufficiali incrudelivano sovr’essi, partirono a trnt’uno dicembre del 1492,
lasciando ai nostri avi i proclami di Carlo II e Carlo V, onde gli ebrei
venivano richiamati in Sicilia. La nostra terra inospitale fu esacrata non solo
dagli ebrei, che si sparsero in altre regioni, ma bensì da qualunque nazione
commerciante. Essi partivano, e il nostro popolo ne fece baldoria, e vittima
dei falsati principi , propagati da un governo ignorante ed ingordo, e da preti
non meno ingordi e fanatici, ne tripudiò … ma ne pianse in seguito del pianto
della miseria che gli sopravvenne.» E qui però il Picone erra, almeno in parte.
Non tutti gli ebrei trasmigrarono (a Napoli, pare): solo quelli ricchi,
abbienti … gli altri si mimetizzarono, presero nomi locali, banali … la licata
… la matina (Aurelio arrossì, si guardò pero bene dal denunciare il suo cognome
… ebreo secondo il Corrotto) … parisi … lintini …Guardi … guardi negli archivi
parrocchiali e dovrà convenire con me.
Fu a questo punto che apparve finalmente la signora.
Un miraggio, un incanto. Cerulea negli occhi,
sciolti i capelli lunghi, in profluvio biondo sino al sorgere delle arcate in
delicato modularsi nel retro del corpo minuscolo diafano angelico eppure
ammiccante vivido sinuoso. In tulle di color purpureo, trasparentissimo per
mostrare le carni del desiderio e la mise della lussuria. In pizzo i generosi involucri
dei seni composti e compatti, senza osceni debordi. Invitante la guêpière. Niente giarrettiere, le calze fiorate cessavano
sopra il ginocchio fissate da guigge a festoni di color citrino. Laggiù,
invero, v’era contrasto le coperture dell’alto: quasi le ambiguità delle Pornokrates di Ferdinand Rops. Malizia e sberleffo: l’angelo
scendeva nel bordello. Il tocco del dottor Ba’alzebub evidente, perfido.
- Ofelia …, il dito esigeva risposta,
- Lio.
- Già Lio, che strano nome per un siciliano. Diminutivo
di che?
- Aurelio.
- Notevole … notevole. Ma il suo nome non lo svelò.
Ofelia andò compassata a sedersi a fianco di Aurelio.
Lasciò divaricare i lembi della veste. Bianchissimo il modularsi delle cosce.
Per il momento impenetrabile alla vista il configurarsi del sesso.
-
Dicevamo .. dicevamo.
Sì, voi siciliani non siete arabi, non siete normanni, non siete spagnoli, né
greci né tampoco romani. Solo in minuscola parte. Sostanzialmente siete i figli
delle incestuose figlie di Lot. Lei no, Lio. Lei .. vediamo … lei, ma è
evidente lei è berbero. Ricciuto, rinsecchito, elettrico, sopra la media, lungo
collo ma testa oblunga. E lì, lì in basso … lo vedremo dopo. Non ci avrà
ingannato proclamandosi “superdotato”. E’ circonciso .. no, è vero?
Diversamente con un glande scappucciatissimo chissà a quali lunghezze
perverremmo? Sbaglio? Ofelia è gracile di costituzione e certe lunghezze non le
recepisce. Le danno dolore. Si rifiuta. Capisce? Ma i cosi troppo piccoli non
sono … fallici. Leda ed il cigno … va bene, ma con il pene adatto al coito
sadico-anale.
Sarà stato per quel linguaggio, sarà stato per l’effluvio
erotico che veniva dall’abbordabile Ofelia, Aurelio cominciò qui ad eccitarsi.
Mirò la partner. Le toccò il
ginocchio. Salì sopra la guiggia. La pelle fresca, liscia e linda dava sensi di
ebbrezza. Salì ancora. Ofelia, impassibile. Ma il dottor Ba’alzebub dette segni di nervosismo.
‘Strano’, si disse Aurelio e proseguì sino a sostare sulla copertura del sesso.
Ofelia, impassibile. ‘Fantasmatica’, pensò Aurelio venendogli alla mente un
termine letto nei testi della psicanalisi che in quel tempo lo appassionavano.
-
Ofelia ebrea non è. Come del resto potrebbe esserlo,
così eterea, così cerulea, tanto … immacolata? E disse quel termine con tono
indecifrabile.
