CALOGERO TAVERNA
La donna del Mossad
* * *
Si attaccò al telefono con la furia di un demone imbufalito. Chiamò Palermo, la redazione del Corriere. Sì, voleva Roberto Caballero.
- Robe’ lascia stare i convenevoli … vieni subito qui a Racalmuto … sì a Bovo, in casa di Aurelio La Matina … buon’anima…. Ti passo uno scoop che ti farà rimbalzare nelle prime pagine di tutta la carta stampata ed in quella imminchionita dei mezzi-busti televisivi … Sì, si tratta dell’omicidio dell’ispettore bankitalia La Matina Calello … notizie in esclusiva .. svelate da Meluccio Cavalieri di Giorgenti … l’ineguagliabile scrittore dei gialli … straingurgitati dagli imbecilli del momento … e sono la quasi totalità della razza italica … sì specie se dipinta di azzurro … Si sta mandando all’ergastolo un innocente e Meluccio Cavalieri non vuole … posso consentirmi il divieto della giustizia cieca … ingiustissima? … Sì. sono incazzato, incazzato nero … vieni e ne parliamo.
Roberto Caballero, giornalista cinquantenne, racalmutese, ancora alla cronaca regionale, si era attirata la simpatia di Cavalieri senza merito alcuno, per un empito umano dell’affermato scrittore, segno di una pietas che non sai mai perché finisce per far capolino nei cuori più induriti .. e quello di Meluccio era molto arido … non duro ma impermeabile ... o così pensava lui..
Giunse a notte fonda, strombazzando, come a svegliarlo. “Sono sveglio … sta’ calmo che arrivo”. In vestaglia aprì il portoncino metallico, accese la luce esterna. Roberto si precipitò dentro, sciatto come sempre, barba lunga jeans vecchi e malandati, niente concessione all’andazzo di portare falsi jeans provocatoriamente laceri: quelli di Roberto erano semplicemente indecenti. Apparteneva ad una cospicua famiglia racalmutese, notai sin dal Settecento, quando erano piombati predoni e saccenti da chissà dove; Aurelio, ricercatore imbattibile della locale microstoria, diceva da Assoro. Al Circolo Unione si spettegolava che i Caballero stessero sempre sopra uno scalino … qualche volta scendevano, quando avevano bisogno … diventavano umili, sussiegosi, supplici … poi finito lo stato di necessità, eccoli subito salire su due scalini, più in alto, più ingrati, altezzosi in odiosa maniera. Roberto, però si distingueva … intelligentissimo, stravagante, caustico di parola e di penna, aveva preso dalla mamma, non racalmutese, finissima donna che suo padre aveva fatto morire di crepacuore e di stenti, intento a ficcarsi nei talami altrui. Pare che vi riuscisse. La Sicilia cambiava: essere cornuti cominciava a divenire un fregio nobiliare, come i nobili di un tempo, solo che ora anche la plebe si nobilitava.
Ebbe tempo di mirare lo spettacolo del cielo stellato, Meluccio Cavalieri. Gli sovvenne una pagine di Aurelio, letta nell’attesa di Roberto. Non gli era sembrata spregevole, la memoria ora agghindava ancor di più il pezzo letterario. Risorgeva l’antica Grecia. Anche a Racalmuto, anche a Bovo. «….. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: “certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini” eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. »
“Bisognava tornare all’antica Grecia, alle mirabili origini di una Sicilia colta e libera, della Sicania civilissima e soave, stellare, senza diritto romano, senza terrori cristiani, senza cupi preti, senza Bossi, senza Berlusconi, senza magistrati stranieri, senza capitani in giallo venuti da Arcore …”
- Ma che cazzo sussurri? ghignò Roberto.
- Va ‘ffa ‘nculo. Ti do un caffè di quelli fatti da me, ricetta di Gennarino … così mi stai sveglio.
Sorbitosi il caffè, Roberto andò a stravaccarsi sul rustico divano color senape. Si concesse una sigaretta, infastidendo Meluccio che da accanito fumatore pentito inforcava ora le cuspidi di tutte le campagne contro il fumo, anche se passivo, e si offrì in olocausto ai furenti sfoghi del suo amico scrittore.
- Dunque, che è successo?
- Hanno arrestato Vitacchia.
- Tutto qua?
- … è innocente ..
- non è il primo né sarà l’ultimo.
- Qualche responsabilità c’è l’ho pure io
- L’hai denunciato?
- Ci mancherebbe altro … se lo reputo innocente?
- Pur di scriverci un libro, non saresti capace?
- Strunzu!
Con varie interiezioni, digressioni, sberleffi, contumelie, Meluccio ricostruì gli eventi dei due giorni passati. Roberto alla fine s’impazientì:
- questo Vitazza, non so se è innocente o colpevole. E come faccio a scrivere un pezzo innocentista?
- Perché è innocente!
- Sei sicuro? Sputa fuori allora la verità … secca, senza fronzoli, giornalistica …
- Dimmi pure evangelica?
- In che senso?
- Non dice Gesù di Nazareth: “il vostro parlare sia: sì, sì … no, no”
- Vorrà dire che domani scriverò: “Vitacchia da Racalmuto è innocente? Rispondiamo: sì”, sai che successo giornalistico.
- Non mi imbrogliare ora tu le carte.
- E tu dammi le carte giuste ed essenziali.
- Aurelio La Matina Calello viene dunque trovato morto avvelenato il giorno dopo; i medici stabiliscono che il decesso era da retrocedere di dodici quindici ore. La morte sarebbe avvenuta dunque nelle prime ore della sera del giorno precedente, quando a Racalmuto diluviava. Fu sera da tregenda, tutti se lo ricordano qui in paese. Continuava per altre quattro cinque ore, avremmo avuto il diluvio universale; sarebbe stato il momento della verità con tutte quelle manomissioni del sottosuolo del paese, a cominciare dalla Matrice. Vi erano le carnarie, ora non vi è più nulla: le colate di cemento sospinte dalla pressione a 10/15 atmosfere sono state sbattute contro le occlusioni di piazza Castello. Quando torneranno le grandi piogge, dell’intensità di quella sera ma più continue, avremo un grande sifone a «lu chianu castieddu»; con quanti morti?
- Stringi
- Nel primo pomeriggio si era recata da Aurelio la giornalista israeliana, accompagnata da Vitacchia, che subito però tornò in paese. La giornalista si accomiatava da Aurelio per il suo ritorno in patria. Aurelio era stato prezioso nel fornire dettagli e letture inusuali sugli ebrei di Sicilia e su quelli di Racalmuto. La giornalista vi ha scritto poi un libro che mi dicono ha impressionato Israele.
- Fino a che ora vi è stata da Aurelio?
- Non più di un’ora. Il tempo era ancora buono. La giornalista telefonò allora alla sua amica, l’accompagnatrice turistica racalmutese. Questa si precipitò subito a Bovo. Non entrò neppure in casa. L’israeliana l’attendeva all’imbocco della stradetta. Si fece accompagnare in gran fretta a Canicattì a prendere l’autobus per l’aeroporto di Catania delle ore 17. Non riuscirà a prendere l’aereo per Roma da Catania: le grandi piogge impedirono il decollo. La giornalista si fece accompagnare in taxi in un albergo delle vicinanze. Tutti questi movimenti sono stati ricostruiti con diligenza da romanzo giallo dalla dottoressa Mangoni. Aurelio sino a sera era vivo: lo dicono i medici. La giornalista ha un alibi di ferro. Vitacchia, dopo avere portato la giornalista da Aurelio, s’incontra con Bastiano Saldì, ancora non latitante. Sono amici da vecchia data. Il Vitacchia viene invitato dal Saldì a fargli compagnia ed in macchina se lo porta allo Zaccanello. Si godono lo spettacolo della tempesta a mare. Non succede nulla. A tarda ora, i due se ne tornano a Racalmuto, quando Aurelio era morto da almeno due tre ore.
- Non è che l’ispettore bankitalia sia morto ad opera di spiriti maligni, scesi sulla terra di Bovo in quella notte da tregenda? Se fossi inglese, ci scriverei un libro di magia nera.
- Non scherzare. Non spiriti vennero a Bovo quella sera, ma uno strano cingolato creò un casino forsennato rompendo il muretto dell’ingresso, lasciando orme che neppure le grandi piogge riuscirono a levare. A guidare quel cingolato doveva essere un solo individuo, non colto e tuttavia amico di Aurelio, che ebbe ad aprirgli in quell’ora insolita senza sospetto. Gli offrì persino un caffè.
- E questo è certo?
- No, questo si suppone … ragionevolmente.
- Il cingolato è stato rinvenuto?
- Non se ne sa niente. Nessun mezzo che possa giustificare il tipo delle orme è stato rinvenuto. Si pensa ad un mezzo straniero. Dopo la morte della Mangoni, la polizia sta tentando connessioni con il mezzo che uccise la poliziotta. Ma senza risultato alcuno … almeno per quello che mi si dice. Io del capitano Micciché mi fido ciecamente. Perché mi dovrebbe imbrogliare?
- Siamo quindi di fronte ad un assassinio senza omicida?
- Sino a quando il capitano della finanza non ha creduto di essere l’inviato del Signore che in quattro e quattr’otto ti svela l’arcano.
- E questo non ti sfagiola, non foss’altro per questione di prestigio professionale.
- Me ne sbatto le palle del prestigio … è l’innocenza di Vitacchia che mi sta a cuore.
- Non è che mi hai convinto proprio tanto su questa conclamata innocenza …
- Non sono solo io ad esserne convinto … anche il capitano Micciché ne è sicuro .. nell’incontro di oggi mi ha svelato piccoli segreti che hanno fatto chiarezza anche a me … tanti lati oscuri mi si sono chiariti. Pensavo cose inesatte, facevo confusione … Micciché ha fatto luce … il verdetto è indubitabile: non colpevole.
- Andiamo, dunque, dal giudice e con l’autorevolezza che tutti ti riconoscono, con la testimonianza di Micciché e con i flash dei miei fotografi tiriamo fuori quest’angelo dalle patrie carceri.
- Fosse facile!
- Cosa lo impedisce?
- Il capitano della finanza Bonadies.
- E’ così potente?
- È impotente e per questo è imbattibile: l’imbecillità, la testardaggine, la ruggine fra i corpi militari dello stato, la voglia di carriera, il sentirsi infallibile è un intruglio che a noi semplici mortali suona idiozia, per i militari si chiama senso dell’onore.
- Protervi!
- Domani, anzi stanotte, tu scrivi un bell’articolo, lo pubblichi e vedrai che le acque si smuovono.
- E che scrivo?
- Scrivi che ti sei incontrato con Meluccio etc., che ti ha confidato i segreti più ghiotti sulla morte dell’ispettore della bankitalia, che li ha desunti dalle carte dell’ispettore e da quelli della polizia. Un granchio prende la Finanza: non sa leggere i bilanci delle società sotto verifica e vuole leggere nei misteri dei servizi segreti …
- Come? Come?
- Servizi segreti, sì: l’omicidio di Aurelio La Matina Calello è un omicidio commissionato all’estero, da uno stato estero ed eseguito dal servizio segreto di quello stato.
- Tu vuoi scherzare?
- No, no … scrivilo … scrivi che te l’ho detto io. Scrivi che sono pronto a riferire al ministro degli interni italiano … quello è un grassone ma è un cervellone … mi è amico … ha stima .. ed io di lui .. anche se è di destra, anzi è passato a destra; mi stava meglio quando scriveva a Lotta Continua … allora non aveva capito niente ma stava dalla parte giusta … ora capisce tutto, ma gli piace stare dalla parte sbagliata .. controcorrente: è nel suo stile (e forse anche nel mio).
- Tu mi mandi dritto, dritto in galera.
- Ti farebbe bene: così rinsavisci un po’
- Anche a te farebbe bene; pure tu hai bisogno di un po’ di saggezza.
- Spiacente, per limiti di età non sono più carcerabile.
- Eseguirò a puntino. Resto, però, sicuro del fatto che Vitacchia, stinco di santo non è. Amico e .. compare di Bastiano Saldì: mafia, droga, stiddara, stragi
- Contiguo? E chi non è contiguo di questi tempi? Io, tu, i reprobi ed i santi, i preti ed i malandrini, lo stato ed i magistrati, i militari ed i politici …
- Quante denunce per calunnia, oltraggio alle istituzioni, vilipendi ..debbo prenotarmi?
- Nessuna .. perché sai scrivere e queste cose le sai dire senza farti cogliere in fallo. Complimenti.
- … violazioni del segreto istruttorio, d’ufficio …
- quelle non le escludo … e ci metto anche violazione dei segreti di stato .. anzi di stati esteri … suona meglio.
- A la faccia?
- Non per nulla sei giornalista … devi rischiare ..
- E’ una vita che rischio. Il risultato? Capo cronaca di una periferica regione, di un giornale milanese che della Sicilia gliene frega un cazzo.
- Ma è il primo giornale d’Italia.
- Appunto.
