sabato 2 febbraio 2013
In onore del fratello suicida di Nanà
Mi si accuserà di esibizionismo, di ostentazione intellettualistica, di presunzione letteraria, lo so ma non desisto. Snocciolerò queste quattro pagine erudite su Catullo, Gadda ed altro. Perché? Per via che voglio spendere qualche parola sulla tomba del fratello di Nanà Sciascia e sotto sotto fare un appuntino cattivello all’amico (meglio al figlio dell’amico) Tano Savatteri. Lutti per fratelli defunti giovani tanti grandi scrittori ne piansero. Da Sciascia a Rosso di San Secondo. E poi Pasolini, Gadda, Calvino: meritano tutti accorato rispetto.
A Racalmuto non si legge: si suppone; si ha voglia di credere che si sappia già troppo per dovere ancora apprendere; si sale spesso in cattedra ad insegnare a chicchessia quello che non si sa.
Noi racalmutesi siamo fatti così: un po’ presuntuosetti lo siamo. Per illustrare la celebre frase latina scolpita sulla tomba del fratello di Sciascia trascriviamo questa ampia nota di Emanuele Narducci su Catullo:
«L’esperienza di un giovane fratello caduto in guerra può distruggere la nostra vita. Si ricordino i versi disperati di Catullo», dichiarava Gadda, con ovvio riferimento autobiografico, in una intervista del ’63 a proposito della Cognizione (Gadda 1983b: 87). E già in una recensione del ’45 alle traduzioni catulliane di Quasimodo, appar se nel medesimo anno, l’accento batteva sulla profonda consonanza emotiva con i versi più dolenti del liber (SGF I 899 sgg.):
In una accettazione del dissolvimento Catullo raggiunge, anche nel riso, l’estrema amarezza. I versi dolorosi con cui rievoca il fratello perduto (carme 68; 68a) testimoniano circa lo spegnersi d’ogni fede in una possibile sopravvivenza sua propria:
Tecum una totast nostra sepulta domus [Tutta la nostra casa è sepolta insieme con te].
E il carme 101 e il più tragico de’ suoi versi:
Et mutam nequiquam adloquerer cinerem [Per parlare invano con la tua muta cenere],
Si tratta di uno dei rarissimi omaggi di Gadda all’arte poetica di Foscolo, i cui versi sono assai più spesso bersaglio di ironie dissacranti (così, ad esempio, nel dialogo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia irride beffardamente al riuso, nell’Ode a Luigia Pallavicini, di una delle espressioni di apertura del carme 3 di Catullo, Veneres Cupidinesque – SGF II 413; Narducci 2003: 95). Può darsi, allora, che l’omaggio vada inteso in funzione polemica nei confronti della resa quasimodiana del medesimo verso di Catullo («e a dire vane parole alla tua cenere muta»), che Gadda avrà sentito scialba e priva di musicalità. In realtà tutta la recensione è, a dir poco, algida nei confronti delle traduzioni di Quasimodo; in maniera più esplicita lo scrittore si sarebbe espresso in una lettera dell’ottobre ’59 al cugino Piero Gadda Conti, manifestando la propria irritazione per il conferimento del Nobel al poeta siciliano: «Di Salvatore ho ricevuto, nel 1946, la sua traduzione da Catullo: uno spasso!» (SGF I 1350).
Nella recensione, Gadda contrappone continuamente il suo Catullo a quello che emerge dai rifacimenti quasimodiani: perciò tutto lo scritto si rivela assai utile per comprendere la maniera in cui Gadda si accosta al poeta veronese. L’obiezione principale rivolta a Quasimodo è di avere privilegiato, sia nella selezione dei carmi da tradurre, sia nelle scelte lessicali, gli elementi alessandrini della poesia di Catullo: quelli che rivelano «un Catullo orafo, un Catullo benedettino», verso il quale il gusto di Quasimodo mostra la maggiore congenialità. Sono in larga parte esclusi dalla traduzione, invece, i carmi brevi (quelli che Gadda definisce italiani), che lasciano emergere «l’impeto, il dolore, la impotente rivendicazione, la tristezza puerile, la oscenità gloriosa, lo scherno»; le scelte di Quasimodo hanno spostato «il centro barico della poesia catulliana: addomesticando il nembo a uno zefiro».
La lettura di Catullo delineata da Gadda si inserisce in maniera abbastanza agevole nel quadro complessivo delle interpretazioni di questo poeta predominanti fino alla metà del Novecento, e sostanzialmente condizionate da un gusto di ascendenza romantica, nelle sue diverse varianti. Gadda insiste a più riprese sulla componente fanciullesca della personalità poetica di Catullo, laddove parla, per es., di «libertà làlica […] del bambino», di «tristezza puerile», della «sua natura di fanciullo delicato e impertinente»; o descrive il rapporto dell’ingenuo poeta con l’aggressività violenta del mondo circostante nei termini del «dolce sorriso d’un bimbo che si ridesta, inconscio, alla presenza d’una pantera».