-
Io, sì … ma non sono figlio di quelle putride
figlie? Non mi vede … non c’è compatibilità … Io sono figlio … Ma che fa?
Proprio in quel
momento, Aurelio eccitatissimo aveva portato la mano di lei sul suo sesso
gonfio sotto la patta. Il dottor Ba’alzebub si alzò di scatto e andò a
mollare un gran ceffone sulla guancia di Aurelio. Il quale, confuso, smarrito
ed anche indolenzito, farfugliò:
-
mi scusi dottore .. io non volevo ..
-
non volevo un corno. Non permetto a chicchesia
che si manchi di rispetto a mia moglie.
Aurelio, allora,
fece segno di alzarsi per andarsene.
-
ma dove cazzo va? Stia lì. Ogni cosa a suo tempo, ogni
cosa a suo tempo.
Aurelio ubbidì, mansueto e basito.
-
Eppure sono figlio della
mogile di Lot. – riprese il dottor Ba’alzebub
col tono di prima, stralunato ma serafico. – Sì. Ha capito bene ….Quella della
Genesi … Duo angeli advenientes in domum
Lot … Surge , tolle uxorem tuam. Ed era bellissima la moglie di Lot …
matura ma splendida nei suoi trentacinque anni …. Anche Ofelia ha trentacinque
anni … Bruttissimo, lui … vecchio, cadente e cornutazzo … Seconda, terza, quarta moglie … non so. Brutalizzata
appena quindicenne partorì la prima delle figlie … poi la seconda … poi il
sesso bandito … lui impotente, non capace più di erezione alcuna. I due angeli
l’abbagliarono. Erano angeli ma non serafini, anzi rigonfi di maschi attributi
… Si insinuò tra loro nella notte successiva all’accecamento repressivo … et eos qui foris erant, percuserunt
caecitate a minimo usque ad maximum, ita ut in ostium invenire non possent ...
Ebbe eccitazione forte la moglie di Lot mirando le depravate voglie dei
sodomiti … ebbe appagamento memorabile tra i due angelici maschi … davanti e
dietro … e po dietro e davanti, scambiandosi gli angeli le fenditure del
piacere della moglie di Lot. Da chi fui generato, se dal seme del primo o da
quello del secondo, non so. Non mi è stato rivelato quella notte sul Tabor …
Non ero ancora sposato. Sopra la collina di Yizre’el, la notte d’agosto, quando
stelle a frotte solcavano il cielo sopra le rovine avvolte di vegetazione,
nella parte della cima ellittica, spentosi lo scenario dello splendido panorama
dei monti di Nazareth, resistente ancora ad ovest dopo ore dal calar del sole,
nudo, crocifisso sulla nuda terra, il mio sesso ebbe ad innalzarsi sino a vette
mai raggiunte prima. Mi apparve l’angelo, sì l’angelo mio padre … e tutto mi
disse, tutto mi svelò … Non credete, scettici … Non credete! …Ma io so la
verità. Ego sum veritas… Dopo, per
non procreare più altri mirabili angeli, avendo in me ormai l’irrefutabile
verità, il mio sesso scomparve … si prosciugò … neppure i testicoli
resistettero … solo una enfiatura per la minzione … e sotto un prurito, simile
forse al desiderio, inappagabile.
S’immalinconì il dottor Ba’alzebub. Sospeso nei suoi pensieri o ricordi, entrò come in trance. Ofelia, impassibile. Quindi il
sussulto, il ritorno all’empio recitare … Una sigaretta accesa … d’odore strano
… un’altra passata ad Ofelia.
-
a lei no, vero? Lei non fuma marijuana.
Lio, in effetti,
all’epoca ne sconosceva persino l’esistenza. Il tempo dello “spinello” era
ancora di là da venire.
Anche Ofelia
sembrò rianimarsi. Brividi quasi impercettibili, specie là vicino. Lui si alzò.
-
ed ora all’opera. Vada in bagno, si mondi, si unguenti
… e poi nudo in camera da letto. Ecco che gliela mostro.
Il dottor Ba’alzebub
acquisì come d’incanto toni imperiosi cui non si poteva sottrarsi. Lio ubbidì
remissivo e fu remissivo anche dopo per tutta la serata, per quasi un paio
d’ore. Veniva addirittura plagiato da un eunuco.