- Là c’è un computer, c’è il modem .. datti da fare e subito. Dai la stura alla tua fantasia … usa il paravento: il noto scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti … scrivi sempre “da Giorgenti” … ci tengo … ognuno ha le sue fissazioni … la mia tutto sommato è veniale. Sì: il noto scrittore ci confida; sostiene; ci ha svelato; contesta; è sicuro … e via di questo passo. Puoi anche sostenere che il papa è stato sodomizzato da un asino in erezione … fa ancora effetto, sai.
- Vitacchia esce ed io entro, ho capito.
- Finalmente giustizia è fatta.
Roberto, sigaretta in bocca, si chinò sulla tastiera del computer e di getto scrisse i tre o quattro fogli dell’articolo. Inviò l’e-mail; si alzò, un gugno di saluto a Meluccio ed andò a buttarsi sul primo lettino che gli sembrò di potere usare. Quasi di colpo cominciò a russare. Meluccio non volle disturbarlo, spense le luci e cercò di addormentarsi anche lui. Non fu facile.
* * *
In prima battuta, la corrispondenza finì nel foglio regionale. In tarda mattinata, però, vi fu un’edizione straordinaria. L’articolo apparve in prima pagina con un titolo mirabolante, inusuale per un giornale tanto compassato come il Corriere della Sera: «Omicidio ex ispettore bankitalia – La GdiF di Agrigento depista – Certo lo zampino di un servizio segreto estero».
- Titoli così sono sospetti, disse Roberto.
- Articoli così sono pugni nello stomaco; bisogna saperli sferrare, ed il Corriere il mestieraccio suo lo sa fare, rimbeccò Meluccio.
Trillò il telefono. Segreterie particolari. Interrogatori. “Sì, lo scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti, in carne ed ossa”. “Attenda, Le passo il signor ministro degli interni”.
- Ah Melu’, che mi combini – e giù una risata chiassosa, veramente divertita.
- Se il ministro della polizia si disturba, l’avrò fatta veramente grossa.
- Guarda che sono stato io ad imporre l’edizione straordinaria al Corrierone; anche il titolo ho dettato. Come ex giornalista, sono licenze che mi posso permettere.
- Come ministro degli interni .. che come giornalista il Corrierone ti mandava a fare in culo.
- Come sei volgare?
- Mai quanto un ministro di mia conoscenza. Ma a che gioco stai giocando?
- Al tuo Melu’ … al tuo …
- Dannato di un uomo … il mio è solo voglia di rimettere in libertà un mio amico di Racalmuto, un tale di nome Vitaccchia. Ti dice qualcosa questo nome?
- Nulla di nulla ..
- Allora dimmi quale è il tuo gioco …
- Quello che tu hai fatto sbandierare a quel povero ragazzo …
- Chi?
- Il giornalista ..
- Ma quello ha cinquant’anni.
- Sempre ragazzo per noi Melu’ .. Non so se la storia dei servizi segreti tu la conosca davvero o è stata una tua stronzata. Credo che hai inventato .. non dal nulla, però .. avrai letto qualcosa nelle carte che ti ho detto di consegnarti. Tu non sai e parli .. io so e non posso parlare. Ci completiamo. Bella trinità, visto che entrambi ci serviamo del cinquantenne giornalista. Polizia, letteratura e giornalismo: giustizia sarà fatta. Speriamo, almeno. Approfondisci Melu’, approfondisci .. spero davvero in te.
Ed era la seconda volta che nel volgere di 24 ore due diversi esponenti della polizia di stato gli affidavano il sovrumano incarico di fare giustizia, con la forza della penna, con la magia della fantasia. Non c’era più religione.
Nella tarda mattinata del giorno dopo, quando Roberto si decise ad alzarsi, Meluccio si accinse a fare una scappatina a casa sua, ad Agrigento. Teneva abitazione avanti la curia vescovile. Occupava la magione che era stata dei Del Carretto. Le carte di Aurelio parlavano di un palazzetto del 1300. Era detto in un atto notarile esibito ai Martino nel 1400, in un processo d’investitura. La contea della sciasciana Racalmuto nasce da un baratto fra due fratelli, Gerardo e Matteo del Carretto: a Matteo finisce “lu cannuni” ma non solo quello: questo sedicente nobile genovese in effetti si insedia a Giorgenti, vicino al vescovo naturalmente, «in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines.» I grandi predoni di Agrigento stavano tutti lì. “Ed ora vi sto io” si sussurrò tra il compiaciuto e lo stomacato Meluccio. Veramente, stava al solo secondo piano: stanzoni enormi, oscenità pittoriche del Sozzi consunte, gelo d’inverno … ma d’estate c’era gradevolissima frescura, meglio qui che a San Leone. Solo che da qualche mese si era fissato per Bovo di Racalmuto: tutto l’opposto. Sperava di farsi vendere quell’anodina casetta dell’avvelenato Aurelio. Gli eredi, prima o poi, gliel’avrebbero ceduta. Non era questione di soldi. Meluccio pensò al suo antenato vescovo e botanico: forse per questo propendeva per gli orti di Bovo: Veramente, lì orti non ce n’erano: ma un progetto bolliva in pentola. Per un intuito di Aurelio si era costituita a Racalmuto una strana associazione che si denominava “IDESAM” come dire “istituto dissalatori acqua del mare”. Dal vicino Mar Mediterraneo si doveva portare l’acqua dissalata. Scavalcando politici e faccendieri, la cosa stava andando avanti. Prodi in persona se ne era interessato. I fondi comunitari stavano per arrivare. Un invaso agli sprofondi di Sacchitello era più che un progetto. Da lì acqua dappertutto, anche a Bovo, per orti, agricoltura intensiva, primaticci. Meluccio vi stava dando l’anima perché il sogno di un mare d’acqua sulla terra di Sicilia si avverasse. Ostacolavano, e di brutto, gli acquaroli di Canicattì, non mafiosi si diceva eppure molto somiglianti, con il Lasagne come loro occulto protettore sotto sembianze di verde irriducibile. “Il dissalatore inquina l’aria. Le condutture distruggono l’ambiente.” il suo slogan ad effetto. Un mare di voti lo subissava ad ogni elezione. Frotte di autobotti pompavano acqua dallo Zaccanello di Racalmuto e la portavano nei vigneti di Canicattì; si deprimeva sempre più il livello di quella falda acquifera; c’erano voluti diversi milioni d’anni per formarsi, dal pleistocene; in dieci anni, dicevano pozzaroli incolti ma esperti, il livello era sceso di sei metri. Prossimo il prosciugamento totale; incombente il fenomeno dello zubbio: volte in gesso che si erodono per reazioni chimiche e sprofondano; addio scorrimento veloce, addio terre ubertose della Menta e dintorni; povera incolumità pubblica.
A Meluccio venne fatto di pensare all’improvviso: va a finire che cerchiamo chissà dove l’omicida di Aurelio ed invece eccolo là a Canicattì, in seno agli autobottisti.
A Meluccio la strana mania delle cose della terra veniva – o così amava pensare – da un antenato vescovo e botanico. Si chiamava Antonino Cavalieri. E’ rimasto celebre per una sua originale richiesta al re borbone: «S.R.M. – Sire – Antonino Cavalieri – scrisse il 14 gennaio 1789 – vescovo e cittadino di Girgenti, umilissimo vassallo di vostra reale maestà, umiliato al regio trono le rappresenta, come per doppio titolo della nascita da lui sortita in quella città, e del supremo grado ecclesiastico, al quale per vostra real clemenza è stato inalzato, sentendosi in obbligo di promuovere con tutte le sue forze i vantaggi spirituali, e temporali di quella popolazione, à considerato, che tra le altre cose manca ivi il comodo dell’erbe medicinali, perché non essendovi colà mai stato orto botanico, né persone esperte nella cognizione de’ semplici manca agli ammalati il soccorso di taj rimedj …» Dove impiantare quell’orto botonaco? «Esiste in distanza di un miglio in circa dalle mura di quella città un conventino già de’ PP. Riformati .. a cui è annessa una piccola selva ...» Il conventino era stato soppresso tre anni prima. Espropriamolo - chiede il vescovo - «sarebbe questo un sito opportuno alla formazione dell’orto botanico, dopo che ivi si ridurrà un'altra volta la piccola vena dell’acqua sorgente ….. » Le idee di Aurelio avevano avuto un precursore, nientemeno un vescovo ed un vescovo della famiglia di Meluccio. Certo, allora era il Settecento, secolo dei lumi anche in Sicilia, anche per i vescovi giurgintani – ma della prosapia dei Cavalieri – mentre, ora nel duemila i vescovi giorgintani si preoccupano solo degli espropri, di salvaguardare gli estirpatori del verde, gli uomini del cemento … in cambio di chiesuole antistanti a templi greci. Meluccio se ne adontava e s’imponeva il compito di saldare l’antenato vescovo illuminista ed il tetro Aurelio.
Decise di far visita al suo presule del Settecento: si recò in cattedrale e portò il solito garofano rosso che depose sul sacello: dall’alto, dal medaglione marmoreo lo mirava con sorriso spento; rubizzo, testa incassata nel tronco, privo quasi di collo, ma ondulata l’ampia gorgia, dovette somigliare tanto a quei canonici descritti dal Brydone; per tanti versi dovette essere simile al vescovo di quel viaggio dell’impertinente inglese. “molto rispettato”, “nel fare a botta e risposta … è maestro”, “uomo affabilissimo e gentile”, “appartiene ad una delle prime famiglie dell’isola”, “è un omettino onesto e una persona piacevole”, “è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia di cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto”. Ma c’è da giurare che l’antenato fosse proprio quel canonico che dopo il pranzo fu preso da «una violenta crisi di stomaco, e mentre vomitava si volse a me con una faccia tutta pentita, e scuotendo il capo gemette: “Ah! Signor capitano, sapevo che Ponzio era un grande traditore” … mi ha detto che basterebbe che stessimo un po’ con loro per convincerci che sono gli uomini più felici della terra. “Abbiamo escluso dal nostro sistema”, mi disse, “tutto quello che è triste o malinconico, e siamo persuasi che di tutte le vie dell’universo quella che mena al cielo deve essere la più bella e la meno tetra. Se non è così”. Aggiunse, “Dio abbia misericordia di noi, perché temo che in cielo non ci arriveremo mai”.»
- Ah! zzi parrì nni diciva di minchiati chissu, picchì ingrisi cridiva di fari lu spertu ed era babbu … minchiati, zzi parrì, minchiati … Ah! ccà nun si po’ diri? … semmu in chiesa! Ma chista è la catridali di San Giurlannu, è nurmannu puru iddu .. a nnantri nun nni po’ capiri.
Meluccio scese in via Atenea, si recò dall’avvocato Pujades, amico suo d’infanzia.
- Carme’ quel mandato di Vitacchia te lo sei fatto dire?
- Sicuro; appena mi hai telefonato sono corso alla Petrusa e subito il ragazzo si è affidato a me.
- Quando esce?
- Non lo so. Ho parlato con il procuratore capo e niente; la veneta non l’ho vista. Come al solito è scappata per casa sua, dal suo amoroso. Bonadies è schifiltoso … ma ha trovato una scusa per non ricevermi. Ho pronta l’istanza al giudice per la libertà provvisoria. Ci mancava però che tu ti mettessi a fare lo stronzo con quella intervista dei miei coglioni … e temo che dopo averlo fatto rinchiudere gli stia serrando le porte per non farlo più uscire ..
- Minchia!
- Proprio così, stiamo tutti finendo a minchia. Già, perché ti stanno preparando un bel papiello con dentro una sequela di reati da accumularci sopra una ventina d’anni: violazioni dei segreti di stato, di quelli d’ufficio, di quelli istruttori, oltraggio alle forze pubbliche, calunnia etc. etc.
- E come lo sai?
- Vengo dal tribunale; sentivo strillare Bonadies nella stanza della veneta. Mi ha visto il procuratore, mi ha chiamato ed in gran segreto mi ha detto che non può impedire alla veneta di inviare una comunicazione giudiziaria a te ed a quella povera vittima del tuo giornalista a comando.
- Mi porterai le arance.
- Sei troppo importante per farti il piacere delle manette, diventeresti un martire; troppa pubblicità per te e troppi guai per il procuratore … che di guai ad Agrigento ce ne ha da vendere. Gli mancava pure quel Bonadies.
- Che ha Bonadies?
- Bonadies è un ufficiale della finanza onesto; fanatico, sì … ma integerrimo. Si era messo in testa che tutti sono uguali dinanzi alla legge, anche quella fiscale che sappiamo essere un colabrodo. Manette agli evasori? A tutti sostiene Bonadies. Anche ad un vescovo che si era dato all’usura. Voleva addirittura metterlo dentro. Questo no, non c’è riuscito … un rinvio a giudizio, però, glielo procurò … ed un invio ad Agrigento se lo procurò, alla città delle tre p: punizione, promozione, pensionamento. Guarda che per tanti versi quel capitano che tu tanto odii, mi è simpatico, per me è una vittima del dovere ..
