Le commissioni tributarie locali, a dire del De Stefano
Ripigliamo il De
Stefano: «il governo intervenne perché le commissioni per la tassazione
fossero costituite non solo di
“facultosi”, ma anche di “mediocri” e “infimi” in numero uguale, e ordinò che
ogni anno si convocasse il consiglio generale. Ma la equa ripartizione e il
riassetto finanziario restarono sempre un mito. Nonostante i continui
espedienti e le operazioni finanziarie di molti comuni […] la finanza locale fu
sempre “exausta”, “pauperrima”, e lo stesso Filippo II se ne preoccupò; i
bilanci furono sempre dissestati per le spese della stessa amministrazione, per
i bisogni dell’annona, per gli interessi su debiti – “per cui sono
continuamente vessati da commissari et delegati quali veramente consumano et
rovinano”, tanto che alcuni comuni furono costretti a chiedere anche moratoria
– per le fortificazioni e mura cittadine, per i diritti di posata e di
alloggiamento delle truppe, dei capitan d’armi, dei loro provisionati.»
Non difetta
l’informazione; ma l’acume critico non sempre soddisfa. Abbiamo riportato un
esempio concreto, quello di Racalmuto. Piccolo centro si dirà per essere
significativo. Là, comunque, le spese per l’annona sono molto contratte, per
l’equità tributaria non pare vi siano dati per preoccuparsene, ma le spese
militari risultano sovrabbondanti, gli squilibri sono perniciosi soprattutto
per pompaggi di liquidità, forieri di ristrettezze e di malessere sociale. La
genesi della mala politica tributaria va ricercata altrove; diciamolo pure,
nella sudditanza da un re straniero, da un governo spagnolo, da una nequizia
palermitana con il suo parlamento, con le arroganze dei tre bracci egemoni, con
l’insensibilità verso la periferia, il comune agricolo, il paesino in cui
questo distinguo tra ‘facultusi’, ‘mediocri’ ed ‘infimi’ non è rilevante, non è
barriera sociale e non consente furbizie impositive. I rappresentanti dei
quartieri appartengono quasi tutti ad un minuscolo ceto medio, a mastri più
svegli di li jurnatari ma rispettosi e sostanzialmente assimilabili ai pochi
‘allittrati’, ai magnifici che fanno il notaio nel piccolo centro, o il
capitano, o il nobil uomo addetto al governatore del castello, o il prete
(l’arciprete, quasi sempre, viene da fuori, prescelto da un vescovo che
raramente mette piede in paese). Non vi è molta acredine tra le classi sociali;
queste non sempre si distinguono con steccati insormontabili. Qualche tendenza
a fare matrimoni separati per il mantenimento del patrimonio familiare
conquistato con tenacia e sacrificio (talora invero con la deprecabile usura) la
si registra. Pullulano però le confraternite; là l’interclassismo è
fisiologico: gestire i sottosuoli delle chiese di proprietà per la “buona
morte”, per la sepoltura dignitosa – sperando che sia ‘immarcescibile’ -
accomuna, smussa le differenze: con rotazioni persino semestrali si diventa
governatori, sindaci, priori, membri del consiglio di amministrazione, diremmo
oggi. E la scelta ricade indistintamente tra i più apprezzati confrati, e non
sempre sono i ‘magnifici’ a spuntarla, pur numerosi e pur validi. Vi è anzi una
rappresentanza interclassista che ancor oggi sorprende e favorevolmente.
‘Monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini’ si diceva, ma senza
malanimo o anticlericalismo; il motto stava a significare che tolta la parte
religiosa – per questo c’era il cappellano –
poi l’amministrazione e la gestione competevano ai laici. I rolli che si
conservano in matrice a Racalmuto testimoniano ancora una corretta e valente gestione.
I monitorij
Nella “relatio”
in volgare del Traina che abbiamo tralasciato forse da troppo tempo ecco
sbucare l’accenno ad un istituto tutto particolare del ‘600 episcopale
agrigentino: i monitorrj. Dice il Traina che la sua arma contro giurati
sopraffattori, a suo favore ed a favore dei privilegi degli ecclesiastici suoi
amici ha usato (e noi pensiamo: abusato) l’arma dei monitorij. Un’arma che
doveva essere religiosa e diviene invece una sopraffazione ecclesiastica contro
la giusta richiesta di contributi alla locale finanza, non solo disastrata ma
soprattutto necessaria di fondi appunto per l’annona, per dare il pane
quotidiano di cui parla il pater noster
al popolo affamato. Si tratta in parole povere di uno snaturamento della
giurisdizione ecclesiastica. L’andazzo avrà ulteriori risvolti perniciosi fino
a degenerare nella arcinota controversia liparitana, concretatasi ad Agrigento
in una crisi politica e religiosa nei primi decenni del Settecento, quale nella
sostanza è mirabilmente rappresentata nel
Re di Girgenti di Camilleri.
Un quarto dei
registri dei vescovi di quell’epoca è costituito, ad Agrigento, da codeste
sanzioni, apparentemente di natura religiosa, in sostanza espressione di un
potere usurpato, quello giudiziario in materia civile. Studi negli anni
‘Sessanta del Collura ne forniscono significati ed ingerenze antigiuridiche. In
mancanza ancora di codici e di separazione tra i vari poteri vigeva una sorta
di costituzione materiale, donde codesto potere giudiziario del vescovo nel
campo dei diritti civili, ed anche purtroppo in quello delle pressioni giuspubblicistiche.
I giurati non potevano tassare per le finalità della locale finanza, bloccati e
braccati com’erano allorché andavano a
toccare pretesi privilegi della chiesa agrigentina. Si beccavano una scomunica,
subivano intollerabili ‘monitoij’.
Per un
orientamento ci avvaliamo di un vecchio testo di diritto ecclesiastico[3]
e ne stralciamo un paragrafo:
XXIV de literis
monitorialibus.
Praeterea quascumque monitoriales, poenalesque literas in
forma significavit, consueta, contra occultos, et ignotos malefactores,
satisfacere, conscios vero revelare differentes, servata tamen forma Concilii
Tridentini, nec non constitutionis Pii Papae V, praedecessoris nostri, super
haec editae, concedendi.
Trattavasi dunque di lettere monitorie contro
malfattori ignoti ed occulti, con l’obbligo di chi sapeva qualcosa di renderla
nota, ovviamente nel rispetto della forma voluta dal Concilio Tridentino e con
l’osservanza delle costituzioni di Pio V. Il Gallo, avvocato siciliano del XIX
secolo segnalava
a pag. 131
un dispaccio borbonico che precisava contorni ed abusi dei monitori.
