Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Una introduzione è d’obbligo
come giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?
Mi impongo uno stile
moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di
quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso
vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile:
è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta
stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo –
catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi
sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed
in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea
appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri
giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di
esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri –
che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il
presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e
valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di
citarlo due volte nella Storia della
Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi
Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per
descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000
scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a
pag. 270 (ibidem) allorché ne
sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di
dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo
episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla
irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò
persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della
Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869.
Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di
Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in
prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito
che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata
di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate
all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men
che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi
famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente
volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai
consultata?
Il Traina, l’uomo, il vescovo
Ma che vescovo fu codesto
monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con
la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che
non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il
muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo
fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse
ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo
aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere
rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi
meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava
in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti.
Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i
gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei
benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici
che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad
esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è
persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di
difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano
appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente
perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono,
comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate
dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal
Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi,
dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una
delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo
confesso, è lo stesso canonico Picella a
farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare
tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso
la sacra congregazione del Concilio.
Pensate che il Picella fino
ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere
delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.
Codeste visite a Roma erano
diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era
lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti
tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie
per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano
censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà
sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto
predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili
opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati
di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel
sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad
Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di
una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.
Fra le carte che siamo
andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga
comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di
elucubrazione in diritto, de jure,
colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era
anche qui una ragione economica.
L’interdetto comminato al
vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini
comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale
che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a
quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito
a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra
sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né
particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei
rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese
odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di
illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità
canonicale, converrà con noi su tale assunto.
Vedremo come il canonico
Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi
agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni
dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è
incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la
testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito
soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e
per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.
Il Camilleri prende questo
vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo
peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”,
storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia.
Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione
savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel
1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante
per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava
già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non
solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli
arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva
riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel
che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor
Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il
Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide
visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali,
ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri
è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono
l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere
di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti
imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime
tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può
formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza
di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione,
o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?
Lascia che i morti
seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco
di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più
praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto
clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,),
l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e
faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che
comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti
protesi a seppellire altri morti?
Cenni biografici del Traina
Per una strana
singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo
Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente,
il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e
giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha
riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi,
antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito
epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee
sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era
tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi
che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e
controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di
vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa
anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di
nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis”
celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV –
Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i
due referenti di fiducia, il messinese don
Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano
molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa
circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona;
possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di
nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73
anni.
Per quel che si vedrà, il
medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il
Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si
venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci suggeriscono che la mortalità infantile era
feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso
nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella
barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro
ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte
ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra
senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.
Il certificato medico
dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare
falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali
avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il
Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è
assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere
oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di
sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce
vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per
podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e
soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare
almeno di doverlo sospettare.
Il Traina si
proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima,
di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus”
scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti
hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era
poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del
Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore
Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città.
et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua
madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et
cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della
città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non
provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è
fatto in persona di esso dottor
Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è
di 48 in 49 anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et
dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto
dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti
cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso
dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto
publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario,
anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio.»
Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina
fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in
Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.
Il de Bardis ci informa che
per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo
così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove
dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale
spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta,
meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei
confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di
fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non
denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua
elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico,
attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere
dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante
dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’
dotato di grande dottrina ed è molto
atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento
alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le
sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato
di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria
coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur
esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua
trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli
“paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla
fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello
del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio,
integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto
pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”. Non per nulla il vescovo gli diede licenza di
poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma
qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella
chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si
ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della
sua vita e costumi.»
Nel gennaio del 1627 giunge
al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo
cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il
vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor
como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala
dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva
quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà
vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione
di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro
utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”,
invita “Y Cardinal Barverino” e firmata
da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul
senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il
semplice taglio burocratico.
Il 10 febbraio il concistoro
ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il
processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco
Barberini, ex fratre germano nepos
del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il
dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per
suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui
costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e
cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico
di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo
Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,
Il Blasco si dilunga nella
descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la
curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti
“relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe
Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una
testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.
Trascriviamo alcuni passi in
latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.
«Eidem anno, indictione, mense die,
et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum
de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam
formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice
Cancellarium dicti Almi Studij, et
solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit
tenoris infrascritti videlicet:
In Nome Domini Amen, Nos don
Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et
temporalibus Vicarius Cat. sede vacante
... (solita forma) ...
significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae
mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et
potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de
Mainoin defectu lectoris non doctoris etiam Compromotoris, et
respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M.
Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci
Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem
religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei
evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium
s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro
Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et
sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et
approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos
igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus,
virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et
illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter
demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta,
dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare
confutando ac solvendo de consilio et
pari voto ad d. collegi magistrorum et
doctorum eundem d. Franciscum nomine
approbavimus
magna cum laude
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum
facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum
solito sigillo mun. videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et
ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque
consiliarius etc. ... notum facimus
presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis
dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo
matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere
insignisse eidemque hab. primam
clericalem tonsuram cum ceremonijs ...
etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor
temporum nativitatis, D.N. Jesu
Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
Ego Odoardus Tibaldesius
clericus Spoletinae..
E dopo tanto latino che
pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro
pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che
consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della
Sicilia.
Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo
d.mum d. Franciscum Traynam dignum esse ut
ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem
Cad. Barberinus
Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card. Brandinus
Idem censeo ego C. presb. card. Pius
Item censeo ego diac. card. Aldobrandini
Avremmo qui voglia di
continuare con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto
di fede del futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo
nella Santa Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato
per cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata
almeno rispetto al moderno catechismo.
Giunto il Traina ad
Agrigento, inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i
canonici del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per
la visita alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il
vescovo che, nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I
canonici attivano gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a
Palermo e presso la curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante
scomunica da cui sarà assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed
altri maggiorenti di Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche
Racalmuto sono pronti a dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio
dell’Arcivescovo di Palermo. Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la
curia vaticana, Ma il re, titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non
ammette simili fellonie. Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto
scottante per Roma. Il Traina può gongolare. Intanto comincia a provar gusto
nell’arricchirsi. Considera serpi in seno i canonici e si avvale in misura
crescente dei propri parenti. Il Pirri gli fa visita e l’adula nella sua
possente storia religiosa della Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico
racalmutese, gli dedica un suo libro di medicina (il peggiore). Tutto sembra
volgere al meglio quando scoppiano i tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il
nostro discorso critico iniziando con la menzione di quanto, mutando registro,
annota nei suoi diari che finiscono pubblici Rocco Pirri.
L’EPISCOPATO AGRIGENTINO DEL TRAINA
Dalla cronaca alle pubbliche accuse
Il Pirri, oltre alle sue
opere storiche, ci ha lasciato una sorta di cronaca, un diario dei pubblici
eventi degli anni terminali della sua vita: gli annales
Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore
Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Noi ci
avvaliamo, però, della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo. «Ma in
Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per
quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran
tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e
liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo
scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il
furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La
Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento.
Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i
dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne
fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di
cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di
Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda
agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato
Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore
della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima
carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave
sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la
città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse
dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e
fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano
desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il
prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni
migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era
provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle
armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo,
chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del
popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui,
creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per
darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro
ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer
grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla
stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote
Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul
primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del
vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici,
e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il
promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più
intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde
atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre
luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una
parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di
quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune
fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa
del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote
Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il
vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo,
ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi
gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila
scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi
sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua
stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila
scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si
dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed
anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma
del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per
racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché
neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con
molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che
furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto
di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare
con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde
essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di
guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta
sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar
di carcere i loro compagni, e dare indulto pel crimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo
avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e
dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta
con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più
innanzi diremo.
«Frattanto egli,
prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea colà mandato il capitano di
campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso,
ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con
dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare
vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla
tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste,
furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di
duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a
cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se
non la prosa, il racconto di Camilleri, fino nei minuti particolari, a parte
s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare
poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo
Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata.
(Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino
è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia
Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di
Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis
virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime», ti piaccia patrocinare la
nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le
vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono
tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile
difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De
Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo
ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è
stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che
nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore
ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di
riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo
per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo
epitaffio della Cattedrale ed a tramandare, almeno negli ambienti
ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di
“somma avarizia”.
Per quel che
concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico
della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli
dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo
Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; è lo stesso
Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo …
[furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti,
Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti».
«Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino
fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche.
Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS
TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era
riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene
dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda
di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare.
Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle
vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano
Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma
per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede
indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un
confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a
Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale
fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato
dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi
– in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore
questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del
Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna
dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo
concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A
consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la
domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono
le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la
pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed
annuente il pontefice (optimo Rege id
enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente
- e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e
nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Salerno
agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbiamo trovato assiduo nelle
carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un
altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado
Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato? Il papa da
Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è
sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò
vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino,
colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per
complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva
continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia,
naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis causa, adhuc controvertitur».
Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il
Netino.
E finalmente il
vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i
costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova
pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si
conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso
la Lucchesiana.
Si mette ad
ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo
ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli.
Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come
siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri
d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò
un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei
moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia
per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere
autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti:
almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores speactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di
allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il
seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si
adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo
avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non
avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e,
soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi,
massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed
a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25
febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo
con cui si convocava a Roma il Trahina.
A Roma il
Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze:
tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostrerà dopo a noi
risulta qualcosa di diverso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad
suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo
Trahina).
Sennonché, non
molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della
Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la
contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto,
tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione
civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si
infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte
con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione
dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a
Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare
(chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si
ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari
signorotti feudatari locali, imponendosi il totale ripristino dell’antica
giurisdizione.
A questo punto
il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei
frusti lemmi della piaggeria: «noster
Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes
munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi,
antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.».
Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa
agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale
del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento
dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci
industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale
avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle
stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie –
prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di
storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il
Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo
di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano,
espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio,
per diciassette anni al servizio dell’invittissimo re di Spagna, Filippo III e
IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto
con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore
dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite
afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi
eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si
addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i
classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le
formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al
Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la
segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13
novembre del 1639, solemni ritu della chiesa Divae Mariae de Misericordia
Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.
Un semplice
accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni
comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare,
direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di
un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie
pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola
eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando
poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene
conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di
fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era
il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige
testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1651. I soliti
legati alle chiese, qualche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii
della sua Cattedrale acciò fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio.
C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non
vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: soffre d’alumbramiento annoterebbe malizioso
Leonardo Sciascia.
Per la dotazione
libraria del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto
esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse
l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era
costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a
leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole
eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed
edificante vicenda di monsignor
Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De
Gregorio, nella sua Cammarata – notizie
sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura
del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo
le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag.
220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il
Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente,
il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentesca il
racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag.
541 delle sue celebri (e celebrate Memorie),
ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei
tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non
osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa
avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle
rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la
costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando,
la creazione e la dotazione del Monte di
Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la
costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il
perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un
giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito
aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640,
otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia
in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette
copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di
idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La
generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e
provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli
avanzi di quei tumulti, egli compra la città nostra, contentandosi del semplice
usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la
proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli
eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual
uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai
suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».
Ci pare che sia
scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che
sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale
arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia
arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate
nelle cause per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che
repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima
Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria
atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24
luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano
– in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di
Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio
notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di
Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche
siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di
Racalmuto.
Eppure, ancora
nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f.
424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato
palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di
Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva
incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo
che non vi dovesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il
vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è
costretto a fornire informazioni. (ibidem
reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa
l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è
datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità
di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione
di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de
Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento,
quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene
chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione
di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.]
et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S.
Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et
altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della
medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare
che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si
sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le
missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti
a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche
allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo
ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci
credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte
millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità
delle papali o regali o repubblicane cancellerie.
La pazienza
vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o
l’indifferenza) del vescovo, la sacra
congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo
del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per
ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di
sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco
d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem,
reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma
pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il
tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa
adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio
notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a
concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem,
reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel terzo
registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva
inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene
comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha
fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto
grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandato il zelo, et osservanza di
V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis
servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a
divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene
sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [1]con
procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne
poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3
ff. 24-24).
Per quel che ne
sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica
– una tale gravissima censura non è passata sotto silenzio. Si vedrà alla fine
del presente lavoro l’esito di quella scomunica. Sarà il cardinale di S.
Onofrio ad irrogare le pene e poi ad assolvere il vescovo previa adeguata
penitenza
Monsignor De
Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
a)
non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi
tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
b)
il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle
accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica
Agrigento;
c)
ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in
fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e
malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel
governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del
presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale
quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a
sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto
racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che
signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una
personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in
definitiva e che di agganci con le prosapie locali poteva vantare solo quelli
che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote
quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero è che la
chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo
– questa sorta di senato con diritto di reggenza in tempi di vacatio
– era varia ed i canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del
vescovo ma spesso a condizionarla. Diamo uno sguardo alla composizione del capitolo: al tempo di
monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla;
divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano
Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo;
la dignità del tesoriere spettava a Pietro Tomasino, parente del vescovo come
si è visto; fra i canonici emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano
don Vincenzo Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno
riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra
tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce
soprattutto la quantità.
1
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1632
|
FRANCESCO
|
TAGANO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1632
|
SANTO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
|
4
|
1632
|
GIUSEPPE
|
SANFILIPPO
|
BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
|
|
|
|
|
CHIESA DI S. NICOLA
|
5
|
1632
|
LEONARDO
|
D ' AMODEO
|
|
6
|
1632
|
G.BATTISTA
|
ACQUISTA
|
|
7
|
1632
|
FRANCESCO
|
CICIO
|
CAPPELLANO
|
8
|
1632
|
PETRO
|
RAFFAELI
|
CAPPELLANO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1632
|
FRANCESCO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
2
|
1632
|
DOMENICO
|
SFERRAZZA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO 1634
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
|
|
|
|
SO IL 12.3.1635
|
2
|
1634
|
LEONARDO
|
BERTUCCIO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1634
|
PASQUALE
|
MACALUSO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
5
|
1634
|
PIETRO
|
CASUCCI
|
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MARTORELLA
|
CAPPELLANO
|
7
|
1634
|
ANGELO
|
CASUCCI
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
SUDDIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
G.BATTISTA
|
LO BRUTTO
|
CHIERICO
|
2
|
1634
|
ANDREA
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
3
|
1634
|
SIMONE
|
SALVAGGIO
|
CHIERICO
|
4
|
1634
|
PIETRO
|
DI ROSA
|
CHIERICO
|
5
|
1634
|
ANTONINO
|
LO PORTO
|
CHIERICO
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
7
|
1634
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO 1639
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
ECONOMO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
DIACONO
|
2
|
1639
|
GIROLAMO
|
SCIRE'
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
D'ACQUISTA
|
CHIERICO
|
2
|
1639
|
GIUSEPPE
|
CASUCCIO
|
CHIERICO
|
3
|
1639
|
MICHELANGELO
|
D'ASARO
|
CHIERICO
|
4
|
1639
|
G.BATTISTA
|
BAERI
|
CHIERICO
|
5
|
1639
|
GIUSEPPE
|
LA LATTUCA
|
CHIERICO
|
6
|
1639
|
ANTONINO
|
MACALUSO
|
CHIERICO
|
7
|
1639
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CHIERICO
|
8
|
1639
|
MARIO
|
TURRETTA
|
CHIERICO
|
9
|
1639
|
GIOVANNI
|
PITROCELLA
|
CHIERICO
|
10
|
1639
|
GASPARE
|
TROISI
|
CHIERICO
|
11
|
1639
|
VITO
|
BURGIO
|
CHIERICO
|
12
|
1639
|
FILIPPO
|
DI CHIAZZA
|
CHIERICO
|
13
|
1639
|
ANTONINO
|
MUNTILIUNI
|
CHIERICO
|
14
|
1639
|
FRANCESCO
|
GIUSTINIANO
|
CHIERICO
|
15
|
1639
|
PIETRO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
16
|
1639
|
ISIDORO
|
D'AMELLA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ANNO 1645
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE D.S.T.
|
2
|
1645
|
GIUSEPPE
|
TRAJNA
|
ECONOMO
|
3
|
1645
|
FRANCESCO
|
TIGANO
|
|
4
|
1645
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
|
5
|
1645
|
GIUSEPPE
|
D'AGRO'
|
|
6
|
1645
|
PAOLO
|
LA MENDOLA
|
|
7
|
1645
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
|
8
|
1645
|
SALVATORE
|
PITROZZELLA
|
|
9
|
1645
|
MARIANO
|
MALASPINA
|
CON LICENZA DI PARROCO
|
10
|
1645
|
FRANCESCO
|
MACALUSO
|
|
11
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
12
|
1645
|
LEONARDO
|
MORREALE
|
COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
|
13
|
1645
|
GIOVANBATTA
|
D'ACQUISTA
|
|
14
|
1645
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CAPPELLANO
|
15
|
1645
|
CALOGERO
|
DI PUMA
|
|
16
|
1645
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
FONDATORE CHIESA S. MICHELE
|
|
|
|
|
|
ANNO 1649
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1649
|
MARIANO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE S. NICOLO'
|
3
|
1649
|
ANTONIO
|
MACALUSO
|
|
4
|
1649
|
SIMONE
|
LO GUASTO
|
COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
LO SARDO
|
CHIERICO
|
2
|
1649
|
NATALE
|
DI ALFANO
|
CHIERICO
|
Ed ai fini di
tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella
religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito un excursus su
Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina, che riportiamo in
appendice.
Il Traina dopo la scomunica
A metà del 1631,
il vescovo Traina sembra essersi rinsaldato nel suo soglio episcopale; non si
discute più la sua autorità; un compromesso con il cardinale Doria appare più
che verosimile. I due prelati sono ora sulla stessa barca nella difesa dei
privilegi penali delle loro rispettive chiese.
Francesco Ferdinando de la Cueva, duca d’Albuquerque è viceré spagnolo
molto fedele al suo sovrano e non tenero verso le usurpazioni dello stato
ecclesiastico siciliano, sempre pronto ad invadere campi alieni e rapace
nell’annessione di poteri e di meri e misti imperi. Il f. 65 v. del reg. n° 3
della Sacra Congregazione delle Immunità ecclesiastiche ci pare che sveli soprattutto preoccupazioni
per l’attacco istituzionale del vicereame palermitano avverso la locale chiesa
e lasci per il momento da parte le grintose grida o le scomuniche contro i propri
vescovi per faccende minori. Là – il 6 maggio 1631 – si tramanda un invito al
Traina e al Doria, in contemporanea: «rinnovandosi da ministri laici – si
puntualizza – l’ingiusta loro pretensione, che gli officiali delle Curie
vescovili non debbano godere il privilegio del foro in tutti li delitti che
essi commettano davanti il loro ufficio in dette curie vescovili … si
compiacciano [i presuli in indirizzo] difendere la giurisditione ecclesiastica
da questo pregiudicio.»
Quindi, per
oltre un triennio, Agrigento scompare dalle attenzioni dell sacra congregazione
romana delle immunità ecclesiastiche. Solo nel dicembre del 1634 (Reg. n° 4 f.
83) si torna a scrivere al vescovo di Giurgento: «nella causa di Baldassare di
Blasius – si esordisce nella missiva – V.S. lo facci ritenere ben custodito et
sicuro … conforme la Bolla di Gregorio XIV … [e] facci pigliare giustificationi
sopra le qualità di esso con trasmettere poi quanto pertinente alla S.C., acciò
si possa pigliare la risolutione che sarà di giustitia.» Il documento trascende
l’angusto limite delle controversie ecclesiastiche per darci squarci di diritto
penale feudale, con gli annessi risvolti procedurali e con le implicazioni di
una evanescente giustizia carceraria. Quella competenza del foro rivendicata
dalla curia romana per crimini commessi nella lontanissima Agrigento in forza
di una vaga Bolla di Gregorio XIV disorienta alquanto. I modernissimi studiosi
di diritto feudale siciliano – un po’ forse distratti dalle aporie delle
indecifrabilità istituzionali del settore pubblico e del diritto privato - non
pare che per il momento siano sensibili a tali incognite della minuta giustizia
dentro costituzioni atipiche come senza dubbio sono quelle che formalizzate o
modellantisi in forza delle esigenze pragmatiche reggevano e vincolavano le realtà
feudali tarde del Seicento.
Sulla vicenda si torna il 22 maggio 1635 (ibidem f. 100) e così sappiamo che
Baldassare de Blasio veniva perseguito in quanto «si pretese havesse commesso
homicidio proditorio gode[ndo] l’immunità eccelsiastica.» Il vescovo aveva
omesso di uniformarsi agli ordini vaticani, e da Roma gli si intimava di
«avvisare il seguito giustificatamente»
Dal 1635 al 1636
vicerè è Luigi di Moncada, duca di Montalto. I Moncada hanno da tempo
ramificazioni tra i nobili agrigentini e rientravano in quelle consorterie che
in chiusura del XVI secolo si erano scontrate con il vescovo spagnolo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ed ora, si è visto, non
mancavano di contrapporsi al Traina che di nobili lombi non ne aveva di
perfettissimi. Il duca di Montalto non gradisce l’autocrazia del vescovo di
Agrigento. Lo avversa ed il vescovo si rivolge a Roma. La congregazione ne
prende le difese ed il 25 novembre del 1636 invia una missiva del seguente
tenore (ibidem reg. 4, f. 100):« La
fiducia che hanno questi Em. S. nella prudenza ed integrità di V. S. dà
occasione di pregarla a operare, che siano remosse le molestie che il Vescovo
di Giorgento riceve da Ministri del Duca di Mont’alto, quali essendo trascorsi
oltre il dovere meritano non restare impuniti di simili eccessi, et che con il
dovuto pentimento usino quelli atti di riverenze che sono dovuti al Pastore. Si
attenderà dunque l’effetti della prudenza di V.S. alla quale etc….»