- che fa tante vittime della giustizia. Il fanatismo dei militari … te lo raccomando: buio mentale e crudeltà di cuore.
- Ricordatene nel prossimo romanzo.
Il telefonino di Meluccio trilla; Roberto Caballero di là si agita, inveisce, protesta.
- ho capito, so, il mio avvocato mi sta già informando … lo consiglio pure a te … è gratis, cioè a mie spese.
- Guarda che non posso difendere due coimputati … interruppe Pujades.
- Non ne hai bisogno. Meglio. Scattava già un’incompatibilità. L’Italia è la terra delle incompatibilità … e tutti stanno insieme … il diritto naviga a destra, la vita a sinistra. … mi dici che il tuo giornale sta inviando i pezzi da novanta dell’avvocatura milanese … sai che ci fanno ad Agrigento? Un piffero … ad ogni modo contento tu, contenti tutti. ….. Pujades mi dice che i fastidi non saranno per noi … è il povero Vitacchia che patirà l’anima dei guai suoi … al solito, giustizia all’italiana maniera che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti … pare che stavolta i potenti siamo noi … io perché scrivo gialli di successo e tu perché c’hai il corrierone dalla tua parte. Sì, ci vediamo presto … arrivederci.
L’avvocato Pujades accentuò i suoi tic nervosi. Si fece rilasciare un mandato ampio e pieno. Si accomiatò di mala grazia dallo scrittore amico e si precipitò in tribunale. Meluccio tornò a dimensioni normali, si sentì uomo ormai vecchio come capita a tutti i settantenni. Non era paura la sua, solo angoscia, avvilimento, avversione per tutto quanto sa di stato, di potere, di procure, di capitani e di avvocati, anche. Li avvertì come nemici ed ebbe in uggia anche la vita. A passi lenti, bolso e vecchio si incamminò per le scalette che conducevano su, al seminario. La sera agrigentina sapeva di morte, quasi un preludio funebre. L’uomo, questa misera cosa con empiti di onnipotenza subito in cenere. A Meluccio cessò la voglia di lotta … rintanarsi nell’ospizio dei del Carretto ora era l’unico suo desiderio, emergeva l’infanzia, quando si sentiva protetto dal corpo della madre, sotto al rifugio, per ripararsi dalle bombe che dal cielo piovevano nella guerra del Quaranta. “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, la polvere del mercoledì delle ceneri quale saggissimo simbolo! - in questo era profondamente cattolico, cupo, senza speranza, dannato all’inferno. Non per nulla amava proclamarsi: cattolico non credente.
CAPITOLO QUINTO
Incupito, Meluccio si decise di far visita a Vitacchia. Aveva rinviato troppo ed un po’ gli sembrava di essere vile. Trovò il giovane spoglio della sua abitale iattanza. Due o tre convenevoli e lagrimoni solcarono il viso espanso di Viacchia.
- Ti trattano male? - interloquì Meluccio.
- Nonzi duttu’. Stavanu cominciando .. ma subito arrivò la raccumannazioni di Bastianu e tutti addivintarunu umili e mansueti, persino ruffiani ed amici. Anche gli ‘nfami, i secondini. Certo debbo chiamarli «comanda’», ma così per educazione. Bastianu Saldì è proprio potente.
- Tu gli amici potenti te li sai scegliere.
- Vossia e Bastianu siti amici mia.
- E tutti e due ti abbiamo fregato.
- Nun ci criu.
- E non crederci, non crederci. Io ti voglio bene. Mi sento in colpa con te. Però tu sei uno scervellato. Che ti metti a parlare con Saldì al telefonino, usando il suo numero segretissimo?
- L’avevo fatto tante volte e nessuno niente mi aveva mai detto.
- Fino a quando a controllarti non è intervenuto il capitano Bonadies.
- Io da ccà quando esco?
- Prima possibile, Vita’ … hai visto che ho dato incarico a Pujades … il principe del foro di Agrigento …
- Una volta era Cavallaro … il mio grande paesano ..
- A Racalmuto ne avete avute tante di teste fini … ma di cose buone ne avete fatte sempre poche.
- Iu mali a nuddu nn’haiu fattu.
- Tu non hai fatto male a nessuno … io neppure, e tutti e due siamo qui alla Petrusa.
- Ma iu dintra e vossia fora.
- E la differenza non è poca … Io il carcere comincio ad avercelo dentro, ed è peggio. Una persona intelligente quando comincia a non capire finisce in un carcere dell’anima da cui nessun giudice della libertà è in grado di farti uscire.
- Capisco.
- Su col morale. Dai nostri due diversi carceri dobbiamo uscire al più presto, Vita’.
- Sissi.
Torno a Bovo Meluccio e subito si ingolfò nello studio delle carte. Noiosissime quelle della Mangoni. Impenetrabili quelle di aurelio. A dire il vero, l’interesse per gli appunti di Aurelio veniva anche dal gioco di rintracciare nel computer i file cancellati. Il “temp” non veniva pulito da Aurelio, che per di più usava trascrivere mille volte le poche briciole di un velleitario memoriale autobiografico che non finì mai: il ritrovamento di appunti scritti e cancellati consentiva sorprese che una qualche intima soddisfazione la destavano. Come in un giallo: vari indizi che potevano portare alla scoperta dell’assassino. Del resto, per Aurelio un assassino c’era stato davvero. Ora Bonadies diceva di averlo scovato. Meluccio era convintissimo del contrario. Scoppiava un contrasto fra due intelligenze: quella poliziesca e caina e quella libresca. Quale avrebbe vinto? Meluccio tornava ad avere fiducia in se stesso.
Non v’era ombra di dubbio: bisognava indagare tra le ispezioni di Aurelio per trovare le orme del futuro assassino. E due erano le piste: quella ovvia della mafia che Mangoni prima ed ora, con sicumera, Bonadies ritenevano foriera della morte dell’ispettore e quella tenebrosa ed inafferrabile che Meluccio e, a ben vedere, il ministro dall’epa incommensurabile, pensavano doversi scandagliare.
Di ispezioni pericolose, Aurelio ne aveva fatte non molte ma sufficienti a procurargli l’esecuzione o da un versante o dall’altro. Le prime erano incolori, ma qualche sintomo e qualche preoccupazione vi si annidava. Guardiamo, ad esempio, la prima di una triade di verifiche fatte a strane banche ebree di Milano. Aurelio vi aveva notato strani giri di assegni. Aveva contestasto: «l’azienda consente il pagamento, per contanti, di assegni circolari di altrui emissione». Assegni di cui al momento dell’ispezione si non sapeva o non si voleva svelare il beneficiario. Aurelio citava il caso «dei valori cambiati a certo sig. Sandro Vercelli le cui firme sulle diverse distinte di presentazione risultano palesemente difformi.»
Meluccio aveva cercato, e trovato dopo non poca fatica tra carte impolverate, quel vecchio “rapporto ispettivo”. In moduli ristampati nell’aprile del 1971. Con foderine color cenere, rilegatura con nastro marrone, incuriosì molto Meluccio l’antico elaborato ispettivo della “Banca d’Italia – Ispettorato Vigilanza sulle Aziende di Credito”. Si parlava della “visita effettuata dal 5.10.1971 al 28.1.1972” all’azienda di credito Pincherle-Levi & CC. – Spa – Milano”. Quella banca non esiste più: assorbita da una popolare lodigiana, che da piccola banchetta, per sostegno della banca centrale, oggi domina il mercato italiano e si è espansa anche tra le latebre misteriose della finanza siciliana – quanto pulita, non si sa. Forse nei 35 fogli A4 il mistero della morte di Aurelio.
La lettura deluse molto il settantenne scrittore. Ingenuo il dire, inelegante l’accusa, insignificante il contenuto. Si vedeva lontano un miglio che Aurelio non sapeva fare altro ancora che sciommiottare il burocratese della vigilanza bancaria. Il “pro-memoria per il signor governatore” era particolarmente striminzito e disadorno. L’aristocratico Carli l’avrà accantonato con un gesto di annoiato sprezzo.
Eppure la banchetta era peculiare: posseduta da una famiglia ebraico-egiziana, aveva potuto combinare circuiti finanziari i più conflittuali dell’epoca. La pingue finanza araba, quella degli emirati, la finanza che si denominava dal dollaro e dal petrolio messi assieme, i petro-dollari, e l’acume bancario ebreo, senza patria, schivo persino, tutt’altro che sionista, si coniugavano quasi in un sottoscala di via Verdi a Milano. Le armi acquistate dall’Egitto, prima durante e dopo la guerra dei sei giorni, si pagavano tramite lo sportello giudaico di Milano. Quei micro banchieri di padre ebreo e di madre egiziana consentivano una saldatura finanziaria, diversamente impossibile. Il gioco degli assegni circolari - una concessione tutta eccezionale che la Banca d’Italia aveva dato a ristoro dei danni della persecuzione razziale del fascismo – permetteva traslazioni in dollari tra aree addirittura in guerra. Aurelio confessa nelle sue manie autobiografiche di non averci allora capito nulla. Il gioco degli assegni manco lui l’aveva scoperto. Era stato un suo collaboratore napoletano, e lui, da siciliano, l’aveva in gran sospetto e in gran dispitto.
Il rilievo passò del tutto inosservato, l’ispezione fu archiviata senza lasciare traccia alcuna. C’era dunque da perdere tempo se si avevano uzzoli polizieschi e si voleva là rinvenire chissà quale arcano che portasse all’avvelenamento del povero ispettore.
Grande importanza, invece, annetteva Aurelia a questa esperienza milanese. Il suo primo incontro col mondo ebraico fu per lui un grosso flop. Non ne aveva capito molto, di quell’intrecciarsi di conti correnti passivi, di afflussi di mezzi illiquidi, di assegni circolari trattivi sopra e di ritorno degli assegni a chiudere un circuito apparentemente inutile. Molto proficuo, però per la banca. Gli ebrei-eziziani sapevano ricavarne un conto economico pingue che il povero Aurelio aveva descritto al suo governatore come “soddisfacente” per l’equilibrio che si riusciva a conseguire tra costi anche elevati nella raccolta e ricavi più che compensativi rivenienti dai servizi e soprattutto dalle provvigioni e commissioni. Anzitempo, quel malconcio sportello del sottoscala prefigurava la banca ideale per la Vigilanza di Roma: scarsa raccolta, impieghi accorti e tantissima intermediazione finanziaria di natura non creditizia.
Restava, però, una lezione illuminante per Aurelio. Dopo si ricorderà del tipo particolare del servizio che gli ebrei denominavano “cambio assegni”. Non era il solito gioco di assegni circolari emessi dopo accrediti di assegni bancari post-datati. Non era ciò che in gergo si definiva pudicamente “autofinanziamento delle imprese”. Era compiacenza, cointeressenza, compartecipazione agli utili dell’istituto bancario. Erano tempi di separatezza tra banca ed impresa, ed i banchieri aggiravano l’ostacolo con i giochi del giro di assegni circolari che permettevano aumenti di capitale sociale delle industrie, anticipazioni per acquisto delle armi da parte di intermediari collusi con entrambi gli stati in armi - egiziani o ebrei che fossero - primi esperimenti del riciclaggio in grande e con circolazione extra nazionale (extra corporea, la chiamava un grande giornalista) del denaro sporco.
Fu Sarcinelli – bisogna dirlo – che per primo comprese il forte elemento inquinante del “cambio assegni”. Decise di stroncarlo ma a modo suo. Sarcinelli fu il tecnocrate della Banca d’Italia sicuro che godesse di una extraterritorialità giuridica. Considerava giuristi, diritto e giudici l’orgia del formalismo sterile. Vi lasciò le penne come tutti sanno. Pochi, però, sono quelli che si sono resi conto che l’incidente penale del tecnico di Via Nazionale è più legato alla stroncatura del giro di assegni (a vuoto, per traslazione di denaro sporco, e via di questo passo) che alla vicenda Sindona (come pretendeva il giudice Viola) o alle storie del caso Rovelli (su cui però accentrò la sua devastante attenzione il giudice Alibrandi). Con circolari e numeri unici, Sarcinelli tentò di impedire alle banche la copertura ai falsi movimenti monetari. Non è che il gioco fosse ancora di precipua importanza. Marpioni milanesi avevano raffinato il gioco; si erano dati ai time-deposit, a rimbalzi con l’estero, specie con la Svizzera, per impedire riscontri impertinenti. Tuttavia, il disposto di Maria Sarcinelli andava a colpire le minuscole banche, le cooperative e quelle importanti – quasi tutte – erano democristiane, si legavano alla Federconsorzi, godevano della protezione dei potenti dell’epoca, dei cavalli di razza D.C. come allora si diceva. La supponenza di Sarcinelli ebbe il tonfo che ebbe. Aurelio si scontrò e duramente con Sarcinelli. Veniva dall’ispezione di una cassa di risparmio romagnola. Il piccolo ispettore siciliano si era imbattuto con il potente ICCRI, quello degli assegni speciali con i quali si erano profusi i fondi neri delle casse di risparmio milanesi e nazionali. Non aveva avuto remora a stigmatizzare compensazioni di partite tra la periferica cassa ed il proprio istitituto centrale. Si era messo in testa di soppiantare il fisco. Aveva censurato comportamente fiscali non ortodossi. Aveva avuta a ridire sulla politica dei tassi passivi ed anche su quelli attivi. Aveva ficcato il naso nei rapporti di lavoro. Non gli erano piaciuti incarichi remunerativi a figli di amministratori. Criticò la politica di bilancio. Tutto questò indignò Sarcinelli. Definì ogni cosa “bolle di sapone”. Che importanza ciò poteva avere se «l’azienda veniva definita patrimonialmente robusuta», se «ottima era la situazione di redditività». Il tecnico gongolava, l’ispettore – ormai ideologicamente inquinato – contestò. Fu arrogante. «Se lei considera bolle di sapone, il peculato, il peculato semplice, il peculato mediante distrazione … vuol dire che abbiamo visioni diverse. E siccome faccio parte della chiesa che invoca il centralismo democratico, le consento come mio capo di avere un’opinione diversa dalla mia.» Si adirò davvero Sarcinelli. Apostrofò in malo modo Aurelio, lo definì sarcasticamente: Pangloss. E soggiunse: «Sa quanti sono i magistrati? De mila? Tre mila? Ebbene io non consentirò a costoro di disintegrare le banche. Se le banche vanno bene è mio dovere difenderle, se vanno male, è mio dovere correggerle.» Qualche mese dopo l’uomo che si credeva al di sopra dei giudici finì malinconicamente a Regina Caeli … per pochi giorni s’intende.
