Contro una società divisa in vincitori e vinti
di Raniero La Valle
Chi vincerà il prossimo referendum? Ormai da molti mesi l’unico scopo, l’ “oggetto immenso” della politica italiana è la vittoria nel referendum. Renzi non pensa ad altro, e attribuisce all’esito del referendum conseguenze epocali sia per il vincitore – che dovrebbe essere lui – sia per i perdenti che dovrebbero essere tutti gli altri (D’Alema, Bersani, Zagrebelski, i Cinque Stelle, i gufi, i parrucconi).
Alla Leopolda, il 5 novembre, tirava una brutta aria: come ha sintetizzato la Repubblica “abbracci agli amici, botte ai nemici”. Scrive Michele Prospero sull’Espresso: “Renzi cerca continuamente un nemico, qualcuno a cui stare antipatico: se ne è creati molti, spesso scientificamente. Renzi cerca la contrapposizione così come cerca continuamente l’acclamazione. La cerca alla Leopolda o durante le direzioni del Pd, che sono entrambi luoghi di obbedienza e celebrazione». E la parola d’ordine alla Leopolda era di dare battaglia anche in caso di sconfitta, di “non farsi rosolare” a Palazzo Chigi. Come riferiva il Corriere della Sera quello stesso giorno, Renzi avrebbe detto che in ogni caso avrebbe deciso di andare avanti e di “non mollare”, perché è meglio “morire da Renzi che vivere da pecora”. In questa visione, la vittoria è ciò che fa la differenza; se poi non si vince bisogna rilanciare e giocarsi tutto, perché, parafrasando ciò che si diceva una volta, è meglio vivere un giorno da Renzi che cent’anni da pecora. Ciò mette la vittoria al centro della visione della politica. Non è affatto una visione peregrina, perché corrisponde ad una illustre dottrina elaborata durante il nazismo dal grande giuspubblicista tedesco Carl Schmitt, secondo cui la politica consisterebbe nella dialettica amico – nemico, e avrebbe perciò nella vittoria il suo naturale e necessario obiettivo.
Questa visione non è però quella della Costituzione Italiana che coltiva il progetto di una società di liberi e di eguali, in cui non ci siano sconfitti e perciò nessuno sia considerato nemico. Ora il problema non è che il Presidente del Consiglio abbia personalmente un’altra opinione, com’è legittimo. Il problema è che la riforma costituzionale sottoposta a referendum insieme alla legge elettorale che l’accompagna, assume precisamente la vittoria come criterio supremo della politica, e disegna un progetto di società divisa in vincitori e vinti. E’ questo infatti l’obiettivo più ambizioso dei riformatori, continuamente riproposto nel facile slogan secondo cui la sera delle elezioni si deve sapere chi ha vinto e chi, invece, è rimasto sconfitto, e lo dovrà necessariamente rimanere nella migliore delle ipotesi per cinque anni, fino alle successive elezioni.
La proposta referendaria sposta l’accento da una società in cui non ci sono sconfitti (e in cui anzi è compito della Repubblica rimuovere le cause, anche di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini ne fanno degli sconfitti) a una società di vincitori e di vinti. Questa non è una buona cosa. Il massimo beneficio di un sistema elettorale non è di far sapere subito chi vince, e mettere fuori gioco chi perde; questa è la cosiddetta democrazia governante dei riformatori, secondo la quale chi vince vince tutto, chi perde perde tutto, e il trofeo e il frutto della vittoria sono lo spoils system, cioè la divisione delle spoglie. È questo il valore che oggi viene innalzato sugli scudi dai fautori della semplificazione e dell’efficienza di una democrazia decisionista, questa è la nuova morale politica, che in realtà è la vecchia, reazionaria concezione politica del Principe secondo Machiavelli.
Io credo invece che per salvare la politica e per salvare la democrazia dobbiamo reagire contro l’ideologia della vittoria. E’ questa l’ideologia del potere incontrollato, l’ideologia di Cesare: “veni, vidi, vici” (venni, vidi, vinsi); è l’ideologia di Brenno contro i Romani: “vae victis” (guai ai vinti); è l’ideologia di Costantino che con il suo sogno a Ponte Milvio ha inquinato 1700 anni di storia cristiana trasformando il cristianesimo in cristianità: “in hoc signo vinces”; la croce massimo simbolo di amore e di condivisione usata come insegna e totem di vittoria, toponimo delle crociate e stigma d’identità; un marchio selettivo e ostile, rappresentativo di un’identità nazionale e politica, atea e devota, cosa che è durata fino a ieri, fino a papa Francesco che ha deciso di uscire dalla cristianità per tornare al cristianesimo, che è la vera riforma oggi in corso.
In effetti la vittoria non è tutto. Nel mondo ci sono ben altri problemi che vincere o perdere. Tra Israele e Palestina il problema è di chi vince? Tra chi vuole salvare i profughi e chi vuole abbandonarli al mare, il problema è chi vince? Tra la gente accampata nella giungla di Calais e gli inglesi che sbarrano il tunnel della Manica, il problema è chi vince? La vittoria rimanda al potere. Il discorso sulla vittoria è un discorso sul potere. La vittoria è il movente e il fine della politica moderna intesa come scontro tra nemici. Ma la vittoria non è affatto il movente e lo scopo della politica, non è il criterio di giudizio sulla qualità del potere, e non è per niente tra i principi e i valori fondamentali su cui è costruita la Costituzione Italiana e l’ordinamento dello Stato.
Il potere non deve vincere per dividere, ma deve governare per unire; il consenso, la mediazione, il sostegno ai poveri e ai perdenti dovrebbero essere la norma per il potere. I re dell’Antico Medio Oriente, ai tempi del codice di Hammurabi, erano i difensori degli sconfitti, avevano il compito di compensare con la forza del potere la debolezza dei poveri. Antichi codici parlano del re come del padre dell’orfano, marito della vedova, sostegno di chi non ha madre.
L’ideologia della vittoria fa brutti scherzi; la Germania umiliata dopo la sconfitta nella Grande Guerra produsse Hitler, le democrazie del dopoguerra nell’Italia stremata e nella Germania divisa rinacquero con il piano Marshall. L’ideologia della vittoria è quella che ci sta facendo rischiare la Costituzione, che non è più considerata in se stessa, ma solo come strumento di una battaglia campale per innalzare o abbattere un potere; essa fa da capro espiatorio di una contesa tutta politica, sicché perfino i filosofi dicono che la Costituzione proposta è un orrore, però la votano per far vincere Renzi; la vittoria diventa così il massimo bene, la grande occasione offerta all’Italia, perché grazie alla riforma ci sarà sempre un vincitore e ci saranno dei perdenti, e l’ultima parola della storia non sarà più né capitalismo né democrazia, ma sarà vittoriocrazia. Chi vince è il sovrano, tutti gli altri tornano ad essere sudditi.
Questo è il futuro? No, questo di certo è il passato, non è il nuovo che avanza, è il vecchio che ritorna.
Raniero La Valle è presidente del comitato Dossetti per la difesa della Costituzione. Direttore de Il Popolo (quotidiano DC) durante il governo Moro, nel 1961 dirige L'Avvenire d'Italia. I suoi documentari Tv Rai raccontano l’altra realtà di Stati Uniti, America Latina, Europa, Medio Oriente. Parlamentare della Sinistra Indipendente e promotore del "Manifesto per la sinistra cristiana, rilancia i valori del patto costituzionale del '48 e la critica della democrazia maggioritaria. Fra i suoi Libri “Dopo Caino”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”, “Quel nostro Novecento”.
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