La prudenza e
l’integrità cui si rivolge il vaticano non emergono da documento in esame, ma è
certo che viene coinvolto anche il cardinale Doria, cui spetta difendere
l’aborrito vescovo agrigentino. Si sarà dato da fare? Ne dubitiamo. L’amanuense
della Congregazione romana annotava: “si
scrive per ordine di N.S. e del Sig. Cardinale Barberino”. Sapeva dunque
della riluttanza dell’arcivescovo di Palermo per siffatta incombenza. Certo si
è che il 3 febbraio del 1637 il cardinale Doria non aveva ottenuto (o aveva
fatto in modo che non si ottenesse) alcun risultato apprezzabile: «si avvisa
delle molestie – tornava a ripetere la curia papale – che da Ministri Laici si
danno al vescovo di Giorgenti» (Ibidem
reg. 4 f. 236v).
UN VESCOVO INDECIFRABILE – I CANONICI GLI SONO AVVERSI
Monsignor Traina alla luce delle sue “relationes ad limina”
Quanto fin qui
siamo andati discorrendo, vediamo di riscontrarlo alla luce delle relazioni
triennali della Congregazione Concistoriale quali sono consultabili presso
l’Archivio segreto vaticano. Premettiamo che l’ultima carta precedente
l’episcopato del Traina è datata 4 aprile 1621. La prima del vescovo che ci
occupa porta invece la data apocrifa del 1631 (ASV – S.C. Concistoriale –
Relationes reg. 16 – f. 81r). Trattasi della relatio per la quale erano state comminate le sanzioni cui si
accennava. Risulta firmata
dall’«humill.s et devotiss.mus servus Franciscus episcopus agrigentinus.»
Diretta agli “em.mi et rev.mi D.ni”, la relazione esordisce evocando la
costituzione di Sisto V sulla visita dei sacri limini e delle cattedrali
ecclesiastiche cui sono tenuti i presuli. Si ringrazia la Divina Provvidenza
per aver dotato la chiesa di un papa come Urbano VIII. Si specifica che le
visite di rito sono state effettuate il 21 ottobre del 1631. La visita attiene
a quella obbligatoria per il quattordicesimo triennio. Il povero vescovo aveva
lasciato Agrigento già nel febbraio precosro, ma “tempestatibus maris ac
sinistrorum temporum iniurijs” gli era stato impedito di raggiungere i Sacri
Limini. Dobbiamo credergli o è una pietosa bugia, questa dei mari procellosi e
dei tempi infidi, per giustificare la riottosità agli ordini papali che prima
abbiamo in qualche modo significato?
Il testo tradotto della prima “relativo ad limina” del Traina
Finalmente ci si
risolve a rappresentare lo stato della chiesa agrigentina, “statum ecclesiae
meae referam”. «Si dice che la Chiesa agrigentina – traduciamo – sia
suffraganea della chiesa metropolitana palermitana, ma è lecito pretendere che
essa, per i privilegi apostolici, sia esente e sia immediatamente assoggettata
alla Sede Apostolica”. Si inizia, dunque, con un fendente avverso il non amato
cardinale Doria. Passando allo stato
giuridico di Agrigento, si afferma: «La civitas
di Agrigento sorge nel Regno di Sicilia ultra
Pharum e nelle cose temporali è assoggettata al re Cattolico: un tempo di
rito greco, poi, liberata dalla tirannide saracena dal conte Ruggero, tornata
sotto il rito latino, vi persevera tuttora.» La recente peste ha, tuttavia,
decimato la popolazione. Resta comunque un’ampia diocesi ripartita tra diverse
città, vari paesi e non poche terre. Il vescovo assicura di avere visitato o
fatto visitare tutte le 52 località nel precorso triennio. E, in tali
occasioni, non ha mancato di svolgere la sua missione episcopale «sacramentum
confirmationis administrando, et per me meosque visitatores predicando, monita
salutaria populo dando, nulli labori pro animarum salute pavendo».
«Ho curato che
in ogni località vi fosse la parrocchia con tutto quanto occorre, che i
sacramenti venissero amministrati con la dovuta vigilanza ed accuratezza; ho
ingiunto ai parroci di predicare al popolo ogni domenica e per tutto il tempo
quaresimale facessero loro stessi o altri fruttuose omelie. Ottenni che ogni
anno i padri gesuiti svolgessero le missioni per l’intera diocesi affinché con
le esortazioni e le confessioni si convertissero le anime. Ho istituito le 40
ore nelle chiese parrocchiali ogni singola domenica per invocare Dio perché ci
conceda felicità per lo Stato e per la
Chiesa e sovvenga alle pubbliche necessità.
«Ho disposto per
la riparazione di tutte le chiese cadenti non mancandosi di dotarle dei
paramenti e delle necessarie suppellettili.
«La diocesi
conta 190.000 anime, di cui atte alla comunione 105.000. Le persone
ecclesiastiche sono 3.449; le chiese secolari e regolari, con curato e semplici
614; monasteri maschili, collegi, conventi 153; monasteri di monache 22, una
casa delle convertite, 6 case per orfane, 20 ospizi per gli infermi, un monte
di pietà, chiese madri o curazie 87, associazioni e confraternite di laici 238.
«La cattedrale è
sotto l’invocazione dell’Assunzione della Beata Maria, di San Giacomo apostolo
e di S. Gerlando, una volta vescovo di questa città ed ora suo protettore e
patrono. La medesima chiesa che
parzialmente minacciava di andare in rovina e necessitava di ripari ho
adeguatamente fatto riparare ed ora ho iniziato ad ornarne le cappelle. In essa
si trovano il sacrario, il coro, l’organo, la sacrestia, il cimitero, il
campanile con molte campane e tutto quanto si addice ad una cattedrale. Ho
ornato in sacrestia gli stipi e le arche di legno che contengono le
suppellettili e gli altri paramenti sacri.
«Ho riparato
varie parti della cattedrale e dell’annesso palazzo episcopale e di recente
l’ho ornato con un giardino ed altri decorazioni. Nella cattedrale ci sono 4
dignità delle quali il maggiore e il primo dopo il pontificale è il diaconato e
16 canonici e molti altri presbiteri e
chierici che assistono agli uffici divini ed alle sacre funzioni. Legati e
rendite sono sufficienti per il loro sostentamento.
«Al fine di
evitare che vengano defraudate le volontà dei testatori, espressamente ho
ordinato e disposto che nelle sacrestie della città e della diocesi venga
esposta una tabella in cui si annotino gli oneri per messe e per anniversari.
Per di più, ho fatto obbligo ai notai che sotto pena di scomunica debbano dare
notizia al vicario generale o ai vicari fonanei della diocesi di tutte le
disposizioni testamentarie, o d’altra specie, nonché delle donazioni per causa
pia, e ciò entro otto giorni dalla data della disposizione.
«Nella predetta
cattedrale sussiste la prebenda teologale ma non quella penitenziale. Mi
adopero perché gli oneri penitenziari vengano sopportati da un canonico maestro
di teologia. Ho predisposto un nuovo archivio ove conservare le scritture
pubbliche e per consentire una facile consultazione ove occorra.
«Nella predetta
città opera una pia casa di convertite il cui numero al presente ascende a 20
unità. La qual casa essendo del tutto priva di rendite viene da me sovvenzionata
con le mie rendite. Ed ho anche dotato 150 vergini orfane per mio debito
pastorale acciò per la loro povertà non finiscano male e si sottraggano al
pericolo della loro pudicizia.
«Nella diocesi
non ci sono monti di pietà, tuttavia vi sono alcune confraternite di laici
simili ai monti di pietà che s’incaricano di seppellire i morti e di sistemare
con buoni matrimoni le orfane povere. Io infatti ho sopperito alle necessità
della città con paterna sollecitudine erigendo il monte di pietà e dotandolo di
mille scudi.
«In città vi è
pure il seminario dei fanciulli ecclesiastici da me riformato ed accresciuto in
modo tale che sebbene vi fossero tenui redditi purtuttavia vi trovano alloggio
e vi attendono agli studi ben 18 alunni; e ciò si spiega perché non manco di
sopperire alle spese con contributi tratti dalla mia mensa episcopale.
«Nella chiesa
cattedrale si venera il corpo di s. Gerlando ed il capo di santa Vittoria; a
Licata il corpo di s. Angelo; a Sutera quello di s. Paolino; nella terra di
Cammarata i capi di tre consorelle di s. Orsola sono onorate in vasi di
argento; infine diverse altre reliquie vengono conservate nella stessa città e
in diocesi.
«Ho convocato e
celebrato secondo le prescrizioni dei decreti del sacro concilio tridentino il
sinodo diocesano a cui ho deputato giudici ed esaminatori sinodali e ho
pubblicato non poche costituzioni e ordini per la riforma e l’eliminazione di
taluni abusi non mancando di prescrivere norme di vita sia per gli
ecclesiastici che per i secolari che se Dio vuole saranno osservate per la
salute dell’anima.
Che si serva il
coro delle chiese in modo decente e con abito decoroso, con la tonsura
clericale ho stabilito; che nei negozi secolari non si immischi il clero si è
stabilito; del pari si è sancito di adoperarsi a che il popolo si mantenga
docile, clemente e pieno di carità, mentre i giovani siano spinti alla debita
osservanza dei sacramenti e rispettino i precetti della chiesa.,
«Mi industrio
affinché in qualunque centro abitato della mia diocesi vi sia un maestro di
grammatica e di musica e dove è possibile un lettore dei casi di coscienza. Ho
ordinato che in qualunque matrice vi sia un maestro di cerimonie il quale abbia
costantemente presso di sé il cerimoniale romano ed il direttorio del coro
affinché gli uffici divini vengano celebrati decentemente.
«Nella diocesi
vi sono due terre in cui permane il rito greco ed i loro sacerdoti sono stati
consacrati in città e in modo specifico dal vescovo di Sant’Atanasio a questo
effetto deputato. Procuro un cappellano addetto alla cura delle anime in quelle
località in cui per povertà non può erigersi la parrocchia.
«In questo
esordio della mia missione episcopale ho rinvenuto, specie per la sede vacante
durata un triennio, nella città e in diocesi vari abusi e molteplici varietà di
vizi, come ad esempio l’usura, l’incontinenza, la trasgressione del precetto
festivo, l’inobbedienza, la sottrazione alla giurisdizione ecclesiastica,
l’evasione dai tributi alla chiesa; di tal che i crediti degli ospizi, delle
confraternite e degli altri pii luoghi ascendono ad oltre 100 mila scudi, né i
debitori si possono facilmente costringere, in particolare perché vengono
protetti iniquamente dai ministri temporali delle singole comunità. Infatti
codesti ministri temporali o i loro domestici o familiari per la maggior parte
sono loro stessi i debitori. Così i predetti luoghi pii soffrono non poco
detrimento e le loro proprietà vengono usurpate da altri. Mi sforzo nel
radicare siffati abusi e difendo con tutte le mie forze la giurisdizione e le
libertà ecclesiastiche.»
La chiusa è di
rito: un umile invito ai potentissimi cardinali di essere solleciti nel
redarguirlo nelle mende in cui involontariemente fosse incorso. Altrettanto
rituale la sottomissione alla volontà della sacra congregazione, ai decreti del
sacro concilio tridentino ed alle sacre costituzioni apostoliche.
Si è visto che
il papa ebbe a considerare adeguate le giustificazioni del vescovo e solo per
non fare passare impunite le varie inadempienze agli ordini vaticani si invita
il cardinale competente a punizioni che ci appaiono esagerate e che, sì,
andarono ad effetto ma subito rientrarono con una solenne confessione ed
apparente penitenza. Il papa ne diede incombenza al confessore del vescovo.
Diranno, poi, i canonici ribelli che fu subito “benedetto”.
Chiose e commenti
La relazione del
Traina è abile, piena di fervore religioso, per i suoi tempi persino provvida.
Che mentisse? Non ci pare. Crediamo che prima delle calamità della metà del
Seicento, quando il presule era ancora piuttosto giovane, l’uomo fosse valido.
Invecchiando, con l’umano raggrinzirsi nelle morse dell’avarizia può essere
peggiorato. E così le indubbie colpevolezze possono spiegarsi.
Il precedente 5
aprile il cardinale presbitero Roberto Ubaldino titolare di Santa Prassede
aveva attestato l’avvenuta visita dei sacri limini da parte del vescovo
agrigentino. Era stata una visita fatta personalmente per il XV triennio. Il
foglio (84r) è pieno di incisi e monitori squisitamente ecclesiastici. Ma
sembra che non sia servita a molto, se furono comminate (o semplicemente
disposte) le sanzioni che in esordio abbiamo segnalate. Contro il vescovo
cospiravano quindi le grandi famiglie dell’aristocrazia agrigentina; per quel
che ne emerge trattavasi dei Gioeni di Giuliana, del conte di Burgio, dei signori di Cammarata
e di San Giovanni. Non può parlarsi del conte Giovanni del Carretto di
Racalmuto, essendo costui appena un dodicenne.
Troppe formalità per una delega – Una seconda scarna “relativo”
Non passa neppure
un anno ed il travaglio del Trayna con la curia papale riprende: altra visita
troppo onerosa per farla davvero, altre giustificazioni da accampare, altri
atti formali da redigere Tre pagine fitte fitte vengono stilate dal notaio
agrigentino (si ammira un sigillo disegnato a penna con un ingenuo logo
notarile), Gaspar Quaglia apostolica et
regia et potestate judex ordinarius
atque publicus notarius agrigentinus,
per una banale procura del vescovo Francesco Traina al proprio canonico
S.T.D. Lorenzo Merenda. Chiamati a testimoniare due dottori in sacra teologia,
don Cesare Malagrida e don Vincenzo Babbilonia, nonchè il n.h. Giovanni Games.
Ci pare che per il momento il nepotismo non fosse piega molto estesa presso la
curia di S. Gerlando.
Laurentius Merenda Canonicus Cathedralis
Ecclesiae Agrigentinae ad Urbem specialiter transmissus ab episcopo suo
agrigentino qui ob corporis indispositionem, et senilis aetatis ac longi
itineris difficultates Sacra Apostolorum limina personaliter visitare nequit
absque evidenti vitae periculo ac gregis sibi commissi detrimento attento …
etc. etc. Anche se dette in latino – peraltro non cospicuo – le lamentele e
gli inconvenienti paiono digressioni furbette. La sintesi della relazione – che
segue – è troppo scarna e insoddisfacente; non è atta neppure a fornire la
conferma dei paragrafi della precedente rappresentazione, ma non era passato,
come già detto, neppure un anno: siamo infatti in data 21 gennaio 1632.
La terza relazione ai sacri limini
Il tempo scorre
veloce e si è già nel 1634: altra rognosa scadenza con Roma. Altri tre fogli
fitti per la delega, le giustificazioni, gli arabeschi notarili. Urbano ottavo
lo si segnala papa per dono della “divina provvidenza”, ma per Filippo IV gli
orpelli non finiscono mai. “regnante
preminentissimo et invictissimo ac catholico domino nostro domino Philippo quarto Dei gratia rege Castellae, Aragomum,
utriusque Siciliae, Hierusalem, Partugalli, Ungariae, Dalmatiae, Croatiae,
Navarrae, Granatae, Toleti, Valentiae,
Hijspali, Sardiniae, Corsicae, Murtiae, Algarbij, Algezeris, Gibiltaris,
Insularum Canariae, et Terrae Fermae, el aliorum Regnorum feliciter Amen ..” e tutto ciò per attestare, da parte del
notaio Ludovico Sciortino, che monsignor Francesco Traina delegava il canonico
don Filippo Picella a rappresentarlo nella visita triennale a Roma e nelle
connesse incombenze. Qui dunque il canonico Picella gode della fiducia del
Traina, Un dodicennio dopo lo scenario cambierà e Picella diverrà astioso
accusatore e denigratore del suo vescovo.
Emergono dal documento personaggi del tempo come Vincenzo Gibilaro, don
Cesare Malapegna, Bartolomeo Cardilicchia, don Gerlando Tabbone, Antonio Barba
avalla con la sua autorità regia estesa
per l’intera Val di Mazzara e appone il proprio logo a forma di lambiccato
ostensorio. E poi una firma illeggibile, quella di Nicola Antonio Pancucci e di
Giovan Battista De Labiso. E’ il 13 febbraio 1634.
La relazione
presentata dal Picella è quasi una copia conforme della paginetta di due anni
prima. Ma l’attestazione liberatoria – chissà quanto costata – è tutta lì stilata con malcerta grafia, la prima parte,
ed in bel corsivo la seconda. “Fidem
facio ego infrascriptus qualiter r. d.
Philippus Picella Canonicus Cathedralis
Ecclesiae Agrigentinae pro ill.mo et Rev.mo D. Francisco Episcopo Agrigentino
visitavit Sacra apostolorum limina “. … Scripsi et subscripsi hac die 20
Martii 1634 – Gabriel Mancinus Basilicae Sac.;
don Graziano Casarovius , monaco cassianense e sacrista di S. Paolo
attesta la visita del delegato della basilica sopraddetta.
Le adempienze del 1638
Nel 1638 il rito
deve ripetersi. Stavolta tocca al giudice della reggia curia stilare
l’attestazione legale di delega: vi riscontriamo l’intrusione a vario titolo di
diversi personaggi agrigentini. Iniziamo dal giudice: trattasi del dottore in
entrambi i diritti (U.J.D.) Giuseppe Ugo, “iudex
Reggiae Curiae causarum civilium huius magistraturae civitatis agrigentinae”.
E’ assistito dal chierico Antonio Barba della medesima magistratura civile di
Agrigento. Attesta che il Traina “sponte et solemniter” costituisce suo
procuratore speciale (fecit, costituit,
creavit et solemniter ordinavit et ordinat eius verum legitimum, et indubitatum
procuratorem attorem fattorem nuntium specialem et ad infrascriptam omnia et
singula generalem et generalissimum itaque specialitas generaralitati non
deroget nec e converso sed unam per aliam confirmatus et corroboretur” don
Lorenzo Merenda di cui si è già detto.
Abbiamo
riportato per esteso la formula apparentemente ripetitiva e rituale. In atto,
anche la più prestigiosa scienza della storia del diritto italiano reputa del
tutto scissa dal diritto romano la cultura giuridica di quello che noi
ellitticamente denominiamo diritto feudale aragonese (e nel ‘600, essa è in
Sicilia al suo acme). La suestesa formula di per sé non manca di forza
demolitrice di siffatte tesi alquanto apodittiche. Le carte del vaticano vanno
quindi studiate anche sotto tale profilo. Non può essere compito nostro;
limitate peraltro sono le nostre forze.
Appunti per un quadro prosopografico agrigentino del ‘600
Suggellano
l’importante atto da esibire alla lontana curia vaticana, il notaio Stefano
Palumbo; Vincenzo Bichetta canonico agrigentino; il notaio Francesco Giardina;
il S.t.d. Don Cesare Malagrida, canonico agrigentino; il notaio Mariano Cumbo;
Giacomo Gonzales. Conclude la sfilza delle firme di avvaloramento Antonio
Barba, regius et apostolicus notarius
agrigentinus, che sottoscrive e certifica e per di più appone il suo solito
sigillo “signavi meoqe solito signo”.