Non ostante che
il Concilio di Trento con un suo provvido Stabilimento avesse dichiarato (98 ), che i monitorii i quali si
spedivano dalle curie vescovili ad finem revelationis pro deperditis seu
subtractis rebus, fossero contrari alla sacra dottrina della Chiesa, e che in
questi casi i soli vescovi per se stessi e per motivi urgentissimi potessero
spedirli, pure l'esperienza costante dal dì che fu pubblicato il concilio di
Trento, ha dimostrato sì in questo regno, come in altri luoghi, che gli abusi
de' monitorj per i motivi additati eransi resi insoffribili, in grave
pregiudizio non meno della giustizia, che in aperto disprezzo delle censure
ecclesiastiche, le quali non debbono mai fulminarsi che per gli soli motivi
canonici, di pubblico scandalo, di peccatori ostinati e di altri simili
eccessi, ma non mai per causa meramente temporale, e per cui le parti offese,
per essere ristorati de' loro danni, o per recuperare le robe perdute, o per
impedire gli effetti delle false testimonianze, hanno aperto la strada ne'
tribunali ordinarj dove per lo appunto queste materie debbono trattare colla
dovuta imparzialità ed esattezza. Cotesti monitorj provvidamente furono anni
sono proibiti in questo regno (99 S.M. ora non trova ragionevole motivo per
recedere da una cotanto salutare disposizione uniforme a' sacri canoni ed
all'utilità delle censure, le quali, per essere proficue, non debbano vagare
sopra di oggetti estranei, e contrarj al fine per cui sono state inculcate.
Leonardo Sciascia s’imbatté in un atto giudiziale del
vescovo Traina. Non ne capì molto, a dire il vero. Del resto il documento gli
era stato fornito dall’allora sacerdote Di Giovanna. Il Racalmutese a quel
tempo s’industriava nel rendere storico il romanzo di William Galt Fra Diego La Matina ma aveva poca
materia per le mani. «Per scrupolo, per non trascurare niente – annotava
malinconicamente nella Morte
dell’Inquisitore – vogliam aggiungere che può darsi vi sia un fondo di
verità […] nella romanzesca invenzione del Natoli […] e vien fuori da un
documento che si trova nell’Archivio della Curia Vescovile di Agrigento
[Registro Visite, 1643-164]. Da tale documento si rileva che il 6 novembre del
1643 il vescovo di Girgenti ordinava, presumibilmente ad un magistrato della
Curia vescovile, di recarsi nella terra di Racalmuto, per scomunicare (servatis servandis), arrestare, tradurre
a Girgenti con ogni precauzione, don Federico La Matina. …».
Abbiamo rintracciato quella disposizione e vi abbiamo
notato solo certi aspetti procedurali; ovviamente vi era stata prima una
lettera monitoria; si erano scoperte talune inadempienze (che noi supponiamo
riguardare il patrimonio di quel prete che nulla ebbe a che vedere con il
monaco agostiniano ribelle e che fu poi un probo sacerdote molto più assiduo di
quel confessare suor Maria Maddalena Camalleri, come s’intigna lo Sciascia);
erano scattate le sanzioni di cui parla lo Scrittore.
I monitori secenteschi della Racalmuto di Sciascia
Ben più significativi sono i monitorij che donna
Beatrice del Carretto ed altri racalmutesi riuscirono a farsi concedere, a dire
il vero alcuni anni prima dell’avvento del Traina ad Agrigento. Stralciamo da
un nostro precedente lavoro sulla storia della Racalmuto del Seicento.
Non erano
passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo III che dei
ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria
razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era veramente precario: furti, abigeato,
rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi
“formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi
di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le
sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti
malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do
arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia.
Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana,
robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da
un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere
che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della
popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la
crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova
del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica,
stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 altra missiva al locale arciprete (e qui è
ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo).
“Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia
- recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di
don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam
don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati
robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et
metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et
occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori,
rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi
di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don
Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca
la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità
giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”,
compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo
ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto
risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto
la data del primo settembre 1621). Ma non è da pensare che la volitiva vedova
concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte
Girolamo III del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a
distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il
potere di donna Beatrice Del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci
dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione
tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un
qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe
fuorviante.
La vedova
riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la
peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria
una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a
Racalmuto.
Riemerge
la più generale questione della latitudine della giurisdizione episcopale.
L’istituto del monitorio affiora con contorni che non ci pare che gli
accademici paludati abbiano del tutto sviscerato; francamente, a nostro avviso,
non l’hanno neppure sfiorato. Sempre pronti comunque a chiedere venia per
questa nostra arrogante affermazione. Da dilettanti, manteniamoci entro limiti
di furba modestia.
Gli anni del tramonto
L’età decrepita
L’alacrità del Traina di ritorno da Roma
«Da che ritornò
da Roma tutto s’applica agli ornamenti della Cattedrale» abbiamo visto come il
presule reagisce alla scoppola dell’inchiesta pontificia, dedicandosi agli
orpelli, alla “fabbrica”, ad indorare cattedrale e cappelle. Dimostra
un’angustia mentale e soprattutto una mancanza di spirito pastorale, di
religiosità che francamente ci turba in un vescovo. “Tutto s’applica” ormai, ma
a che cosa? Alle vanità ed alle pompe di questo mondo. Francesco d’Assisi era
passato invano, e dire che Traina ne porta il nome. Egli innanzitutto … ma
lasciamo a lui la parola: «et primeramente abbellì di stucchi, et pitture la
capella maggiore, et poi fabricò altre tre magnifiche capelle, l’una del
santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando primo Vescovo et Patrone della
Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et due statue,
cioè l’una di detto glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa Vittoria,
fabricò un organo magnificentissimo di spesa quattro mila scudi, il quale poi
rovinò con più della metà della chiesa, et tutto il choro, onde rivoltando esso
monsignore vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et resarcimento con
più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere di prima, et hoggi
si sta fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un miserabile incendio
l’anno 1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove traslato il corpo, et
ossa d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi quattromila. Rifece il
palazzo vescovile con aggiungersi un delizioso giardino.»
Qualche empito
di generosità a dire il vero non manca e neppure difetta una certa sensibilità
alla cultura ed alla formazione dei suoi sacerdoti. Il seminario, soprattutto:
«fondò il monte di pietà – si vanta e qui a ragione - in sussidio di tutti i poveri et bisognosi
non solo di Girgento, ma della diocesi.» Non bada a spese per il suo seminario:
«spese da 12 mila scudi nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero
degli alunni a sessanta dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del
proprio per quel che manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle
scuole della Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge
civile et canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di
strumenti, ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi
de’ libri anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a
fine di comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali
vuole che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria.»
Ma per il bene delle anime?: nulla ci risulta. E per il resto della diocesi?
I monasteri di Naro, Favara e Racalmuto
In chiusura,
frettolosamente annota: «et finalmente fondò due monasterij l’uno della terra
della Favara, et l’altro nella terra di Racalmuto, et un altro nella città di
Naro.» Non abbiamo ancora approfondito la faccenda del monastero di Favara, né
di quello di Naro; non sappiamo neppure se fossero monasteri di frati o di
monache. Ma di quello di Racalmuto qualcosa sappiamo e francamente dubitiamo
che cosa sia da ascrivere a merito del vescovo. Anzi, siamo certi che si tratta
di millantato credito, di plateale falso.
