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L'amico italo-americano Gaetano Maraira dalla sua aurea vacanza nei lidi del Pacifico ci ha spinto a rintracciare la genealogia di una sua antica ava racalmutese: ISABELLA VINCI
Isabella Vinci ebbe a sposare nel 1888, invero già presto vedova da un tal Basarocchi, un attempato veneto, finito a Racalmuto non certo per fare il girovago imbrattatele: noi siamo certi per affrescare la volta del nostro bel teatro
e nel frattempo magari farsi ben remunerare per fare ritratti realistici dei tanti signorotti racalmutesi.
Costoro erano di solito usurai arricchitisi sfruttando le disavventure finanziare dei tanti pirriaturi che bucavano le loro terre alla ricerca del nuovo oro giallo quale fu lo zolfo.
Siur Maraira sposa questa bella giovane vedova Vinci pressoché al concludersi degli
abbellimenti del peccaminoso e costoso Teatro Regina Margherita voluto dai Matrona e erotici galantuomini del Circolo Unione.
Si disse, per godersi le grazie di ballerine delle opere liriche e specie quelle delle operette nei compiacenti palchi al riparo da occhi indiscreti per i paraventi al velluto rosso.
Così almeno tuonava il sacerdote Giudice che aveva voce in capito nel consiglio comunale di allora ma che ovviamente non poteva usufruire di quelle peccaminose alcove teatrali.
Si dà il caso che finiti gli ultimi appalti al teatro Margherita, il veneto Maraira prende la sua novella sposa e se la porta a San Cataldo e da lì poi torna nel suo Veneto. La figlia, unica, si sposerà nel 1916 a Padova. E da lì in America, penso, per dar figli a Dio che ebbero a procreare il mio simpatico amico Gaetano.
Non è da ora che mi interesso alla famiglia Vinci. Famiglia scesa nella nostra Racalmuto nel 'Settecento quando i Borboni ci governavano di sicuro meglio dei grigi Sabaudi o dei vari Crispi e delle cose che ben sappiamo.
Nelle mie carte vi è annotato un importante notaio. Ma non intendo qui fare un quadro prosopografico anche se ne ho la tentazione.
Ma l'ombra di un Vinci settecentesco appare in un mia recente rissa con il professore Carbone che,
avvalendosi di un componimento del suddetto Vinci osa sminuire la portata del rinvenimento di uno storico libretto che ebbe a fare mio fratello preside ed ingegnere.
Mio fratello inerpicatosi nella soffitta della casa paterna di sua moglie, casa che tutto fa pensare essere stata del canonico Mantione, trovò delle 'coroncine' che danno in bel vernacolo in siciliano,
la settecententesca versione di la Vinuta di la Beddra Matri di lu Munti che fortemente sgranella quella che partendo dalla vena poetica dl nobilotto settecentesco Frasceco Vinci ci inguacchia con l'incolpevole Castronovo.
Abbiamo che Francesco Vinci fu prima rinchiuso nel Seminario Vescovile di Agrigento ma presto buttò alle ortiche la sua seminaristica tunichetta dalla fila di bottoni rossi come anch'io negli anni 'Cinquanta ebbi ad indossare per anch'io buttarla alle ortiche ed invero pure lo stesso professore Carbone.
Ma a dire il vero il nostro opalescente assessore alla Cultura Totò Picone che non risponde al telefono manco se gli spari, in seminario non ci fu. Sennonché rapina da padre Mattina francesizzato in Giammeria alcune foto di quell'aureo libretto che io incautamente gli avevo fornito e le divulga come miracoloso rinvenimento di un altro ingegnere anche lui di nome Angelo ma trattasi del noto mistificatore dell'Idrisi. E non c'è verso di fargli rettificare quella sua furbetta e parentale attribuzione indebita.
Il Picone si avvale del testo tanto caro allo Sciascia, quel Tinebra che finché fu beneficiario dei Tulumello ed avversario feroce dei Matrona (guarda caso idolatrati infondatamente sempre dal nostro luminare Nanà) ma dopo medicatosi si autonobilitò spacciandosi con un doppio cognome: TINEBRA MARTORANA. E là apoditticamente il signor Tinebra in questa pagina, che il celebre Carmelo Mulé
ripubblicò a carico delle anche allora esauste casse comunali, ebbe a scrivere "in una sua memoria scritta da Francesco Vinci nell'anno1760 .... "- Al Giovane Picone quella data parse pane per i suoi denti.
Dunque il nostro don Franseco Vinci diffuse pensiamo il suo manoscritto quattro anni prima dell'agostiniano padre fra' Emmanuello Catalanotto gran caudatario della principessa Caetani e Buglio all'epoca nostra dominatrice per una distrazione feudale ai danni dei decaduti del Carretto.