L’indispensabile
quadro prosopografico della diocesi di Girgenti nei tempi del feudalesimo
aragonese del 600 non è sinora disponibile. Accontentiamoci, pertanto,
dell’abbozzo del compianto Gibilaro (v. Giovanni
Gibilaro, i giurati e i sindaci di
Agrigento degli ultimi sei secoli – AICS 1993). L’empedoclino ci informa
che i giurati di Girgenti al tempo di Traina erano:
1626-27:
Geronimo LA SITA; Gaspare GIARDINA ; Gaspare DE FIDE e don Annibale CAPUTI;
capitano giustiziere: don Giovanni ALVARADO e dopo di lui Giovanni PERONA;
1627-28: Don Giuseppe MONREALE; don Gaspare VALGUARNERA; don
Giuseppe MONTAPERTO e Geronimo LO IUDICI;
1628-29: Bernardo BELGUARDO; don Gaspare GIARDINA; Gaspare
Gamez e Francesco LA SITA; capitano giustiziere: don Antonio de NARO;
1629-30: Bernardo BELGUARDO; Gaspare GIARDINA;
Geronimo GAMEZ e Francesco LA SITA; capitano giustiziere: don Geronimo LA PEDRA
(sino al 1633)
1630-31: Don Andrea LO PORTO; Giovanni GAMEZ; don
Francesco Maria MONTAPERTO; Nicolantonio PANCUCCI;
1631-32: Don Giuseppe MONTAPERTO; don Stefano
MONREALE; Gaspare De Fide; Geronimo LO IUDICI;
1633-34: Don Andrea LO PORTO; Geronimo LA SITA;
Nicolantonio PANCUCCI; GASPARE de FIDE; capitano giustiziere: Diodato RAMIREZ;
1634 Don
Francesco MONTAPERTO; don Pietro LO PORTO; Bernardo BELGUARDO; Don Gaspare
VALGUARNERA;
1635-36: Don Stefano MONREALE; Don Giuseppe MONTAPERTO; Antonino de FIDE;
Bernardo BELGUARDO; capitano giustiziere: don Geronimo De Castro; dopo Giacinto
LA VEGA
1636-37: Geronimo LO IUDICI;
don Andrea LO PORTO; Don Stefano MONREALE; Giovanni GAMEZ; captano giustiziere:
don Francesco de VALDIVIA;
1637-38:
Giov. Battista de ALBANO; Gaspare de Fide; Ippolito PIAMONTESE; Antonino de
FIDE; capitano giustiziere: don Jachino de LUNAR;
1638-39: Ippolito
PIAMONTESE; Antonino de FIDE; Giov. Battista ALBANO; Gaspare de FIDE;
1639-40:
Giovanni GAMEZ; don Francesco VALGUARNERA; Don Stefano MONREALE; Lorenzo
Cavallo; capitano giustiziere: Geronimo LA SITA e dopo don Francesco Maria MONTAPERTO;
1641-42:
Pietro Mallia; don Corrado MONTAPERTO; Antonino de FIDE; Nicola Antonio
PANCUCCI; capitano giustizier: Geronimo LA SITA;
1643-44: Don
Andrea LO PORTO; Don Francesco Maria MONTAPERTO; Gaspare Giardina; Don
Francesco LA SITA; capitano giustiziere: Vincenzo SANCHEZ;
1644-45: Don
Francesco Maria MONTAPERTO; Antonio de FIDE; GIOVANNI GAMEZ; Don Michele LA
SITA; capitano giustiziere: Nicolò Antonio PANCUCCI, e dopo don Stefano
MONTEREGALE (quindi un salto sino al 1663)
1645-46:
Girolamo LA SITA; Giuseppe Babilonia; Don Corrado MONTAPERTO; Don Giuseppe de
FIDE;
1647
Gerardo SALA; Francesco MONASTRA; Fabrizio TOMASINO
1649 Andrea LO PORTO; Antonino de FIDE; Corrado
MONTAPERTO; Francesco BRUNELLI;
1652 Corrado MONTAPERTO; Joseph
BABILONIA; Francesco BRUNELLI; Gaspare GIARDINA
Notisi il salto
significativo dal 1649 al 1652. Pensiamo che i dati prima da noi forniti
possano colmare alcune lacune prosopografiche.
La relazione per il 18° triennio
Abbiamo quattro
fogli riempiti ad Agrigento per la relazione a Roma sulla diocesi agrigentina
valevole per il 18° triennio (firmata nel 1638 dall’umilissimo e devotissimo
servo Francesco vescovo agrigentino). Dice il presule che era suo ardente
desiderio visitare di persona i sacri limini ma era talmente malconcio che
tanto gli era proprio impossibile (cum
serio sit poene confectus, adversaque valetudine laboret, arduum et longum iter
sine vitae dispensio peragere non valet).
Ma vi penserà il suo delegato don Lorenzo Merenda ad essere esaustivo sullo
stato della diocesi. Da parte sua, specifica che stando sul posto vigila sulla
salute delle anime, punisce i crimini dei sudditi; li spinge sulla retta via;
cura con la massima sollecitudine che fioriscano le virtù e non trascura
alcunché per quanto attiene al culto divino. Non lascia in pace coloro che sono
tenuti a dare tributi alla chiesa;
contro di loro agisce con il massimo rigore sia in forza dei sacri
canoni e delle norme del Sacro Concilio di Trento sia avvalendosi della
prescrizione della recentissima bolla del signor nostro Urbano VIII.
La massima
vigilanza viene del pari esplicata al fine di far rispettare la volontà dei
defunti testatori in favore delle fanciulle povere da dotare, o volta alla
beneficenza per alimentare i poveri, non ammettendosi dolo alcuno né frode: e
così viene approntato un libro in cui i nomi dei pii testatori e quanto da loro
lasciato viene scrupolosamente annotato; tale libro va conservato nell’archivio
pubblico. Vigile è egli pure sul suo monte di pietà, sugli ospedali, sugli altri
luoghi pii; rettamente e con correttezza vanno tali istituzioni amministrate;
se non personalmente almeno per il tramite di canonici debitamente delegati
viene chiesto il rendiconto degli introiti e delle spese.
Esposta al
pubblico, dentro la sacrestia delle chiese, è la tabella delle messe, perché
non si ometta il suffragio delle anime dei defunti. Sia in Cattedrale sia nelle
altre collegiate ecclesiastiche della diocesi sono recitati gli uffici divini
con modestia ed attenzione a maggior gloria di Dio. Ha disposto a che venissero
decorati con varie pitture la predetta cattedrale e la relativa cappella
maggiore, unitamente a quella del santissimo sacramento ed all’altra di s.
Francesco, non mancando di provvedere all’occorrente restauro.
Ha iniziato i lavori
della cappella in onore di S. Gerlando patrono della cattedrale; del pari ha
ordinato un’arca argentea del valore di tre mila ducati ove deporre più
decorosamente le reliquie del Santo. Ha disposto per l’astensione dai commerci
secolari da parte dei chierici. Ha a cuore la modestia e l’onestà del clero,
l’osservanza del digiuno da parte dei laici ed il rispetto del precetto
festivo.
Il seminario, in
cui un tempo non c’erano più di 10 seminaristi, è stato ampliato, riordinato, e
meglio sistemato nell’antica sede; al presente conta oltre trenta alunni (oltre
ai lettori ed ai ministri); oltre la grammatica, le lettere umanistiche, vi si
insegnano filosofia, teologia, diritto canonico, musica e contabilità; è dotato
di una splendida biblioteca fornita di libri, di tal che in tutta la diocesi
non v’è altro luogo di studi che gli possa competere. Ho stabilito che ogni
giorno sia accessibile ai sacerdoti e a quanti dovessero essere interessati
all’insegnamento dei sacri canoni e della teologia morale che si svolge durante
le ore pomeridiane nel seminario stesso.
Vigila sulla
clausura delle monache e su quanto attiene alle istituzioni religiose; e se occorre innovare in alcunché non si può
procedere senza l’ausilio dei preposti e degli eminentissimi patri regolari, di
cui si chiede l’illuminato parere sui casi ardui e più difficili..
Purtroppo non è
adeguatamente dotata di beni e di redditi la pia casa delle convertite che
ascendono al presente a ben venti e pertanto ricade sul vescovo provvedervi a
sue spese.
La libertà e la
giurisdizione ecclesiasticche sono state perturbate in varie occasioni. Non
pochi potenti laici, figli delle
tenebre, non si peritano di violarle, ma il vescovo non consente loro di
infrangere le norme della giustizia e commina le sanzioni canoniche, ricorrendo
anche alla massima censura. Certo è da deplorare la calamità dei tempi
correnti. La suprema potestà laicale spesso impedisce di fatto la giurisdizione
ecclesiastica, destituendo la famiglia armata del vescovo e degli altri prelati,
proibendo allo stesso vescovo di perseguire i debitori laici delle chiese e
delle istituzioni ecclesiastiche, pur essendo tutto ciò di competenza del
vescovo medesimo per antica consuetudine. Viene contrapposto il principio in
base al quale detta materia viene trattata come se riguardasse beni
esclusivamente laici. Il vescovo ricorre pertanto alle Signorie Illustrissime
per avere l’occorrente ausilio speciale. Del pari l’obbligo della visita non
può assolvere appieno, impedito com’è dal potere laico ed a tal riguardo invoca
analogo aiuto. E tanto è da dire sullo
stato della chiesa.
Due note di commento
Il velo del
gergo burocratico e l’asettico ragguaglio cui indulgono i funzionari della
curia non devono trarre in inganno: non è corretto giudicare il vescovo dallo
stile e dal tenore della relazione che abbiamo liberamente tradotto da un
latino striminzito e poco espressivo. Eppure ci pare che trasudi una
sensibilità diversa da quella del decennio precedente: il Traina non si
preoccupa più delle cose eminentemente religiose e spirituali; l’assilla la
faccenda della giurisdizione; soffre per il controllo del potere laico. La
generosità verso i poveri, i derelitti è ora solo un inciso senza sentita
partecipazione. Il seminario, la biblioteca, i corredi argentei, l’appariscenza
insomma sono ormai in cima ai pensieri del vescovo. In dieci anni sembra
essersi indurito l’animo e pare scemato il fervore mistico. Invecchiando il
Traina peggiora – o almeno così a noi appare.
L’INTERLUDIO
Alla vigilia della grande crisi
«Non potendo io
– scrive di suo pugno il vescovo Traina il 1° ottobre 1645 a giustificazione
del non andare a Roma per la visita triennale – per l’età decrepita, et
continue indispositioni venire alli piedi di Nostro S.re et complire la visita
de sacri limini, secondo l’obligo, che impongono le Bolle Pontificie, mando D.
Francesco Mazzullo canonico capitulare di questa mia Cathedrale a questo
effetto. Supplico l’Em. VV. Rev.me humilissamente à degnarsi d’ammetterlo. Et à
darli credito di quanto le rappresentarà à nome mio circa lo stato di questa
chiesa, et Diocesi, et somministrarmi quegli aggiuti, che faranno di bisogno,
massime per la diffesa della giurisditione ecclesiastica, che in questo Regno
va cadendo. Et all’Em. VV. RR.me m’inchino, et bacio le sacre vesti. Di
Girgenti li 1. Ottobre 1645 – Humil.mo et dev.mo servo Franciscus di Girgenti
episcopo.»
Va sottolineato
che per la prima volta il vescovo Traina ha l’ardire di indisporre il vaticano
non solo non recandosi di persona a baciare li sacri limini, non solo di dare
ampia e liberatoria delega al suo canonico Mazzullo, ma addirittura usando il
volgare ed omettendo tutte le solennità curiali e notarili che abbiamo
riscontrato in precedenza. Si vede che ormai il vecchio lupo si sente sicuro di
sé ed acquista tracotanza e supponenza. La pagherà cara.
Non solo, ma
anche la relazione da rassegnare alla grintosa congregazione concistoriale, a
superbi ed altezzosi cardinali – che peraltro si avvalevano di colti prelati,
tutti agghindati nel loro alato latino – viene stilato, neghittosamente e con
tanta aria di sufficienza, in una lingua italiana periferica, quale si poteva
scrivere nella prima metà del Seicento nella irraggiungibile Agrigento. «Che
volete – sembra sussurrare sornionamente il presule agrigentino – signori
cardinali miei? La mia età è “decrepita”, le mie “indisposizioni tante” e non
ho voglia alcuna di sobbarcarmi a tanti sacrifici per vedere le vostre belle
facce. Accontentatevi di un canonico, di codesto mio Mazzullo. Siate caritatevoli,
accoglietelo “humilissimamente” ma s’intende lui, il canonico, non me, “ortus
ex senatoria gente”, “amicus regis hispaniae”. Aria secentesca, senza dubbio.
Degnatelo di consigli, ma non esagerate, limitatesi a darmi man forte nella mia
lotta per la “mia giustizia” contro viceré palermitani e ministri laici di
quell’odiosa città. In fin dei conti la mia guerra intestina collima con gli
interessi di quella vostra congregazione concistoriale delle “immunità
ecclesiastiche”.»
Una relazione tutta in volgare. Il preludio della tragedia
Non basta;
scorriamo la sua sorprendente “relatio ad limina” in volgarissimo eloquio:
«La lunghezza della diocesi di Girgento l’è di
sessanta miglia in circa, et di lunghezza cinquanta, fa d’anime n. diecendue
mila, et di communione n. quindici mila; li luoghi d’essa sono cinquantadue,
cioè otto chiamati Città Regie, Principati sei, ducati cinque, marchisati otto,
contee otto, baronie con vassallaggi undici, dominio di vassalli otto, baronie
feudi cinquanta, chiese seicentoquatordici; cioè nella città e terre n.
quattrocentocinquantanove, et fuori d’esse n. centocinquantacinque, monasteri
di monache n. 24, case d’orfane cinque, di reparate n. 2, hospitali d’orfani n.
undici, chiese matrici n. quarantanove, parochie n. 5, sacramentali n. undici,
arcipretati n. ventisei, capellani curati n. trentatrè, vicarij foranei n.
quarant’otto, confraternità et compagnie di laici n. dugento trent’otto.
«Don Francesco
Traina moderno vescovo di Girgento diede principio alla sua Cura Pastorale
dell’anno 1627 con una visita generale di tutta la diocesi, la quale ha poi
rinnovata secondo la dispositione del sac. Concilio Trid. complendo con le sue
obligatione di Prelato con la Crisma, con l’ordinatione, recognitione di conti
delle chiese di legati pij et corretioni di costumi depravati, et nell’anno
1630 alli 3 ottobre convocò il sinodo diocesano, nel quale dispose tutto quello
che conobbe esser di bisogno pel retto governo et amministratione della
justitia et doversi osservare dal clero e suoi sudditi diocesani secondo la
dispositione de sacri canoni, et sacro concilio tridentino, et si diede alle
publiche stampe per Palermo appresso Decio Cirillo.
«E’ stato in
ogni tempo acerrimo difensore della giurisditione ecclesiastica, come ben
consta alla Santa Sede Apostolica poiché particolarmente nell’anno 1631 a 25
febraro fu chiamato ad istanza di alcuni di detta Diocesi per tal causa, et
vista poi la sua integrità, et il suo zelo fu mandato alla sua chiesa
precompenzato col titolo d’acerrimo defensore della giurisditione
ecclesiastica, et contenuando poi nel medesimo zelo, giornalmente stà
constrastando con chi procura conculcar la sua chiesa, non perdonando né a
fatica né a spesa , essendo andato in Palermo più volte per simili difensioni
avanti delli SS. Vicerè, et delli Ministri Regij, hà similmente portato li suoi
ecclesiastici diverse volte davanti dei Delegati della Monarchia, et indicibili
travagli, tutte per difesa della sua chiesa, et al presente procurando li
giurati di quella città di collettare li feudi del suo vescovato, et li beni
patrimoniali dei suoi ecclesiastici con l’impositione di due tarì per ogni
salma di furmento, che si raccoglie, gagliardamente s’ha opposto procedendo a
monitorij, mantenendosi et dalla Monarchia et dalla potenza dei tribunali laici
turbata la sua giustizia, et per così dire legate le mani dalla violenza di
coloro, supplica per il consiglio et aiuto.
«Da che ritornò
da Roma tutto s’applica agli ornamenti della Cathedrale, et primeramente
abbellì di stucchi, et pitture la capella maggiore, et poi fabricò altre tre
magnifiche capelle, l’una del santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando
primo Vescovo et Patrone della Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due
veroforarij grandi, et due statue, cioè l’una di detto glorioso san Gerlando,
et l’altra di Santa Vittoria, fabricò un organo magnificentissimo di spesa
quattro mila scudi , il quale poi rovinò con più della metà della chiesa, et
tutto il choro, onde rivoltando esso monsignore vescovo tutte le sue forze alla
riedificatione et resarcimento con più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta
a miglior essere di prima, et hoggi si sta fabricando lo titolo della Chiesa
abbruciato da un miserabile incendio l’anno 1640. Fece similmente la cassa
d’argento, dove traslato il corpo, et ossa d’esso venerabile santo di spesa
d’altri scudi quattromila. Rifece il palazzo vescovile con aggiungersi un
delizioso giardino; fondò il monte di pietà in sussidio di tutti i poveri et
bisognosi non solo di Girgento, ma della diocesi. Spese da 12 mila scudi
nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero degli alunni a sessanta
dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del proprio per qualche
manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle scuole della
Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge civile et
canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di strumenti,
ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi de’ libri
anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a fine di
comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali vuole
che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria; et
finalmente fondò due monasterij l’uno della terra della Favara, et l’altro
nella terra di Racalmuto, et un altro nella città di Naro.»
Una tragedia annunciata
Prima di Zosimo, prima del re di Girgenti, quando monsignor Reina si chiamava Francesco Traina oriundo di Cammarata
Siamo nel 1645 (ad essere precisi, sotto la data del primo
ottobre): da li a meno di 20 mesi, pare nella primavera del 1647, s’infiamma lo
scenario; il popolo si ribella, la moderata Agrigento esplode; non sarà il tempo di Zosimo, il re di
Girgenti di Camilleri perché costui appartiene ad un’altra rivolta, quella
settecentesca ai tempi dei savoiardi. È
solo la truculenta ribellione di un popolo affamato proiettatosi, piromane ed
omicida, contro le torri dell’altura di S. Gerlando, da poco corroborate dallo
stucchevole Traina, un presule decrepito
a suo dire, e non solo per età aggiungiamo noi.
Stralciamo da
uno storico, in vena di marxismo o di avanzata dottrina sociale della chiesa,
Santi Correnti (Storia della Sicilia,
Longanesi 1982, pag. 152 e passim).
«Le tristi condizioni generali dell’isola nel Seicento spiegano a sufficienza i
motivi delle sanguinose sommosse, che frequentemente travagliarono la Sicilia
in questo secolo, e di cui taluna ebbe carattere veramente rivoluzionario. ….
Nella primavera del 1647 la situazione divenne insostenibile, sia perché sfumò
la speranza di un buon raccolto, sia perché da Madrid arrivò l’ordine di
ridurre di due once il peso del pane.» Scoppiano i moti a Palermo (il 16 agosto
il d’Alesi “rimane padrone della situazione”) ed essi «non rimasero isolati,
perché anche Catania, Randazzo, Patti, Bronte, Siracusa, Modica, Castelvetrano,
Mazara, Agrigento e Sciacca insorsero con una consonanza di ideali veramente
notevole, poiché i moti non ebbero carattere antispagnolo neppure in questi
centri, ma squisitamente classista.» Circa l’insussistenza di antispagnolismo
l’A. ci sembra piuttosto disinvolto; quanto all’insorgere di un ideale
classista, beh! sarebbe tutto da dimostrare.
Di lì a poco
sarà giustiziato l’infelice conte di Racalmuto, Giovanni V del Carretto,
decapitato nel suo palazzo il 26 febbraio 1650.
L’anno dopo, una pira s’accenderà per bruciare vivo l’altro racalmutese,
fra Diego La Matina, che giovanissimo ed insofferente delle privazioni del
convento di S. Giuliano a Racalmuto emigra, con pressoché certezza, in Palermo
facendo ciurma con ben 80 scherani, tutti del paese di Sciascia, sotto l’egida
del Conte della loro natia terra. Sbandati, il frate diventa ladro di passo;
viene acchiappato; egli viene in primo momento risparmiato per avere ricevuto
il secondo degli ordini minori; sarà lui stesso ad affidarsi al più comprensivo
Tribunale del Sant’Officio. Per tanti anni l’Inquisizione lo mantiene in vita,
nelle galere o chiuso in carcere sì ma con carne e brodo di gallina e con
sangria, fino a quando il nerboruto giovanottone, in un momento in cui era
stato liberato dalle muffole per parlare serenamente con l’inquisitore, non lo
uccide in preda ad irrefrenabili empiti di collera esistenziale. Sciascia ha un
bel ricamarci sopra, ma persino i suoi accoliti, alla Russi Sciuti sono da
tempo inclini a dargli di voce.
Resta improbo
giudicare con gli occhi, diciamolo francamente, da intellettuale post-comunista
(ma imbrattati sempre di marxismo) un personaggio del Seicento e per giunta
vescovo e per di più siciliano sino all’osso, palermitano per fuga dall’angusta
Cammarata di più o meno antichi avi. Noi non l’abbiamo in simpatia; l’abbiamo
subito confessato; abbiamo così pagato il nostro obolo all’avalutatività delle
scienze sociali, secondo i teoremi del nostro tempo. Altri – e sono storici
ponderosi della locale storia della chiesa agrigentina – tendono ad esaltazioni
ed encomiastiche valutazioni. Una via di mezzo, come scelta assennata?- Facile
a dirsi. Questo vescovo che all’alba di una sanguinosa rivoluzione, di una rabbiosa
rivolta sociale, non sa dire altro al Sommo Pontefice che quelle banalità,
quelle scempiaggini, quelle reiterative autoesaltazioni d’indole penosamente
materialistica come giudicarlo? – e non si può non giudicarlo. Sarà del
Seicento, ma per un uomo di chiesa codesta assenza di umanità e di religiosità,
codesta micragnosa voracità di beni mondani, codesta vanagloria, codesta
ostentazione di ricchezza come si fa a dire che era solo un vezzo del suo
tempo, una venialità, un paludamento ingenuo ma non colpevole?
Già
quell’esordio pieno di lunghezze e di larghezze, di cifre statistiche, di
stanche enumerazioni di ducati e di marchesati, di contee e di baronie e di
baronie con vassalli e di baronie con feudi, con chiese e chiese dentro città e
dentro terre, fuori città e fuori delle terre, con rosari di monasteri,
ospedali, parrocchie, chiese sacramentali, arcipretati, cappellani, curati,
vicari confraternite, compagnie laiche e con quel “dugento trent’otto”, tutto
ciò non ha il fascino di un’aria mozartiana anche se ne evoca il numerare in
crescendo. Tutto ciò sa di potere temporale, di burbanza sopraffattrice, di
militaresco passare in rassegna, di vacuità mondana, di sacrilego inorgoglirsi.