* * *
Nel dondolarsi sopra lo sferragliamento del treno da Torino
ad Asti, solo in uno scomparto di seconda, per risparmiare, nel succedersi di
lampi di luce e di profondità buie, in penombra, quella fioca delle luci della
notte, Lio rimembrava, il sonnecchiare era lancinante per il patire rimorsi: crudi, spietati, come
vampe infernali dell’anima. Si era prostituito. Era divenuto il transfert di Belzebù senza ritegni,
privo di ogni umana dignità, cui aveva abdicato miserevolmente, persino
sconciamente. Belzebù seduto … assiso sul trespolo .. su una inconsueta
poltrona adagiata su un alto podio in ferro battuto .. per vedere meglio ..
godere meglio … dirigere imperioso … regolare luci, musica … amore .... sesso …
-
questo è il sublime
Johannes Brahms, il concerto n. 2 per piano …. Ricominci …. Parti dall’avvio,
un invito con un titillamento … sì sul suo clitoride … una toccata del piano …
una risposta orchestrale della mano … sì, bravo … martelli … ma piano … come i
passaggi del piano forte. Lei è il pianoforte …. maschio …. virile … ma dia
fiato alle trombe … ella è casta … ella è pura … va svegliata … coi trilli
delle trombe … ed ora in concerto … mani bocca ansimi sesso stringimenti ma
cautamente. Ofelia non l’ama- Ama me, desidera me, ma io sto qua lontano,
impotente eppure presente, prendo a prestito il suo coso, enorme, bestiale,
disumano, voglioso, sovrabbondante …. Si è spento? Già come una pausa
sinfonica, cioè un lieve sussurro, in cicalare tra piano ed orchestra. Il
desiderio si appanna. Si lasci andare, si lasci andare. Il piano si anima …
Vibri colpi col pene sulle sue grandi labbra … Il glande non entra … aspetti,
aspetti perdio, non vede che è ancora asciutta, inaccogliente. Ma lei è quasi
all’eiaculazione … si fermi e parti … entri .. entri.
Ofelia gridò di dolore, la sua apertura era ancora stretta
per l’enorme priapo. Il piano dialogava,
l’orchestra rispondeva. Sembrò corrispondere, ma si smarrì … il piano riprese
voluttuoso … sinuoso …. Parve ritrarsi … labile … nel rutilare di note flebili
… ma si andava dai bassi agli acuti, avanti e indietro, senza foga … bussava …
picchiava … non veniva aperto … eppure paziente … non desisteva. Le anche si
alzavano, si abbassavano, si alzavano. Ancora niente. Interrogativi del piano,
pausa, silente l’orchestra … un singulto … una risposta piu estesa …. dolce ora
il piano … Finalmente il grido liberatore. I due o tre gemiti dell’orgasmo …
non sincronico … ma di entrambi.
Belzebù aveva cercato affannosamente il piacere …
strofinando frenetico il bozzo fra gli inguini … ma nulla … ma nulla.
-
l’angelo mio padre non
permette … non consente.
A quello sconcio
squarcio della memoria, Lio sprofondò
nella vergogna, nelle frustrazioni della sadica curiosità dei terapeuti
analisti. Castrazioni, invidia del pene, pulsioni sadico-anali, e via
discorrendo, ma in forma d’umano annichilamento, come il disprezzarsi fino alla
voglia di morte. Antiche vergogne e freschi ricordi di un sesso senza amore,
volgare, depravato, depravante.
Povero Lio! L’abbandono al suo intimo distruggersi. “Cupio dissolvi”, ma era acre soffrire.
Leggo fra gli appunti rievocativi siti in files varie volte abrasi (e da me
pervicacemente ripresi). Mi muove pietà. Quel giorno, di mattina, alla
biblioteca centrale Lio aveva ripescato il vecchio testo del DIADECTICON. Ne
riporto il titolo per come lo rintraccio nel suo computer:
MARCO ANTONIO ALAYMO - DIADECTICON - PALERMO 1636
(Dalla
Biblioteca Nazionale - microfilm delle pagg.1-38 e 295 335)
DIADEKTIKN
DIADECTICON
SEU
DE
SUCCENAREIS MEDICAMENTIS
OPOSCULUM
Nèdum Pharmacopulis
necessarium, verum et Medicis,
Chimicisvè maximè utile,
in quo nova, & admiranda Naturae Arcana reconduntur.