Or dunque, Il Catalanotto che come ebbi a scrivere smunge la favoletta della Madonna del Monte da un Nobile Gioeni "corretto (sic) di ipocondria" e incredibili "passaggi dalla Libia, regno di Barca" e da altre facezie che oggi invece siamo dannati ancora a sorbirci nella recita platealmente satura di improbabili servi venuti dalla terra dalla lunga barba dell'appassito Bossi ed altre sciocchezzuole che è meglio tacere. Deliri che purtroppo il Tinebra avalla in latino, quello dell'Officio, che a pagamento fece approntare l'ultimo vescovo borbonico di Agrigento un paio di anni prima dello sbarco fantasioso di un tal Garibaldi a Marsala.
Nel mezzo troviamo anche un prete pure lui fantasioso, suppongo antenato del nostro stimatissimo amico Giovanni, parlo di don Nicolò Salvo, che da bravo meteorologo data per certo in maggio quel mirabolante miracolo mai avvenuto.
Il Vinci or dunque con uno linguaggio direbbe un mio simpatico detrattore desueto e antiquato raffazzona una tregenda che verseggiata in due o tre versioni persiste ai nostri dì, a mio perpetuo scorno.
Vado alle attese del mio amico italo americano per dirgli che da quel Vinci poi mi trovo nel 1822 in una elegante "numerazione delle anime" che custodivasi in Matrice diligentemente finché visse l'ultimo arciprete di questo 'straordinario' paese di Racalmuto questi importanti dati sulla famiglia Vinci.
A quattro anni stava nella famiglia di don Giuseppe Vinci e di donna Teresa sua nobil moglie SAVERIO. Saverio poi mi risulta fratello di donna Isabella Vinci la moglie del pittore veneto. Da Saverio Vinci abbiamo don Calogero Vinci che sposa la nobile donna Antonia Cacciatore. E da tale matrimonio ecco i due figli maschi don Saverio e don Alfonso Vinci.
I quali ebbero diversi figli e figli: non pochi dei quali permangono ancora a Racalmuto.
Se don Calogero Vinci amasse cavalcare la cavallina e qualche bella figlia la ebbe fuori dal talamo coniugale noi che non abbiamo (o crediamo di non avere) pruriti moralistici, non ce ne meraviglieremmo.
Amiamo quel detto racarmutisi cu futti futti Ddiu pirduna a tutti. Dimenticano: don Giuseppe Vinci nel 1822 abitava in una strada importante: v. qli Matrice Strada delli Vinci. Cavolo se erano importanti!
Isabella Vinci ebbe a sposare nel 1888, invero già presto vedova da un tal Basarocchi, un attempato veneto, finito a Racalmuto non certo per fare il girovago imbrattatele: noi siamo certi per affrescare la volta del nostro bel teatro
e nel frattempo magari farsi ben remunerare per fare ritratti realistici dei tanti signorotti racalmutesi.
Costoro erano di solito usurai arricchitisi sfruttando le disavventure finanziare dei tanti pirriaturi che bucavano le loro terre alla ricerca del nuovo oro giallo quale fu lo zolfo.
Siur Maraira sposa questa bella giovane vedova Vinci pressoché al concludersi degli
abbellimenti del peccaminoso e costoso Teatro Regina Margherita voluto dai Matrona e erotici galantuomini del Circolo Unione.
Si disse, per godersi le grazie di ballerine delle opere liriche e specie quelle delle operette nei compiacenti palchi al riparo da occhi indiscreti per i paraventi al velluto rosso.
Così almeno tuonava il sacerdote Giudice che aveva voce in capito nel consiglio comunale di allora ma che ovviamente non poteva usufruire di quelle peccaminose alcove teatrali.
Si dà il caso che finiti gli ultimi appalti al teatro Margherita, il veneto Maraira prende la sua novella sposa e se la porta a San Cataldo e da lì poi torna nel suo Veneto. La figlia, unica, si sposerà nel 1916 a Padova. E da lì in America, penso, per dar figli a Dio che ebbero a procreare il mio simpatico amico Gaetano.
Non è da ora che mi interesso alla famiglia Vinci. Famiglia scesa nella nostra Racalmuto nel 'Settecento quando i Borboni ci governavano di sicuro meglio dei grigi Sabaudi o dei vari Crispi e delle cose che ben sappiamo.
Nelle mie carte vi è annotato un importante notaio. Ma non intendo qui fare un quadro prosopografico anche se ne ho la tentazione.
Ma l'ombra di un Vinci settecentesco appare in un mia recente rissa con il professore Carbone che,
avvalendosi di un componimento del suddetto Vinci osa sminuire la portata del rinvenimento di uno storico libretto che ebbe a fare mio fratello preside ed ingegnere.