Si vede subito
che il vescovo non ha niente da dire, di nuovo di importante. Incombe uno
sgradevole obbligo e lo si assolve straccamente. Alla curia romana relaziona
che "don Francesco Traina (sic e senza acca ora che scrive in volgare)
modermo vescovo di Girgento diede principio alla sua Cura Pastorale dell’anno
1627”. E sono quindi diciotto anni, ci
suggerisce subito il nostro spiritello laico. Troppi per un despota o per chi –
magari un tempo alquanto alacre di spirito – ha aduggiato con un crescente
satrapismo episcopale. Inoppugnabile, dunque, contrappuntare che erano cose ben
note al Vaticano; erano stati atti anche romani e la curia d’oltretevere ha
memoria d’elefante (ed archivi che non si inceneriscono per una banale
rivoluzione come quella che da lì a poco scoppierà ad Agrigento, portando
distruzione dentro i nuovi armadi del vescovo Traina).
Rammentare la
visita d’esordio lungo tutta la diocesi a che serve, ora che è passato quasi un
ventennio? Ha somministrato cresime e ha ordinato preti: ordinaria
amministrazione per un vescovo, che peraltro spesso e volentieri usava darne
incombenza al suo vicario generale. Dice che ha corretto i “costumi depravati”.
E chi gli crede? Sì è vero, nel 1630 ha ispirato il sinodo diocesano. Ma son
passati quindici anni. E poi, è cosa di poco merito per un presule: è tutta opera
dei collaboratori, degli arcipreti della periferia, magari dei pretenziosi
canonici ….. ed in quel tempo non erano ancora a maggioranza parenti del
vescovo.
Una diatriba secentesca tra vescovi e nobili
Anche Racalmuto nella querelle
E giungiamo al punctum dolens, la diatriba con nobili, arcivescovo di Palermo,
tribunali laici, giurisdizione ecclesiastica dilatata oltre misura con
l’istituto dei monitorij, ed altro del 1631 ed anno successivo. In esordio
abbiamo dato le coordinate di tali controversie basandoci sulle carte della
Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche. L’esteso arco di tempo
trascorso non ha del tutto emarginato la ferita episcopale: brucia ancora ed il
presule se ne lamenta con Roma con
empiti di orgoglio di burbanza: “fu mandato alla sua chiesa preconizzato
col titolo di acerrimo defensore della giurisditione ecclesiastica”. Non era
vero; non fosse stato per l’intrigo regale, Cammarata, S. Giovanni, Chiusa,
Giuliana, Racalmuto sarebbero state piazze (remunerative sotto il profilo degli
alterchi giudiziari) sottratte al Traina ed assegnate al cardinale Doria e suoi
successori; noi sappiammo d’altronde come è andato a finire quell’interdetto
infamante delegato all’ostile porporato panormitano. Vi sarà stato un
compromesso, ed a scorno dell’oriundo cammaratese, questi dovette
inginocchiarsi pubblicamente dinanzi il suo confessore e fare penitenza per
essere ribenedetto. Gongolarono i suoi canonici avversi e se ne ricordarono nel
processo che in definitiva imposero alla congregazione romana. Non fosse nel
frattempo morto, il Traina avrebbe avuto sanzioni cocentissime per essere un
recidivo.
Su vede bene
comunque che ancora, nel 1645, le acque non si erano del tutto quietate: «continuando nel medesimo zelo,
giornalmente stà contrastando con chi procura conculcar la sua chiesa, non
perdonando ne a fatica ne a spesa, essendo andato in Palermo più volte per
simili defensioni avanti delli SS. Viceré e delli Ministri Regij.» Già –
avranno pensato a Roma – guarda sto’ vecchio per venire a Roma e assolvere il
suo debito “sta decrepito”; per contrastare caparbiamente i richiami alla
moderazione nella gestione della giustizia, sia pure da parte laica, ha forze
fisiche, ardimento e tracotanza e fa la spola tra Agrigento e Palermo, sia pure
per via mare – sicura – anziché per via terra temendo i valichi interni tanto
minacciosi.
Eppure non
ottiene molto: continua a patire «con li
suoi ecclesiastici diverse volte invasione di Delegati della Monarchia, et
indicibili travagli».Roma giammai era stata tenera con tale istituto
monarchico, sfaccettatura della Legazia Apostolica, invenzione del XII secolo
su manipolazioni di falsi diplomi, non c’era dubbio. Il Traina tenta qui la captatio benevolentiae, ma non ci
riesce. Diversamente dal solito il passo non è neppure degnato di un segno
particolare, di un memorandum per il
seguito di competenza. Pare che i curiali romani non abbiano neppure dato uno
sguardo all’informale – e tutto sommato, irriguardoso – documento vescovile.
Fa capolino la tormentata faccenda delle gabelle comunali
Vi è ora un
passo nodale: «al presente procura[no] li giurati di quella Città (Agrigento)
di collettare li feudi del suo vescovato, et li beni patrimoniali dei suoi
ecclesiastici con l’impositione di due tarì ogni salma di frumento, che si
raccoglie». Egli «gagliardamente s’ha opposto procedendo a monitorij,
mantenendosi et dalla Monarchia, et dalla potenza dei Tribunali Laici turbata
la sua giustizia». E tutto ciò definisce un insopportabile legar le mani, una
intollerabile violenza.
Crediamo che
quei due tarì non siano stati corrisposti, né dal vescovo né dai suoi
ecclesiastici, e quanto ai feudi del vescovado e ai beni patrimoniali degli
ecclesiastici agrigentini latitudine, lunghezza e larghezza dovevano avere
ubicazioni, dimensioni e titolarità dominicale indefinibili; immunità per ogni
dove, dunque; scarsezza di gettito per la locale giurazia. La ristrettezza
delle finanze locali avrà impedito l’acquisto cautelativo di grano in annata
propizia; poi, la siccità, un’incipiente peste, una rarificazione dei suoli a
frumento tassabili hanno dato il colpo letale alle giacenze ed alle riserve dei
monti frumentari della città e la fame, il sottopeso della pagnotta, il
deterioramento del pane presso i fornai sono stati micce che hanno fatto
deflagrare una rivolta popolare rimasta memorabile accanto alle più celebrate
di Palermo (d’Alesi) e di Napoli (Masaniello).
E d’improvviso
ecco far capolino la finanza locale del ‘600. Non è materia molto arata dagli
studiosi. Poche annotazioni, tanti luoghi comuni ed un aspetto della grama vita
dei popoli si appanna sino a sparire, come se non si fosse trattato di un
dramma quotidiano, già del “pane quotidiano”. Abbiamo visto come i vescovi non
si fanno troppo carico di quello che è un passo inquietante del “pater noster”
che pur recitano all’infinito in un salmodiare con preti monaci, monache
bigotte e popolino. Tralasciando i testi paludati delle nostre moderne
università – tanta presunzione, poco costrutto – qualcosa troviamo in Francesco
De Stefano (Storia della Sicilia dall’XI
al XIX secolo – Laterna UL, p.34 e ss.). E’ questo un campo in cui non
possiamo asserire furbescamente che siamo semplici dilettanti e quindi
esonerati da approfondimenti e pronunciamenti anche malevoli. Questa è finanza
locale e per rispetto ai nostri tanti padroni pubblici che ci hanno
profumatamente pagato, dobbiamo dire la nostra. Contro la feluca universitaria
siamo costretti ad opporre la puntigliosità della politica economica della
Banca Centrale ed il presuntuoso suppore e presupporre fiscale del sapere
minesteriale.
Dice dunque il
De Stefano che metodi finanziari del governo e metodi delle amministrazioni
locali si equivalevano. Quando abbiamo seguito la tassazione comunale della
Racalmuto del ‘Cinquecento abbiamo notato differenze sostanziali, procedure
accertative molto sagge, equilibri nel riparto del carico tributario. I giurati
saranno stati eletti dal conte o da lui proposti al vicerè (dipende dai tempi)
ma erano tutti presi da una saggezza amministrativa e da un localismo
umanitario davvero edificanti. L’imposizione palermitana era di certo becera,
proporzionalista, vessatoria; l’imposizione comitale si trasmutava di valore e
si intrideva di irrazionalità con quel trasferire ai soggiogatari gettiti e prelievi (soluto pro insoluto); ma
il radunarsi, al suono della campanella, nella chiesetta della Nunciata (a
Racalmuto) con i maggiorenti a capo ma non discordi dai capi-famiglia e tutti
assieme procedere al migliore e più equo riparto di quelle calamità che erano
le tasse spagnole, vicereali, ecclesiastiche, comitali e quindi comunali desta
ancora ammirazione e plauso.
Soggiunge il De
Stefano che erano «in mano dei baroni le feudali, spadroneggiate da gruppi o
clientele quelle demaniali; quasi tutte mal dirette e in gran disordine» e ciò
perché così annotava, ad esempio, il presidente del regno nel 1575. Noi, nel
nostro piluccare tra diplomi, processi d’investitura, carte dell’archivio
palermitano o in quelle del vaticano o presso quelle stesse che ancora si
custodiscono in Curia o nelle parrocchie dell’agrigentino penseremmo il
contrario. I baroni o conti tutto vendevano, tutto cercavano di monetizzare
subito e ogni cosa andavano a scialacquarla tra la burbanza nobiliare della
Capitale (palermitana). Ma gli esattori trovavano poi ostacoli e legittime
difese in loco e difficilmente la
spuntavano. E bisogna dirlo: il clero locale era caritatevole, amico del
proprio popolo e là dove i vescovi o disertavano o tradivano o addirittura
infierivano con il loro carico di ingiustizia e di nequizie il locale
arciprete, il parroco di campagna (meno, il vicario foraneo, colluso con il suo
superiore-fiduciante in rosso) il modesto sacerdote e i francescani, i
carmelitani, gli agostiniani centuripini supplivano, correggevano, lottavano
succubi anche loro della prepotenza vescovile o abbaziale o del provinciale.
Non eroi – sia chiaro – ma neppure impacciati don abbondii; e d’altra parte di
cardinali Borromei neppure l’ombra. Non c’erano i fra Cristofori ma neppure i
Don Rodrigo. Si vuol descrivere tale, ad esempio, Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, ma è fandonia popolaresca, nobilitata dal solito sommo ingegno
localistico.
«L’abitudine
spendereccia, - dice sempre il Nostro - la mancanza di controlli efficaci, la
catena di loschi interessi tra amministratori e debitori nei comuni demaniali
caratterizzano la storia della finanza locale». Agrigento fu comune demaniale,
almeno fino a quando non venne al Traina l’uzzolo di feudalizzarlo (ma durò
poco, la residua vita del decrepito vescovo; e non per generosità come vorrebbe
il Picone, ma per le ferree e forse meno riprovevoli di quel che non si pensi
leggi feudali). E la vicenda della rivolta popolare, e quella presa di
posizione dei giurati che tanto fastidio dà al presule, e quanto abbiamo già
detto e quanto non mancheremo di aggiungere tratteggiano un quadro del tutto
opposto alla pessimistica visione del De Stefano: i giurati ad Agrigento (e
quelli di Racalmuto), quelli feudali ed ancor più quelli demaniali – anche perché
vigeva un democratico principio di rotazione – ci risultano più dalla parte dei
loro concittadini o compaesani che da quella del lontano principe, marchese,
conte, barone o inaccessibile viceré e suoi accoliti. Quello del De Stefano può
chiamarsi erudita aporia senza riscontro storico, senza approfondimento, senza
la debita avalutatività delle moderne scienze sociali.
Non possiamo non
essere d’accordo sul fatto che «le casse comunali erano sempre esauste,
nonostante le alienazioni di terre e gabelle, i prestiti ed altrettali
operazioni.» Ma ciò dice poco. E le
cause? Il mito del bilancio in pareggio crediamo che sia ingenuità ottocentesca
finita nel museo degli orrori economicistici. Anche, oggi, a dire il vero sta
vigile la Banca d’Italia di Fazio, grintosa nella difesa di non si sa più quale
moneta, vista la fine della lira. Una illuminata politica della spesa pubblica
può venire censurata da certi arcigni liberali o liberisti ma fa onore alla
saggezza di siffatti governanti. Ed all’epoca i giurati trasudavano più
saggezza che propensioni sperperatrici. Anche allora c’era chi credeva nella
privatizzazione dei beni demaniali il toccasana degli equilibri di cassa, il
risanamento dell’erario. Non si andava allora – come ora – di là di una cocente
disillusione. E salvo i re spagnoli, non era facile trovare un pubblico
amministratore che fosse lì pronto a venderti una defensa o un solacium (i castra appartenevano al re) o un viridarium o altro bene demaniale. Discorso diverso
erano le usurpazioni, allora come ora.
Le immunità ecclesiastiche al limite dell’invadenza giurisdizionale
Il guaio erano
le “immunitates” tutte arrogate da santa romana chiesa (cioè alto clero e
porporati e quasi sempre stranieri): emblematico – si direbbe – quello che va
lamentando il Traina nientemeno che a papa Urbano VIII. Se davvero «il
parlamento fece sentire la sua voce, e il governo talvolta intervenne per far
riassettare le finanze locali» fu intervento spurio e soprattutto
inconcludente. Gridano i cittadini racalmutesi che, dopo la peste e la fame ed
il dimezzamento della popolazione del 1575 non ce la fanno più a pagare tande ed imposte al signor re spagnolo,
ai suoi burocrati di Palermo ma è vox
clamantis in deserto: si indebitino ancor di più, l’esattore è lì pronto a
sovvenirli nei donativi regali e se dopo è ancor più miseria e fame e morte,
pazienza, gli inviati di Palermo, con diarie da nababbi, non hanno orecchie,
non sentono pietà. Sanno essere inflessibili. Ottengono quel che spetta al re
(o a loro) e se lasciano ondate di miseria e fame e morte ed odio questo le
carte non possono dire; la censura, il santo ufficio, i tribunali laici, il
vescovo, la curia tacciono ed in fin dei conti sono annuenti. Solo il basso
clero dovrà poi lenire le ferite, attivare gli ospedali, benedire i morti. Ed i
giurati non stanno dalla parte dei carnefici. Anzi: convocano l’intero popolo,
al suono della campanella, e trovano acconce soluzioni, vie d’uscita. Il
panizzo si mantiene per merito loro. La fame può venire lenita. La sopravvivenza
assicurata, i paesani resistono “come erba abbarbicata alla roccia” scrive
poeticamente ma con tanta veridicità Leonardo Sciascia.
Se Messina,
Polizzi, Alcamo e Patti lamentano le incrostazioni e l’immobilismo nel carico
tributario ed invocano che siano gli stessi maestri razionali del regno a
prodursi in equi aggiornamenti, non è per fiducia verso quella istituzione
centralizzata, vorace quanto una moderna famiglia di appaltanti delle imposte
in Sicilia, ma per trovare un espediente legale capace di rastremare le parti
più inique dell’intollerabile carico tributario che viene da lontano, dalla
Spagna (e ci dispiace per chi oggi vuole attenuare le tinte dell’atavico
antispagnolismo, radicatissimo almeno nel popolo).
Non basta una prammatica (ci riferiamo a
quella citata del 1650) «per sapersi … da chi ha processo il mancamento delle
università»; quanto ad Agrigento, le fibule episcopali ed il viola delle mitre
canonicali vi hanno molto contribuito con la pretesa di una diffusa esenzione
dai tributi locali. Non sono poi soluzioni pertinenti «ridurre gli interessi
troppo onerosi delle soggiogazioni …
costringere alle contribuzioni quei facoltosi cittadini che sfuggivano alle tasse sugli affari ‘facendo trapassare
in vari titoli, tutti, o la maggior parte dei loro beni’.» Erano codeste
neppure manovre tributarie ma “grida manzoniane” sia pure d’indole fiscale e
tutto si poteva raggiungere ma non certo “la perequazione del carico
tributario”. Il De Stefano ne trae questa sconsolata inferenza: «la soluzione del
problema della finanza locale urtava negli ostacoli medesimi contro i quali
cozzava quello della ripartizione del gravame fiscale. Anche in questo campo si
ergeva, con tutta la sua rigidezza, il privilegio. In forza di questo, infatti,
non tutte le città erano sottoposte ai tributi generali, o, se lo erano, come
il donativo, l’aggravio era sproporzionato, perché i censimenti erano poco
veritieri e non aggiornati, e la ripartizione era fatta in parti uguali tra
comuni feudali e demaniali.»
C’è del vero; ma
l’ordito ci risulta lasco. Un esempio a chiarimento: abbiamo studiato
Racalmuto, e ne abbiamo scritto … col
cuore ed in modo alluvionale, ci viene autorevolmente rimproverato. Ma lì i
censimenti – tanti, troppi quelli da noi seguiti - sono accuratissimi. Quattro
quartieri con quattro soprintendenti agli ordini della giurazia, tutte
personalità assennate e patriottiche, redigono diligenti e competenti
numerazioni dei fuochi e dei componenti con specifica della capacità
contributiva. Commissioni tributarie raccolgono le dichiarazioni dei redditi,
dei patrimoni, delle gravezze e delle esenzioni. Ne fanno poi una verifica da
fare invidia alle moderne agenzie delle entrate. Ci hanno incuriosito le
rettifiche delle elusive postulazioni di oneri detraibili, ad esempio da parte
del furbo pittore racalmutese del Seicento Pietro D’Asaro. Non era lì il
marcio: era nella bolsa macchina tributaria di ispirazione spagnola. Non
riguardava la finanza locale il disequilibrio impositivo sibbene, appunto, il
riparto dei donativi. Era l’imposta capitaria che colpiva dissennatamente a
favore del re, del papa, del vescovo, del lontano convento che con abilità
avvocatesca era riuscito ad impossessarsi delle rendite di un conte il cui
antenato non aveva rispettato il diritto di paragio di una malevola sorella, virgo in capillis, e questa aveva a
dispetto lasciato, come nel caso di donna Aldonza del Carretto, il calpestato
diritto in eredità ad un istituendo monastero di Santa Rosalia a Palermo. Dopo
cinquant’anni, accondiscendenti tribunali davano ragione all’abate palermitano
che requisiva capitali (pochi) ed interusurij
(dieci, venti volte il capitale) distraendo dalla lontana contea (in questo
caso, Racalmuto) preziosissima liquidità a vantaggio di monache ricche e preti
damerini dell’opulenta Palermo. A ciò si aggiunga che “il peso dal quale erano
esonerate le città privilegiate si riversava sulle altre», ma non osiamo
seguire fino in fondo l’autorevole A. quando scrive: «allo stesso modo,
nell’ambito di ciascun municipio i ceti privilegiati facevano valere nella
tassazione la loro condizione particolare; e quando sopraggiungevano carichi ai
quali nessuno avrebbe dovuto sottrarsi, cercavano di scaricarli sugli altri.»
Abbiamo visto il Traina e i suoi più fidi ecclesiastici contrastare la giurazia
quanto all’indifferibile soprattassa di due tarì per ogni salma di frumento.
L’abbiamo visto lanciare i suoi micidiali momitorij, di cui parleremo dopo. Non
ci risulta che i nobili agrigentini abbiano seguito la stessa strada; oltretutto
non avevano monitorij da scoccare. A Racalmuto, non ci consta un solo caso di
sottrazione alle imposte comunali – ed erano tante e sorprendentemente moderne
– da parte di “ceti privilegiati”. In un centro agricolo di seimila abitanti,
di ceti privilegiati non ce ne stavano, salvo qualche ricco prete, di norma
locupletatosi con la peccaminosa usura.
E tale categoria, quella degli usurai, era per tradizione e per istinto
odiata e perseguitata. Un tal Sabia di Palermo, alla fine del Quattrocento, era
stato crudelmente lapidato e bruciato. Ed allora l’antisemitismo allignava
persino nelle più lontane plaghe paesane.
«La finanza
comunale – per il De Stefano – si fondava, come la statale, più sulle imposte
che sulle tasse, e gli aumenti più forti avvenivano proprio nel campo dei
tributi indiretti: sicché in tutte le sollevazioni delle plebi uno solo fu
sempre il grido “fora le gabelle”, perché “le gabelle per lo più li pagano li
poveri et no li ricchi”». La vicenda impositiva locale aveva risvolti che mi
sembra non possano ridursi a categorie piuttosto fruste quali le imposte
distinte dalle tasse, residuati di una scienza delle finanze che oggi lascia il
tempo che trova. Analizziamo quello che a fine ‘Cinquecento erano le imposte
locali di Racalmuto.
La finanza locale a chiusura del XVI secolo
Stabili e gravezze, introiti ed esiti, struttura di un bilancio
comunale del XVI secolo eccoli secondo una testimonianza preziosa e piuttosto
completa quale ce la fornisce un Rivelo
del 1593 di Racalmuto:
« [f. n.° 807] Praesentant Ragalmuti die XI
Julij V ind. 1593 [...]
Rivelo
Ragalmuto .. presentato allo spettabile Natalitio Buscello in virtù di bando
promulgato d’ordine di detto spettabile delegato.
Stabili
In primis la gabella dello
pane et foglie: lo pilo, vino, formaggio, panno, la ligname, pesci e sono affittate questo anno onze
quattrocento sesanta che a ragione de dieci per cento sono onze
quattromiliaseicento...............................................................................................................-/
4.600
stabili onze quattromilia sei cento
........................................................................................