Qui Meluccio cominciò a distrarsi per noia. Erano faccende tecniche in cui non riusciva a districarsi. Aurelio vi annetteva molta importanza nei suoi spezzoni autobiografici. Emergeva solo che un giovanissimo ispettore, preso dalle zolfare o dalla terra di Racalmuto, veniva catapultato nei gangli dell’alta finanza senza che gli si fornissero competenze professionali. La Banca d’Italia, eccelsa negli studi economici, risultava molto fragile nei campi della ragioneria e soprattutto della più avveduta tecnica bancaria. Era il colmo. Aurelio dovette farsi le ossa da sé, da autodidatta, in un contesto competitivo dovendo fronteggiare colleghi incolti quanto lui ma decisi a far carriera. Si bleffava, si strombazzavano risultati ispettivi eclatanti. I capi ci credevano o facevano finta. A loro importava solo la statistica: il 10, il 20 per cento in più dell’anno precedente, in relazione al numero assoluto, in relazione alla massa fiduciaria ed altre corbellerie del genere che acquietavano lo stato maggiore, intento ad altre preoccupazioni, di sicuro più nobili. Il nuovo ispettore capo lanciava i giovani: costoro s’industriavano a far fare bella figura alla Vigilanza, sia come sia. I vecchi erano in difficoltà: erano disposti anche loro a barare, ma mancavano di elasticità mentale, oltre naturalmente ad essere privi di ogni idoneità professionale. Il mondo della finanza correva a mille all’ora in Italia – a Milano a velocità supersonica; la vigilanza arrancava con frustri rilievari in cui emergeva la drammaticità di “conti d’ordine” in disordine, come Aurelio andava celiando.
Furono approcci al mondo delle banche di un ingenuo dipendente venuto dalla Sicilia, da famiglia non adusa alle tecniche dei movimenti dei capitali, appartenente ad un mondo contadino e zolfataro ove il denaro ha senso quale rado elemento di scambio, non certo di ricchezza finanziaria e speculativa. Comprensibilissimo lo smarrimento di Aurelio. Tentò una mimesi professionale. Impacciato nel parlare, evitava per quanto possibile il dialogo. Diceva che nella banca v’era un dio ascoso – anzi, riferendosi a Mammona, un demone ascoso. Bisognava far silenzio per scoprirne gli intimi afflati, sicuramente pestiferi. Del resto, il mondo che indagava era quello dei numeri. Occorreva saperli leggere.
Fu in un’altra banca d’ebrei milanesi che acuì il suo intelletto numerico. Vi era una doppia contabilità. Capì davvero cosa significasse. Vì indagò dentro con acume. Fece un solo rilievo: amplissimo e consendatamante tecnico. Fece sensazione. Divenne un mito tra i suoi colleghi giovani che annaspavano anche loro in un mondo che non gli apparteneva. Assurse a maestro e costrinse quelli della Vigilanza a leggere Onida, ad infarinarsi di scienze aliene quali l’economia aziendale, quale la ragioneria. I superiori furono costretti ad apprezzarlo. E lo sfruttarono in ispezioni cattive ed astiose. Forse lì lo condannarono a morte.
Aurelio, contadino mancato, ispettore di vigilanza bancaria inventato, subì la sua metamorfosi politica durante quell’ispezione milanese che lo portò ad indagare sulla contabilità nera delle banche. A quell’epoca tutte le banche avevano i loro conti neri; si chiamavano sussidiari del conto economico. Lì facevano affluire proventi occulti e da lì prelevavano emolumenti riservatissimi. Non è che non ci fosse contabilità: le banche non posono permettersi di omettere minuziose evidenze di ogni loro fatto di gestione. Se danno una regalia, la devono contabilizzare. L’occultamento consiste nel tenere conti che apparentemente significano una cosa, in realtà seguono minuziosamente ma cripticamente gestioni cosiddette parallele. Fu quella l’epoca in cui si dava ai depositanti più cospicui il “sottobanco”. Enti statali, enti pubblici, grandi imprese dirottavano cospicue giacenze liquide presso gli istituti di credito a tassi irrisori. “Sottobanco” l’azienda bancaria erogava ai politici, agli alti dirigenti, agli intermediari integrazioni dei tassi prelevandole dai conti sussidiari del conto economico. La Banca d'Italia non solo sapeva ma voleva sapere con informative riservate: I giovani ispettori del momento – ed Aurelio in testa – si ribellarono. Dissero che non era conforme alla legge bancaria che invocava per le aziende di credito una “funzione di pubblico interesse”. Quella volta vinsero scavalcando persino gli umori del governatore dell’epoca. Ma era effimero moralismo.
Alla Banca d’Italia cambiava la filosofia del credito: non si intendeva intervenire nella gestione del credito. Carli era perentorio: niente controllo qualitativo del credito. Si andava verso una visione aziendalistica: bastava che una banca fosse patrimonialmente sana, reddititivamente valida, con equilibri finanziari per doverla non solo rispettare, persino difenderla dal fisco e dalla magistratura. Non si può dire che Sarcinelli fosse in disaccordo. Le “funzioni di pubblico interesse” – locuzione derisa – andassero pure al diavolo: la vigilanza non ne doveva tenere conto. Gli ispettori si astenessero da giudizi di valore che sapevano di politica o peggio di moralismo. Aurelio dissentiva.
La sua folgorazione avvenne appunto in occasione della seconda ispezione alla banchetta ebraica milanese. Scoprendo il sussidiario del conto economico, Aurelio s’imbattè in una strana operazione. Un esito di poche migliaia di lire per l’acquisto dei diritti di opzione di una immobiliare entrava ed usciva dal conto economico in modo davvero strano. Occorse del tempo per capire che in un primo momento l’esigua cifra veniva iscritta in bilancio quale spesa a copertura dell’esito di cassa; subito dopo si iscriveva all’attivo una partecipazione di qualche milione che trovava riscontro a rendite come sopravvenienza attiva.
Meluccio mandò al diavolo Aurelio: che cosa volesse dire con quelle annotazioni nel suo memoriale non si riusciva davvero a comprendere. Lo scrittore, d’altra parte, era tutto all’infuori di un ragioniere. Per fortuna Aurelio si mise a raccontare. Un muratore negli anni Sessanta, scarpe grosse e cervello fino, capì che le isole cessavano di essere luoghi di pena e si proiettavano come luogi turistici d’alto bordo. Il nostro imprenditore si accaparrò mezza isola d’Elba. Ebbe naturalmente bisogno di assistenza finanziaria: la piccola banca milanese gliel’accordò di buon grado. Gli fece costituire un’azionaria a base familiare: marito e moglie, cioè. Accordò un’anticipazione su titoli. Vennero pignorate, in altri termini, le azioni in cambio di una decina di milioni. Vai a sapere che vi si annidava. Vai a vedere che vi si annidava l’insidia dell’art. 2352 del codice civile. Occorreva stilare una “convenzione contraria” per mantenere il diritto di voto in capo ai proprietari. Ma al muri-fabbro milanese chi poteva salvaguardarlo in un campo giuridico così sofisticato? Alla prima chiusura d’esercizio, il bilancio fu tutto fatto dalla banca: perdita totale del capitale, azzeramento e ricostituzione entro i minimi legali. Si chiese apporto di denaro fresco all’imprenditore-speculatore dell’isola d’Elba. Questi, ovvio, era in difetto di liquidità. (Meluccio sìincantò alquanto di fronte al linguaggio tecnico di Aurelio). La banca fornì altri fondi, questa volta con un prestito chirografario. Forse scattava la fattispecie penale di cui all’art. 2358 codice civile in combinato disposto con l’art. 2630 codice civile. Era, però, epoca in cui in Italia il diritto penale bancario era tabù per i magistrati: segreti d’ufficio, segreti bancari e soprattutto incompetenza avevano creato una zona franca nello specifico settore penale. Libertà di reato, dunque. Alla Banca d’Italia si ritenevano quelle infrazioni estranee al rispetto della legge cui doveva presiedere: non si trattava di “legge bancaria”. Guai all’incauto ispettore che avesse osato addentrarcisi. Neppure Aurelio osò, ma dopo ne ebbe rimorso. In effetti mancava di cultura giuridica specifica e la Banca d’Italia si guardava bene dall’addestrare in tal senso i suoi ispettori di vigilanza. Altre le incombenze, altre le culture.
Il giochetto dell’azzeramento del capitale per effetto delle spese eccedenti i ricavi, cosa fisiologica in un’impresa in fase di avviamento, si ripetè per due o tre esercizi consecutivi. Il debito bancario aumentava a dismisura. Alla fine venne detto che non si poteva più aumentare il rischio stante il divieto della Banca d’Italia in ordine ai fidi eccedenti. L’imprenditore buttò la spugna. La banca fece valutare al borsino di Milano i diritti di opzione. Se li comprò. Mezza isola d’Elba entrò nel patrimonio della banca, o meglio dei proprietari della banca. A carico del conto economico ufficiale andò a finire il credito sotto veste di “sofferenza” ammortizzata. Si iscrisse una posta evanescente all’attivo come partecipazione immobiliare. Il costo dei diritti di opzione sconfinò nel “sussidiario” del conto economico. La ripulitura finale passò attraverso gli storni di cui si è detto. Un capolavoro di ingegneria contabile, insomma.
Comprensibili le reazioni del povero muratore milanese: istanze al giudice civile, denunce alla procura. Niente di niente. Lettere e proteste ai giornali, alle autorità, alla Vigilanza: niente di niente.
Esasperato, maniaco, grafomane, il malcapitato dirottò per il Quirinale e l’inondò di ricorsi impropri, di rimostranze e poi di gravi sospetti, di insinuazioni irriverenti, di vilipendi, di improperi, di calunnie, di inammissibili accuse. La bonomia partenopea dell’inquilino dell’epoca è cosa notoria. Educate risposte all’inizio, inviti alla moderazione in seguito, quindi richieste ufficiali di chiarimenti, intese telefoniche, comprensione verso i ricchi e ossequiosi ebrei meneghini. Interessamento del CSM. L’inghippo finì al giudice più giovane e più brillante. Era bello, facondo, ricevuti dai salotti bene di Milano. Anche la grande scrittrice lo teneva in considerazione. Subirà quel giudice dalla scrittrice la più sferzante invettiva della storia giudiziaria italiana: «giustizia all’italiana maniera, che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti». Ma tutto con bonomia, quasi con ammiccamenti. Il giudice finirà, poveraccio, crivellato dalle lupare della ‘ndrangheta.
Questo, però, molto dopo. In quel tempo, rasserenò il Quirinale: si trattava di uno speculatore edilizio andato a male. Lo si poteva considerare alienato di mente. Emise il provvedimento cautelare gradito alle alte sfere: il defraudato dell’isola d’Elba finì internato in un manicomio.
Aurelio ne fu scosso: non fu capace però di ristabilire un briciolo di giustizia. Scrisse: «appare opportuno adottare d’urgenza provvedimenti cautelativi». Furono parole buttate al vento.
Meluccio si chiese come mai faccende del genere siano sempre finite sotto totale silenzio: a motivo della complessità ed inestricabilità tecnica si rispose. Non ne era del tutto convinto. Il potere sa essere potente, i miseri sono troppo soli per avere giustizia. Finiscono persino alla gogna. Il muratore di Milano tentò la speculazione dell’isola d’Elba. Quasi vi riusciva. Altri più astuti, più integrati con coloro che comandano ebbero la meglio. Così vanno le cose di questo mondo. Il piccolo racalmutese poté solo capire. Gli venne consentito. Era già molto.