Il Traina si
arroga, quindi, il merito di avere fondato il convento racalmutese, che
sappiamo aliunde essere il monastero femminile di S. Chiara. La vicenda
conventuale trascende, però, il presule agrigentino: era stata donna Aldonza
del Carretto a lasciare un legato di appena 100 onze nel lontano 1605
Tra le altre sventure
Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna
Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto
per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia
di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei
figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e
Margherita) e tre figli maschi (Giovanni
IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto
“paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse
eccessivo pensiero. Snobbò principalmente il dover dotare le sorelle specie quella
zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, anche sul letto
di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso
fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi
universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna
Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro
equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus
praedictis et infrascriptis».
Dopo
aver fatto alcuni lasciti per la sua anima, dà dettagliate disposizioni per
l’erezione del convento di Santa Chiara; invero non lascia, si è detto, una
gran cifra, appena 100 onze e pur con il gran valore della moneta liquida di
quei tempi, non ci si poteva fare molto. Sennonché quel lascito era a valere di
fondi depositati nelle Tavole di Palermo, l’antesignano del Banco di Sicilia.
Quelle Tavole andarono fallite. Ma dopo un quarantennio i capitali con la
rivalutazione e con gli interessi si ebbe modo di recuperarlo. Noi non
escludiamo che il merito – o la pressione nobiliare – sia da ascrivere
all’allora potente anche se scapestrato Giovanni V del Carretto. Con quei soldi
si riuscì ad acquisire un bel pezzo di terra edificabile nel centro di
Racalmuto, nell’esclusivo quartiere Monte. E là si fabbricò il chiostro che
oggi ospita la plebea casa comunale.. Annesso c’era anche il giardino su cui i
Matrona ed i potentati del dopo Unità d’Italia vollero il pettegolo e
pretenzioso teatro comunale. Sciascia ne parò bene; tanto bastò per spingere
amministratori ed autorità degli anni 80 a sperperare fondi pubblici per un
baraccone teatrale che per il momento consente solo a disoccupati e disoccupate
della Racalmuto bene di percepire l’obolo in un euro per visite da parte di irriducibili
nostalgici.
Il
vescovo Traina diede il benestare episcopale ma volle un suo parente quale
assistente ecclesiastico ed a pagamento. Guarda caso, anche l’arciprete di quel
tempo era un Traina di Cammarata. Quanto a nepotismo non c’è che dire. Altri
soldi racalmutesi che prendevano la via di Cammarata, per volere di quel
magnanimo Traina che il re di Spagna aveva voluto vescovo di Agrigento.
Il
testamento di donna Aldonza del Carrettoo venne redatto l’8 marzo del 1605.
Punto importante per Racalmuto era, dunque, il lascito per la fabbrica del
convento femminile. Vi era detto che “essa testatrice volle ed espressamente
ordinò ed ordina ai sopraddetti eredi universali che subito ed in contanti,
appena giunta la morte della medesima testatrice sopraddetta, i suoi eredi
hanno da assegnare e debbono e sono tenuti a versare cento onze di reddito,
alla medesima testatrice dovute per il detto Don Ottavio Lanza principe di
Trabia, quota parte della maggior somma dovutale in virtù e per forza di
contratto, affinché si doti un monastero di nuova fondazione, con il favore di
Dio, e lo si costruisca e lo si edifichi nella predetta terra di Racalmuto. Con
codeste cento once annuali si faccia fabbricare il detto Monastero ed allorché
il detto Monastero sarà completo nel fabbricato ed in ciò che occorrerà”,
allora «habbiano da pigliarsi dudici
poveri di detta terra et preditti redditi di onzi cento saranno pro dicto
Monasterio videlicet uncias duodecim (12 onze) per l’elemosina del cappellano,
lo quale Monasterio et per esso li soi officiali et detto cappellano siano
tenuti ogni giorno celebrare una messa allu Venniri, (e) si dica la messa delli
cinque piaghi del Signore et un’altra delli Angeli et la colletta a Santo
Micheli Arcangelo et onze 88 pro vitto et vestito di detti dudici Monachi
poveri da monacarsi per nenti ma per l’amor di Dio. E tutto per remissione di
suoi peccati, La electione delli quali monachi si facci per l’arcipreti et
Guardiano di Santa Maria di Jesu di detta terra di Racalmuto ...»
Quella povera donna Aldonza, non credo che
abbia mai avute celebrate messe alla Badia, una graziosa chiesetta tra il
teatro ed il Comune. Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del
1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce
il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa
terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è
del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione
dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere
spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre
Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento si spiega per il
fallimento bancario che abbiamo segnalato; comunque alla fin fine le sorelle
superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà
testamentaria della arcigna virago. Nel chiostro, però, non andarono solo
giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la
fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei
libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo
LO BRUTTO e della quondam Melchiora,
entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto
a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel
1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole
signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per
esigenze di bilancio familiare. Lo prova questa sorta di organico monacale:
MARIA AGNESE FARRAUTO SUORA MONASTERO S. CHIARA
MARIA
ANGELICA PICONE SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
ANTONIA AMELLA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
ARCANGELA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
CARMELA CAVALLARO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
CATERINA TIRONE SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
CROCIFISSA FARRAUTO SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
EMANUELA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
FRANCESCA SAVITTERI SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
GABRIELLA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
GRAZIA SCIBETTA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
MADDALENA AVARELLO SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
NICOLETTA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
RAFFAELLA CAVALLARO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
ROSARIA TULUMELLO SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
SALESIA VINCI SUORA
MONASTERO S. CHIARA
MARIA
SERAFINA ALFANO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
MARIA
VENERANDA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIARA
PETRA
ANTONIA MATRONA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
PETRA
MARGHERITA CAMPANELLA SUORA
MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA
PAOLO MATTINA SUORA MONASTERO S.
CHIARA
MARIA
CHERUBINA GRILLO SUORA MONASTERO
S. CHIAIRA
MARIA
GIACINTA GRILLO SUORA MONASTERO
S .CHIARA
FRANCESCA CASTELLO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
IGNAZIA SERRAVILLO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
VINCENZA BERTOLINO CONVERSA MONASTERO S. CHIARA
Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i
Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello,
i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro
vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare
in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro
della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle
“poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le
obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe
scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione).
Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna
Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine,
risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
L’ultima relazione al papa del Traina
Prima durante e dopo la tempesta
Il racconto del protagonista
Giunti al 1650, il Traina oltremodo stressato
per la rivoluzione che lo aveva colpito anche negli affetti più cari, persino
con tragici lutti, ha l’ingrato obbligo della visita triennale al Santo Padre.