A U C T O R E
M A R C O A N T O N I O
A L A Y M O
Philosopho,
&t Medico, Siculo, Racalmutensi, civeque Panormitano Ill. &t
Prothomedici eiusdem Fel. Urbis Consultore, &t Deputationis Sanitatis
Deput.
Indice locupletissimo tum
capitum, tum rerum notabilium, tumquè Auctorum in opere Citatorum illustratum.
[Pertinet ad Bibliotecam S,
Francisci tran Tiberim]
------
PANORMI, Apud Alphonsum
de Isola Impress. Curiae Archiep. M.DC.XXXVI. Superiorum Permissu.
--------------
L’immagine di Ofelia, femminea angelica attraente, era
scomparsa. Se era stata la villica della radura francese dietro il Monte
bianco, se era apparsa normanna, bionda ed esile, residuo grazioso di nozze
nordiche non promiscue, ora appariva deforme, demoniaca, asessuata mezzana,
peccatrice, infernale. E Lio si ripetè i versi del Veneziano che quello strambo
di suo paesano, il medico Marco Antonio Alaimo, dimentico delle sue
frequentazioni con il padre La Naza, il santo gesuita nato da fedifraga copula,
include maliziosamente nel suo medico trattato:
Per la quartana, ch'è sua malatia
Si cuverna di signi lu Liuni,
E per lu mal suttili, ed Ethicia
Cimici vivi s'agghiuttinu alcuni;
Lu mentri lu bisognu mi primia
Per longu spatiu di tridici Luni
Contra l'humuri miu gustai di tia
Cimicia in modi, e Signa alli fazzuni.
Lio, nel suo
animo, ebbe talmente a vomitare di donne e di sesso con donne, che da quel d^
non si congiunse più con femmina alcuna, sino alla sua morte violenta. Non
violentò più donne, … fu violentato da donna?
E qui rientro
nei panni di improvvisato e letterario detective.
* * *
Non andava forte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni
Mistretta, commissario capo della questura di Agrigento. Sulla Peugeot 306
rallentò ancora alla curva del bivio per Castrofilippo, mirò forse – non era
superstiziosa – la villa in cima dei Bonadonna, paurosa per la diceria di
“signureddi” ognor presenti. Rallentò ancor di più nell’inforcare la bretella
per Racalmuto. Una motrice di un articolato stazionava ai bordi appena prima
dell’inizio della rampa. Mi mise in moto, accelerò: sul cavalcavia speronò la
peugeot che piroettò in area, si sfracellò di sotto, nell’area laterale del
traliccio, ed infiammandosi s’incenerì. Questo, a dire di testi, quanto
attendibili c’è proprio da dubitarne.
- da lu Chiuppu vinni, a lu Chiuppu turnà, ripeteva beota Liddu Marino, pazzo più che stupido,
personaggio emblema di Racalmuto. Fascistissimo in memoria del padre, odiava
comunisti ed i simboli della “falce e martello”. Alle elezioni, staccava gli
odiati manifesti. Quando, inaccessibili, gli furono sfacciatamente ostensi nel
balcone dinanzi il sagrato di S. Giuseppe, trillò, chiese, inascoltato,
rimozioni, si impermalosì sino a rabbie
che al limite potevano esplodere minacciose.
-
picchì? Picchì?,
bofonchiava Franciscu, che da giovane, quando era sano di mente, comunista lo
era stato.
-
Mi l’hannu a livari, mi l’hannu a livari….. entrambi non smisero però di sorseggiare le buatte di birra gelata.
Liddu Marinu non pisciava però sull’iperealistica statua
bronzea di Sciascia, posta sul marciapiedi ‘di li galantuomini’. E ‘ddo’ Sciascia lo era stato, persino la
carica di cassiere del ‘casino di li civili’ ebbe a rivestire, ma alla fine
degli anni quaranta. Franciscu invece, con scandalo degli ‘adoratori perpetui’
dello scrittore, ci scialava proprio ad irrorare di biondo liquame,
abbondantissimo per birra e vino trangugiato senza limiti, il piede sinistro dell’immagine
bronzea.
Liddu Marinu non era attendibile .. non poteva esserlo.