-/ 4.600
Gravezze
Nota: Paga ognie anno alli Sindicaturi onze quindici;
il capitale sono onze centocinquanta: a dieci per
cento................................................................................................................................
-/ 150
Paga ognie anno per salario dello orloggio, oglio et conci onze dodici:
il capitale sono
centovinte....................................................................................................
-/ 120
e
anno per salario dello mastro notaro et carta per le ocurentie onze dieci: il
capitale
son onze cento .....................................................................................................................
-/ 100
Paga ognie anno per spese de bagaglie de cumpagnia onze trenta:
il capitale son onze
tricento...................................................................................................-/ 300
Paga ognie anno per salario di procuratori per occorentia apresso la
Corte onze dudici:
il capitale sono cento vinte
...................................................................................................
-/ 120
Paga ognie anno alla Regia Corte onze tricentosettantaquattro, tarì
tridici e grana quattro a dieci per cento sono onze tremila setticento quaranta
quattro ............................................................ -/ 3.744
Paga ognie anno onze sei per lo pagamento della Regia Corte in tre tande
onze sei; il capitale sono onze sesanta
...........................................................................................................................
-/ 60
Paga ognie anno a don Loise
Mastro-Antonio di Palermo onze vinteotto e tarì dicidotto a ragione de
dieci per cento: il capitale sono onze duecentoottantasei
................................................ -/ 286
GRAVEZZE QUATTROMILIA OTTO CENTO OTTANTA
......................................... -/
4.880
INTROITO ONZE QUATTROCENTO
SESANTA.......................................................... -/ 460
ESITO ONZE QUATTROCENTO
OTTANTA OTTO TARI' UNO E GRANA QUATTRO………………………………………………………………..... -/ 488.1.4
RESTA DI GRAVEZZE OGNIE ANNO ONZE VINTE OTTO TARI' UNO E GRANA
QUATTRO.......................................................................................................................-/ 280.1.4
che a dieci per cento dette onze vinte otto tarì uno e grana quattro a
dieci per cento sono il
capitale onze duecento ottanta tarì undici
..................................................................... -/ 280.11.0
------------
+ cola macaluso. J[uratus]
+ joseppi cachaturi. [Juratus]
+ antonino vilardo J:[uratus]
+ notar giseppi sauro e grillo __
J[uratus].
Una realtà
locale come Racalmuto, con le sue cinque-sei
mila anime ed uno “stato” feudale pari alla metà dell’attuale territorio
(l’altra metà costituiva lo stato di Gibillini con un bel castrum su al Castelluccio) veniva tributariamente inventariata:
valore patrimoniale, onze 4.600 (noi calcoliamo 350 euro ad onza, pari quindi
ad euro 1.610.000, circa 3.117 milioni
delle vecchie lire). Tale posta patrimoniale si calcolava capitalizzando gli
introiti dalle gabelle comunali pari ad onze annue 460 (euro: 161.000; £. 311
milioni) con un tasso di patrimonializzazione pari al 10%. Non sarà un sistema
altamente sofisticato, non è il non plus
ultra della scienza delle finanze, non è sottile come un modello
econometrico, ma ha grossa efficacia rappresentativa. Sugli “stabili” insistono
poi le “gravezze”: sono pari ad onze 4.880 (pari ad euro 1.708 mila o a vecchie
lire £. 3.307 milioni) e rappresentano la patrimonializzazione sempre al 10% di
spese correnti puntigliosamente elencate. E tornando ai fattori reddituali,
abbiamo solo onze 460 annue di introiti (euro: 161.000; £. 311.739 mila) non
sufficienti a fronteggiare gli esiti pari ad onze 488.1.4 (euro: 170.800; £.
330.715 mila).
Ogni anno il
deficit ascende dunque ad onze 20, tarì 1 e grana 4 (euro: 7.000; circa £. 13
milioni e mezzo).
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Rivengono gli
incassi comunali dalle gabelle soprattutto del pane e delle foglie, e poi da quelle
del pilo, del formaggio, del panno, della ligname dei pesci. Sono gabelle date
in affitto; non consentono gettito superiore ad appena 311 milioni delle
vecchie lire. Non si può dire dunque che siano aggravi intollerabili (72.396,53 delle vecchie lire pro
capite). Ma era proprio un onere indifferente per quell’epoca? A distanza di un
mezzo millennio e con i salti quantitativi e qualitativi della moderna economia
monetaria è difficile dirlo. La ristrettezza delle spese e soprattutto
l’assoluta assenza di spese d’investimento comunale fanno pensare ad una
economia curtense saggia ma oltremodo sparagnina. In ogni caso non era il
gettito comunale a salassare l’industre centro agricolo: re e preti; vescovo
arcipreti, notai e soprattutto gli esattori del conte segnavano poste ben più
gravose.
Per un qualche ragguaglio sulle
singole specie di gabelle, ci avvaliamo delle note del prof. Enrico Mazzarese
Fardella al testo di Giovan Luca Barberi (J. Luca de Barberis – Liber de secretis – a cura di Enrico Mazzarese Fardella, Giuffré
Milano 1966, passim):
1. Gabella dei panni: «Tale gabella gravava sui panni importati, e in minor misura
su quelli stessi provenienti dall’Isola. Rappresentava una considerevole fonte
di reddito per il fisco giacché “li denari di lo Regno, ut plurimum, nexino per
li vestimenti di panni e siti … “ – Capitula Regni Siciliae, cap. XCI. (cfr.
pag. 9).» Ci sorge il dubbio che per i pochi e non pregevoli tessuti immessi
nello stato feudale di Racalmuto scattasse la doppia imposizione, alla fonte ed
al consumo (tassa comunale).
2. Gabella del pilo: « E’ una delle gabelle ‘nuove’ del secolo XIV, così dette per
distinguerle da quelle contenute in precedenti pandette. Essa riguardava
cotone, formaggi, lana, cuoio, pelli, burro, strutto, miele, sego, esclusi
restando i derivati della macellazione. – pag. 10»
3. Gabella della piscaria: riguarda il pesce venduto in “piscaria”.
4. Gabella della ligname: Riguardava la legna consumata per forni ed altre funzioni.
Dobbiamo
restare, però, subito avvertiti che l’elenco del Rivelo è molto sbrigativo e
non può considerasi in alcun modo esaustivo; non per nulla non v’è dato fiscale
specifico. Peraltro, le vere gabelle erano quelle del conte, o meglio quelle
che il conte affittava a sua volta. La ragnatela è lì minuziosa, capillare,
fantasiosa, asfissiante. A titolo
esemplificativo riportiamo questa sfilza di tasse e gravami, variamente
definibili:
1) La gabella del giardino della Fontana di Gian
Ventura;
2) Item la gabella della grana;
3) Item la gabella della bocceria;
4) Item la gabella del fundaco;
5) Item la gabella dello zagato dell’oglio;
6) Item la gabella del zagato del salume;
7) Item la gabella della mercia;
8) Item la gabella del molino di suso;
9) Item la gabella del molino d’immenzo;
10) Item la gabella gabella del molino di Archi;
11) Item la gabella del molino novo;
12) Item la gabella del molino della Botte con sue
terre;
13)Item la gabella del molino di Garamoli con sue
terre;
14) Item la gabella dell’arangi e nocille;
15) Item la gabella delle tre mesi della vendita del
vino;
16) Item la gabella del molino di Ercole con sue
terre;
17) Item la gabella del mastro notaro del capitano;
18) Item la gabella della baglia;
19) Item la gabella delle vigne di Garamuli con la
dispenza;
20) Item la gabella delle chiuse di Garamuli;
21) Item la gabella dell’orto Menzi Arati;
22) Item la gabella dell’altro menzo tratto;
23) Item li terragioli dentro e fuori.
Ma qui si esula
dalla tassazione comunale, dalla finanza locale ed in questa sede
soprassediamo. Con gravezze si indicano le poste di spesa che stranamente
vengono capitalizzate. Una innocua superfetazione: quel che conta è l’ordito
degli esiti. Quindici onze all’anno (5.250 euro o 10/milioni circa di vecchie
lire) vanno ai “sindicaturi” l’equivalente dell’attuale sindaco e della sua
giunta. Il salario per tenere in efficienza l’orologio pubblico fissato nella
torre comunale al centro del paese comporta un esborso di 12 onze l’anno (420
euro per otto milioni circa di vecchie lire) Vi sono compresi l’oglio ed i
conci (olio e riparazioni). Dieci onze al notaio (350 euro per oltre sei milioni e mezzo di
lire), comprensive di salario, spese di cancelleria et “ocurentie” varie.
Noi, però, siamo
propensi a pensare che vi erano forme succedanee di tassazione comunale che in
qualche modo erano atte a sopperire ai buchi di bilancio. Analizziamo, ad
esempio, la transazione del 15 gennaio del 1580 tra il conte Girolamo del
Carretto e l’università di Racalmuto. Una clausola impressionò il Garufi[2]
e lo indusse a credere che tanta solerzia spingesse il lontano padrone
racalmutese ad imporre misure per la salvaguardia dell’igiene del suo popolo ed
in tale ottica avesse vietato l’uso delle acque della Fontana per un deleterio
lordare la fonte da parte delle caratteristiche lavandaie locali. Se
scandagliamo il testo di quell’articolato cinquecentesco difficilmente
giungiamo alle medesime conclusioni del grande storico. Vi troviamo invece i
germi di una tassazione surrettizia a vantaggio della finanza locale sia pure
sotto le mentite spoglie di contravvenzioni comitali. Guardiamo insieme il
testo:
1).
2) Item perché è antica consuetudine
ed osservanza, et prohibizione potersi lavare nello loco d’undi currino li
canali di la funtana di lo loco nominato lo fonti e la bivatura, e quelli che
in tali lochi proibiti hanno lavato su stati incorsi in pena di onze 4.7.10
applicata detta pena le onze 4 allo barone che pro tempore sù stati ed al
presente al Conte, e li tt. 7.10 a li baglij, per tanto stante la nuova
convenzione et accordio si patta e statuisce che ogn’anno s’abbia di promulgare
bando per ordine di detto illustrissimo Signor Conte e suoi successori; lo
detto bando di proibizione di lavarsi in detti lochi per lo quale si
proibiscono tutti e qualsivoglia persone che siano in detta terra di Racalmuto
di qualsivoglia stato grado e condizione che siano altro non eccettuato ne
escluso eccetto che li genti di casa per uso di detto signor Conti, suo
castello e casa, ma che tutti l’altri incorrono alla predetta pena delle onze
4.7.10 applicati del modo infrascritto, cioè delli tt. 7.10 alli Baglij tt. 3.15 e l’altri 3.15 abbiano
d’entrare in potere delli magnifici giurati della detta terra, e cossì
similmente pagandosi le dette onze 4 si debbano di partiri onze 2 à detto Conti
ed onze 2 in potiri delli jurati, delli quali dinari di pena che intriranno à detti jurati s’abbiano da
fare tutte le spese e tutti consi e cosi necessarij di detta fontana ed
aquedutti, nello quali loco si concede facoltà ad ogn’uno dell’università
putiri denunciari la pena di quella persona che ci incorrirà, ita che li
lavandari di detto illustrissimo signor conte lavando altre robbe di casa di
detto illustre conte siano nella medesima pena nell’esazione, della quale pena
sia data l’autorità e potestà alli
giurati presenti et qui pro tempore saranno di potere creare una persona
deputata ogn’anno la quale habbia potestà d’esigeri auctoritate propria le
sudette pene e pigliare in pena qualsivoglia persona che controverrà, la quale
in fine anni aggia di rendiri alli giurati di detta terra justo e legali cunto
della sua amministrazione e lo illustre conti non pozza impedire in cosa
nessuna si non tantum et dumtaxat in la porzione che compatisce ad esso le
quale pene ch’entriranno ut supra d’erogarsi e spendiri tanto in la predetta
fontana come in l’orologio ed altre cose in beneficio dell’università, ed in
quanto alla pena di onze 4 relasciandoci il conte la sua parte, in tutto ò in
parte s’intenda relaxata la parte competente alli jurati.
La contorsione
sintattica, il rovello impositivo, l’inverosimiglianza delle infrazioni ed
altro non ci consentono una percezione esaustiva del fenomeno; non possiamo
ammettere che ogni lavandaia che avesse osato portare i panni a sciacquarli nel
deflusso delle acque della Fontana fosse in grado di corrispondere la multa di
quattro onze (circa 2.800.000 di vecchie lire); sarebbe stata una imposizione
impossibile; et ad impossibilia nemo
tenetur anche allora. Siamo indotti quindi a pensare che bastasse pagare
alcuni picciuli per usufruire del diritto di lavaggio nelle acque comitali
della Fontana; per l’accordo, la metà degli introiti annui andava al conte
l’altra ai giurati per le opere pubbliche di manutenzione della fontana stessa
e per la riparazione dell’orologio «ed altre cose in beneficio dell’università»
Le commissioni tributarie locali, a dire del De Stefano
Ripigliamo il De
Stefano: «il governo intervenne perché le commissioni per la tassazione
fossero costituite non solo di
“facultosi”, ma anche di “mediocri” e “infimi” in numero uguale, e ordinò che
ogni anno si convocasse il consiglio generale. Ma la equa ripartizione e il
riassetto finanziario restarono sempre un mito. Nonostante i continui
espedienti e le operazioni finanziarie di molti comuni […] la finanza locale fu
sempre “exausta”, “pauperrima”, e lo stesso Filippo II se ne preoccupò; i
bilanci furono sempre dissestati per le spese della stessa amministrazione, per
i bisogni dell’annona, per gli interessi su debiti – “per cui sono
continuamente vessati da commissari et delegati quali veramente consumano et
rovinano”, tanto che alcuni comuni furono costretti a chiedere anche moratoria
– per le fortificazioni e mura cittadine, per i diritti di posata e di
alloggiamento delle truppe, dei capitan d’armi, dei loro provisionati.»
Non difetta
l’informazione; ma l’acume critico non sempre soddisfa. Abbiamo riportato un
esempio concreto, quello di Racalmuto. Piccolo centro si dirà per essere
significativo. Là, comunque, le spese per l’annona sono molto contratte, per
l’equità tributaria non pare vi siano dati per preoccuparsene, ma le spese
militari risultano sovrabbondanti, gli squilibri sono perniciosi soprattutto
per pompaggi di liquidità, forieri di ristrettezze e di malessere sociale. La
genesi della mala politica tributaria va ricercata altrove; diciamolo pure,
nella sudditanza da un re straniero, da un governo spagnolo, da una nequizia
palermitana con il suo parlamento, con le arroganze dei tre bracci egemoni, con
l’insensibilità verso la periferia, il comune agricolo, il paesino in cui
questo distinguo tra ‘facultusi’, ‘mediocri’ ed ‘infimi’ non è rilevante, non è
barriera sociale e non consente furbizie impositive. I rappresentanti dei
quartieri appartengono quasi tutti ad un minuscolo ceto medio, a mastri più
svegli di li jurnatari ma rispettosi e sostanzialmente assimilabili ai pochi
‘allittrati’, ai magnifici che fanno il notaio nel piccolo centro, o il
capitano, o il nobil uomo addetto al governatore del castello, o il prete
(l’arciprete, quasi sempre, viene da fuori, prescelto da un vescovo che
raramente mette piede in paese). Non vi è molta acredine tra le classi sociali;
queste non sempre si distinguono con steccati insormontabili. Qualche tendenza
a fare matrimoni separati per il mantenimento del patrimonio familiare
conquistato con tenacia e sacrificio (talora invero con la deprecabile usura) la
si registra. Pullulano però le confraternite; là l’interclassismo è
fisiologico: gestire i sottosuoli delle chiese di proprietà per la “buona
morte”, per la sepoltura dignitosa – sperando che sia ‘immarcescibile’ -
accomuna, smussa le differenze: con rotazioni persino semestrali si diventa
governatori, sindaci, priori, membri del consiglio di amministrazione, diremmo
oggi. E la scelta ricade indistintamente tra i più apprezzati confrati, e non
sempre sono i ‘magnifici’ a spuntarla, pur numerosi e pur validi. Vi è anzi una
rappresentanza interclassista che ancor oggi sorprende e favorevolmente.
‘Monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini’ si diceva, ma senza
malanimo o anticlericalismo; il motto stava a significare che tolta la parte
religiosa – per questo c’era il cappellano –
poi l’amministrazione e la gestione competevano ai laici. I rolli che si
conservano in matrice a Racalmuto testimoniano ancora una corretta e valente gestione.
I monitorij
Nella “relatio”
in volgare del Traina che abbiamo tralasciato forse da troppo tempo ecco
sbucare l’accenno ad un istituto tutto particolare del ‘600 episcopale
agrigentino: i monitorrj. Dice il Traina che la sua arma contro giurati
sopraffattori, a suo favore ed a favore dei privilegi degli ecclesiastici suoi
amici ha usato (e noi pensiamo: abusato) l’arma dei monitorij. Un’arma che
doveva essere religiosa e diviene invece una sopraffazione ecclesiastica contro
la giusta richiesta di contributi alla locale finanza, non solo disastrata ma
soprattutto necessaria di fondi appunto per l’annona, per dare il pane
quotidiano di cui parla il pater noster
al popolo affamato. Si tratta in parole povere di uno snaturamento della
giurisdizione ecclesiastica. L’andazzo avrà ulteriori risvolti perniciosi fino
a degenerare nella arcinota controversia liparitana, concretatasi ad Agrigento
in una crisi politica e religiosa nei primi decenni del Settecento, quale nella
sostanza è mirabilmente rappresentata nel
Re di Girgenti di Camilleri.
Un quarto dei
registri dei vescovi di quell’epoca è costituito, ad Agrigento, da codeste
sanzioni, apparentemente di natura religiosa, in sostanza espressione di un
potere usurpato, quello giudiziario in materia civile. Studi negli anni
‘Sessanta del Collura ne forniscono significati ed ingerenze antigiuridiche. In
mancanza ancora di codici e di separazione tra i vari poteri vigeva una sorta
di costituzione materiale, donde codesto potere giudiziario del vescovo nel
campo dei diritti civili, ed anche purtroppo in quello delle pressioni giuspubblicistiche.
I giurati non potevano tassare per le finalità della locale finanza, bloccati e
braccati com’erano allorché andavano a
toccare pretesi privilegi della chiesa agrigentina. Si beccavano una scomunica,
subivano intollerabili ‘monitoij’.
Per un
orientamento ci avvaliamo di un vecchio testo di diritto ecclesiastico[3]
e ne stralciamo un paragrafo:
XXIV de literis
monitorialibus.
Praeterea quascumque monitoriales, poenalesque literas in
forma significavit, consueta, contra occultos, et ignotos malefactores,
satisfacere, conscios vero revelare differentes, servata tamen forma Concilii
Tridentini, nec non constitutionis Pii Papae V, praedecessoris nostri, super
haec editae, concedendi.
Trattavasi dunque di lettere monitorie contro
malfattori ignoti ed occulti, con l’obbligo di chi sapeva qualcosa di renderla
nota, ovviamente nel rispetto della forma voluta dal Concilio Tridentino e con
l’osservanza delle costituzioni di Pio V. Il Gallo, avvocato siciliano del XIX
secolo segnalava
a pag. 131
un dispaccio borbonico che precisava contorni ed abusi dei monitori.
Non ostante che
il Concilio di Trento con un suo provvido Stabilimento avesse dichiarato (98 ), che i monitorii i quali si
spedivano dalle curie vescovili ad finem revelationis pro deperditis seu
subtractis rebus, fossero contrari alla sacra dottrina della Chiesa, e che in
questi casi i soli vescovi per se stessi e per motivi urgentissimi potessero
spedirli, pure l'esperienza costante dal dì che fu pubblicato il concilio di
Trento, ha dimostrato sì in questo regno, come in altri luoghi, che gli abusi
de' monitorj per i motivi additati eransi resi insoffribili, in grave
pregiudizio non meno della giustizia, che in aperto disprezzo delle censure
ecclesiastiche, le quali non debbono mai fulminarsi che per gli soli motivi
canonici, di pubblico scandalo, di peccatori ostinati e di altri simili
eccessi, ma non mai per causa meramente temporale, e per cui le parti offese,
per essere ristorati de' loro danni, o per recuperare le robe perdute, o per
impedire gli effetti delle false testimonianze, hanno aperto la strada ne'
tribunali ordinarj dove per lo appunto queste materie debbono trattare colla
dovuta imparzialità ed esattezza. Cotesti monitorj provvidamente furono anni
sono proibiti in questo regno (99 S.M. ora non trova ragionevole motivo per
recedere da una cotanto salutare disposizione uniforme a' sacri canoni ed
all'utilità delle censure, le quali, per essere proficue, non debbano vagare
sopra di oggetti estranei, e contrarj al fine per cui sono state inculcate.
Leonardo Sciascia s’imbatté in un atto giudiziale del
vescovo Traina. Non ne capì molto, a dire il vero. Del resto il documento gli
era stato fornito dall’allora sacerdote Di Giovanna. Il Racalmutese a quel
tempo s’industriava nel rendere storico il romanzo di William Galt Fra Diego La Matina ma aveva poca
materia per le mani. «Per scrupolo, per non trascurare niente – annotava
malinconicamente nella Morte
dell’Inquisitore – vogliam aggiungere che può darsi vi sia un fondo di
verità […] nella romanzesca invenzione del Natoli […] e vien fuori da un
documento che si trova nell’Archivio della Curia Vescovile di Agrigento
[Registro Visite, 1643-164]. Da tale documento si rileva che il 6 novembre del
1643 il vescovo di Girgenti ordinava, presumibilmente ad un magistrato della
Curia vescovile, di recarsi nella terra di Racalmuto, per scomunicare (servatis servandis), arrestare, tradurre
a Girgenti con ogni precauzione, don Federico La Matina. …».