«Credevo com’è mia obbligazione – scrive il 4 maggio 1650, agli eminentissimi e
reverendissimi signori suoi illustrissimi – di presenza riverire l’em.e V.I. e
Rev.me per satisfare il proprio debito, ch’m’incombe della visita de sacri
limini». Lo stile è ormai dimesso e stanco; l’alterigia presa a prestito dalla
Spagna, del tutto svanita. «Però le rivoluzioni passate tanto note di questo
Regno, e i patimenti nella mia persona avuti dal proprio gregge, li quali mi
ridussero fino alla morte, m’hanno affatto indebilitato à poter più viaggiare,
et resto tuttavia in stato di poca salute, et gionto quasi all’ultimi giorni
della mia vita; viene da me destinato à questo effetto il canonico don Paolo
Piconio per eseguire prontamente quanto io dovevo personalmente in questi
dovuti ossequij; supplico l’EE.VV.R.me di ricerlo benignamente, et dal medesimo
con grato orecchio sentire lo stato della mia Chiesa per dare l’opportuni, et
sacri rimedij, che giudicheranno necessarij con la loro singolar pietà, alli
quali facendo profondo inchino humilissemamente bacio le mani. Girgenti li 4 di
Maggio 1650- umilissimo e devotissimo Francesco di Girgenti»
In dieci fogli, scritti in un latino alquanto
lindo ed in bella scrittura, il vescovo fornisce i ragguagli sullo stato della
rivoluzionaria e rivoluzionata chiesa agrigentina. Ne forniamo qui una nostra
sintesi in volgare. Si esordisce rammentandosi l’obbligo della Sacra Visita,
quale riformato da Sisto V. Più con le lacrime che con le parole il Traina ha
voglia di raccontare i tumulti del suo popolo. Ed egli vi è incorso innocente
ed indifeso. Grande fu l’ingratitudine del suo popolo ed ancor maggiore la
nequizia. Prostrato e ormai giunto al limite della vita non può che delegare il
canonico don Paolo Piconio alla doverosa visita.
Come il Traina vede i tumulti di Palermo
Gravando l’ira di Dio sui Siciliani, esplosa
per le tante iniquità e protesa dunque a castigarli, ciò si manifestò con varie
sciagure, calamità e crudeltà. Ne derivò una serpeggiante insurrezione, e non
tanto per il pretesto della fame quanto per un malvagio volere (così Dio permettendo) di tal che quasi tutto il Regno fremette. E
dire che quel popolo era stato sin’allora fedelissimo al suo re Cattolico e
ossequientissimo. Ora invece era stato capace di allontanarsi dall’obbedienza e
si era mostrato avverso ai ministri regali e si era abbandonato allo sfrenato
furore dell’infima plebe. Da qui il disordine pubblico, da qui dispersa la
giustizia, da qui quasi dimenticata la cristiana disciplina, disprezzato il
rispetto verso gli ecclesiastici e negletta l’autorità dei principi sia quelli
ecclesiastici sia quelli temporali. Più per il numero delle località che per la
moltitudine delle plebi crebbe l’innata perfidia e si assistette ad inverecondi
e riprovevoli spettacoli, come a Palermo ove non si lasciò indenne il principe
del Regno, allora addetto alle cose di governo, pur essendo per integrità e per
probi costumi secondo a nessuno. E del pari fu aggredito il Presule anch’egli
preclaro per virtù e morigeratezza, nonché tutto dedito alle sacre cose. Ne
scaturì che l’uno prese la fuga, l’altro riuscì appena a nascondersi.
Ma atteniamoci alle cose di Giorgento
E che dire di Agrigento, che per antichità
pretende di competere con le grandi città?
Gareggiando con la tirannide di
Fallaride, non arrossì di irrompere contro il suo vescovo, che in quel tempo
aumentava la consueta munificenza nelle elargizioni per sopperire all’angustia
del suo popolo, erogando abbondantemente frumento e denari ed offrendo tutto
quel che aveva per il pubblico e privato benessere. Cercava così il vescovo di alleviare
l’indigenza, con il compiacimento delle plebi che non cessavano di lodare la
provvidenza, la carità e la liberalità del loro pastore. Il vigilantissimo
presule, infatti, prodigo nella beneficenza a detta di tutti, nulla contro di
sé fondatamente temendo, s’industriava a sedare i tumulti e ad evitare pericoli
agli altri. Sennonché ben altro era il pretesto, come detto, che quello della
fame; l’impinguato popolo, ingrossatosi e dilatatosi recalcitrò né si contenne,
né si astenne dalla somma infamia: successe che si aggredì il vescovo nel
proprio palazzo come un agnello belante, si uccisero dieci membri della sua
famiglia, alcuni intimi, due canonici, un suo nipote. Non si mancò di arrecare
ferimenti, di imprigionare e di mettere ai ceppi vari famigli episcopali con
minaccia di morte che solo per miracolo la scamparono. I tumultuanti
devastarono, deprederanno, bruciarono arredi, suppellettili, libri, scritture
importanti, tra le quali quelle delle visite ai Sacri limini. Tentarono di
uccidere il fratello germano, vicario generale,
ora minacciandolo con la spada sguainata, ora con il cappio, ora con la
traduzione nelle pubbliche carceri. Infine trascinarono il loro stesso vescovo
(oh! Quale abomio) in una casa privata
come in carcere, dopo avere attentato alla sua vita, privato di tutto quanto
era necessario al sostentamento della sua vita; e là iniziato un insano
conciliabolo, alcuni ne volevano la morte, altri propendevano per una spelonca
ove tenerlo a pane ed acqua, altri suggerivano l’esilio: taluni abbandonati da
Dio ai loro pravi desideri cospiravano in tal modo contro il loro Presule tanto
benemerito nei loro confronti da apostatare dalla ortodossia e far rivivere la
nefanda barbarie quale esperimentarono gli antichi padri nei primordi della
Chiesa. Ciascun fedele, però poté constatare come il vescovo giammai abbia
cessato di sopportare con spirito religioso tante avversità contro di sé ed i
suoi e di cercare di correggere con la parola e con l’esempio l’incanaglita
plebaglia e distorglierla dalla sacrilega pravità. Tanto con animo sempre
sereno, sicuro della propria innocenza, non dimentico dei suoi benefici. Così
assistito sempre dalla divina grazia, con spirito di profonda umiltà, diede
grande prova di autorità episcopale e di singolare prudenza. Quando finalmente
fu possibile evadere per opera di alcune pie persone, con il suo solo fratello
superstite, di notte, fuggì a cavallo, e fra le notturne tenebre per impervie
vie rupestri, vecchio decrepito, infermo, estenuato dalle sofferte fatiche e quasi
esangue giunse nella città di Naro lungi dodici stadi da Agrigento e della
medesima diocesi, pervenendo quivi per divino più che umano sentiero, abiurando
e doverosamente dagli Agrigentini per sanzione dei loro delitti.
Il Traina dopo essere fuggito a Naro, perdona e torna ad Agrigento
A Naro
invece fu accolto benignamente ( e già supplicò per trasferirvi la sede
episcopale) e grande fu il gaudio di tutti quei cittadini ed ovunque
applaudito. Così bene accolto vi risiedette per dieci mesi finché raggiunse
Palermo, chiamato dal viceré, a discutere i gravi aspetti della sua chiesa con
i riflessi d’indole regale e politica. Invero permaneva la questione della
scomunica degli agrigentini, ma questi indottisi alla penitenza lo reclamavano
ed invocano la revoca delle sanzioni ecclesiastiche in cui erano incorsi.