La donna del Mossad
* * *
Si attaccò al telefono con la furia di un demone imbufalito. Chiamò Palermo, la redazione del Corriere. Sì, voleva Roberto Caballero.
- Robe’ lascia stare i convenevoli … vieni subito qui a Racalmuto … sì a Bovo, in casa di Aurelio La Matina … buon’anima…. Ti passo uno scoop che ti farà rimbalzare nelle prime pagine di tutta la carta stampata ed in quella imminchionita dei mezzi-busti televisivi … Sì, si tratta dell’omicidio dell’ispettore bankitalia La Matina Calello … notizie in esclusiva .. svelate da Meluccio Cavalieri di Giorgenti … l’ineguagliabile scrittore dei gialli … straingurgitati dagli imbecilli del momento … e sono la quasi totalità della razza italica … sì specie se dipinta di azzurro … Si sta mandando all’ergastolo un innocente e Meluccio Cavalieri non vuole … posso consentirmi il divieto della giustizia cieca … ingiustissima? … Sì. sono incazzato, incazzato nero … vieni e ne parliamo.
Roberto Caballero, giornalista cinquantenne, racalmutese, ancora alla cronaca regionale, si era attirata la simpatia di Cavalieri senza merito alcuno, per un empito umano dell’affermato scrittore, segno di una pietas che non sai mai perché finisce per far capolino nei cuori più induriti .. e quello di Meluccio era molto arido … non duro ma impermeabile ... o così pensava lui..
Giunse a notte fonda, strombazzando, come a svegliarlo. “Sono sveglio … sta’ calmo che arrivo”. In vestaglia aprì il portoncino metallico, accese la luce esterna. Roberto si precipitò dentro, sciatto come sempre, barba lunga jeans vecchi e malandati, niente concessione all’andazzo di portare falsi jeans provocatoriamente laceri: quelli di Roberto erano semplicemente indecenti. Apparteneva ad una cospicua famiglia racalmutese, notai sin dal Settecento, quando erano piombati predoni e saccenti da chissà dove; Aurelio, ricercatore imbattibile della locale microstoria, diceva da Assoro. Al Circolo Unione si spettegolava che i Caballero stessero sempre sopra uno scalino … qualche volta scendevano, quando avevano bisogno … diventavano umili, sussiegosi, supplici … poi finito lo stato di necessità, eccoli subito salire su due scalini, più in alto, più ingrati, altezzosi in odiosa maniera. Roberto, però si distingueva … intelligentissimo, stravagante, caustico di parola e di penna, aveva preso dalla mamma, non racalmutese, finissima donna che suo padre aveva fatto morire di crepacuore e di stenti, intento a ficcarsi nei talami altrui. Pare che vi riuscisse. La Sicilia cambiava: essere cornuti cominciava a divenire un fregio nobiliare, come i nobili di un tempo, solo che ora anche la plebe si nobilitava.
Ebbe tempo di mirare lo spettacolo del cielo stellato, Meluccio Cavalieri. Gli sovvenne una pagine di Aurelio, letta nell’attesa di Roberto. Non gli era sembrata spregevole, la memoria ora agghindava ancor di più il pezzo letterario. Risorgeva l’antica Grecia. Anche a Racalmuto, anche a Bovo. «….. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: “certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini” eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. »
“Bisognava tornare all’antica Grecia, alle mirabili origini di una Sicilia colta e libera, della Sicania civilissima e soave, stellare, senza diritto romano, senza terrori cristiani, senza cupi preti, senza Bossi, senza Berlusconi, senza magistrati stranieri, senza capitani in giallo venuti da Arcore …”
- Ma che cazzo sussurri? ghignò Roberto.
- Va ‘ffa ‘nculo. Ti do un caffè di quelli fatti da me, ricetta di Gennarino … così mi stai sveglio.
Sorbitosi il caffè, Roberto andò a stravaccarsi sul rustico divano color senape. Si concesse una sigaretta, infastidendo Meluccio che da accanito fumatore pentito inforcava ora le cuspidi di tutte le campagne contro il fumo, anche se passivo, e si offrì in olocausto ai furenti sfoghi del suo amico scrittore.
- Dunque, che è successo?
- Hanno arrestato Vitacchia.
- Tutto qua?
- … è innocente ..
- non è il primo né sarà l’ultimo.
- Qualche responsabilità c’è l’ho pure io
- L’hai denunciato?
- Ci mancherebbe altro … se lo reputo innocente?
- Pur di scriverci un libro, non saresti capace?
- Strunzu!
Con varie interiezioni, digressioni, sberleffi, contumelie, Meluccio ricostruì gli eventi dei due giorni passati. Roberto alla fine s’impazientì:
- questo Vitazza, non so se è innocente o colpevole. E come faccio a scrivere un pezzo innocentista?
- Perché è innocente!
- Sei sicuro? Sputa fuori allora la verità … secca, senza fronzoli, giornalistica …
- Dimmi pure evangelica?
- In che senso?
- Non dice Gesù di Nazareth: “il vostro parlare sia: sì, sì … no, no”
- Vorrà dire che domani scriverò: “Vitacchia da Racalmuto è innocente? Rispondiamo: sì”, sai che successo giornalistico.
- Non mi imbrogliare ora tu le carte.
- E tu dammi le carte giuste ed essenziali.
- Aurelio La Matina Calello viene dunque trovato morto avvelenato il giorno dopo; i medici stabiliscono che il decesso era da retrocedere di dodici quindici ore. La morte sarebbe avvenuta dunque nelle prime ore della sera del giorno precedente, quando a Racalmuto diluviava. Fu sera da tregenda, tutti se lo ricordano qui in paese. Continuava per altre quattro cinque ore, avremmo avuto il diluvio universale; sarebbe stato il momento della verità con tutte quelle manomissioni del sottosuolo del paese, a cominciare dalla Matrice. Vi erano le carnarie, ora non vi è più nulla: le colate di cemento sospinte dalla pressione a 10/15 atmosfere sono state sbattute contro le occlusioni di piazza Castello. Quando torneranno le grandi piogge, dell’intensità di quella sera ma più continue, avremo un grande sifone a «lu chianu castieddu»; con quanti morti?
- Stringi
- Nel primo pomeriggio si era recata da Aurelio la giornalista israeliana, accompagnata da Vitacchia, che subito però tornò in paese. La giornalista si accomiatava da Aurelio per il suo ritorno in patria. Aurelio era stato prezioso nel fornire dettagli e letture inusuali sugli ebrei di Sicilia e su quelli di Racalmuto. La giornalista vi ha scritto poi un libro che mi dicono ha impressionato Israele.
- Fino a che ora vi è stata da Aurelio?
- Non più di un’ora. Il tempo era ancora buono. La giornalista telefonò allora alla sua amica, l’accompagnatrice turistica racalmutese. Questa si precipitò subito a Bovo. Non entrò neppure in casa. L’israeliana l’attendeva all’imbocco della stradetta. Si fece accompagnare in gran fretta a Canicattì a prendere l’autobus per l’aeroporto di Catania delle ore 17. Non riuscirà a prendere l’aereo per Roma da Catania: le grandi piogge impedirono il decollo. La giornalista si fece accompagnare in taxi in un albergo delle vicinanze. Tutti questi movimenti sono stati ricostruiti con diligenza da romanzo giallo dalla dottoressa Mangoni. Aurelio sino a sera era vivo: lo dicono i medici. La giornalista ha un alibi di ferro. Vitacchia, dopo avere portato la giornalista da Aurelio, s’incontra con Bastiano Saldì, ancora non latitante. Sono amici da vecchia data. Il Vitacchia viene invitato dal Saldì a fargli compagnia ed in macchina se lo porta allo Zaccanello. Si godono lo spettacolo della tempesta a mare. Non succede nulla. A tarda ora, i due se ne tornano a Racalmuto, quando Aurelio era morto da almeno due tre ore.
- Non è che l’ispettore bankitalia sia morto ad opera di spiriti maligni, scesi sulla terra di Bovo in quella notte da tregenda? Se fossi inglese, ci scriverei un libro di magia nera.
- Non scherzare. Non spiriti vennero a Bovo quella sera, ma uno strano cingolato creò un casino forsennato rompendo il muretto dell’ingresso, lasciando orme che neppure le grandi piogge riuscirono a levare. A guidare quel cingolato doveva essere un solo individuo, non colto e tuttavia amico di Aurelio, che ebbe ad aprirgli in quell’ora insolita senza sospetto. Gli offrì persino un caffè.
- E questo è certo?
- No, questo si suppone … ragionevolmente.
- Il cingolato è stato rinvenuto?
- Non se ne sa niente. Nessun mezzo che possa giustificare il tipo delle orme è stato rinvenuto. Si pensa ad un mezzo straniero. Dopo la morte della Mangoni, la polizia sta tentando connessioni con il mezzo che uccise la poliziotta. Ma senza risultato alcuno … almeno per quello che mi si dice. Io del capitano Micciché mi fido ciecamente. Perché mi dovrebbe imbrogliare?
- Siamo quindi di fronte ad un assassinio senza omicida?
- Sino a quando il capitano della finanza non ha creduto di essere l’inviato del Signore che in quattro e quattr’otto ti svela l’arcano.
- E questo non ti sfagiola, non foss’altro per questione di prestigio professionale.
- Me ne sbatto le palle del prestigio … è l’innocenza di Vitacchia che mi sta a cuore.
- Non è che mi hai convinto proprio tanto su questa conclamata innocenza …
- Non sono solo io ad esserne convinto … anche il capitano Micciché ne è sicuro .. nell’incontro di oggi mi ha svelato piccoli segreti che hanno fatto chiarezza anche a me … tanti lati oscuri mi si sono chiariti. Pensavo cose inesatte, facevo confusione … Micciché ha fatto luce … il verdetto è indubitabile: non colpevole.
- Andiamo, dunque, dal giudice e con l’autorevolezza che tutti ti riconoscono, con la testimonianza di Micciché e con i flash dei miei fotografi tiriamo fuori quest’angelo dalle patrie carceri.
- Fosse facile!
- Cosa lo impedisce?
- Il capitano della finanza Bonadies.
- E’ così potente?
- È impotente e per questo è imbattibile: l’imbecillità, la testardaggine, la ruggine fra i corpi militari dello stato, la voglia di carriera, il sentirsi infallibile è un intruglio che a noi semplici mortali suona idiozia, per i militari si chiama senso dell’onore.
- Protervi!
- Domani, anzi stanotte, tu scrivi un bell’articolo, lo pubblichi e vedrai che le acque si smuovono.
- E che scrivo?
- Scrivi che ti sei incontrato con Meluccio etc., che ti ha confidato i segreti più ghiotti sulla morte dell’ispettore della bankitalia, che li ha desunti dalle carte dell’ispettore e da quelli della polizia. Un granchio prende la Finanza: non sa leggere i bilanci delle società sotto verifica e vuole leggere nei misteri dei servizi segreti …
- Come? Come?
- Servizi segreti, sì: l’omicidio di Aurelio La Matina Calello è un omicidio commissionato all’estero, da uno stato estero ed eseguito dal servizio segreto di quello stato.
- Tu vuoi scherzare?
- No, no … scrivilo … scrivi che te l’ho detto io. Scrivi che sono pronto a riferire al ministro degli interni italiano … quello è un grassone ma è un cervellone … mi è amico … ha stima .. ed io di lui .. anche se è di destra, anzi è passato a destra; mi stava meglio quando scriveva a Lotta Continua … allora non aveva capito niente ma stava dalla parte giusta … ora capisce tutto, ma gli piace stare dalla parte sbagliata .. controcorrente: è nel suo stile (e forse anche nel mio).
- Tu mi mandi dritto, dritto in galera.
- Ti farebbe bene: così rinsavisci un po’
- Anche a te farebbe bene; pure tu hai bisogno di un po’ di saggezza.
- Spiacente, per limiti di età non sono più carcerabile.
- Eseguirò a puntino. Resto, però, sicuro del fatto che Vitacchia, stinco di santo non è. Amico e .. compare di Bastiano Saldì: mafia, droga, stiddara, stragi
- Contiguo? E chi non è contiguo di questi tempi? Io, tu, i reprobi ed i santi, i preti ed i malandrini, lo stato ed i magistrati, i militari ed i politici …
- Quante denunce per calunnia, oltraggio alle istituzioni, vilipendi ..debbo prenotarmi?
- Nessuna .. perché sai scrivere e queste cose le sai dire senza farti cogliere in fallo. Complimenti.
- … violazioni del segreto istruttorio, d’ufficio …
- quelle non le escludo … e ci metto anche violazione dei segreti di stato .. anzi di stati esteri … suona meglio.
- A la faccia?
- Non per nulla sei giornalista … devi rischiare ..
- E’ una vita che rischio. Il risultato? Capo cronaca di una periferica regione, di un giornale milanese che della Sicilia gliene frega un cazzo.
- Ma è il primo giornale d’Italia.
- Appunto.