Alle prese con fascine di legna, che poi fiero portava a “lu chianu castieddu”
per la ‘vampa’ di S. Giuseppe, in cerca di asparagi selvatici ed anche di
“bbabaluci” “muntuna” e “judischi” -
quando era il suo tempo – raramente varcava il recinto merlato dei pizzi del
serrone .. e “lu chiuppu” era di là. E poi come credere ad un alienato di
mente? A Racalmuto, il suonare la corda pazza è abitudine diffusa …. Ma Liddu
Marinu, che poi loquace non lo era neppure, tutte le sue corde aveva pazze.
“A lu chiuppu” c’era un tempo villa sontuosa e misteriosa,
quasi all’ americana, di un boss narese… ma quello era fallito e gazebi aiuole
aranceti androni panchine foresterie marcirono ed intristirono sino alla
sterilità sino dirupare sino a spallare. Se no, davvero si poteva pensare “al
padrino” vindice di una poliziotta un po’ troppo ficcanaso nelle faccende
postsindoniane, magari a rimorchio della vecchia ispezione che si attribuiva ad
Aurelio La Matina Calello. E sulla morte di Aurelio La Matina Calello la
dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta alacremente inflessibilmente
indagava. Sindona mafia ispezione bankitalia ed avvelenamento di Lio Calello
erano per la poliziotta un cerchio unico in successioni causali. La chiamavano
“la poliziotta” perché come tale accedette alla polizia. Il concorso a
commissario, dopo, appena conseguita la laurea … in pedagogia. Era una virago,
da poliziotta. Irruppe nel covo di Brusca ed alla Zingarella lo braccò con
forza erculea. Faceva anche culturismo.
La presero carbonizzarla. Ce ne volle prima di
identificarla. E così le sue carte sono passate a me.
* * *
Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina Calello imboccò una
prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu capo-missione in quasi
tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi dalla Banca Centrale. A
volere il Calello era lo scorbutico vice direttore generale dell’epoca, gran
massone ma puritano, inflessibile, napoletano e calvinista. L’apprezzamento per
il giovane ispettore derivava dal fatto che non si era lasciato infinocchiare
in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta ed ammanigliatissima.
Non aveva conclusa l’ispezione ad asti il dottore La
Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio nell’allora
misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le banche
centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica.
Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale
a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di
efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario
russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti
propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma
con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio
ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.
Al ritorno dalla Russia, trovò il capo missione malconcio a
Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo gessato, il suo
giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo abbondanti libagioni
(carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in viaggio per il mero
rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono sulla pur robusta
vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio della strada.
Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma. L’ispezione fu
chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi avevano sì e
no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di indagare
sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso fu
archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).
Irridevano quelle tre o quattro paginette di “penna
d’oro”. Eppure “Penna d’oro” non volle o
seppe vendicarsi: prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente,
pungentemente. Ne trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e
sollevato. Non pensava che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia.
Quel rapporto passò in Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda
dell’intreccio di assegni a vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia
dell’ex federale e del sussiegoso piemontese finì eclissata.
Dopo Asti, un paio di pause di riflessione: in subordine a
Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi gli scottanti incarichi che
un qualche strascico nella storia dei crack bancari del dopoguerra l’hanno avuto.
Si pensi: echi persino in parlamento ed a S. Marcuto. Sono vecede su cui forse
dovrò tornare, al momento vediamo di svelare il mistero della morte del mio
ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di dirvi che il povero Aurelio
defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in commercio: pare posseduto
solo dai maldestri servizi segreti iracheni. Impressionante: anche Diodona, il
banchiere del crack su cui indagò il mio ispettore della Banca d’Italia, cessò
di vivere alla Pitrusa con l’identico strano ‘cianuro’. Non pensate a
Pisciotta: non c’entra.
Per Diodona si parlò di suicidio: ma nessuno ormai ci
crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri banchieri, finanzieri
…. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi fosse davvero differenza.
Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo codesto nodo
gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto, tra
Palermo e Messina ma sia nell’entroterra della provincia della città del faro.
E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo banchiere,
l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto giovane a
Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur sempre quel
Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante per le
madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli affari di
Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò con gli
inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli americani ma
facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu coglianato. Con i
russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano americano. Col Vaticano,
preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i vogliosi arcivescovi e si
disse anche cardinali. Con il papa … Dio ne scansi e liberi … si sghignazzò di
un giovanetto molto bello ed aggraziato … tanto femmineo, fu celebre latin
lover del cinema italiano. Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio
giallo.