Dopo ciò, poiché giammai il buon Dio si
dimentica di avere pietà del peccatore, e non ne vuole la morte ma soprattutto
che si converta e viva, il nostro vescovo ritornò nella sua cattedrale. Ciò dopo
che furono composte le cose del regno, sedati i tumulti, ed alla primiera
obbedienza ritornati i popoli, allontanati da questo mondo i più esagitati e i
più nefasti: Non erano mancate preci, suppliche, era stata interposta
soprattutto l’autorità viceregia, dato il pentimento di gran parte del popolo,
e necessitava il ripristino del dominio della dignità episcopale che era stato
appannato; del resto fu fatto ben altro al divino Gregorio vescovo suo
predecessore, che rientrò in città da vincitore dopo le tante malefatte di cui
era stato fatto segno dagli agrigentini. Così il nostro vescovo, assumendo il
governo temporale più che quello spirituale della città, prese possesso della
sede comune di tutti i cittadini con gran giubilo dell’intera diocesi e di tutto
il Regno. Ed ora vi risiede svolgendovi la sua cura pastorale in tutta quiete
(favorendo la grazia di Dio), previa assoluzione dalla scomunica del popolo per
quanto di sua competenza, con le debite clausole e con varie proroghe, non
rescindendo neppure una sola volta ma supplicando la Santità sua per quanto le
compete ed ancora una volta, in questa occasione, rinnova la supplica.
Stende, a questo punto, una relazione come in antico
E da qui il Traina torna ai soliti, frusti
riferimenti secondo il cliché che abbiamo potuto prima seguire addirittura in
volgare. A somiglianza delle cose sociali, il deterioramento sembra colpire
simbolicamente anche le cose della cattedrale ove tetti e sacrestie, organo e
cori lignei bruciano per banali incendi “causaliter combusta”. Ed il provvido
vescovo pronto a ricostruire, speriamo meglio che con le cose dello spirito.
Sempre la stessa musica per il seminario ed il monte di pietà; qualcosa di
nuovo ora per le communia, per la diffusione della dottrina cristiana e per la
predicazione ovviamente da parte dei padri gesuiti. Chiodo fisso – e ciò deve
apparire scontato – le immunità ecclesiastiche, come dire l’esercizio del
potere giudiziario esteso fin dentro alla litigiosità civilistica..
Ma il diavolo prende dimora nella terra di Cattolica
L’ultima zannata malefica il vescovo la vibra
in chiusura di relazione. Parla di un Santo Ufficio solerte e grintoso specie
per quanto accadde «in oppido Cattolica nuncupato, sed a Cattolica fide multum
aberrante a scealeris hominibus abitato sub nequiori Dominio, ac tutela»; e
vorrebbe essere ironico quel giocare sul nome del paesino dell’Ovest
agrigentino, Cattolica abbandona la fede
cattolica per darsi in braccio al crimine e finire sotto il principe delle
tenebre, sotto il signore del male e se invoca persino la tutela. Il latino è
ermetico, il senso aberrante.
Processo a Roma contro mons. Traina
L’atto finale
Due canonici contro Traina in un contenzioso aperto a Roma
«Acta in causa canonicorum Agrigenti contra
proprium episcopum, contendentibus illis eumdem Episcopum ob omissam Sacrorum
Limi num visitationem incurrisse in poenas contentas in Constitutione Sixti V
edita 13 Januarii 1585 incip. Romanus
Pontifex».
Si intitola così il processo vaticano contro il
Traina. Apparentemente si trattava di una quisquilia. Quanti vescovi avevano
saltato la triennale visita? Non per questo erano finiti sotto processo. Il
vescovo si difende con i denti, ma in calce si annota: «die prima Aprilis 1651.
S. Congreg.° Concilij censuit standum esse in decretis, et ita referendum S.mi
D. N.ro» Era faccenda dunque seria, da sottoporre al papa, al santissimo domino
nostro. Ma eravamo già nell’aprile del 1651. Non passano molti mesi ed il
Traina muore. Il processo si estingue per morte dell’imputato. Imputato di che?
I laudoteres
del cammaratese come di ogni altro vescovo agrigentino del corrente secolo
tendono a minimizzare. Si sarebbe trattato di una semplice inadempienza
amministrativa, di un reato contravvenzionale, si direbbe oggi. Ma le carte ci
dicono che era cosa ben più seria. Non per nulla il carteggio si compone di ben
51 documenti, tanti che a farne delle semplici fotocopie e pubblicarle ne
verrebbe fuori un discreto libello. Dopo le tumultuose vicende che mirabilmente
ci narra il Camilleri nel Re di Girgenti,
ritornato il vescovo, suo malgrado, ad Agrigento mentre avrebbe preferito
starsene comodo e riverito a Naro, che pur di dare smacco ad Agrigento, era
persino propenso a sorbirsi il vecchio, decrepito ed ormai bilioso presule
Traina, ecco i rigurgiti ostili espandersi in ogni dove. Taluni canonici non ne
possono proprio più. Un frate dell’ordine di san Francesco di Paola, tale
Trimarchi – nostre personali ricerche ci avvertono però che fu un intellettuale
di vaglia – scrive un libello contro il vescovo che ha un successo enorme,
segno che non era vero tutto quel tripudio per il ricostituito ordine che il
Traina vuol far credere alla curia vaticana. L’arcivescovo di Palermo è
propenso ad incardinare un processo contro. Roma così si muove. Trascriviamo
alcuni atti partendo dalla difesa:
La parola alla difesa
«Monsignor Vescovo di Giungenti umilmente
espone alla Santità Vostra come li suoi malevoli hanno cercato sin’hora
insidiarli alla vita et alla robba saccheggiandoli il Palazzo, uccidendoli il
Nipote, et altri cinque sacerdoti della sua famiglia e carcerando la sua
propria persona e del fratello; hora avendoli l’horatore perdonato, e procurata
l’assolutione dalla Sede Apostolica [hanno] tentato con ingrata ricompensa,
sotto false calunnie et arti nove levargli la reputatione e la fama. Pertanto
il canonico Filippo Picella, mosso da manifesta passione per oltraggiare
all’oratore, ricorse alli Tribunali e Ministri Laicali del Regno di Sicilia,
giudici prorsus incompetenti, anteponendoli, che l’oratore aveva neglettato la
visita de S. Limini per il 21° triennio e per conseguenza i frutti della sua
menza episcopale si dovevano applicar in beneficio di detti ministri contro
l’espresso tenore della Bolla di Sisto Quinto, ne contento di questo ricorre
alla S. Congregatione del Concilio con le medesime istanze. Ma poiché da detta
S.C. furono ammesse le legittime scuse del Prelato, si per li suoi giusti
impedimenti come per le proroghe, che ne aveva ottenute, e dichiarato che
l’oratore non era incorso, ricevè la visita del canonico don Paolo Piconio
mandato à questo effetto, niente di meno detto Picella arrogandosi l’autorità
della Sede Apostolica, e sopra la Sacra Congregatione del Concilio, ha fatto
mandar alle stampe senza licenza di legitimi superiori, una scrittura seu
libello famoso di un tal fra’ Girolamo
Trimarchi dell’ordine di S. Francesco di Paula contro l’oratore e sua
dignità episcopale dichiarandolo sospeso
irregolare, e spergiuro, e come tale con molta temerità pubblicandolo con
manifesti e lettere per tutte le città e terre della Diocese procurando a più
potere d’alienare la mente de sudditi dall’obedienza et ossequio dovuto ad un
legittimo pastore e prelato, cagionando perciò un scisma non senza gravissimo
pregiudizio dell’anime de fedeli, e della Chiesa ricorrendo così detto di
Picella come detto frate di Trimarchi in diverse censure fulminate dalla Bolla
in Caena Domini et altre da Sacri Canoni disposte. E perché un delitto di tanta
consideratione et pessime conseguenze non deve restare impunito l’oratore
ricorre alli S.mi Piedi della Santità Vostra supplicandola instantemente si
voglia degnare ordinare che si proceda con detto di Picella a nova
dichiaratione di detto incorso conforme esso mons. Vescovo l’ha già dichiarato
secondo la facoltà concessali dalla felice memoria di Urbano Ottavo come nella
Bolla spedita per la sua consacratione sotto il primo di Marzo del 1627 et
castigar pur anco detto di Trimarchi, che in altro modo esso Mons. Vescovo non
potria più governare il Gregge della Santa Sede commessoli, ch’esso oratore
oltre esser di giustizia lo riceverà à somma gratia dalla S.ta Vostra per la
quale etc.»