Abbiamo rintracciato quella disposizione e vi abbiamo
notato solo certi aspetti procedurali; ovviamente vi era stata prima una
lettera monitoria; si erano scoperte talune inadempienze (che noi supponiamo
riguardare il patrimonio di quel prete che nulla ebbe a che vedere con il
monaco agostiniano ribelle e che fu poi un probo sacerdote molto più assiduo di
quel confessare suor Maria Maddalena Camalleri, come s’intigna lo Sciascia);
erano scattate le sanzioni di cui parla lo Scrittore.
I monitori secenteschi della Racalmuto di Sciascia
Ben più significativi sono i monitorij che donna
Beatrice del Carretto ed altri racalmutesi riuscirono a farsi concedere, a dire
il vero alcuni anni prima dell’avvento del Traina ad Agrigento. Stralciamo da
un nostro precedente lavoro sulla storia della Racalmuto del Seicento.
Non erano
passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo III che dei
ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria
razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era veramente precario: furti, abigeato,
rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi
“formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi
di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le
sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti
malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do
arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia.
Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana,
robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da
un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere
che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della
popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la
crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova
del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica,
stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 altra missiva al locale arciprete (e qui è
ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo).
“Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia
- recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di
don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam
don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati
robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et
metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et
occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori,
rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi
di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don
Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca
la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità
giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”,
compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo
ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto
risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto
la data del primo settembre 1621). Ma non è da pensare che la volitiva vedova
concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte
Girolamo III del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a
distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il
potere di donna Beatrice Del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci
dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione
tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un
qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe
fuorviante.
La vedova
riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la
peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria
una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a
Racalmuto.
Riemerge
la più generale questione della latitudine della giurisdizione episcopale.
L’istituto del monitorio affiora con contorni che non ci pare che gli
accademici paludati abbiano del tutto sviscerato; francamente, a nostro avviso,
non l’hanno neppure sfiorato. Sempre pronti comunque a chiedere venia per
questa nostra arrogante affermazione. Da dilettanti, manteniamoci entro limiti
di furba modestia.
Gli anni del tramonto
L’età decrepita
L’alacrità del Traina di ritorno da Roma
«Da che ritornò
da Roma tutto s’applica agli ornamenti della Cattedrale» abbiamo visto come il
presule reagisce alla scoppola dell’inchiesta pontificia, dedicandosi agli
orpelli, alla “fabbrica”, ad indorare cattedrale e cappelle. Dimostra
un’angustia mentale e soprattutto una mancanza di spirito pastorale, di
religiosità che francamente ci turba in un vescovo. “Tutto s’applica” ormai, ma
a che cosa? Alle vanità ed alle pompe di questo mondo. Francesco d’Assisi era
passato invano, e dire che Traina ne porta il nome. Egli innanzitutto … ma
lasciamo a lui la parola: «et primeramente abbellì di stucchi, et pitture la
capella maggiore, et poi fabricò altre tre magnifiche capelle, l’una del
santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando primo Vescovo et Patrone della
Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et due statue,
cioè l’una di detto glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa Vittoria,
fabricò un organo magnificentissimo di spesa quattro mila scudi, il quale poi
rovinò con più della metà della chiesa, et tutto il choro, onde rivoltando esso
monsignore vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et resarcimento con
più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere di prima, et hoggi
si sta fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un miserabile incendio
l’anno 1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove traslato il corpo, et
ossa d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi quattromila. Rifece il
palazzo vescovile con aggiungersi un delizioso giardino.»
Qualche empito
di generosità a dire il vero non manca e neppure difetta una certa sensibilità
alla cultura ed alla formazione dei suoi sacerdoti. Il seminario, soprattutto:
«fondò il monte di pietà – si vanta e qui a ragione - in sussidio di tutti i poveri et bisognosi
non solo di Girgento, ma della diocesi.» Non bada a spese per il suo seminario:
«spese da 12 mila scudi nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero
degli alunni a sessanta dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del
proprio per quel che manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle
scuole della Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge
civile et canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di
strumenti, ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi
de’ libri anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a
fine di comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali
vuole che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria.»
Ma per il bene delle anime?: nulla ci risulta. E per il resto della diocesi?
I monasteri di Naro, Favara e Racalmuto
In chiusura,
frettolosamente annota: «et finalmente fondò due monasterij l’uno della terra
della Favara, et l’altro nella terra di Racalmuto, et un altro nella città di
Naro.» Non abbiamo ancora approfondito la faccenda del monastero di Favara, né
di quello di Naro; non sappiamo neppure se fossero monasteri di frati o di
monache. Ma di quello di Racalmuto qualcosa sappiamo e francamente dubitiamo
che cosa sia da ascrivere a merito del vescovo. Anzi, siamo certi che si tratta
di millantato credito, di plateale falso.
Il Traina si
arroga, quindi, il merito di avere fondato il convento racalmutese, che
sappiamo aliunde essere il monastero femminile di S. Chiara. La vicenda
conventuale trascende, però, il presule agrigentino: era stata donna Aldonza
del Carretto a lasciare un legato di appena 100 onze nel lontano 1605
Tra le altre sventure
Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna
Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto
per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia
di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei
figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e
Margherita) e tre figli maschi (Giovanni
IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto
“paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse
eccessivo pensiero. Snobbò principalmente il dover dotare le sorelle specie quella
zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, anche sul letto
di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso
fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi
universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna
Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro
equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus
praedictis et infrascriptis».
Dopo
aver fatto alcuni lasciti per la sua anima, dà dettagliate disposizioni per
l’erezione del convento di Santa Chiara; invero non lascia, si è detto, una
gran cifra, appena 100 onze e pur con il gran valore della moneta liquida di
quei tempi, non ci si poteva fare molto. Sennonché quel lascito era a valere di
fondi depositati nelle Tavole di Palermo, l’antesignano del Banco di Sicilia.
Quelle Tavole andarono fallite. Ma dopo un quarantennio i capitali con la
rivalutazione e con gli interessi si ebbe modo di recuperarlo. Noi non
escludiamo che il merito – o la pressione nobiliare – sia da ascrivere
all’allora potente anche se scapestrato Giovanni V del Carretto. Con quei soldi
si riuscì ad acquisire un bel pezzo di terra edificabile nel centro di
Racalmuto, nell’esclusivo quartiere Monte. E là si fabbricò il chiostro che
oggi ospita la plebea casa comunale.. Annesso c’era anche il giardino su cui i
Matrona ed i potentati del dopo Unità d’Italia vollero il pettegolo e
pretenzioso teatro comunale. Sciascia ne parò bene; tanto bastò per spingere
amministratori ed autorità degli anni 80 a sperperare fondi pubblici per un
baraccone teatrale che per il momento consente solo a disoccupati e disoccupate
della Racalmuto bene di percepire l’obolo in un euro per visite da parte di irriducibili
nostalgici.
Il
vescovo Traina diede il benestare episcopale ma volle un suo parente quale
assistente ecclesiastico ed a pagamento. Guarda caso, anche l’arciprete di quel
tempo era un Traina di Cammarata. Quanto a nepotismo non c’è che dire. Altri
soldi racalmutesi che prendevano la via di Cammarata, per volere di quel
magnanimo Traina che il re di Spagna aveva voluto vescovo di Agrigento.
Il
testamento di donna Aldonza del Carrettoo venne redatto l’8 marzo del 1605.
Punto importante per Racalmuto era, dunque, il lascito per la fabbrica del
convento femminile. Vi era detto che “essa testatrice volle ed espressamente
ordinò ed ordina ai sopraddetti eredi universali che subito ed in contanti,
appena giunta la morte della medesima testatrice sopraddetta, i suoi eredi
hanno da assegnare e debbono e sono tenuti a versare cento onze di reddito,
alla medesima testatrice dovute per il detto Don Ottavio Lanza principe di
Trabia, quota parte della maggior somma dovutale in virtù e per forza di
contratto, affinché si doti un monastero di nuova fondazione, con il favore di
Dio, e lo si costruisca e lo si edifichi nella predetta terra di Racalmuto. Con
codeste cento once annuali si faccia fabbricare il detto Monastero ed allorché
il detto Monastero sarà completo nel fabbricato ed in ciò che occorrerà”,
allora «habbiano da pigliarsi dudici
poveri di detta terra et preditti redditi di onzi cento saranno pro dicto
Monasterio videlicet uncias duodecim (12 onze) per l’elemosina del cappellano,
lo quale Monasterio et per esso li soi officiali et detto cappellano siano
tenuti ogni giorno celebrare una messa allu Venniri, (e) si dica la messa delli
cinque piaghi del Signore et un’altra delli Angeli et la colletta a Santo
Micheli Arcangelo et onze 88 pro vitto et vestito di detti dudici Monachi
poveri da monacarsi per nenti ma per l’amor di Dio. E tutto per remissione di
suoi peccati, La electione delli quali monachi si facci per l’arcipreti et
Guardiano di Santa Maria di Jesu di detta terra di Racalmuto ...»
Quella povera donna Aldonza, non credo che
abbia mai avute celebrate messe alla Badia, una graziosa chiesetta tra il
teatro ed il Comune. Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del
1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce
il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa
terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è
del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione
dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere
spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre
Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento si spiega per il
fallimento bancario che abbiamo segnalato; comunque alla fin fine le sorelle
superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà
testamentaria della arcigna virago. Nel chiostro, però, non andarono solo
giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la
fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei
libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo
LO BRUTTO e della quondam Melchiora,
entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto
a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel
1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole
signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per
esigenze di bilancio familiare. Lo prova questa sorta di organico monacale:
MARIA AGNESE FARRAUTO SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA
ANGELICA PICONE SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
ANTONIA AMELLA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
ARCANGELA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
CARMELA CAVALLARO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
CATERINA TIRONE SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
CROCIFISSA FARRAUTO SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
EMANUELA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
FRANCESCA SAVITTERI SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
GABRIELLA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
GRAZIA SCIBETTA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
MADDALENA AVARELLO SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
NICOLETTA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
RAFFAELLA CAVALLARO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
ROSARIA TULUMELLO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
SALESIA VINCI SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
SERAFINA ALFANO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
VENERANDA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
PETRA
ANTONIA MATRONA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
PETRA
MARGHERITA CAMPANELLA SUORA
MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA
PAOLO MATTINA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
CHERUBINA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIAIRA
MARIA
GIACINTA GRILLO SUORA MONASTERO
S .CHIARA
FRANCESCA CASTELLO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
IGNAZIA SERRAVILLO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA BERTOLINO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i
Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello,
i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro
vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare
in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro
della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle
“poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le
obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe
scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione).
Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna
Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine,
risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
L’ultima relazione al papa del Traina
Prima durante e dopo la tempesta
Il racconto del protagonista
Giunti al 1650, il Traina oltremodo stressato
per la rivoluzione che lo aveva colpito anche negli affetti più cari, persino
con tragici lutti, ha l’ingrato obbligo della visita triennale al Santo Padre.
«Credevo com’è mia obbligazione – scrive il 4 maggio 1650, agli eminentissimi e
reverendissimi signori suoi illustrissimi – di presenza riverire l’em.e V.I. e
Rev.me per satisfare il proprio debito, ch’m’incombe della visita de sacri
limini». Lo stile è ormai dimesso e stanco; l’alterigia presa a prestito dalla
Spagna, del tutto svanita. «Però le rivoluzioni passate tanto note di questo
Regno, e i patimenti nella mia persona avuti dal proprio gregge, li quali mi
ridussero fino alla morte, m’hanno affatto indebilitato à poter più viaggiare,
et resto tuttavia in stato di poca salute, et gionto quasi all’ultimi giorni
della mia vita; viene da me destinato à questo effetto il canonico don Paolo
Piconio per eseguire prontamente quanto io dovevo personalmente in questi
dovuti ossequij; supplico l’EE.VV.R.me di ricerlo benignamente, et dal medesimo
con grato orecchio sentire lo stato della mia Chiesa per dare l’opportuni, et
sacri rimedij, che giudicheranno necessarij con la loro singolar pietà, alli
quali facendo profondo inchino humilissemamente bacio le mani. Girgenti li 4 di
Maggio 1650- umilissimo e devotissimo Francesco di Girgenti»
In dieci fogli, scritti in un latino alquanto
lindo ed in bella scrittura, il vescovo fornisce i ragguagli sullo stato della
rivoluzionaria e rivoluzionata chiesa agrigentina. Ne forniamo qui una nostra
sintesi in volgare. Si esordisce rammentandosi l’obbligo della Sacra Visita,
quale riformato da Sisto V. Più con le lacrime che con le parole il Traina ha
voglia di raccontare i tumulti del suo popolo. Ed egli vi è incorso innocente
ed indifeso. Grande fu l’ingratitudine del suo popolo ed ancor maggiore la
nequizia. Prostrato e ormai giunto al limite della vita non può che delegare il
canonico don Paolo Piconio alla doverosa visita.
Come il Traina vede i tumulti di Palermo
Gravando l’ira di Dio sui Siciliani, esplosa
per le tante iniquità e protesa dunque a castigarli, ciò si manifestò con varie
sciagure, calamità e crudeltà. Ne derivò una serpeggiante insurrezione, e non
tanto per il pretesto della fame quanto per un malvagio volere (così Dio permettendo) di tal che quasi tutto il Regno fremette. E
dire che quel popolo era stato sin’allora fedelissimo al suo re Cattolico e
ossequientissimo. Ora invece era stato capace di allontanarsi dall’obbedienza e
si era mostrato avverso ai ministri regali e si era abbandonato allo sfrenato
furore dell’infima plebe. Da qui il disordine pubblico, da qui dispersa la
giustizia, da qui quasi dimenticata la cristiana disciplina, disprezzato il
rispetto verso gli ecclesiastici e negletta l’autorità dei principi sia quelli
ecclesiastici sia quelli temporali. Più per il numero delle località che per la
moltitudine delle plebi crebbe l’innata perfidia e si assistette ad inverecondi
e riprovevoli spettacoli, come a Palermo ove non si lasciò indenne il principe
del Regno, allora addetto alle cose di governo, pur essendo per integrità e per
probi costumi secondo a nessuno. E del pari fu aggredito il Presule anch’egli
preclaro per virtù e morigeratezza, nonché tutto dedito alle sacre cose. Ne
scaturì che l’uno prese la fuga, l’altro riuscì appena a nascondersi.
Ma atteniamoci alle cose di Giorgento
E che dire di Agrigento, che per antichità
pretende di competere con le grandi città?
Gareggiando con la tirannide di
Fallaride, non arrossì di irrompere contro il suo vescovo, che in quel tempo
aumentava la consueta munificenza nelle elargizioni per sopperire all’angustia
del suo popolo, erogando abbondantemente frumento e denari ed offrendo tutto
quel che aveva per il pubblico e privato benessere. Cercava così il vescovo di alleviare
l’indigenza, con il compiacimento delle plebi che non cessavano di lodare la
provvidenza, la carità e la liberalità del loro pastore. Il vigilantissimo
presule, infatti, prodigo nella beneficenza a detta di tutti, nulla contro di
sé fondatamente temendo, s’industriava a sedare i tumulti e ad evitare pericoli
agli altri. Sennonché ben altro era il pretesto, come detto, che quello della
fame; l’impinguato popolo, ingrossatosi e dilatatosi recalcitrò né si contenne,
né si astenne dalla somma infamia: successe che si aggredì il vescovo nel
proprio palazzo come un agnello belante, si uccisero dieci membri della sua
famiglia, alcuni intimi, due canonici, un suo nipote. Non si mancò di arrecare
ferimenti, di imprigionare e di mettere ai ceppi vari famigli episcopali con
minaccia di morte che solo per miracolo la scamparono. I tumultuanti
devastarono, deprederanno, bruciarono arredi, suppellettili, libri, scritture
importanti, tra le quali quelle delle visite ai Sacri limini. Tentarono di
uccidere il fratello germano, vicario generale,
ora minacciandolo con la spada sguainata, ora con il cappio, ora con la
traduzione nelle pubbliche carceri. Infine trascinarono il loro stesso vescovo
(oh! Quale abomio) in una casa privata
come in carcere, dopo avere attentato alla sua vita, privato di tutto quanto
era necessario al sostentamento della sua vita; e là iniziato un insano
conciliabolo, alcuni ne volevano la morte, altri propendevano per una spelonca
ove tenerlo a pane ed acqua, altri suggerivano l’esilio: taluni abbandonati da
Dio ai loro pravi desideri cospiravano in tal modo contro il loro Presule tanto
benemerito nei loro confronti da apostatare dalla ortodossia e far rivivere la
nefanda barbarie quale esperimentarono gli antichi padri nei primordi della
Chiesa. Ciascun fedele, però poté constatare come il vescovo giammai abbia
cessato di sopportare con spirito religioso tante avversità contro di sé ed i
suoi e di cercare di correggere con la parola e con l’esempio l’incanaglita
plebaglia e distorglierla dalla sacrilega pravità. Tanto con animo sempre
sereno, sicuro della propria innocenza, non dimentico dei suoi benefici. Così
assistito sempre dalla divina grazia, con spirito di profonda umiltà, diede
grande prova di autorità episcopale e di singolare prudenza. Quando finalmente
fu possibile evadere per opera di alcune pie persone, con il suo solo fratello
superstite, di notte, fuggì a cavallo, e fra le notturne tenebre per impervie
vie rupestri, vecchio decrepito, infermo, estenuato dalle sofferte fatiche e quasi
esangue giunse nella città di Naro lungi dodici stadi da Agrigento e della
medesima diocesi, pervenendo quivi per divino più che umano sentiero, abiurando
e doverosamente dagli Agrigentini per sanzione dei loro delitti.
Il Traina dopo essere fuggito a Naro, perdona e torna ad Agrigento
A Naro
invece fu accolto benignamente ( e già supplicò per trasferirvi la sede
episcopale) e grande fu il gaudio di tutti quei cittadini ed ovunque
applaudito. Così bene accolto vi risiedette per dieci mesi finché raggiunse
Palermo, chiamato dal viceré, a discutere i gravi aspetti della sua chiesa con
i riflessi d’indole regale e politica. Invero permaneva la questione della
scomunica degli agrigentini, ma questi indottisi alla penitenza lo reclamavano
ed invocano la revoca delle sanzioni ecclesiastiche in cui erano incorsi.
Dopo ciò, poiché giammai il buon Dio si
dimentica di avere pietà del peccatore, e non ne vuole la morte ma soprattutto
che si converta e viva, il nostro vescovo ritornò nella sua cattedrale. Ciò dopo
che furono composte le cose del regno, sedati i tumulti, ed alla primiera
obbedienza ritornati i popoli, allontanati da questo mondo i più esagitati e i
più nefasti: Non erano mancate preci, suppliche, era stata interposta
soprattutto l’autorità viceregia, dato il pentimento di gran parte del popolo,
e necessitava il ripristino del dominio della dignità episcopale che era stato
appannato; del resto fu fatto ben altro al divino Gregorio vescovo suo
predecessore, che rientrò in città da vincitore dopo le tante malefatte di cui
era stato fatto segno dagli agrigentini. Così il nostro vescovo, assumendo il
governo temporale più che quello spirituale della città, prese possesso della
sede comune di tutti i cittadini con gran giubilo dell’intera diocesi e di tutto
il Regno. Ed ora vi risiede svolgendovi la sua cura pastorale in tutta quiete
(favorendo la grazia di Dio), previa assoluzione dalla scomunica del popolo per
quanto di sua competenza, con le debite clausole e con varie proroghe, non
rescindendo neppure una sola volta ma supplicando la Santità sua per quanto le
compete ed ancora una volta, in questa occasione, rinnova la supplica.
Stende, a questo punto, una relazione come in antico
E da qui il Traina torna ai soliti, frusti
riferimenti secondo il cliché che abbiamo potuto prima seguire addirittura in
volgare. A somiglianza delle cose sociali, il deterioramento sembra colpire
simbolicamente anche le cose della cattedrale ove tetti e sacrestie, organo e
cori lignei bruciano per banali incendi “causaliter combusta”. Ed il provvido
vescovo pronto a ricostruire, speriamo meglio che con le cose dello spirito.
Sempre la stessa musica per il seminario ed il monte di pietà; qualcosa di
nuovo ora per le communia, per la diffusione della dottrina cristiana e per la
predicazione ovviamente da parte dei padri gesuiti. Chiodo fisso – e ciò deve
apparire scontato – le immunità ecclesiastiche, come dire l’esercizio del
potere giudiziario esteso fin dentro alla litigiosità civilistica..
Ma il diavolo prende dimora nella terra di Cattolica
L’ultima zannata malefica il vescovo la vibra
in chiusura di relazione. Parla di un Santo Ufficio solerte e grintoso specie
per quanto accadde «in oppido Cattolica nuncupato, sed a Cattolica fide multum
aberrante a scealeris hominibus abitato sub nequiori Dominio, ac tutela»; e
vorrebbe essere ironico quel giocare sul nome del paesino dell’Ovest
agrigentino, Cattolica abbandona la fede
cattolica per darsi in braccio al crimine e finire sotto il principe delle
tenebre, sotto il signore del male e se invoca persino la tutela. Il latino è
ermetico, il senso aberrante.