Neppure mancava, nel discorso critico circolante all’epoca in cui Gadda scriveva, l’idea di un Catullo dalla psicologia tormentata ai limiti del patologico – anche se Gadda calca un po’ le tinte parlando di «nevrosi», di «atteggiamenti potenzialmente ebefrenici (arresto, o retrogressione, a puerizia) o ipotimici (depressivi)», di «una psicopatia che oscilla tra lo spirito amoroso […] e un senso disperato di abbandono» (SGF I 899).
Gadda arricchisce questi spunti critici tutto sommato convenzionali con gli scintillii della sua prosa artistica; maggiori elementi di originalità interpretativa vi sono forse nell’apprezzamento esplicito della componente oscena della poesia di Catullo, da altri interpreti, all’epoca, per lo più tenuta fuori campo, o addirittura più o meno apertamente biasimata. L’attenzione si spiega bene con la personale predilezione di Gadda per una scrittura capace di spaziare, senza censure di sorta, tra tutti i diversi livelli del lessico e dello stile; ed è perfettamente coerente con il fastidio verso il decoro e il perbenismo linguistico che Gadda, ancora negli anni del fascismo, aveva già espresso a proposito del vocabolario latino in corso di elaborazione presso l’Istituto di Studi Romani: un testo nel quale era presente l’invito a non operare esclusioni nei confronti del lessico di autori come Plauto, Catullo, Petronio, Marziale o Giovenale (SGF I 870; Narducci 2003: 38).
Se lo abbiamo visto profondamente commosso dai versi catulliani sulla morte del fratello, dal liber del poeta latino Gadda sembra tuttavia avere attinto soprattutto spunti satirici (in questo senso operano anche le riprese da Catullo nel Primo libro delle Favole; Narducci 2003: 93). Così nel passo con cui si apre uno dei racconti dell’Adalgisa (Strane dicerie contristano i Bertoloni), poi ripreso nella Cognizione (RR I 381; RR I 584):
Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi […] esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchon e lungo le pioppaie del Prado; di ville! di villule! di villoni ripieni di villette isolate […] gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco, un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, «digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi.
La nota di Gadda rimanda esplicitamente al modello catulliano (RR I 404; Flores 1964: 390):
Catullo, carmina, XXVI: «villula nostra non ad Austri flatus oppositast neque ad Favoni ecc.… verum ad milia quindecim et ducentos»: (di ipoteche). «O ventum horribilem et pestilentem!» [La mia villetta non è opposta ai soffi dell’Austro né del Favonio… bensì a quindicimila e duecento sesterzi. Proprio un vento terribile, e malsano!].
Un componimento catulliano del quale Gadda si è ricordato più volte è il carme 29, un’invettiva violentissima contro il corrotto e avidissimo Mamurra e i suoi protettori, Cesare e Pompeo. Nella Appendice alla Cognizione l’autore, difendendosi dall’accusa di barocchismo rivolta alla sua scrittura, si impegna a ribaltarla nel «più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”» (RR I 760). Tra gli esempi che illustrano l’affermazione figura il seguente: «le trippe del pretore Mamurra, panzone barocco, erano trippe barocche»; l’allusione è alla incredibile rapacità e voracità del personaggio, che Catullo rappresenta come capace unicamente di «divorare grassi patrimoni» (Flores 1964: 383). Dallo stesso carme catulliano proviene l’aggettivo «superfluente» (traboccante, detto di Mamurra in 29, 6), riferito all’immagine in dagherrotipo del generale Pastrufacio (assai somigliante a quella di Garibaldi) che, sempre nella Cognizione, campeggia su una delle pareti della camera di Gonzalo («superfluente dalle cornici dei ritratti»: RR I 625). E altre coniazioni lessicali che sicuramente rimandano a Catullo trapelano qua e là dall’opera di Gadda (Flores 1964: 389 sg).
Al carme 29 allude scopertamente anche il titolo di uno dei racconti degli Accoppiamenti giudiziosi, Socer generque, scritto nel ’47, e ambientato nelle cerchie della borghesia italiana del ’41: il rimando è al v. 24 del carme, socer generque perdidistis omnia [suocero e genero, ogni cosa avete mandato in rovina]; da parte di Gadda, il riferimento catulliano a Cesare e Pompeo è trasferito su Mussolini e Galeazzo Ciano, ai quali nel racconto è dedicato un excursus tanto spassoso quanto degradante.