Con più malferma grafia e con stile molto più
dimesso ecco un’altra missiva episcopale di analogo tenore:
«Monsignor Vescovo di Girgenti humilmente
espone alla Santità Sua come dalla S.C. del Concilio fu ricevuta l’ultima sua
visita ad limina Apostolorum, et essendo stato legittimamente impedito per
pocho tempo senza sua colpa, fu solamente assoluto ad cautelam: ne dichiarato
incorso nella Bolla di Sisto V di felice memoria. Hora la Monarchia di Sicilia
tenta di interpretar la lettera di detta S. C. et avendo commessa la causa a
Monsignor Arcivescovo di Palermo suscita contro l’oratore una causa già
definita da questi E. C.li con espresso disprezzo di questa Apostolica
Iurisditione. Per tanto suplica la Santità Sua rimetter di novo a detta S. C.ne
o che si faccia novo decreto per levar ogni dubio, o scriva a Monsignor
Arcivescovo di Palermo chiaramente i suoi sensi, o por ordini che l’oratore non
sia molestato, che si riceverà per gratia. Quam Deus etc.»
Come si stilava un certificato medico nel Seicento ad Agrigento
Ma deposta ogni albagia il Traina è costretto a
ricorrere alla compiacenza di due medici, Francesco Albanese e Giuseppe
Polizzi, per farsi dichiarare retroattivamente il suo stato di precaria salute
quando si trovava fuggitivo a Naro nel 1647. Ricorre anche alla compiacenza dei
giurati agrigentini del 1650 per farsi attestare l’autenticità del referto
medico da mandare in Vaticano a sua discolpa. Se se ne ha voglia si può seguire
qui il curioso referto secentesco. In esordio: receptum Agrigenti die nono Maij Tertiae Indictionis Millesimo
seicentesimo quinquagesimo. Il 9 maggio del 1650, dunque, sono i giurati di
Agrigento ad attestare l’autenticità del documento. Reggevano la città dei
giganti allora i giurati Gaspare Giardina, Gaspare Games e don Rodolico Sala e
Graffeo. Aria spagnoleggiante dunque. Recitava il referto:
«Relations
artium medicinae doctorum Francisci Albanese et Joseph Puliczi factae cum
giuramento d’ordine et ad instantiam ut supra [cioè del vescovo Traina].
Pertanto declarano essi Relatores come nell’anno 1647 nel mese di dicembre fu
chiamato detto dottore di Albanesi nella città di Naro à medicare il Monsignore
illustrissimo Vescovo di questa sopradetta città di Girgenti, quale travagliò
con due terzani continui di mala qualità, essendo stati cagionati da tanti
passioni di animo, spaventi, e pericoli di sua vita; quali benche terminorno
dal pericolo della vita li lasciorno un’appilattione cossì grave, che per
essere tanto in età decrepita, quanto per lo tempo d’inverno si prolungò in
modo che et nella stagione con mutare aria di Naro in Palermo, aria sua nativa,
sempre stetti ammalato, e precipue con podagra e constrintione nelli parti
naturali, et avendo venuto in questa città di Girgenti nel mese di marzo 1649,
venni cossì ancora appilato con dolori di podagra non ostante haver fatto nella
città di Palermo molti medicamenti; e perseverando nell’istesso modo tutta la
stagione e parte dell’ottunno finalmente nelli quattro di Novembre prox.
passato li sopravvennero dui altri terzani continui maligni, quali con
estremo pericolo di sua vita, (che più la sua salute si puo al glorioso S.
Gerlando, et alla Madonna Sacralissima applicare, che a forzi umani) si
prolungaro insino alli vent’uno. Doppo benche una cessò l’altra perseverò.
Insino all’ottanta perseverando con quelli sintomi che contra maligni morbi
spettano; e finalmente benche cessarno li accessioni restò cossì indebolito,
tanto per la forza del morbo, quanto per l’età decrepita li restò una
fiacchezza cossì grave in tutte le parti e precipue nel stomaco, che non
potendo covocare ma continuò generando humore pituitoso et flemmatico ci
infiarmò gambi et piedi chiari principij di idropexia, et avendoci fatto
medicamenti opportuni a detto debile colore s’ha andato recuperando e
resistendo a detta debilità, benché al presente persisti nell’istesso caso, per
li quali morbi detto corpo di Monsignor Illustrissimo è inabilissimo a
qualsivoglia moto di qualsivoglia sorte e scomodità etiam minimo per
qualsivoglia spatio etiam brevissimo senza pericolo di non sincoparsi e
seguendo di mettersi in chiarissimi pericoli di sua vita, stante per la sperienza
havuta di moto fatto dal palazzo alla
chiesa dove subito venne in deliquio d’animo. Et hae sunt eorum et cuiuslibet
eorum relationes factae cum giuramento modo quo supra.»
Pietro Denolfo La Gatta ne fa un estratto dagli
atti dei giurati. I giurati stilano una lunga attestazione di autenticità. E’
il 10 maggio del 1650 e firmano Gaspare Giardina e Gaspare de Gamez. Il quadro
prosopografico di Gibilaro che abbiamo sopra riportato è dunque lacunoso e va
integrato con i nominativi che siamo andati riesumando. Pietro De Nolfo La
Gatta firma come regio mastro notaro
della Curia agrigentina.
Una memoria a difesa e quindi la parola all’accusa
Segue una difesa davvero tosta redatta da
Benedetto Cappelletto, ove scienza, bibliografia, giurisprudenza brillano in
difesa del vescovo di cui si sottolinea la causa scusante per motivi di salute
e di cui si esaltano i meriti pastorali. Non è questa la sede per una disamina
di quella comparsa; spetterebbe semmai ai canonisti o agli studiosi di diritto
medievale o ecclesiastico.. Noi potremmo mettere a disposizione il materiale in
nostro possesso per eventuali addetti a siffatti lavori.