- Là c’è un computer, c’è il modem .. datti da fare e subito. Dai la stura alla tua fantasia … usa il paravento: il noto scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti … scrivi sempre “da Giorgenti” … ci tengo … ognuno ha le sue fissazioni … la mia tutto sommato è veniale. Sì: il noto scrittore ci confida; sostiene; ci ha svelato; contesta; è sicuro … e via di questo passo. Puoi anche sostenere che il papa è stato sodomizzato da un asino in erezione … fa ancora effetto, sai.
- Vitacchia esce ed io entro, ho capito.
- Finalmente giustizia è fatta.
Roberto, sigaretta in bocca, si chinò sulla tastiera del computer e di getto scrisse i tre o quattro fogli dell’articolo. Inviò l’e-mail; si alzò, un gugno di saluto a Meluccio ed andò a buttarsi sul primo lettino che gli sembrò di potere usare. Quasi di colpo cominciò a russare. Meluccio non volle disturbarlo, spense le luci e cercò di addormentarsi anche lui. Non fu facile.
* * *
In prima battuta, la corrispondenza finì nel foglio regionale. In tarda mattinata, però, vi fu un’edizione straordinaria. L’articolo apparve in prima pagina con un titolo mirabolante, inusuale per un giornale tanto compassato come il Corriere della Sera: «Omicidio ex ispettore bankitalia – La GdiF di Agrigento depista – Certo lo zampino di un servizio segreto estero».
- Titoli così sono sospetti, disse Roberto.
- Articoli così sono pugni nello stomaco; bisogna saperli sferrare, ed il Corriere il mestieraccio suo lo sa fare, rimbeccò Meluccio.
Trillò il telefono. Segreterie particolari. Interrogatori. “Sì, lo scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti, in carne ed ossa”. “Attenda, Le passo il signor ministro degli interni”.
- Ah Melu’, che mi combini – e giù una risata chiassosa, veramente divertita.
- Se il ministro della polizia si disturba, l’avrò fatta veramente grossa.
- Guarda che sono stato io ad imporre l’edizione straordinaria al Corrierone; anche il titolo ho dettato. Come ex giornalista, sono licenze che mi posso permettere.
- Come ministro degli interni .. che come giornalista il Corrierone ti mandava a fare in culo.
- Come sei volgare?
- Mai quanto un ministro di mia conoscenza. Ma a che gioco stai giocando?
- Al tuo Melu’ … al tuo …
- Dannato di un uomo … il mio è solo voglia di rimettere in libertà un mio amico di Racalmuto, un tale di nome Vitaccchia. Ti dice qualcosa questo nome?
- Nulla di nulla ..
- Allora dimmi quale è il tuo gioco …
- Quello che tu hai fatto sbandierare a quel povero ragazzo …
- Chi?
- Il giornalista ..
- Ma quello ha cinquant’anni.
- Sempre ragazzo per noi Melu’ .. Non so se la storia dei servizi segreti tu la conosca davvero o è stata una tua stronzata. Credo che hai inventato .. non dal nulla, però .. avrai letto qualcosa nelle carte che ti ho detto di consegnarti. Tu non sai e parli .. io so e non posso parlare. Ci completiamo. Bella trinità, visto che entrambi ci serviamo del cinquantenne giornalista. Polizia, letteratura e giornalismo: giustizia sarà fatta. Speriamo, almeno. Approfondisci Melu’, approfondisci .. spero davvero in te.
Ed era la seconda volta che nel volgere di 24 ore due diversi esponenti della polizia di stato gli affidavano il sovrumano incarico di fare giustizia, con la forza della penna, con la magia della fantasia. Non c’era più religione.
Nella tarda mattinata del giorno dopo, quando Roberto si decise ad alzarsi, Meluccio si accinse a fare una scappatina a casa sua, ad Agrigento. Teneva abitazione avanti la curia vescovile. Occupava la magione che era stata dei Del Carretto. Le carte di Aurelio parlavano di un palazzetto del 1300. Era detto in un atto notarile esibito ai Martino nel 1400, in un processo d’investitura. La contea della sciasciana Racalmuto nasce da un baratto fra due fratelli, Gerardo e Matteo del Carretto: a Matteo finisce “lu cannuni” ma non solo quello: questo sedicente nobile genovese in effetti si insedia a Giorgenti, vicino al vescovo naturalmente, «in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines.» I grandi predoni di Agrigento stavano tutti lì. “Ed ora vi sto io” si sussurrò tra il compiaciuto e lo stomacato Meluccio. Veramente, stava al solo secondo piano: stanzoni enormi, oscenità pittoriche del Sozzi consunte, gelo d’inverno … ma d’estate c’era gradevolissima frescura, meglio qui che a San Leone. Solo che da qualche mese si era fissato per Bovo di Racalmuto: tutto l’opposto. Sperava di farsi vendere quell’anodina casetta dell’avvelenato Aurelio. Gli eredi, prima o poi, gliel’avrebbero ceduta. Non era questione di soldi. Meluccio pensò al suo antenato vescovo e botanico: forse per questo propendeva per gli orti di Bovo: Veramente, lì orti non ce n’erano: ma un progetto bolliva in pentola. Per un intuito di Aurelio si era costituita a Racalmuto una strana associazione che si denominava “IDESAM” come dire “istituto dissalatori acqua del mare”. Dal vicino Mar Mediterraneo si doveva portare l’acqua dissalata. Scavalcando politici e faccendieri, la cosa stava andando avanti. Prodi in persona se ne era interessato. I fondi comunitari stavano per arrivare. Un invaso agli sprofondi di Sacchitello era più che un progetto. Da lì acqua dappertutto, anche a Bovo, per orti, agricoltura intensiva, primaticci. Meluccio vi stava dando l’anima perché il sogno di un mare d’acqua sulla terra di Sicilia si avverasse. Ostacolavano, e di brutto, gli acquaroli di Canicattì, non mafiosi si diceva eppure molto somiglianti, con il Lasagne come loro occulto protettore sotto sembianze di verde irriducibile. “Il dissalatore inquina l’aria. Le condutture distruggono l’ambiente.” il suo slogan ad effetto. Un mare di voti lo subissava ad ogni elezione. Frotte di autobotti pompavano acqua dallo Zaccanello di Racalmuto e la portavano nei vigneti di Canicattì; si deprimeva sempre più il livello di quella falda acquifera; c’erano voluti diversi milioni d’anni per formarsi, dal pleistocene; in dieci anni, dicevano pozzaroli incolti ma esperti, il livello era sceso di sei metri. Prossimo il prosciugamento totale; incombente il fenomeno dello zubbio: volte in gesso che si erodono per reazioni chimiche e sprofondano; addio scorrimento veloce, addio terre ubertose della Menta e dintorni; povera incolumità pubblica.
A Meluccio venne fatto di pensare all’improvviso: va a finire che cerchiamo chissà dove l’omicida di Aurelio ed invece eccolo là a Canicattì, in seno agli autobottisti.
A Meluccio la strana mania delle cose della terra veniva – o così amava pensare – da un antenato vescovo e botanico. Si chiamava Antonino Cavalieri. E’ rimasto celebre per una sua originale richiesta al re borbone: «S.R.M. – Sire – Antonino Cavalieri – scrisse il 14 gennaio 1789 – vescovo e cittadino di Girgenti, umilissimo vassallo di vostra reale maestà, umiliato al regio trono le rappresenta, come per doppio titolo della nascita da lui sortita in quella città, e del supremo grado ecclesiastico, al quale per vostra real clemenza è stato inalzato, sentendosi in obbligo di promuovere con tutte le sue forze i vantaggi spirituali, e temporali di quella popolazione, à considerato, che tra le altre cose manca ivi il comodo dell’erbe medicinali, perché non essendovi colà mai stato orto botanico, né persone esperte nella cognizione de’ semplici manca agli ammalati il soccorso di taj rimedj …» Dove impiantare quell’orto botonaco? «Esiste in distanza di un miglio in circa dalle mura di quella città un conventino già de’ PP. Riformati .. a cui è annessa una piccola selva ...» Il conventino era stato soppresso tre anni prima. Espropriamolo - chiede il vescovo - «sarebbe questo un sito opportuno alla formazione dell’orto botanico, dopo che ivi si ridurrà un'altra volta la piccola vena dell’acqua sorgente ….. » Le idee di Aurelio avevano avuto un precursore, nientemeno un vescovo ed un vescovo della famiglia di Meluccio. Certo, allora era il Settecento, secolo dei lumi anche in Sicilia, anche per i vescovi giurgintani – ma della prosapia dei Cavalieri – mentre, ora nel duemila i vescovi giorgintani si preoccupano solo degli espropri, di salvaguardare gli estirpatori del verde, gli uomini del cemento … in cambio di chiesuole antistanti a templi greci. Meluccio se ne adontava e s’imponeva il compito di saldare l’antenato vescovo illuminista ed il tetro Aurelio.
Decise di far visita al suo presule del Settecento: si recò in cattedrale e portò il solito garofano rosso che depose sul sacello: dall’alto, dal medaglione marmoreo lo mirava con sorriso spento; rubizzo, testa incassata nel tronco, privo quasi di collo, ma ondulata l’ampia gorgia, dovette somigliare tanto a quei canonici descritti dal Brydone; per tanti versi dovette essere simile al vescovo di quel viaggio dell’impertinente inglese. “molto rispettato”, “nel fare a botta e risposta … è maestro”, “uomo affabilissimo e gentile”, “appartiene ad una delle prime famiglie dell’isola”, “è un omettino onesto e una persona piacevole”, “è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia di cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto”. Ma c’è da giurare che l’antenato fosse proprio quel canonico che dopo il pranzo fu preso da «una violenta crisi di stomaco, e mentre vomitava si volse a me con una faccia tutta pentita, e scuotendo il capo gemette: “Ah! Signor capitano, sapevo che Ponzio era un grande traditore” … mi ha detto che basterebbe che stessimo un po’ con loro per convincerci che sono gli uomini più felici della terra. “Abbiamo escluso dal nostro sistema”, mi disse, “tutto quello che è triste o malinconico, e siamo persuasi che di tutte le vie dell’universo quella che mena al cielo deve essere la più bella e la meno tetra. Se non è così”. Aggiunse, “Dio abbia misericordia di noi, perché temo che in cielo non ci arriveremo mai”.»
- Ah! zzi parrì nni diciva di minchiati chissu, picchì ingrisi cridiva di fari lu spertu ed era babbu … minchiati, zzi parrì, minchiati … Ah! ccà nun si po’ diri? … semmu in chiesa! Ma chista è la catridali di San Giurlannu, è nurmannu puru iddu .. a nnantri nun nni po’ capiri.
Meluccio scese in via Atenea, si recò dall’avvocato Pujades, amico suo d’infanzia.
- Carme’ quel mandato di Vitacchia te lo sei fatto dire?
- Sicuro; appena mi hai telefonato sono corso alla Petrusa e subito il ragazzo si è affidato a me.
- Quando esce?
- Non lo so. Ho parlato con il procuratore capo e niente; la veneta non l’ho vista. Come al solito è scappata per casa sua, dal suo amoroso. Bonadies è schifiltoso … ma ha trovato una scusa per non ricevermi. Ho pronta l’istanza al giudice per la libertà provvisoria. Ci mancava però che tu ti mettessi a fare lo stronzo con quella intervista dei miei coglioni … e temo che dopo averlo fatto rinchiudere gli stia serrando le porte per non farlo più uscire ..
- Minchia!
- Proprio così, stiamo tutti finendo a minchia. Già, perché ti stanno preparando un bel papiello con dentro una sequela di reati da accumularci sopra una ventina d’anni: violazioni dei segreti di stato, di quelli d’ufficio, di quelli istruttori, oltraggio alle forze pubbliche, calunnia etc. etc.
- E come lo sai?
- Vengo dal tribunale; sentivo strillare Bonadies nella stanza della veneta. Mi ha visto il procuratore, mi ha chiamato ed in gran segreto mi ha detto che non può impedire alla veneta di inviare una comunicazione giudiziaria a te ed a quella povera vittima del tuo giornalista a comando.
- Mi porterai le arance.
- Sei troppo importante per farti il piacere delle manette, diventeresti un martire; troppa pubblicità per te e troppi guai per il procuratore … che di guai ad Agrigento ce ne ha da vendere. Gli mancava pure quel Bonadies.
- Che ha Bonadies?
- Bonadies è un ufficiale della finanza onesto; fanatico, sì … ma integerrimo. Si era messo in testa che tutti sono uguali dinanzi alla legge, anche quella fiscale che sappiamo essere un colabrodo. Manette agli evasori? A tutti sostiene Bonadies. Anche ad un vescovo che si era dato all’usura. Voleva addirittura metterlo dentro. Questo no, non c’è riuscito … un rinvio a giudizio, però, glielo procurò … ed un invio ad Agrigento se lo procurò, alla città delle tre p: punizione, promozione, pensionamento. Guarda che per tanti versi quel capitano che tu tanto odii, mi è simpatico, per me è una vittima del dovere ..
- che fa tante vittime della giustizia. Il fanatismo dei militari … te lo raccomando: buio mentale e crudeltà di cuore.