è abbastanza tipico della scrittura gaddiana il fatto che le sue citazioni da autori antichi e moderni subiscono talora una trasformazione così profonda che qualsiasi interprete faticherebbe alquanto a riconoscerle, se non fosse per le esplicite dichiarazioni dell’autore. Leggiamo un brano delle Meraviglie d’Italia, dove lo scrittore indugia sugli odori che emanano da una pescheria milanese:
nel nostro animo si accendono, traverso le nari, fantasie di fiumi e di fontane e di docce, e i cori gocciolanti dei tritoni e delle nereidi, con codazzo infinito di pesci d’ogni freschezza e sapore, d’ogni sale e d’ogni melma. (SGF I 59)
Per l’espressione «d’ogni sale e d’ogni melma» Gadda rimanda in nota ai vv. 2-3 del carme 31 di Catullo, in liquentibus stagnis marique vasto [nelle distese chiare dei laghi e nel vasto mare]; la trasformazione opera qui in funzione talmente degradante, che l’interprete stenterebbe assai a coglierla. Analoghe considerazioni valgono per un passo del Castello di Udine, che descrive la villa del Cardinale d’Este a Tivoli:
Cento fistole, quinarie tutte, comandò il Cardinale in delizia, e poi mille, da beverarne le piante a’ cipressi. (RR I 258)
Le note apposte da Gadda a questo testo fanno scherzosamente il verso a quelle di un commento, compresa la registrazione delle dubbiose perplessità dell’interprete, posto di fronte a un passaggio irto di difficoltà esegetiche. Egli ci informa, per esempio, che «piante» sono qui da intendersi quelle dei piedi (per gli alberi, le radici); e che tutto il passo va pertanto tradotto nella maniera seguente: «Il cardinale (Ippolito II da Este, 1509-1572) commise ai fontanari la fontana delle cento cannelle e i giochi tutti dello specioso giardino; ma la freschezza dell’acqua abbevera le radici dei cipressi». Qualche sorpresa è riservata dal seguito del commento:
I due numeri ricordano Catullo, Carm. V, 7 «mille deinde centum» [mille e poi cento (i baci che il poeta desidera da Lesbia)], la qualità degli alberi Orazio, Carm. II, XIV, 22-24 «neque harum quas colis arborum | Te praeter invisas cupressus | ulla brevem dominum sequetur» [Di questi alberi che fai coltivare e possiedi per poco tempo nessuno ti seguirà, a parte l’odioso cipresso]. (RR I 278)
Un interprete di particolare acume sarebbe forse riuscito a individuare la citazione da Catullo; ma era praticamente impossibile scovare, all’interno del dettato gaddiano, il ricordo dei versi di Orazio, pure essenziale per cogliere l’allusione alla precaria transitorietà dei fasti del Cardinale. La maniera in cui Gadda trasforma e rivela i testi che nutrono la sua immaginazione letteraria sembra davvero fatta per invogliare alle più avventurose speculazioni intertestuali.
Nel 1948 nelle squallide lande di Pasquasia (o Assoro?) si suicida il fratello di Leonardo Sciascia. Dirà di lui lo scrittore a Biagi; “mio fratello era giovane, faceva il perito minerario, e si è suicidato per ragioni che non ho mai capito”. O non ha voluto ammettere? Il padre tiranno?
Certo da allora Sciascia è tutt’altro uomo. Ci pare che abbia bandito il riso a squarciagola. Fotografie tante ma solo un timido rappreso sorriso: melanconico, quasi sfuggito. Con le figlie è tenero, tenerissimo. La primogenita Anna Maria stecca con gli studi: in una toccante intervista ci svela che il padre fu ancora più tenero; non osava rimproverarla di nulla. Non importava.
Ricomposto, fatte austere onoranze funebri (ebbero i preti ad accordare le commemorazioni in chiesa?), seppellito sul frontale del quarto cimiteriale di nord-est, chi pensò alla epigrafe? Non certo ancora affermato scrittore, ma Nanà non era già uomo dal dire banale e dal frasario convenzionale. Tre versi, latini, di Catullo, furono scolpiti sulla lapide marmorea. Questi:
omnia tecum una perierunt gaudia nostra,
quae tuus in vita dulcis alebat amor.
E da allora per Nanà i gaudia furono composti, umani, sofferti. Ci pare che non scrisse più versi. Amò i suoi figli, adorò i suoi nipoti: lui, in fondo ateo, insegnò loro persino il catechismo. Sbocciava una religiosità irrazionale, non metafisica, pregna solo di empiti per la giustizia, per la libertà, per l’intima norma etica. Fu rigoroso sino al moralismo.
Questa è Racalmuto, nutrice di ingegni e di derelitti, di gioiosi virgulti che d’incanto si rattristano e fanno anche anzitempo, per atto volitivo, il passo estremo. Non meritiamo la gogna che ministri ignari ci dispensano.
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