Ma la controparte non è da meno. Leggiamo
l’ordito accusatorio per come acquisito agli atti del processo:
«Eminentissimi e reverendissimi Signori.
Havendo la sacra congregazione ordinato che Monsignore di Girgente ne altri per
esso sia admesso alla visita de SS. Limini senza che siano sentite le ragioni
de canonici devotissimi oratori dell’EE.VV. hanno detti horatori citato il canonico
Piconio ad effetto di concordare il fatto avanti Monsignor Illustrissimo
Secretario conforme alle copie che si danno in sum° n° p° et originalmente nel
memoriale dell’em.mo signor cardinal Carrafa.
«E
perché detto Piconio ha sempre differito dar la nota per la concordia del fatto
benche nel presente contraddittorio promettesse darla al detto monsignor
secretario acciò la comunicasse all’oratori come per sua benignità testerà
detto monsignor secretario si supplica l’EE. VV. à non ammettere detto canonico
Piconio alla visita ne sentirlo se prima non sia giustificato il fatto dal
quale apparirà evidentemente l’incorso di detto Prelato nelle pene della
Constitutione della sacra memoria di Sisto V nel § 7° per haver esso mancato di visitare per il 21°
e 22° triennio che corre adesso che però l’amministrazione et percezione de
frutti è devoluta al Capitolo e Canonici per servirsene in reparatione della
Chiesa come in detto § che si dà in Sum° n° 2.
«E
tanto più Eminentissimi Signori quanto che il medesimo Prelato è altre volte
incorso in simili mancamenti per essere stato d’ordine della medesima S.
Congregatione dichiarato sospeso, et incorso in dette pene contenute nella
medesima Constitutione, e poi ribenedetto con penitenza salutare conforme si
giustifica in Sum° n° 3.
«E di
più anche nell’ultima visita che fece per il XX triennio essendoli admesse le
scuse, et imposto che facesse il sinodo, et altro come nel n° 4 ha trascurato
l’adempimento.
«Concorrendovi
massime che non si scorda detto Prelato di quello concerne al suo interesse
temporale per haver comprato due Città, e fattosi anche (dopo le revolutioni
del Regno causate [in] maggior parte da esso) Procuratore in temporale come
negli altri cumuli di robba senza pensare alli pesi che tiene conformemente se
ne darà giustificatione all’EE.VV. mentre si degneranno deputare Prelato vicino
avanti il quale si possino giustificare.
«Ne
osta il pretesto dell’impedimento perché la Bolla al § quod si legittimo vers. de richiede
prova legittima, et chiara, quale non ha dedotta ne vuol comunicarla
all’oratori acciò con le risposte non venga levato questo debol pretesto non
essendoci mai stato impedimento per il quale egli non potesse almeno mandare
anzi che non consta che pare habbia fatto principio di diligenza di mandare à
scrivere nel che havererebbe dovuto monsignor maggiormente premere per le
medesime cause che egli allega in sua discolpa.
«Meno
può suffragare che le pretensioni de
Canonici non debbiano ritardare l’ammissione alla visita perche dichiarando la Bolla l’incorso ipso
facto ch’è commesso l’errore viene subito privato il Prelato dell’ammissione ne
deve godere altro restando la cura al Capitolo di far la parte del Vescovo e
dare il debito conto della visita e stato della Chiesa à questa Sacra
Congregatione.
«Meno
deve aversi in consideratione la pomposa esageratione che Monsignor Vescovo
habbia fatto donatione alla Chiesa si perche ciò non sosiste in fatto come a
suo tempo conosceranno l’EE.VV. come anche perche ciò non evita l’incorso nelle
pene à favore della medesima Chiesa.
«Tanto
più che è solito Monsignore far delle donazioni e poi revocarle come seguì in
tempo delle revolutioni che avendo donato al Popolo per atto publico quello che
esso gli aveva domandato, sedati li tumulti volse essere rimborsato del tutto
sino ad un barattino.
«Finalmente
è vano il rifugio che non vi sia procura de Canonici et che il Canonico
Piconio preteso procuratore di
monsignore habbia instato per detta procura monsignor Melchior Laurente A, C,
et che s’inhibisse al procuratore dell’oratori che non dovesse opporsi in
questa Sacra Congregatione se non mostrava la procura.
«Perche
il medesimo monsignor Melchior hà dichiarato non intender ingerirsi ne por mano
alle cose della Sacra Congregatione et la procura de Canonici si dà in mano di
monsignor ill.mo secretario e se bene non è capitolare è lecito ad ogn’uno
oprar per la Causa pia et interesse privato.
«Anzi
la sola pietà dell’EE.VV. è solita provedere all’indennità e favore delle
Chiese et osservanza delle Constitutioni Apostoliche come si spera nel presente
caso. Che etc. »
Il canonico Picella al contrattacco
Sbagliava
il Traina a pensare che solo il canonico Picella fosse il suo malevolo in seno
al capitolo; c’era anche Gaspare Blasco. Insieme produssero al Beatissimo Padre,
al papa, questo pamphlet accusatorio. E
non era solo questione di ritardo nella visita ad limina.
«Filippo
Picella e Gaspare Blasco – esordiscono – Canonici di Giorgento devotissimi
oratori della S.V.ra, avendo veduto che Monsignor Vescovo ha tralasciato più
volte il visitare i Sacri Limini et che non contento di esser stato altre volte
scomunicato e poi ribenedetto con penitenza salutare per detto mancamento come
in Sum. N. P° trovando la perseveranza nel mancare in detta visita et
all’incontro haver quello atteso al proprio approccio et à tesaurizzare per se
stesso, e nelle compre di Città con le rendite della Chiesa e mal governo di
quella, si sono opposti nella Sacra Congregatione del Concilio, che non fusse
detto Prelato ammesso alla Visita, ma in esecuzione della Bolla di Sisto V che
si dà in Sum. N° 2 dovesse privarse dall’amministratione della Chiesa, et farne
dovuta applicatione conforme dispone la medesima Bolla et insieme sono ricorsi
alla Congregatione de Vescovi et Regolari, acciò presa informatione della mala
operatione, e misfatti che si danno in più capi in Sum N° 3 si provedesse per
giustizia, e dalla Congregatione del Concilio ebbero risolutione che dovessero
esser sentiti li Canonici per loro ragioni et interessi, et in quella de Vescovi
e Regolari ordine che si prendesse informatione sopra detti capi considerati di
somma gravità et importanza. Mà poiché poi nella Congregatione del Concilio,
hanno sentito detto Prelato, senza che l’oratori habbiano inteso le pretese
ragioni di Monsignor Vescovo et concordato il fatto come si era restato avanti
Monsignor Secretario, onde l’oratori non hanno possuto dedurre le loro ragioni
ne mostrare l’insusistenza delle pretese scuse di Monsignore Vescovo per non
essergli state comunicate, supplicano la S.tà V.ra che per provedere
all’indennità della Chiesa et oratori commetta a chi più li pare la cognizione
dell’incorso di Monsignore nelle pene di detta Constitutione della fel. mem. di
Sisto per giustizia acciò non vengano maggiori danni alla detta Chiesa et
oratori, et dal processo che verrà fabbricato d’ordine della Sacra
Congregatione de Vescovi vanga anco proveduto per giustizia alli gravissimi
eccessi resultanti da detti capi dati in Sum. N° 3. Che il tutto etc.»