- Ricordatene nel prossimo romanzo.
Il telefonino di Meluccio trilla; Roberto Caballero di là si agita, inveisce, protesta.
- ho capito, so, il mio avvocato mi sta già informando … lo consiglio pure a te … è gratis, cioè a mie spese.
- Guarda che non posso difendere due coimputati … interruppe Pujades.
- Non ne hai bisogno. Meglio. Scattava già un’incompatibilità. L’Italia è la terra delle incompatibilità … e tutti stanno insieme … il diritto naviga a destra, la vita a sinistra. … mi dici che il tuo giornale sta inviando i pezzi da novanta dell’avvocatura milanese … sai che ci fanno ad Agrigento? Un piffero … ad ogni modo contento tu, contenti tutti. ….. Pujades mi dice che i fastidi non saranno per noi … è il povero Vitacchia che patirà l’anima dei guai suoi … al solito, giustizia all’italiana maniera che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti … pare che stavolta i potenti siamo noi … io perché scrivo gialli di successo e tu perché c’hai il corrierone dalla tua parte. Sì, ci vediamo presto … arrivederci.
L’avvocato Pujades accentuò i suoi tic nervosi. Si fece rilasciare un mandato ampio e pieno. Si accomiatò di mala grazia dallo scrittore amico e si precipitò in tribunale. Meluccio tornò a dimensioni normali, si sentì uomo ormai vecchio come capita a tutti i settantenni. Non era paura la sua, solo angoscia, avvilimento, avversione per tutto quanto sa di stato, di potere, di procure, di capitani e di avvocati, anche. Li avvertì come nemici ed ebbe in uggia anche la vita. A passi lenti, bolso e vecchio si incamminò per le scalette che conducevano su, al seminario. La sera agrigentina sapeva di morte, quasi un preludio funebre. L’uomo, questa misera cosa con empiti di onnipotenza subito in cenere. A Meluccio cessò la voglia di lotta … rintanarsi nell’ospizio dei del Carretto ora era l’unico suo desiderio, emergeva l’infanzia, quando si sentiva protetto dal corpo della madre, sotto al rifugio, per ripararsi dalle bombe che dal cielo piovevano nella guerra del Quaranta. “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, la polvere del mercoledì delle ceneri quale saggissimo simbolo! - in questo era profondamente cattolico, cupo, senza speranza, dannato all’inferno. Non per nulla amava proclamarsi: cattolico non credente.
CAPITOLO QUINTO
Incupito, Meluccio si decise di far visita a Vitacchia. Aveva rinviato troppo ed un po’ gli sembrava di essere vile. Trovò il giovane spoglio della sua abitale iattanza. Due o tre convenevoli e lagrimoni solcarono il viso espanso di Viacchia.
- Ti trattano male? - interloquì Meluccio.
- Nonzi duttu’. Stavanu cominciando .. ma subito arrivò la raccumannazioni di Bastianu e tutti addivintarunu umili e mansueti, persino ruffiani ed amici. Anche gli ‘nfami, i secondini. Certo debbo chiamarli «comanda’», ma così per educazione. Bastianu Saldì è proprio potente.
- Tu gli amici potenti te li sai scegliere.
- Vossia e Bastianu siti amici mia.
- E tutti e due ti abbiamo fregato.
- Nun ci criu.
- E non crederci, non crederci. Io ti voglio bene. Mi sento in colpa con te. Però tu sei uno scervellato. Che ti metti a parlare con Saldì al telefonino, usando il suo numero segretissimo?
- L’avevo fatto tante volte e nessuno niente mi aveva mai detto.
- Fino a quando a controllarti non è intervenuto il capitano Bonadies.
- Io da ccà quando esco?
- Prima possibile, Vita’ … hai visto che ho dato incarico a Pujades … il principe del foro di Agrigento …
- Una volta era Cavallaro … il mio grande paesano ..
- A Racalmuto ne avete avute tante di teste fini … ma di cose buone ne avete fatte sempre poche.
- Iu mali a nuddu nn’haiu fattu.
- Tu non hai fatto male a nessuno … io neppure, e tutti e due siamo qui alla Petrusa.
- Ma iu dintra e vossia fora.
- E la differenza non è poca … Io il carcere comincio ad avercelo dentro, ed è peggio. Una persona intelligente quando comincia a non capire finisce in un carcere dell’anima da cui nessun giudice della libertà è in grado di farti uscire.
- Capisco.
- Su col morale. Dai nostri due diversi carceri dobbiamo uscire al più presto, Vita’.
- Sissi.
Torno a Bovo Meluccio e subito si ingolfò nello studio delle carte. Noiosissime quelle della Mangoni. Impenetrabili quelle di aurelio. A dire il vero, l’interesse per gli appunti di Aurelio veniva anche dal gioco di rintracciare nel computer i file cancellati. Il “temp” non veniva pulito da Aurelio, che per di più usava trascrivere mille volte le poche briciole di un velleitario memoriale autobiografico che non finì mai: il ritrovamento di appunti scritti e cancellati consentiva sorprese che una qualche intima soddisfazione la destavano. Come in un giallo: vari indizi che potevano portare alla scoperta dell’assassino. Del resto, per Aurelio un assassino c’era stato davvero. Ora Bonadies diceva di averlo scovato. Meluccio era convintissimo del contrario. Scoppiava un contrasto fra due intelligenze: quella poliziesca e caina e quella libresca. Quale avrebbe vinto? Meluccio tornava ad avere fiducia in se stesso.
Non v’era ombra di dubbio: bisognava indagare tra le ispezioni di Aurelio per trovare le orme del futuro assassino. E due erano le piste: quella ovvia della mafia che Mangoni prima ed ora, con sicumera, Bonadies ritenevano foriera della morte dell’ispettore e quella tenebrosa ed inafferrabile che Meluccio e, a ben vedere, il ministro dall’epa incommensurabile, pensavano doversi scandagliare.
Di ispezioni pericolose, Aurelio ne aveva fatte non molte ma sufficienti a procurargli l’esecuzione o da un versante o dall’altro. Le prime erano incolori, ma qualche sintomo e qualche preoccupazione vi si annidava. Guardiamo, ad esempio, la prima di una triade di verifiche fatte a strane banche ebree di Milano. Aurelio vi aveva notato strani giri di assegni. Aveva contestasto: «l’azienda consente il pagamento, per contanti, di assegni circolari di altrui emissione». Assegni di cui al momento dell’ispezione si non sapeva o non si voleva svelare il beneficiario. Aurelio citava il caso «dei valori cambiati a certo sig. Sandro Vercelli le cui firme sulle diverse distinte di presentazione risultano palesemente difformi.»
Meluccio aveva cercato, e trovato dopo non poca fatica tra carte impolverate, quel vecchio “rapporto ispettivo”. In moduli ristampati nell’aprile del 1971. Con foderine color cenere, rilegatura con nastro marrone, incuriosì molto Meluccio l’antico elaborato ispettivo della “Banca d’Italia – Ispettorato Vigilanza sulle Aziende di Credito”. Si parlava della “visita effettuata dal 5.10.1971 al 28.1.1972” all’azienda di credito Pincherle-Levi & CC. – Spa – Milano”. Quella banca non esiste più: assorbita da una popolare lodigiana, che da piccola banchetta, per sostegno della banca centrale, oggi domina il mercato italiano e si è espansa anche tra le latebre misteriose della finanza siciliana – quanto pulita, non si sa. Forse nei 35 fogli A4 il mistero della morte di Aurelio.
La lettura deluse molto il settantenne scrittore. Ingenuo il dire, inelegante l’accusa, insignificante il contenuto. Si vedeva lontano un miglio che Aurelio non sapeva fare altro ancora che sciommiottare il burocratese della vigilanza bancaria. Il “pro-memoria per il signor governatore” era particolarmente striminzito e disadorno. L’aristocratico Carli l’avrà accantonato con un gesto di annoiato sprezzo.
Eppure la banchetta era peculiare: posseduta da una famiglia ebraico-egiziana, aveva potuto combinare circuiti finanziari i più conflittuali dell’epoca. La pingue finanza araba, quella degli emirati, la finanza che si denominava dal dollaro e dal petrolio messi assieme, i petro-dollari, e l’acume bancario ebreo, senza patria, schivo persino, tutt’altro che sionista, si coniugavano quasi in un sottoscala di via Verdi a Milano. Le armi acquistate dall’Egitto, prima durante e dopo la guerra dei sei giorni, si pagavano tramite lo sportello giudaico di Milano. Quei micro banchieri di padre ebreo e di madre egiziana consentivano una saldatura finanziaria, diversamente impossibile. Il gioco degli assegni circolari - una concessione tutta eccezionale che la Banca d’Italia aveva dato a ristoro dei danni della persecuzione razziale del fascismo – permetteva traslazioni in dollari tra aree addirittura in guerra. Aurelio confessa nelle sue manie autobiografiche di non averci allora capito nulla. Il gioco degli assegni manco lui l’aveva scoperto. Era stato un suo collaboratore napoletano, e lui, da siciliano, l’aveva in gran sospetto e in gran dispitto.
Il rilievo passò del tutto inosservato, l’ispezione fu archiviata senza lasciare traccia alcuna. C’era dunque da perdere tempo se si avevano uzzoli polizieschi e si voleva là rinvenire chissà quale arcano che portasse all’avvelenamento del povero ispettore.
Grande importanza, invece, annetteva Aurelia a questa esperienza milanese. Il suo primo incontro col mondo ebraico fu per lui un grosso flop. Non ne aveva capito molto, di quell’intrecciarsi di conti correnti passivi, di afflussi di mezzi illiquidi, di assegni circolari trattivi sopra e di ritorno degli assegni a chiudere un circuito apparentemente inutile. Molto proficuo, però per la banca. Gli ebrei-eziziani sapevano ricavarne un conto economico pingue che il povero Aurelio aveva descritto al suo governatore come “soddisfacente” per l’equilibrio che si riusciva a conseguire tra costi anche elevati nella raccolta e ricavi più che compensativi rivenienti dai servizi e soprattutto dalle provvigioni e commissioni. Anzitempo, quel malconcio sportello del sottoscala prefigurava la banca ideale per la Vigilanza di Roma: scarsa raccolta, impieghi accorti e tantissima intermediazione finanziaria di natura non creditizia.
Restava, però, una lezione illuminante per Aurelio. Dopo si ricorderà del tipo particolare del servizio che gli ebrei denominavano “cambio assegni”. Non era il solito gioco di assegni circolari emessi dopo accrediti di assegni bancari post-datati. Non era ciò che in gergo si definiva pudicamente “autofinanziamento delle imprese”. Era compiacenza, cointeressenza, compartecipazione agli utili dell’istituto bancario. Erano tempi di separatezza tra banca ed impresa, ed i banchieri aggiravano l’ostacolo con i giochi del giro di assegni circolari che permettevano aumenti di capitale sociale delle industrie, anticipazioni per acquisto delle armi da parte di intermediari collusi con entrambi gli stati in armi - egiziani o ebrei che fossero - primi esperimenti del riciclaggio in grande e con circolazione extra nazionale (extra corporea, la chiamava un grande giornalista) del denaro sporco.
Fu Sarcinelli – bisogna dirlo – che per primo comprese il forte elemento inquinante del “cambio assegni”. Decise di stroncarlo ma a modo suo. Sarcinelli fu il tecnocrate della Banca d’Italia sicuro che godesse di una extraterritorialità giuridica. Considerava giuristi, diritto e giudici l’orgia del formalismo sterile. Vi lasciò le penne come tutti sanno. Pochi, però, sono quelli che si sono resi conto che l’incidente penale del tecnico di Via Nazionale è più legato alla stroncatura del giro di assegni (a vuoto, per traslazione di denaro sporco, e via di questo passo) che alla vicenda Sindona (come pretendeva il giudice Viola) o alle storie del caso Rovelli (su cui però accentrò la sua devastante attenzione il giudice Alibrandi). Con circolari e numeri unici, Sarcinelli tentò di impedire alle banche la copertura ai falsi movimenti monetari. Non è che il gioco fosse ancora di precipua importanza. Marpioni milanesi avevano raffinato il gioco; si erano dati ai time-deposit, a rimbalzi con l’estero, specie con la Svizzera, per impedire riscontri impertinenti. Tuttavia, il disposto di Maria Sarcinelli andava a colpire le minuscole banche, le cooperative e quelle importanti – quasi tutte – erano democristiane, si legavano alla Federconsorzi, godevano della protezione dei potenti dell’epoca, dei cavalli di razza D.C. come allora si diceva. La supponenza di Sarcinelli ebbe il tonfo che ebbe. Aurelio si scontrò e duramente con Sarcinelli. Veniva dall’ispezione di una cassa di risparmio romagnola. Il piccolo ispettore siciliano si era imbattuto con il potente ICCRI, quello degli assegni speciali con i quali si erano profusi i fondi neri delle casse di risparmio milanesi e nazionali. Non aveva avuto remora a stigmatizzare compensazioni di partite tra la periferica cassa ed il proprio istitituto centrale. Si era messo in testa di soppiantare il fisco. Aveva censurato comportamente fiscali non ortodossi. Aveva avuta a ridire sulla politica dei tassi passivi ed anche su quelli attivi. Aveva ficcato il naso nei rapporti di lavoro. Non gli erano piaciuti incarichi remunerativi a figli di amministratori. Criticò la politica di bilancio. Tutto questò indignò Sarcinelli. Definì ogni cosa “bolle di sapone”. Che importanza ciò poteva avere se «l’azienda veniva definita patrimonialmente robusuta», se «ottima era la situazione di redditività». Il tecnico gongolava, l’ispettore – ormai ideologicamente inquinato – contestò. Fu arrogante. «Se lei considera bolle di sapone, il peculato, il peculato semplice, il peculato mediante distrazione … vuol dire che abbiamo visioni diverse. E siccome faccio parte della chiesa che invoca il centralismo democratico, le consento come mio capo di avere un’opinione diversa dalla mia.» Si adirò davvero Sarcinelli. Apostrofò in malo modo Aurelio, lo definì sarcasticamente: Pangloss. E soggiunse: «Sa quanti sono i magistrati? De mila? Tre mila? Ebbene io non consentirò a costoro di disintegrare le banche. Se le banche vanno bene è mio dovere difenderle, se vanno male, è mio dovere correggerle.» Qualche mese dopo l’uomo che si credeva al di sopra dei giudici finì malinconicamente a Regina Caeli … per pochi giorni s’intende.