Processo a Roma contro mons. Traina
L’atto finale
Due canonici contro Traina in un contenzioso aperto a Roma
«Acta in causa canonicorum Agrigenti contra
proprium episcopum, contendentibus illis eumdem Episcopum ob omissam Sacrorum
Limi num visitationem incurrisse in poenas contentas in Constitutione Sixti V
edita 13 Januarii 1585 incip. Romanus
Pontifex».
Si intitola così il processo vaticano contro il
Traina. Apparentemente si trattava di una quisquilia. Quanti vescovi avevano
saltato la triennale visita? Non per questo erano finiti sotto processo. Il
vescovo si difende con i denti, ma in calce si annota: «die prima Aprilis 1651.
S. Congreg.° Concilij censuit standum esse in decretis, et ita referendum S.mi
D. N.ro» Era faccenda dunque seria, da sottoporre al papa, al santissimo domino
nostro. Ma eravamo già nell’aprile del 1651. Non passano molti mesi ed il
Traina muore. Il processo si estingue per morte dell’imputato. Imputato di che?
I laudoteres
del cammaratese come di ogni altro vescovo agrigentino del corrente secolo
tendono a minimizzare. Si sarebbe trattato di una semplice inadempienza
amministrativa, di un reato contravvenzionale, si direbbe oggi. Ma le carte ci
dicono che era cosa ben più seria. Non per nulla il carteggio si compone di ben
51 documenti, tanti che a farne delle semplici fotocopie e pubblicarle ne
verrebbe fuori un discreto libello. Dopo le tumultuose vicende che mirabilmente
ci narra il Camilleri nel Re di Girgenti,
ritornato il vescovo, suo malgrado, ad Agrigento mentre avrebbe preferito
starsene comodo e riverito a Naro, che pur di dare smacco ad Agrigento, era
persino propenso a sorbirsi il vecchio, decrepito ed ormai bilioso presule
Traina, ecco i rigurgiti ostili espandersi in ogni dove. Taluni canonici non ne
possono proprio più. Un frate dell’ordine di san Francesco di Paola, tale
Trimarchi – nostre personali ricerche ci avvertono però che fu un intellettuale
di vaglia – scrive un libello contro il vescovo che ha un successo enorme,
segno che non era vero tutto quel tripudio per il ricostituito ordine che il
Traina vuol far credere alla curia vaticana. L’arcivescovo di Palermo è
propenso ad incardinare un processo contro. Roma così si muove. Trascriviamo
alcuni atti partendo dalla difesa:
La parola alla difesa
«Monsignor Vescovo di Giungenti umilmente
espone alla Santità Vostra come li suoi malevoli hanno cercato sin’hora
insidiarli alla vita et alla robba saccheggiandoli il Palazzo, uccidendoli il
Nipote, et altri cinque sacerdoti della sua famiglia e carcerando la sua
propria persona e del fratello; hora avendoli l’horatore perdonato, e procurata
l’assolutione dalla Sede Apostolica [hanno] tentato con ingrata ricompensa,
sotto false calunnie et arti nove levargli la reputatione e la fama. Pertanto
il canonico Filippo Picella, mosso da manifesta passione per oltraggiare
all’oratore, ricorse alli Tribunali e Ministri Laicali del Regno di Sicilia,
giudici prorsus incompetenti, anteponendoli, che l’oratore aveva neglettato la
visita de S. Limini per il 21° triennio e per conseguenza i frutti della sua
menza episcopale si dovevano applicar in beneficio di detti ministri contro
l’espresso tenore della Bolla di Sisto Quinto, ne contento di questo ricorre
alla S. Congregatione del Concilio con le medesime istanze. Ma poiché da detta
S.C. furono ammesse le legittime scuse del Prelato, si per li suoi giusti
impedimenti come per le proroghe, che ne aveva ottenute, e dichiarato che
l’oratore non era incorso, ricevè la visita del canonico don Paolo Piconio
mandato à questo effetto, niente di meno detto Picella arrogandosi l’autorità
della Sede Apostolica, e sopra la Sacra Congregatione del Concilio, ha fatto
mandar alle stampe senza licenza di legitimi superiori, una scrittura seu
libello famoso di un tal fra’ Girolamo
Trimarchi dell’ordine di S. Francesco di Paula contro l’oratore e sua
dignità episcopale dichiarandolo sospeso
irregolare, e spergiuro, e come tale con molta temerità pubblicandolo con
manifesti e lettere per tutte le città e terre della Diocese procurando a più
potere d’alienare la mente de sudditi dall’obedienza et ossequio dovuto ad un
legittimo pastore e prelato, cagionando perciò un scisma non senza gravissimo
pregiudizio dell’anime de fedeli, e della Chiesa ricorrendo così detto di
Picella come detto frate di Trimarchi in diverse censure fulminate dalla Bolla
in Caena Domini et altre da Sacri Canoni disposte. E perché un delitto di tanta
consideratione et pessime conseguenze non deve restare impunito l’oratore
ricorre alli S.mi Piedi della Santità Vostra supplicandola instantemente si
voglia degnare ordinare che si proceda con detto di Picella a nova
dichiaratione di detto incorso conforme esso mons. Vescovo l’ha già dichiarato
secondo la facoltà concessali dalla felice memoria di Urbano Ottavo come nella
Bolla spedita per la sua consacratione sotto il primo di Marzo del 1627 et
castigar pur anco detto di Trimarchi, che in altro modo esso Mons. Vescovo non
potria più governare il Gregge della Santa Sede commessoli, ch’esso oratore
oltre esser di giustizia lo riceverà à somma gratia dalla S.ta Vostra per la
quale etc.»
Con più malferma grafia e con stile molto più
dimesso ecco un’altra missiva episcopale di analogo tenore:
«Monsignor Vescovo di Girgenti humilmente
espone alla Santità Sua come dalla S.C. del Concilio fu ricevuta l’ultima sua
visita ad limina Apostolorum, et essendo stato legittimamente impedito per
pocho tempo senza sua colpa, fu solamente assoluto ad cautelam: ne dichiarato
incorso nella Bolla di Sisto V di felice memoria. Hora la Monarchia di Sicilia
tenta di interpretar la lettera di detta S. C. et avendo commessa la causa a
Monsignor Arcivescovo di Palermo suscita contro l’oratore una causa già
definita da questi E. C.li con espresso disprezzo di questa Apostolica
Iurisditione. Per tanto suplica la Santità Sua rimetter di novo a detta S. C.ne
o che si faccia novo decreto per levar ogni dubio, o scriva a Monsignor
Arcivescovo di Palermo chiaramente i suoi sensi, o por ordini che l’oratore non
sia molestato, che si riceverà per gratia. Quam Deus etc.»
Come si stilava un certificato medico nel Seicento ad Agrigento
Ma deposta ogni albagia il Traina è costretto a
ricorrere alla compiacenza di due medici, Francesco Albanese e Giuseppe
Polizzi, per farsi dichiarare retroattivamente il suo stato di precaria salute
quando si trovava fuggitivo a Naro nel 1647. Ricorre anche alla compiacenza dei
giurati agrigentini del 1650 per farsi attestare l’autenticità del referto
medico da mandare in Vaticano a sua discolpa. Se se ne ha voglia si può seguire
qui il curioso referto secentesco. In esordio: receptum Agrigenti die nono Maij Tertiae Indictionis Millesimo
seicentesimo quinquagesimo. Il 9 maggio del 1650, dunque, sono i giurati di
Agrigento ad attestare l’autenticità del documento. Reggevano la città dei
giganti allora i giurati Gaspare Giardina, Gaspare Games e don Rodolico Sala e
Graffeo. Aria spagnoleggiante dunque. Recitava il referto:
«Relations
artium medicinae doctorum Francisci Albanese et Joseph Puliczi factae cum
giuramento d’ordine et ad instantiam ut supra [cioè del vescovo Traina].
Pertanto declarano essi Relatores come nell’anno 1647 nel mese di dicembre fu
chiamato detto dottore di Albanesi nella città di Naro à medicare il Monsignore
illustrissimo Vescovo di questa sopradetta città di Girgenti, quale travagliò
con due terzani continui di mala qualità, essendo stati cagionati da tanti
passioni di animo, spaventi, e pericoli di sua vita; quali benche terminorno
dal pericolo della vita li lasciorno un’appilattione cossì grave, che per
essere tanto in età decrepita, quanto per lo tempo d’inverno si prolungò in
modo che et nella stagione con mutare aria di Naro in Palermo, aria sua nativa,
sempre stetti ammalato, e precipue con podagra e constrintione nelli parti
naturali, et avendo venuto in questa città di Girgenti nel mese di marzo 1649,
venni cossì ancora appilato con dolori di podagra non ostante haver fatto nella
città di Palermo molti medicamenti; e perseverando nell’istesso modo tutta la
stagione e parte dell’ottunno finalmente nelli quattro di Novembre prox.
passato li sopravvennero dui altri terzani continui maligni, quali con
estremo pericolo di sua vita, (che più la sua salute si puo al glorioso S.
Gerlando, et alla Madonna Sacralissima applicare, che a forzi umani) si
prolungaro insino alli vent’uno. Doppo benche una cessò l’altra perseverò.
Insino all’ottanta perseverando con quelli sintomi che contra maligni morbi
spettano; e finalmente benche cessarno li accessioni restò cossì indebolito,
tanto per la forza del morbo, quanto per l’età decrepita li restò una
fiacchezza cossì grave in tutte le parti e precipue nel stomaco, che non
potendo covocare ma continuò generando humore pituitoso et flemmatico ci
infiarmò gambi et piedi chiari principij di idropexia, et avendoci fatto
medicamenti opportuni a detto debile colore s’ha andato recuperando e
resistendo a detta debilità, benché al presente persisti nell’istesso caso, per
li quali morbi detto corpo di Monsignor Illustrissimo è inabilissimo a
qualsivoglia moto di qualsivoglia sorte e scomodità etiam minimo per
qualsivoglia spatio etiam brevissimo senza pericolo di non sincoparsi e
seguendo di mettersi in chiarissimi pericoli di sua vita, stante per la sperienza
havuta di moto fatto dal palazzo alla
chiesa dove subito venne in deliquio d’animo. Et hae sunt eorum et cuiuslibet
eorum relationes factae cum giuramento modo quo supra.»
Pietro Denolfo La Gatta ne fa un estratto dagli
atti dei giurati. I giurati stilano una lunga attestazione di autenticità. E’
il 10 maggio del 1650 e firmano Gaspare Giardina e Gaspare de Gamez. Il quadro
prosopografico di Gibilaro che abbiamo sopra riportato è dunque lacunoso e va
integrato con i nominativi che siamo andati riesumando. Pietro De Nolfo La
Gatta firma come regio mastro notaro
della Curia agrigentina.
Una memoria a difesa e quindi la parola all’accusa
Segue una difesa davvero tosta redatta da
Benedetto Cappelletto, ove scienza, bibliografia, giurisprudenza brillano in
difesa del vescovo di cui si sottolinea la causa scusante per motivi di salute
e di cui si esaltano i meriti pastorali. Non è questa la sede per una disamina
di quella comparsa; spetterebbe semmai ai canonisti o agli studiosi di diritto
medievale o ecclesiastico.. Noi potremmo mettere a disposizione il materiale in
nostro possesso per eventuali addetti a siffatti lavori.
Ma la controparte non è da meno. Leggiamo
l’ordito accusatorio per come acquisito agli atti del processo:
«Eminentissimi e reverendissimi Signori.
Havendo la sacra congregazione ordinato che Monsignore di Girgente ne altri per
esso sia admesso alla visita de SS. Limini senza che siano sentite le ragioni
de canonici devotissimi oratori dell’EE.VV. hanno detti horatori citato il canonico
Piconio ad effetto di concordare il fatto avanti Monsignor Illustrissimo
Secretario conforme alle copie che si danno in sum° n° p° et originalmente nel
memoriale dell’em.mo signor cardinal Carrafa.
«E
perché detto Piconio ha sempre differito dar la nota per la concordia del fatto
benche nel presente contraddittorio promettesse darla al detto monsignor
secretario acciò la comunicasse all’oratori come per sua benignità testerà
detto monsignor secretario si supplica l’EE. VV. à non ammettere detto canonico
Piconio alla visita ne sentirlo se prima non sia giustificato il fatto dal
quale apparirà evidentemente l’incorso di detto Prelato nelle pene della
Constitutione della sacra memoria di Sisto V nel § 7° per haver esso mancato di visitare per il 21°
e 22° triennio che corre adesso che però l’amministrazione et percezione de
frutti è devoluta al Capitolo e Canonici per servirsene in reparatione della
Chiesa come in detto § che si dà in Sum° n° 2.
«E
tanto più Eminentissimi Signori quanto che il medesimo Prelato è altre volte
incorso in simili mancamenti per essere stato d’ordine della medesima S.
Congregatione dichiarato sospeso, et incorso in dette pene contenute nella
medesima Constitutione, e poi ribenedetto con penitenza salutare conforme si
giustifica in Sum° n° 3.
«E di
più anche nell’ultima visita che fece per il XX triennio essendoli admesse le
scuse, et imposto che facesse il sinodo, et altro come nel n° 4 ha trascurato
l’adempimento.
«Concorrendovi
massime che non si scorda detto Prelato di quello concerne al suo interesse
temporale per haver comprato due Città, e fattosi anche (dopo le revolutioni
del Regno causate [in] maggior parte da esso) Procuratore in temporale come
negli altri cumuli di robba senza pensare alli pesi che tiene conformemente se
ne darà giustificatione all’EE.VV. mentre si degneranno deputare Prelato vicino
avanti il quale si possino giustificare.
«Ne
osta il pretesto dell’impedimento perché la Bolla al § quod si legittimo vers. de richiede
prova legittima, et chiara, quale non ha dedotta ne vuol comunicarla
all’oratori acciò con le risposte non venga levato questo debol pretesto non
essendoci mai stato impedimento per il quale egli non potesse almeno mandare
anzi che non consta che pare habbia fatto principio di diligenza di mandare à
scrivere nel che havererebbe dovuto monsignor maggiormente premere per le
medesime cause che egli allega in sua discolpa.
«Meno
può suffragare che le pretensioni de
Canonici non debbiano ritardare l’ammissione alla visita perche dichiarando la Bolla l’incorso ipso
facto ch’è commesso l’errore viene subito privato il Prelato dell’ammissione ne
deve godere altro restando la cura al Capitolo di far la parte del Vescovo e
dare il debito conto della visita e stato della Chiesa à questa Sacra
Congregatione.
«Meno
deve aversi in consideratione la pomposa esageratione che Monsignor Vescovo
habbia fatto donatione alla Chiesa si perche ciò non sosiste in fatto come a
suo tempo conosceranno l’EE.VV. come anche perche ciò non evita l’incorso nelle
pene à favore della medesima Chiesa.
«Tanto
più che è solito Monsignore far delle donazioni e poi revocarle come seguì in
tempo delle revolutioni che avendo donato al Popolo per atto publico quello che
esso gli aveva domandato, sedati li tumulti volse essere rimborsato del tutto
sino ad un barattino.
«Finalmente
è vano il rifugio che non vi sia procura de Canonici et che il Canonico
Piconio preteso procuratore di
monsignore habbia instato per detta procura monsignor Melchior Laurente A, C,
et che s’inhibisse al procuratore dell’oratori che non dovesse opporsi in
questa Sacra Congregatione se non mostrava la procura.
«Perche
il medesimo monsignor Melchior hà dichiarato non intender ingerirsi ne por mano
alle cose della Sacra Congregatione et la procura de Canonici si dà in mano di
monsignor ill.mo secretario e se bene non è capitolare è lecito ad ogn’uno
oprar per la Causa pia et interesse privato.
«Anzi
la sola pietà dell’EE.VV. è solita provedere all’indennità e favore delle
Chiese et osservanza delle Constitutioni Apostoliche come si spera nel presente
caso. Che etc. »
Il canonico Picella al contrattacco
Sbagliava
il Traina a pensare che solo il canonico Picella fosse il suo malevolo in seno
al capitolo; c’era anche Gaspare Blasco. Insieme produssero al Beatissimo Padre,
al papa, questo pamphlet accusatorio. E
non era solo questione di ritardo nella visita ad limina.
«Filippo
Picella e Gaspare Blasco – esordiscono – Canonici di Giorgento devotissimi
oratori della S.V.ra, avendo veduto che Monsignor Vescovo ha tralasciato più
volte il visitare i Sacri Limini et che non contento di esser stato altre volte
scomunicato e poi ribenedetto con penitenza salutare per detto mancamento come
in Sum. N. P° trovando la perseveranza nel mancare in detta visita et
all’incontro haver quello atteso al proprio approccio et à tesaurizzare per se
stesso, e nelle compre di Città con le rendite della Chiesa e mal governo di
quella, si sono opposti nella Sacra Congregatione del Concilio, che non fusse
detto Prelato ammesso alla Visita, ma in esecuzione della Bolla di Sisto V che
si dà in Sum. N° 2 dovesse privarse dall’amministratione della Chiesa, et farne
dovuta applicatione conforme dispone la medesima Bolla et insieme sono ricorsi
alla Congregatione de Vescovi et Regolari, acciò presa informatione della mala
operatione, e misfatti che si danno in più capi in Sum N° 3 si provedesse per
giustizia, e dalla Congregatione del Concilio ebbero risolutione che dovessero
esser sentiti li Canonici per loro ragioni et interessi, et in quella de Vescovi
e Regolari ordine che si prendesse informatione sopra detti capi considerati di
somma gravità et importanza. Mà poiché poi nella Congregatione del Concilio,
hanno sentito detto Prelato, senza che l’oratori habbiano inteso le pretese
ragioni di Monsignor Vescovo et concordato il fatto come si era restato avanti
Monsignor Secretario, onde l’oratori non hanno possuto dedurre le loro ragioni
ne mostrare l’insusistenza delle pretese scuse di Monsignore Vescovo per non
essergli state comunicate, supplicano la S.tà V.ra che per provedere
all’indennità della Chiesa et oratori commetta a chi più li pare la cognizione
dell’incorso di Monsignore nelle pene di detta Constitutione della fel. mem. di
Sisto per giustizia acciò non vengano maggiori danni alla detta Chiesa et
oratori, et dal processo che verrà fabbricato d’ordine della Sacra
Congregatione de Vescovi vanga anco proveduto per giustizia alli gravissimi
eccessi resultanti da detti capi dati in Sum. N° 3. Che il tutto etc.»
La rievocazione di antichi retroscena
Il
capo primo del sommario del Picella reca l’ordinanza di scomunica del 15
febbraio 1631 che abbiamo già riportata in esordio, prendendola dalla
Congregazione delle Immunità. Qui appare il cardinale incaricato
dell’esecuzione dell’interdetto. «Di V. Emin.
Rev.a umilissimo et aff.mo servitore il Cardinale di S. Honofrio – Nos Robertus
tit.i Sanctae Praxedis S. R. E. Praesbiter Cardinalis Ubaldinus nomine Sac.
Cong.nis Emin.orum Patruum Concilij
Tridentini Interpettum fidem facimus et attestamur Rev.mum in Cristo Patrem D.
Episcopum Agrigentinum ut Constitutioni etc. – Insuper impartiti sunti eius
amplitudinis confessario facultatem ut iniuncta salutari penitentia ipsum
absolvere possit à sospensione incursa eo quod haec Sacra Limina tempore
paefinito non visitaverit secumque super irregolaritate si quam hac de causa
contraxit disponeRe fructusque indebite perceptos condonare etc. Datum Romae
die 5.a Aprilis 1631. Robertus Cardinalis Ubaldinus – Franciscus Pauluccius
S.C.C. Secret.»
Tralasciamo
qui il paragrafo secondo che riporta lo stralcio del Concilio di Trento
relativo all’obbligo episcopale di effettuare la visita dei Sacri Limini con le
sanzioni previste. I proventi vescovili dovevano andare a beneficio della
cattedrale in opere murarie o in acquisto di ornamenti «.. ipso facto tamdiu suspensos [cioè i vescovi
inadempienti] esse volumus, donec a contumacia resipiscentes relationem
suspensionis huiusmodi a Sede predicta meruerint obtinere.»
L’ordito accusatorio dei canonici Picella e Blasco
Una sede vescovile da 700 mila scudi in 24 anni
Ma è
al paragrafo terzo che esplodono le accuse. Eccole:
«Monsignor
D. Francesco Traina in 24 anni è stato eletto vescovo di Giorgente, ha cavato
da quel Vescovato circa 700 mila scudi, né mai hà pagato circa 600 scudi l’anno
assegnati per riparatione e restauratione della Chiesa, et sua sacra
suppelletile da Leone X, Gregorio XIV et Urbano VIII di fel. mem. Nonostante
che à ciò sia obligato sotto pena di censura.