Mio fratello inerpicatosi nella soffitta della casa paterna di sua moglie, casa che tutto fa pensare essere stata del canonico Mantione, trovò delle 'coroncine' che danno in bel vernacolo in siciliano,
la settecententesca versione di la Vinuta di la Beddra Matri di lu Munti che fortemente sgranella quella che partendo dalla vena poetica dl nobilotto settecentesco Frasceco Vinci ci inguacchia con l'incolpevole Castronovo.
Abbiamo che Francesco Vinci fu prima rinchiuso nel Seminario Vescovile di Agrigento ma presto buttò alle ortiche la sua seminaristica tunichetta dalla fila di bottoni rossi come anch'io negli anni 'Cinquanta ebbi ad indossare per anch'io buttarla alle ortiche ed invero pure lo stesso professore Carbone.
Ma a dire il vero il nostro opalescente assessore alla Cultura Totò Picone che non risponde al telefono manco se gli spari, in seminario non ci fu. Sennonché rapina da padre Mattina francesizzato in Giammeria alcune foto di quell'aureo libretto che io incautamente gli avevo fornito e le divulga come miracoloso rinvenimento di un altro ingegnere anche lui di nome Angelo ma trattasi del noto mistificatore dell'Idrisi. E non c'è verso di fargli rettificare quella sua furbetta e parentale attribuzione indebita.
Il Picone si avvale del testo tanto caro allo Sciascia, quel Tinebra che finché fu beneficiario dei Tulumello ed avversario feroce dei Matrona (guarda caso idolatrati infondatamente sempre dal nostro luminare Nanà) ma dopo medicatosi si autonobilitò spacciandosi con un doppio cognome: TINEBRA MARTORANA. E là apoditticamente il signor Tinebra in questa pagina, che il celebre Carmelo Mulé
ripubblicò a carico delle anche allora esauste casse comunali, ebbe a scrivere "in una sua memoria scritta da Francesco Vinci nell'anno1760 .... "- Al Giovane Picone quella data parse pane per i suoi denti.
Dunque il nostro don Franseco Vinci diffuse pensiamo il suo manoscritto quattro anni prima dell'agostiniano padre fra' Emmanuello Catalanotto gran caudatario della principessa Caetani e Buglio all'epoca nostra dominatrice per una distrazione feudale ai danni dei decaduti del Carretto.
Or dunque, Il Catalanotto che come ebbi a scrivere smunge la favoletta della Madonna del Monte da un Nobile Gioeni "corretto (sic) di ipocondria" e incredibili "passaggi dalla Libia, regno di Barca" e da altre facezie che oggi invece siamo dannati ancora a sorbirci nella recita platealmente satura di improbabili servi venuti dalla terra dalla lunga barba dell'appassito Bossi ed altre sciocchezzuole che è meglio tacere. Deliri che purtroppo il Tinebra avalla in latino, quello dell'Officio, che a pagamento fece approntare l'ultimo vescovo borbonico di Agrigento un paio di anni prima dello sbarco fantasioso di un tal Garibaldi a Marsala.
Nel mezzo troviamo anche un prete pure lui fantasioso, suppongo antenato del nostro stimatissimo amico Giovanni, parlo di don Nicolò Salvo, che da bravo meteorologo data per certo in maggio quel mirabolante miracolo mai avvenuto.
Il Vinci or dunque con uno linguaggio direbbe un mio simpatico detrattore desueto e antiquato raffazzona una tregenda che verseggiata in due o tre versioni persiste ai nostri dì, a mio perpetuo scorno.
Vado alle attese del mio amico italo americano per dirgli che da quel Vinci poi mi trovo nel 1822 in una elegante "numerazione delle anime" che custodivasi in Matrice diligentemente finché visse l'ultimo arciprete di questo 'straordinario' paese di Racalmuto questi importanti dati sulla famiglia Vinci.
A quattro anni stava nella famiglia di don Giuseppe Vinci e di donna Teresa sua nobil moglie SAVERIO. Saverio poi mi risulta fratello di donna Isabella Vinci la moglie del pittore veneto. Da Saverio Vinci abbiamo don Calogero Vinci che sposa la nobile donna Antonia Cacciatore. E da tale matrimonio ecco i due figli maschi don Saverio e don Alfonso Vinci.
I quali ebbero diversi figli e figli: non pochi dei quali permangono ancora a Racalmuto.
Se don Calogero Vinci amasse cavalcare la cavallina e qualche bella figlia la ebbe fuori dal talamo coniugale noi che non abbiamo (o crediamo di non avere) pruriti moralistici, non ce ne meraviglieremmo.
Amiamo quel detto racarmutisi cu futti futti Ddiu pirduna a tutti. Dimenticano: don Giuseppe Vinci nel 1822 abitava in una strada importante: v. qli Matrice Strada delli Vinci. Cavolo se erano importanti!
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