Il contesto storico di RACALMUTO
Note orientative. Un quadro storico di estrema sintesi.
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto scomparsa (a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte a superare l’onta del tempo).
In Sicilia, a partire dall’VIII secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto, questo nostro paese dell’entroterra agrigentino, appare completamente estraneo – nelle fasi di esordio – a codesto processo di colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia ellenica di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne del nostro altipiano. Di documentato, però, non abbiamo nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi archeologi all’imperatore Commodo (ma moderni più ponderati studi dissolvono quella datazione) e che in ogni caso sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e che stanno a comprovare una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria estrattiva.
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata Montagna e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705 ( ). Le tante e ricorrenti vestigia archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo Judì al Caliato, dalle Grotticelle a Casalvecchio e da ultimo, secondo rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto fra Diego, attengono alla cultura bizantina prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né rinvenimenti archeologici, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo il loro paese non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione musulmana o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ( ) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». Ma ecco che lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» ( ) E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps ( ), distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal. Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « .... l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tut¬tavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». ( ) Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ( ). Il Rachal Chammoùt (***** xammon*) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto. E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant domino illius agri extructum...” ( ) «A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento, da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.
Svanisce così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ( ). Il Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ( ). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ( ). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor» ( ) cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando costui non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.( ) Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ( ) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ( ) Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto. ( ).
La narrazione sinora soltanto abbozzata tende ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ( ) Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith ( ) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503, così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è solo sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo ha l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere talora irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero, lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Abbiamo potuto fotografare interessanti documenti dei primi anni del Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.
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L’intreccio del volume che presentiamo utlilizza fra l’altro una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sino ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo la magistrale opera di Fernando Braudel su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torino o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri dominicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta” della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.
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