Non si cura delle scomuniche
«Non
fa conto alcuno delle pene conentute nella Bolla Caenae Domini perche commanda
etiam in scriptis sotto pena di scommunica
che non si dij esecuzione alle lettere Apostoliche come seguì nella
provisione fatta dalla S.tà V.ra in persona di D. Vincenzo Greco d’un beneficio
vacato per morte di Monsignore Micheli, et benche detto Monsignore Vescovo
avesse saputo di non poter conferir detto beneficio, volse nondimeno che né
pigliasse posesso Blasio Fontana suo Camerero, quale vedendo di non poterlo
tenere in bona coscienza lo dimise libere in manibus Santitatis Vestrae, et ciò
non ostante il medesimo Monsignore lo conferì ad un altro con privarne il detto
D. Vincenzo Greco.
Prevarica ed estorce prebende
«Processò
il canonico Campora per haver dato il posesso al canonico Babilona contro sua
volontà facendo aggravi tali alle parti che per rimediare a maggiori danni sono
astretti riccorrere alla Monarchia, et ciò lo fa solo per impedire il ricorso à
questa S.ta Sede.
«Il
medesimo seguì a Monaldo Monadi provisto del Tesorierato dalla felice memoria
di Urbano VIII, dandogli liti finché morì, et in tanto esso Monsignore si
riscuoteva li frutti.
«A don
Marco di Giorgio fece l’istesso per l’Arcipretura di Chiusa.
«A don
Pompilio Bove per l’Arcipretura di Giuliana, volendo che restasse in posesso il
provisto da lui.
«A don
Francesco Babilona per il canonicato della Cattedrale. Et à don Paolo Piconio
del sudetto tesorierato.
«Anzi
sopra li provisti apostolici impone pensioni confidenziali, et se le fa pagare
per forza.
Un pio legato di una tenuta di ulivi si dissolve … nella cucina del vescovo
«Hà
fatto tagliare una tenuta di olive per servitio della sua cucina ch’era della
Sacra Distributione, che rendeva almeno scudi 250 l’anno si che tra capitale e
frutti decorsi si fa conto che habbia danegiato alla sudetta Sacra
Distributione circa 11 mila scudi, dal che ne risulta che non si puotrà soddisfare all’oblighi lasciati da
benefattori.
Chi è ricco accede agli ordini sacri, anche se indegno
«Monsignore
sudetto promuove à gli ordini in fraudem anche li più ricchi, solo per
defraudare le gabelle. Altri senza necessità. Altri senza Patrimonio. Altri con
Patrimonio falso, facendo godere l’immunità solo a quelli con quali hà
interesse.
Latita il vescovo, e con lui la cresima
«Sono
molti anni che la Diocese non sa che cosa sia il Sacramento della Confirmatione
perche Monsignore non vuol lasciare le casse de denari quali aperte et usciti
li denari se ci spoglia sopra come se fusse un morbidissimo letto.
Femia funge da vescovo. Gozzoviglie a Sciacca. Violati i monasteri femminili
«Manda
à visitare la Diocese, ne la visita si restringe in altro che in cavar denari,
et don Vincenzo Femia, ch’è il Visitatore non solo celebra alla Pontificale
usando rocchetto, mitra et vestesi sopra l’Altare maggiore della chiesa al
cospetto di tutto il popolo, et finita la Messa levatose la pianeta e postosi
il Piviale dà la benedizione lasciandosi venire ad uno ad uno à baciar la mano.
«Ma
quel che è peggio, nella terra di Sciacca, ove vi sono cinque Monasterij di
Monache è entrato à visitarle con molte persone non suoi officiali, né della
Visita, ecclesiastici et secolari, giovani discoli et di vita scandalosa, ove
hanno fatto colatione con diverse confetture, et altri rinfrescamenti, serviti
dalle Monache medesime con facetie et burle, con scandalo di tutta quella
terra.
Da gesuita a pluripendato, il fratello del vescovo
«Il
medesimo Monsignore fece a Giuseppe Traina suo fratello, che fù prima gesuita
del 4° voto, poi di S. Giorgio in Alga, et ultimamente prete secolare ordinò
che di tutti i processi d’ogni delinquente li fosse pagato uno scudo, benche
tale imposizione non sia dovuta né per ragione di officio, né per giustizia, et
benché il detto Gioseppe sia morto, hoggi seguita ad esigere questa imposizione
per se medesimo.
«A
favore del medesimo impose una pensione confidenziale di 50 scudi sopra il
Priorato di Naro, et non ostante la detta morte, seguita a riscuoterla per se
medesimo.
Dai nipoti allo zio i 750 scudi del tesorierato
«Per
morte di Pietro Tomasino vacò il tesorierato di 750 scudi di rendita in Mense
Papae. Conferì il titolo a Cesare Malagrida suo secretario et riservò li frutti
a don Antonio Tomasini, suo nipote; morsero li sudetti e tornò a conferire il
titolo à don Antonio Bichetta et li frutti al detto suo fratello D. Gioseppe,
et questo morto, se li riscuote per se medesimo. Et pure il Vescovato rende
circa 24 mila scudi.
Bis in idem, quando si tratta di riscuotere crediti
«Si fa
pagare di nuovo alcuni suoi crediti, già soddisfatti al detto suo fratello come
procuratore. Come è seguito a Fabritio Tomasso, Michele Rizzo, Gioseppe Bellone
et altri.
La Cappella del Navarra diviene il sacello sepolcrale del vescovo – appropriazioni indebite – incauta vanità – crolla la cattedrale
«Il Canonico
Navarra fabbricò una Capella nella quale vi era eretta la Compagnia dell’anime
del Purgatorio, lasciandola in testamento al Capitolo per seppellirvi li
canonici pro tempore, et poiche non era perfezionata detto Monsignore se la
usurpò, et fattosi dare dal sacerdote D. Silvestro Civiltà all’hora depositario
di detta Capella circa 200 scudi pervenutegli di elemosine di Messe et altro,
levati li Monumenti marmorij che erano in detta Capella fece ristuccare et
imbancarla, mettendoci l’Arme sue, tenendola per propria.
«Dal
che ne resultano due considerabili mali. Il primo l’usurpatione della Capella
in uso proprio. Il 2° la propriatione a se del denaro destinato per sacrificio
dell’anime del Purgatorio.
«Et
perché dal suo trono non si poteva vedere questa puoca imbiancatura, ordinò
(benché avvisato di non farlo) che si aprisse un arco fatto murare da
Monsignore Giuliano Cibbo per fortificare le colonne maltrattate da un
terremoto del 1518 per la quale apertura caddero la nave di mezzo sopra il
Coro, et l’altra collaterale, fracassando circa 90 stalli, et un organo
superbissimo fatto già dal cardinale di Carpineto.
«E
quando doveva Monsignore rifare il tutto a proprie spese, dopo molto tempo
piglio 4 mila scudi di legati pii destinate a povere orfane , et simili opere
pie et fece rifare il cielo a volta di materia tanto cattiva, et mal fatto, che
non vi è Architetto che non concluda che il precepitio è necessario, con
pericolo di estrema consideratione.
Tovaglie d’altare sporche – rifiuto da parte di alcuni religiosi di celebrarvi
«Le
tovaglie dell’Altari sono si rotte e sporche, che alcuni Religiosi si sono
astenuti dal celebrare per haver vista la mala qualità di essi.
Vessazioni ed estorsioni
«Leva
li parrochi dalla cura delle loro chiese, sotto pretesto di porli al servizio
del Seminario.
«E
sono più anni che si riscuote 42 salme di grano assegnate per la prebenda
teologale, lasciando una lettura tanto necessaria con scusarsi d’haverla
applicata al seminario.
«Le
feste prima l’ingabellava, hora le dà in Commenda, e data licenza generale di
lavorare ogni tipo di commendatarij non si travagliano in altro che in
riscuotere, cavandone circa 2 mila et 500 scudi l’anno.
Tenero con chi ha commercio con il diavolo
«Asolve
l’incorsi nel Capitolo si qui suadente Diabulo, benche gravi e pubblichi siano
li delitti.
Blando con è in ora verso gli altri eccelsiastici
«Non
fa scrupolo nessuno sopra le censure delli ritardati pagamenti delli sudetti
pesi.
Le gravissime responsabilità del Traina durante i torbidi del ‘47
«In
tempo delle rivoluzioni populari per
colpa di esso Monsignore fù posta sotto li piedi la Dignità Vescovile, restando
morti dui canonici et undeci ecclesiastici per haver esso Monsignore sparato
alla moltitudine del Populo, che andava al Palazzo Vescovile per dimandare 700.
salme di grano che aveva di bisogno, et avendo visto il Popolo, che il medesimo
Pastore era distruttore del proprio gregge gli persero affatto il rispetto, et
se per opera di alcuni canonici e in
particolare del canonico Filippo Picella, che posposto il pericolo della
propria vita ritiratoselo in casa, gli diede comodità di fuggire, sarebbe
facilmente stato ammazzato.
La cattedrale allo sfascio
«Si
trova il 3° titolo della medesima Catedrale
da 18 mesi a questa parte puntellato da travi per il pericolo grande che
mostra di cadere, né fin hora vi è principio di ripararsi, anzi Monsignore ogni
giorno più attende à cumular denari, et comprar città, et farsi anche padrone
in temporale della medesima città di Giorgento.
E per pudore si tacciono altre vergogne
«Vi
sono anche altri capi di maggior scandalo, quali per modestia si taciono per
non farli noti con le carte, prima che con l’esame dei testimonij, e prove
concludenti siano note alla S.ta V.stra dalla quale si spera opportuno rimedio,
Che del tutto si riceverà a gratia singolarissima.»
Nostre osservazioni critiche
Il
rosario di accuse non è del tutto convincente. Vi sono momenti di rabbia, di
delusione, di rammarico. Si pensi a codesto canonico Picella che salva la vita
al Traina e per tutta risposta quello lo scomunica insieme al frate di S.
Francesco di Paola. Forse si era reso ardimentoso per quel suo atto umanitario.
Ma il vecchio e grifagno Traina non si lascia abbindolare. Canonico sulfureo,
ribelle ed ambizioso era e tale lo lascia il vescovo. Non lo accoglie tra i
suoi preferiti, non lo ricompensa né lo munifica in alcun modo pur avendone
sconfinate possibilità, Ciò, ovviamente, ci lascia indifferenti, Andiamo a
piluccare nelle sfilza delle accuse
quelle che ci convincono, mentre non mancheremo di asteriscare quelle che ci
sembrano inaccettabili o dubbie.
Agrigento
era vescovado ricco con i suoi settecento mila scudi di introiti (sia pure in
24 anni). Pare che il Traina fosse parsimonioso in misura accettabile al tempo
della sua elezione a vescovo; ma dopo esplode la sua senescente ed insaziabile
avarizia. “tira fuori le casse di denari; ne prende manciate, le spalma e vi si
corca sopra come fosse soffice
letto”, vorrebbe farci credere il Picella.
Per di più era un ferocissimo nepotista. Quando i canonici sciorinavano
gli addebiti di nepotismo al papa, non crediamo che avessero grande ascolto
essendo quella una piaga antica e nuova di santa romana chiesa. Traina
pontificò sotto due papi: sino al 1642 sotto Urbano VIII; dopo, negli anni più difficili, sotto Innocenzo X. Picella e Blasco sono canonici scaltri e, a
quanto pare, bene informati sulle cose romane; la penna si affina nell’accennare
al nepotismo del Traina dovendo riferire a papi che provengono dai grandi
feudatari romani quali i Barberini (Urbano VIII) e i Panfili (Innocenzo X). Il
Tomasino era nipote del Traina ed aveva incarichi che potevano evocare quelli dei cardinali nepoti. Era meglio non
rimarcare. Sono le usurpazioni, le offese al diritto di proprietà, le
inadempienze giuridiche, ed anche gli indebiti paludamenti liturgici che si
vogliono censurare, che si adducono a scandalo. Con quanta ipocrisia o con
quanta mal celata invidia non è dato ora sapere. Benefici sottratti ai
legittimi destinatari costituiscono ben più gravi capi di accusa. Abusi di
potere nel sottrarre possessi agli aventi diritto che si vedono costretti a
ricorrere alla giurisdizione parallela della Monarchia vengono puntigliosamente denunciati, al fine
anche di indispettire il pontefice che con quell’istituzione della Legazia
Apostolica aveva il dente avvelenato. La litigiosità del Traina contro gli
appannaggi dei suoi canonici è citata ma come di sguincio, tanto a Roma non
doveva importare molto. Solo che il Traina esagerava: espoliava
arcipreture a Chiusa ed a Giuliana,
disorientando i fedeli, propiziando le rivolte. Monsignore è esoso, avido,
impone pensioni confidenziali e le estorce. Arriva a disboscare una tenuta di
olivi per uso di cucina dissolvendo una rendita di 250 scudi l’anno. I
benefattori sono scornati. Lo scandalo è inevitabile e distoglie da altri pii
legati.
Le
terre foranee sono allo sbando: da tempo immemorabile non vi si somministra la
cresima. Il vescovo è latitante; al suo posto un tal Femia che scimmiotta le
liturgie episcopali. Rocchetto e mitra non gli competono, ma il Femia ne fa
ostentato uso. Si veste coram populo
sull’altare maggiore come un prelato. Si fa baciar la mano. Non crediamo che
ciò impressionasse le plebi ed i campagnoli. Possibilmente era più avvenente
del vescovo. La magnificenza stordiva ma favorevolmente. Il popolo ne esultava.
Come molti secoli dopo, come con il vescovo Peruzzo sul quale Sciascia ebbe a
scrivere: « Lo ricordo, monsignor Peruzzo, nelle visite pastorali a Racalmuto, e
specialmente in quella in cui mi diede cresima. Ieratico in chiesa e in
processione, si scioglieva in compagnoneria e spirito quando privatamente
intratteneva o si intratteneva. Una volta venne al circolo: e sapendo qual covo
di mangiapreti fosse, lasciò cadere due o tre ridevoli aneddoti sui preti. Quei
fieri anticlericali ne furono edificati: finalmente un prete “diverso”» [4]
E non crediamo che nella terra di Sciacca si sia menato scandalo perché
l’allegra ciurma del Femia sia stata accolta allegramente da quelle suorine. Vi
erano “giovani discoli”? E che potevano fare sotto gli sguardi vigili ed
impertinenti di tanti commensali? Solo l’uzzolo sessuofobo poteva ispirare
quell’accigliata accusa.
La
storia del fratello gesuita del Traina non era poi così insolita. Chissà quanti
casi, anche a Roma. L’insinuazione cadeva nel vuoto (allora e soprattutto
adesso). La pensione confidenziale appioppata al priorato di Naro era bene che
restasse in famiglia. Roma sicuramente non eccepiva. Il tesorierato è ondivago
e per sua natura. Anche qui niente di esecrabile. Il Traina riscuote quanto già
riscosso dal fratello morto. Il ne bis in
idem non l’applica. Ma sarà stato poi vero? La faccenda della cappella
funeraria del canonico Navarra ci richiama le torbide faccende del vescovo
cinquecentesco Horozco Covarruvias y Leyva. Strano destino codesto del canonico
a suo tempo incriminato per incesto spirituale con una sessantenne. Quanto alla
faciloneria di vescovi e preti nel debilitare fabbriche vetuste che di
conseguenza si afflosciano è storia vecchia ed oggi avviene ancor più sovente
per le provvidenze dell’erario pubblico nel restauro di chiese, matrici e
cattedrali. Il vescovo è vanitoso, vuol vedere dal suo trono il sacello con le
sue armi; impone un arco ed il tetto crolla. Stornerà le rendite in favore di
povere orfane per una fabbrica friabile e prossima al crollo. Al papa tanto non
avrà destato eccessivo interesse. Non si destituisce un vescovo per così poco.
Sporchissime sono le tovaglie degli altari. Il Traina è ormai un vecchio
sordido; l’igiene non la praticherà per sé, figurarsi per gli altari secondari
della sua cattedrale. Religiosi schizzinosi si rifiutano di celebrarvi.
Pazienza, si sarà detto il Traina; il risparmio di qualche candela era pur
sempre apprezzabile. La prebenda teologale non va ai canonici, viene stornata
al seminario? Forse fu un bene. Noi moderni drizziamo le orecchie a vedere quei
canonici che accusano il vescovo di non essere molto preoccupato dalle dicerie
di bigotte e donnine allegre che vengono ammaliate dal diavolo (suadente diabulo); i canonici avrebbero
voluto spettacoli di fede con streghe bruciate, Monsignore ha maggiore ritegno
(e noi siamo con lui). Se vi sono morosi, il vescovo è indulgente.
Avremmo
quindi assolto il Traina se le accuse fossero state quelle sinora sciorinate.
Ma c’è un punto che capovolge la situazione. I canonici rievocano le faccende
dei tumulti popolari, con i tanti morti ammazzati. La diagnosi è pungente. Il
vescovo si mise la dignità episcopale sotto i piedi. Per colpa sua due canonici
ci hanno rimesso le penne; undici ecclesiastici sono periti «per avere esso
Monsignore sparato alla moltitudine» E non era popolo ribelle e sanguinario.
Era gente che voleva il pane quotidiano e che vedeva addensarsi su di essa le nubi
della fame per mancanza di grano nelle dispense comunali. Andava a chiedere a
pagamento 700 salme di grano. Ne aveva di bisogno. Ed il vescovo si mostrava
strano pastore volto più a distruggere il suo gregge che a sfamarlo. Gli fa
sparare addosso. Fu così che esplose la rabbia popolare, foriera di morte, di
stragi, di ferimenti, di violenze. Anche contro il vescovo che sol perché
l’aborrito canonico Picella è lesto nel trafugarlo e nel portarselo a casa la
fa franca.
Non
sono aspetti censurabili da parte di un papa. Ma da chi nutre spirito
umanitario, sì. Ora come allora. Nei tempi di oggidì ci ha pensato Andrea
Camilleri nel suo il re di Girgenti. Fra
i contemporanei del vescovo, i canonici Picella e Blasco, e poi il Pirri che
prima era stato prodigo di elogi verso il Traina. Questa sporca faccenda del
grano prima promesso e poi denegato per motivi di speculazione finanziaria;
questo intrigo di canonici ed ecclesiastici chiamati a sparare sulla folla
inerme; questo decrepito vecchio che non ha pietà e commina scomuniche, mentre
si arricchisce; e con le tante ricchezze accumulate compra pro tempore città e meri e misti imperi, è pagina storica nefasta.
Quel vescovo va censurato. Anche a volere perseguire l’avalutatività delle
scienze sociali, il giudizio è di condanna, negative
et amplius, ad usare il gergo dei preti.
SOMMARIO
[1] ) non
ci pare pedissequa la citazione sistina; tanto almeno se abbiamo ben capito il
magistrale lavoro di Sergio M. Pagano e Giovanni Castaldo sulle visite ad limina dei vescovi di Piazza
Armerina, pubblicato nell’Archivio Storico per la Sicilia orientale, 1987 fasc.
I-III. La dovizia di notizie, la perspicuità delle note bibliografiche, la
conoscenza diretta degli archivi vaticani rendono quello studio basilare e
concisamente esaustivo sulle visite che ci occupano. Il profluvio di scritti e
librario desta smarrimento e propizia
solo dispersiva erudizione. Pagano e Castaldo ci danno la cifra colta
nell’essenzialità del testo per una circospetta ed avveduta lettura dell’immane
mole cartacea che inonda il ricercatore di microstoria della propria diocesi.
Speriamo che gli insigni autori congedino presto altri lavori su altre diocesi,
magari minori, magari non ricche di spunti storicistici atti a suscitare gli
interessi dei sommi quali, ad esempio il De Rosa. Vero è che Pagano e Castaldo
ci segnalano il Sindoni per certi orientamenti sulla peculiarità ecclesiastica
siciliana ma noi non abbiamo trovato bussole adeguata nella ricerca sulla
diocesi agrigentina (nelle nostre frequentazioni dell’ASV nel tempo passato) e
su quella del nisseno (oggi oggetto delle nostre attenzioni). Speriamo che vi
ovviino Pagano e Castaldo.
[2] ) C.
A. Garufi, Patti Agrari e Comuni Feudali di nuova fondazione in Sicilia, dallo
scorcio del secolo XI agli albori del Settecento – Studi storico-diplomatici – parte
II in Archivio Storico Siciliano – Serie III – vol. II – gennaio 1947 – Palermo
presso la Società Siciliana per la Storia Patria MCMXLVIII – p. 7 ss- -
Stralciamo da pag. 34 «Coi «capitoli dell’accordo del 15 gennaio 1580 [Rogito
di notar Monteleone di Palermo, transuntato il 25 luglio 1609 nelle minute di
Notar Gabriele, an. 1608-10, n. 17103
cfr. Archivio di Stato di Palermo, Notai defunti, minute di Vincenzo di
Gabriele] da rathificarsi infra due mesi, fra l’altezzoso Don Girolamo del
Carretto, per sé e successori, e i rappresentanti del popolo e dell’università
di Racalmuto, da ambo le parti s’intese e fu imposto perpetuo silencio circa la
questione e lite pendente fra lo dicto Signor Conte e la vendita di detta terra
in la R. Gran Corte del Regno. … Il 2°
capitolo , unico nel suo genere e ispirato a quanto sembra alle norme igieniche
sanitarie proposte per la prima volta in Italia dal celebre protomedico G.
Filippo Ingrassia … sanzionò … pene
severissime. Ed una pena di quattro onze impose, il Del Carretto nel proibire a
chiunque di «potiri lavari nello loco di undi currunu li canali di la funtana
di lo loco denominato la fonte et la biviratura, et corsi abasso dove curri
l’acqua chi nesci di detti canali, et biviraturi», eccetto, e qui spunta il
burbero signore, «li genti di casa per usu di detto Conte, suo castello e casa.
… [per il seguito cfr. sopra].»
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