Col caso Sindona vi fu un’impressionante sinergia. Furono
due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione anzitempo ed extra
moenia. Nel mondo dell’alta finanza può succedere, ogni umana fantasia è
impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto e lui fu sommo maestro, anche di
storia del diritto romano. Presiedette indagini parlamentari bancarie, pur
ignaro di partite doppie, accrediti, spot, swap, foward, outright, borsa,
mercato parallelo, redditività, patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti
bilanciati, gergo dei ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello
borsistico.
Va ribadito qui con robusto tono che il dottor Aurelio La
Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le sue incombenze, i
suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il suo valore e la
sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se qualcuno
continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà querelare.
Distinzione .. distinzione, sia chiaro!
Il pasticcio della confusione s’origina forse dal fatto
che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello, sicuramente per
invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima aizzando Lotta
Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una cooperazione quasi
integrale, tota ed ampla – nella
stesura del pamphlet anonimo “Goodwill”
a firma di un improbabile Colbert.
Detto fra noi, è scritta quasi tutta di suo pugno, di
Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di ‘premessa’, e quelle
dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco immobiliare di Roma
sono rimasticature della truculenta letteratura giornalistica di quei giorni,
un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare sulla palude dell’incombente
compromesso storico di Berlinguer. Scritte benissimo quelle pagine spurie – e
non originali – risentono della bravura di un editorialista sommo come
Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed immacolato parlamentare
Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto esponente del mondo bancario”,
abile e pungente, rimasto indisturbato dentro quel mondo, sino ai nostri dì.
Tutti pensano che il caso Sindona narrato in quel libro
abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che vi abbia messo
la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue) prime pagine.
Leggiamole insieme.
«Racalmuto è il paese
di Sciascia, ma – diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è
avvolto da nessun velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte
intonacate di bianco, esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra
calanchi e fiancate di colli minerari.
«A Michele Sindona
questo squallido scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima
curva davanti al muso del suo traballante “dodge”.
«Proveniva da
Patti. Affari arditi spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino:
approvvigionarsi di frumento in tempi di proibizionismo granario, compiacente
il governo militare alleato, l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi,
alla stessa Amgot. Era il 1944.
«Se nella vita dei
santi, i segni precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della
valentia affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino
dalla prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio
preciso da incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943
dalle truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.
«Don Calogero
Vizzini, di Villalba, accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico
della mafia, ebbe a ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra
nella gestione della miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con
Montedoro, il luogo natale dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato
“notabile”. Labbro enfiato e pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e
trascuratezza, don Calogero Vizzini s’industriava ad apparire insignificante –
almeno agli occhi dei racalmutesi.
«In realtà, don
Calò godeva di molta considerazione negli ambienti italo-americani tanto da
essere prescelto come interlocutore privilegiato, i primi giorni del luglio
’43, quando le truppe alleate iniziarono la loro conquista rapida ed indolore
della Sicilia.,
«Dimostrazione
affettuosa fu quella elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale,
grassoccio, piccolo e volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto,
scacciato il predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come
“podestà”.
«Baldassare
Tinebra – insediatosi al Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare
protezione agli affaristi locali e no, che commerciavano al mercato “nero”
della principale risorsa del paese, il grano. Protezione non del tutto
disinteressata, a dire dei malevoli. Vi fu atto di corruzione da parte del
Sindona nei confronti del neo-sindaco degli “alleati”? Non può più chiedersi ad
alcuno. Sindona è oggi esule negli Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto ammazzato, un anno dopo la vicenda
che si narra [o forse pochi mesi,
ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese,
conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu
condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che
solo vi cercasse lavoro, ndr,] che
sappiamo essere stata di Tinebra e Vizzini. Cercò di far luce sul delitto,
convinto dell’innocenza del padre. Finì in un forno “Gill”, liquefatto tra lo
zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse in paese.»
Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu
scrittore ma cercò di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un
giovane narratore che riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta
di Sindona. S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo.
Non so se mi è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e
che mi sono molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.» Poiché voler narrare non significa saper
narrare, retoricamente mi sono domandato se il giovane fosse riuscito
nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son cavata da gesuita
smaliziato: «”amicu miu ora tu cuntu un
fatto”». Il fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta
voce i “cunti mia e chiddi di l’antri”.
Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo
a pagina 67: i caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora
Aurelio ha voglia di cuntari lu cuntu:
ci mette della fantasia, vediamo un po’. Non comincia con il classico e
racalmutese «s’arraccunta e
s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un
palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però
subito: comincia ad essere accattivante.
«vi si
aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dimessa del banchiere.
Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma nel fondo
dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è Londra.
Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande
Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.
V’è,
dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di umana
effusione.
Spaccato
della vita economica e politica romana.
La corsa
in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino con il
governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno al
grand-commis della finanza nazionale che ascolta la versione del banchiere
sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di raggelante distacco.
Po
d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate
dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della
capitale.”
“Ho due
banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con l’estero;
potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali valutari.”
Ciò è
demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro indirizzo verte
su obiettivi globali e nazionali.”
Sillaba a
mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza umiliazione il
banchiere.
L’incontro
con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe palese della
soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un socio
d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata telefonica
oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza … quasi
tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge alla
bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi impubere
all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche proprio per
curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il grosso prete
americano.
All’aeroporto
arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica famiglia di banchieri
inglesi.
Nell’occiduo
chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo, il concitato
dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere del sud.
Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda, redditualità,
prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera, Trinico,
Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la difficoltà
a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito della sontuosa
cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle trattative, è
la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce e diviene
persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco americano.
Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui, lei abbozza
discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce. E’ notte!
All’indomani
l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella gentilizia – è
arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento dell’Immobiliare
al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a loro volta
sovvenzionate dagli Hambro.
Il nostro
banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR l’amministrazione dei
capitali in dollari conseguiti dalla vendita dell’immobiliare romana. Unica
condizione al perfezionamento dell’investimento ideato è il consenso
all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta trattando da tempo.
L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e l’accordo immediatamente
siglato.
Le
trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del presidente
degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva contribuito
con consistenti elargizioni.
E
l’iniziativa ha felice esito.
A Milano,
nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del suo successo.
Giù. Telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di mezzo mondo:
da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti azionari
passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza abbondano. Pavidi
speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono fagocitate dal
finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti giudici riescono ad
archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino mistico.
Fabbriche
e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso giro di
cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre quali
l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di trasformare
miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e poi a quelli
(meglio generali di casa nostra. Fondi alla Nova Scotia, camuffati da intrecci
perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto dalla banca americana
prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da qui all’estero per
consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti. Abile il banchiere
nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro dollari del mercato nero
a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di finanziamenti di holding estere
a lire 650. Il banchiere si espande: compra banche in Svizzera, in Germania, in
Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman Islands o a Panama City. E’ un impero
finanziario con stuoli di brokers e tecnici dal gergo per iniziati (outighy;
spot; swap; forward rate; time deposits, stand-by …)
All’EUR,
nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di amministrazione
dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60 a 100 a 120 a
160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi” abbocca. V’è sempre
il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera a far quotare oltre
le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore nominale.
Dalle sue
banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più ambiguo, sempre
più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alla banche. Di
conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici” degli enti
previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione monta, senza
argini, ammaliante, impetuosa.
Nel
consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi presidenti delle
banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono l’aggiotaggio del
banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso le banche pubbliche
che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie del banchiere
detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare. Una baraonda
simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive nella villa dei
Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I pingui e
frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto democristiano
– si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze approntate dal
banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in religiosa estasi.»
- Oddio! … Oddio!
…. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la morte, gli affari e gli
intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera, eccetera.. si sussurrava
Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il
siciliano e racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era
panzana. Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia avevava avuto mai
a che fare con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava
un’accolta di imbecilli … ed anche sanguinari.Un mafioso artefice di volpini
intrecci affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le
vicende delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed
ottanta era un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di
mafia.
“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”,
ragliando con la solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e
conviviale “mangiata a la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di
chiudere per quel giorno. Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a
Bovo. Ma ancora una sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con
Melissa Cohen stava scritto, a matita,:
la donna
del Mossad
in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave
daltonismo non consentiva di miscelare passabilmente.
- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia
per come si ostinò a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni
Mistretta. Se ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli israeliani,
no. Sono sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù alla Vecchia
Maniera. Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette culinarie. In
quello eccello … sono imbattibile.
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