Qui Meluccio cominciò a distrarsi per noia. Erano faccende tecniche in cui non riusciva a districarsi. Aurelio vi annetteva molta importanza nei suoi spezzoni autobiografici. Emergeva solo che un giovanissimo ispettore, preso dalle zolfare o dalla terra di Racalmuto, veniva catapultato nei gangli dell’alta finanza senza che gli si fornissero competenze professionali. La Banca d’Italia, eccelsa negli studi economici, risultava molto fragile nei campi della ragioneria e soprattutto della più avveduta tecnica bancaria. Era il colmo. Aurelio dovette farsi le ossa da sé, da autodidatta, in un contesto competitivo dovendo fronteggiare colleghi incolti quanto lui ma decisi a far carriera. Si bleffava, si strombazzavano risultati ispettivi eclatanti. I capi ci credevano o facevano finta. A loro importava solo la statistica: il 10, il 20 per cento in più dell’anno precedente, in relazione al numero assoluto, in relazione alla massa fiduciaria ed altre corbellerie del genere che acquietavano lo stato maggiore, intento ad altre preoccupazioni, di sicuro più nobili. Il nuovo ispettore capo lanciava i giovani: costoro s’industriavano a far fare bella figura alla Vigilanza, sia come sia. I vecchi erano in difficoltà: erano disposti anche loro a barare, ma mancavano di elasticità mentale, oltre naturalmente ad essere privi di ogni idoneità professionale. Il mondo della finanza correva a mille all’ora in Italia – a Milano a velocità supersonica; la vigilanza arrancava con frustri rilievari in cui emergeva la drammaticità di “conti d’ordine” in disordine, come Aurelio andava celiando.
Furono approcci al mondo delle banche di un ingenuo dipendente venuto dalla Sicilia, da famiglia non adusa alle tecniche dei movimenti dei capitali, appartenente ad un mondo contadino e zolfataro ove il denaro ha senso quale rado elemento di scambio, non certo di ricchezza finanziaria e speculativa. Comprensibilissimo lo smarrimento di Aurelio. Tentò una mimesi professionale. Impacciato nel parlare, evitava per quanto possibile il dialogo. Diceva che nella banca v’era un dio ascoso – anzi, riferendosi a Mammona, un demone ascoso. Bisognava far silenzio per scoprirne gli intimi afflati, sicuramente pestiferi. Del resto, il mondo che indagava era quello dei numeri. Occorreva saperli leggere.
Fu in un’altra banca d’ebrei milanesi che acuì il suo intelletto numerico. Vi era una doppia contabilità. Capì davvero cosa significasse. Vì indagò dentro con acume. Fece un solo rilievo: amplissimo e consendatamante tecnico. Fece sensazione. Divenne un mito tra i suoi colleghi giovani che annaspavano anche loro in un mondo che non gli apparteneva. Assurse a maestro e costrinse quelli della Vigilanza a leggere Onida, ad infarinarsi di scienze aliene quali l’economia aziendale, quale la ragioneria. I superiori furono costretti ad apprezzarlo. E lo sfruttarono in ispezioni cattive ed astiose. Forse lì lo condannarono a morte.
Aurelio, contadino mancato, ispettore di vigilanza bancaria inventato, subì la sua metamorfosi politica durante quell’ispezione milanese che lo portò ad indagare sulla contabilità nera delle banche. A quell’epoca tutte le banche avevano i loro conti neri; si chiamavano sussidiari del conto economico. Lì facevano affluire proventi occulti e da lì prelevavano emolumenti riservatissimi. Non è che non ci fosse contabilità: le banche non posono permettersi di omettere minuziose evidenze di ogni loro fatto di gestione. Se danno una regalia, la devono contabilizzare. L’occultamento consiste nel tenere conti che apparentemente significano una cosa, in realtà seguono minuziosamente ma cripticamente gestioni cosiddette parallele. Fu quella l’epoca in cui si dava ai depositanti più cospicui il “sottobanco”. Enti statali, enti pubblici, grandi imprese dirottavano cospicue giacenze liquide presso gli istituti di credito a tassi irrisori. “Sottobanco” l’azienda bancaria erogava ai politici, agli alti dirigenti, agli intermediari integrazioni dei tassi prelevandole dai conti sussidiari del conto economico. La Banca d'Italia non solo sapeva ma voleva sapere con informative riservate: I giovani ispettori del momento – ed Aurelio in testa – si ribellarono. Dissero che non era conforme alla legge bancaria che invocava per le aziende di credito una “funzione di pubblico interesse”. Quella volta vinsero scavalcando persino gli umori del governatore dell’epoca. Ma era effimero moralismo.
Alla Banca d’Italia cambiava la filosofia del credito: non si intendeva intervenire nella gestione del credito. Carli era perentorio: niente controllo qualitativo del credito. Si andava verso una visione aziendalistica: bastava che una banca fosse patrimonialmente sana, reddititivamente valida, con equilibri finanziari per doverla non solo rispettare, persino difenderla dal fisco e dalla magistratura. Non si può dire che Sarcinelli fosse in disaccordo. Le “funzioni di pubblico interesse” – locuzione derisa – andassero pure al diavolo: la vigilanza non ne doveva tenere conto. Gli ispettori si astenessero da giudizi di valore che sapevano di politica o peggio di moralismo. Aurelio dissentiva.
La sua folgorazione avvenne appunto in occasione della seconda ispezione alla banchetta ebraica milanese. Scoprendo il sussidiario del conto economico, Aurelio s’imbattè in una strana operazione. Un esito di poche migliaia di lire per l’acquisto dei diritti di opzione di una immobiliare entrava ed usciva dal conto economico in modo davvero strano. Occorse del tempo per capire che in un primo momento l’esigua cifra veniva iscritta in bilancio quale spesa a copertura dell’esito di cassa; subito dopo si iscriveva all’attivo una partecipazione di qualche milione che trovava riscontro a rendite come sopravvenienza attiva.
Meluccio mandò al diavolo Aurelio: che cosa volesse dire con quelle annotazioni nel suo memoriale non si riusciva davvero a comprendere. Lo scrittore, d’altra parte, era tutto all’infuori di un ragioniere. Per fortuna Aurelio si mise a raccontare. Un muratore negli anni Sessanta, scarpe grosse e cervello fino, capì che le isole cessavano di essere luoghi di pena e si proiettavano come luogi turistici d’alto bordo. Il nostro imprenditore si accaparrò mezza isola d’Elba. Ebbe naturalmente bisogno di assistenza finanziaria: la piccola banca milanese gliel’accordò di buon grado. Gli fece costituire un’azionaria a base familiare: marito e moglie, cioè. Accordò un’anticipazione su titoli. Vennero pignorate, in altri termini, le azioni in cambio di una decina di milioni. Vai a sapere che vi si annidava. Vai a vedere che vi si annidava l’insidia dell’art. 2352 del codice civile. Occorreva stilare una “convenzione contraria” per mantenere il diritto di voto in capo ai proprietari. Ma al muri-fabbro milanese chi poteva salvaguardarlo in un campo giuridico così sofisticato? Alla prima chiusura d’esercizio, il bilancio fu tutto fatto dalla banca: perdita totale del capitale, azzeramento e ricostituzione entro i minimi legali. Si chiese apporto di denaro fresco all’imprenditore-speculatore dell’isola d’Elba. Questi, ovvio, era in difetto di liquidità. (Meluccio sìincantò alquanto di fronte al linguaggio tecnico di Aurelio). La banca fornì altri fondi, questa volta con un prestito chirografario. Forse scattava la fattispecie penale di cui all’art. 2358 codice civile in combinato disposto con l’art. 2630 codice civile. Era, però, epoca in cui in Italia il diritto penale bancario era tabù per i magistrati: segreti d’ufficio, segreti bancari e soprattutto incompetenza avevano creato una zona franca nello specifico settore penale. Libertà di reato, dunque. Alla Banca d’Italia si ritenevano quelle infrazioni estranee al rispetto della legge cui doveva presiedere: non si trattava di “legge bancaria”. Guai all’incauto ispettore che avesse osato addentrarcisi. Neppure Aurelio osò, ma dopo ne ebbe rimorso. In effetti mancava di cultura giuridica specifica e la Banca d’Italia si guardava bene dall’addestrare in tal senso i suoi ispettori di vigilanza. Altre le incombenze, altre le culture.
Il giochetto dell’azzeramento del capitale per effetto delle spese eccedenti i ricavi, cosa fisiologica in un’impresa in fase di avviamento, si ripetè per due o tre esercizi consecutivi. Il debito bancario aumentava a dismisura. Alla fine venne detto che non si poteva più aumentare il rischio stante il divieto della Banca d’Italia in ordine ai fidi eccedenti. L’imprenditore buttò la spugna. La banca fece valutare al borsino di Milano i diritti di opzione. Se li comprò. Mezza isola d’Elba entrò nel patrimonio della banca, o meglio dei proprietari della banca. A carico del conto economico ufficiale andò a finire il credito sotto veste di “sofferenza” ammortizzata. Si iscrisse una posta evanescente all’attivo come partecipazione immobiliare. Il costo dei diritti di opzione sconfinò nel “sussidiario” del conto economico. La ripulitura finale passò attraverso gli storni di cui si è detto. Un capolavoro di ingegneria contabile, insomma.
Comprensibili le reazioni del povero muratore milanese: istanze al giudice civile, denunce alla procura. Niente di niente. Lettere e proteste ai giornali, alle autorità, alla Vigilanza: niente di niente.
Esasperato, maniaco, grafomane, il malcapitato dirottò per il Quirinale e l’inondò di ricorsi impropri, di rimostranze e poi di gravi sospetti, di insinuazioni irriverenti, di vilipendi, di improperi, di calunnie, di inammissibili accuse. La bonomia partenopea dell’inquilino dell’epoca è cosa notoria. Educate risposte all’inizio, inviti alla moderazione in seguito, quindi richieste ufficiali di chiarimenti, intese telefoniche, comprensione verso i ricchi e ossequiosi ebrei meneghini. Interessamento del CSM. L’inghippo finì al giudice più giovane e più brillante. Era bello, facondo, ricevuti dai salotti bene di Milano. Anche la grande scrittrice lo teneva in considerazione. Subirà quel giudice dalla scrittrice la più sferzante invettiva della storia giudiziaria italiana: «giustizia all’italiana maniera, che inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti». Ma tutto con bonomia, quasi con ammiccamenti. Il giudice finirà, poveraccio, crivellato dalle lupare della ‘ndrangheta.
Questo, però, molto dopo. In quel tempo, rasserenò il Quirinale: si trattava di uno speculatore edilizio andato a male. Lo si poteva considerare alienato di mente. Emise il provvedimento cautelare gradito alle alte sfere: il defraudato dell’isola d’Elba finì internato in un manicomio.
Aurelio ne fu scosso: non fu capace però di ristabilire un briciolo di giustizia. Scrisse: «appare opportuno adottare d’urgenza provvedimenti cautelativi». Furono parole buttate al vento.
Meluccio si chiese come mai faccende del genere siano sempre finite sotto totale silenzio: a motivo della complessità ed inestricabilità tecnica si rispose. Non ne era del tutto convinto. Il potere sa essere potente, i miseri sono troppo soli per avere giustizia. Finiscono persino alla gogna. Il muratore di Milano tentò la speculazione dell’isola d’Elba. Quasi vi riusciva. Altri più astuti, più integrati con coloro che comandano ebbero la meglio. Così vanno le cose di questo mondo. Il piccolo racalmutese poté solo capire. Gli venne consentito. Era già molto.
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