La rievocazione di antichi retroscena
Il
capo primo del sommario del Picella reca l’ordinanza di scomunica del 15
febbraio 1631 che abbiamo già riportata in esordio, prendendola dalla
Congregazione delle Immunità. Qui appare il cardinale incaricato
dell’esecuzione dell’interdetto. «Di V. Emin.
Rev.a umilissimo et aff.mo servitore il Cardinale di S. Honofrio – Nos Robertus
tit.i Sanctae Praxedis S. R. E. Praesbiter Cardinalis Ubaldinus nomine Sac.
Cong.nis Emin.orum Patruum Concilij
Tridentini Interpettum fidem facimus et attestamur Rev.mum in Cristo Patrem D.
Episcopum Agrigentinum ut Constitutioni etc. – Insuper impartiti sunti eius
amplitudinis confessario facultatem ut iniuncta salutari penitentia ipsum
absolvere possit à sospensione incursa eo quod haec Sacra Limina tempore
paefinito non visitaverit secumque super irregolaritate si quam hac de causa
contraxit disponeRe fructusque indebite perceptos condonare etc. Datum Romae
die 5.a Aprilis 1631. Robertus Cardinalis Ubaldinus – Franciscus Pauluccius
S.C.C. Secret.»
Tralasciamo
qui il paragrafo secondo che riporta lo stralcio del Concilio di Trento
relativo all’obbligo episcopale di effettuare la visita dei Sacri Limini con le
sanzioni previste. I proventi vescovili dovevano andare a beneficio della
cattedrale in opere murarie o in acquisto di ornamenti «.. ipso facto tamdiu suspensos [cioè i vescovi
inadempienti] esse volumus, donec a contumacia resipiscentes relationem
suspensionis huiusmodi a Sede predicta meruerint obtinere.»
L’ordito accusatorio dei canonici Picella e Blasco
Una sede vescovile da 700 mila scudi in 24 anni
Ma è
al paragrafo terzo che esplodono le accuse. Eccole:
«Monsignor
D. Francesco Traina in 24 anni è stato eletto vescovo di Giorgente, ha cavato
da quel Vescovato circa 700 mila scudi, né mai hà pagato circa 600 scudi l’anno
assegnati per riparatione e restauratione della Chiesa, et sua sacra
suppelletile da Leone X, Gregorio XIV et Urbano VIII di fel. mem. Nonostante
che à ciò sia obligato sotto pena di censura.
Non si cura delle scomuniche
«Non
fa conto alcuno delle pene conentute nella Bolla Caenae Domini perche commanda
etiam in scriptis sotto pena di scommunica
che non si dij esecuzione alle lettere Apostoliche come seguì nella
provisione fatta dalla S.tà V.ra in persona di D. Vincenzo Greco d’un beneficio
vacato per morte di Monsignore Micheli, et benche detto Monsignore Vescovo
avesse saputo di non poter conferir detto beneficio, volse nondimeno che né
pigliasse posesso Blasio Fontana suo Camerero, quale vedendo di non poterlo
tenere in bona coscienza lo dimise libere in manibus Santitatis Vestrae, et ciò
non ostante il medesimo Monsignore lo conferì ad un altro con privarne il detto
D. Vincenzo Greco.
Prevarica ed estorce prebende
«Processò
il canonico Campora per haver dato il posesso al canonico Babilona contro sua
volontà facendo aggravi tali alle parti che per rimediare a maggiori danni sono
astretti riccorrere alla Monarchia, et ciò lo fa solo per impedire il ricorso à
questa S.ta Sede.
«Il
medesimo seguì a Monaldo Monadi provisto del Tesorierato dalla felice memoria
di Urbano VIII, dandogli liti finché morì, et in tanto esso Monsignore si
riscuoteva li frutti.
«A don
Marco di Giorgio fece l’istesso per l’Arcipretura di Chiusa.
«A don
Pompilio Bove per l’Arcipretura di Giuliana, volendo che restasse in posesso il
provisto da lui.
«A don
Francesco Babilona per il canonicato della Cattedrale. Et à don Paolo Piconio
del sudetto tesorierato.
«Anzi
sopra li provisti apostolici impone pensioni confidenziali, et se le fa pagare
per forza.
Un pio legato di una tenuta di ulivi si dissolve … nella cucina del vescovo
«Hà
fatto tagliare una tenuta di olive per servitio della sua cucina ch’era della
Sacra Distributione, che rendeva almeno scudi 250 l’anno si che tra capitale e
frutti decorsi si fa conto che habbia danegiato alla sudetta Sacra
Distributione circa 11 mila scudi, dal che ne risulta che non si puotrà soddisfare all’oblighi lasciati da
benefattori.
Chi è ricco accede agli ordini sacri, anche se indegno
«Monsignore
sudetto promuove à gli ordini in fraudem anche li più ricchi, solo per
defraudare le gabelle. Altri senza necessità. Altri senza Patrimonio. Altri con
Patrimonio falso, facendo godere l’immunità solo a quelli con quali hà
interesse.
Latita il vescovo, e con lui la cresima
«Sono
molti anni che la Diocese non sa che cosa sia il Sacramento della Confirmatione
perche Monsignore non vuol lasciare le casse de denari quali aperte et usciti
li denari se ci spoglia sopra come se fusse un morbidissimo letto.
Femia funge da vescovo. Gozzoviglie a Sciacca. Violati i monasteri femminili
«Manda
à visitare la Diocese, ne la visita si restringe in altro che in cavar denari,
et don Vincenzo Femia, ch’è il Visitatore non solo celebra alla Pontificale
usando rocchetto, mitra et vestesi sopra l’Altare maggiore della chiesa al
cospetto di tutto il popolo, et finita la Messa levatose la pianeta e postosi
il Piviale dà la benedizione lasciandosi venire ad uno ad uno à baciar la mano.
«Ma
quel che è peggio, nella terra di Sciacca, ove vi sono cinque Monasterij di
Monache è entrato à visitarle con molte persone non suoi officiali, né della
Visita, ecclesiastici et secolari, giovani discoli et di vita scandalosa, ove
hanno fatto colatione con diverse confetture, et altri rinfrescamenti, serviti
dalle Monache medesime con facetie et burle, con scandalo di tutta quella
terra.
Da gesuita a pluripendato, il fratello del vescovo
«Il
medesimo Monsignore fece a Giuseppe Traina suo fratello, che fù prima gesuita
del 4° voto, poi di S. Giorgio in Alga, et ultimamente prete secolare ordinò
che di tutti i processi d’ogni delinquente li fosse pagato uno scudo, benche
tale imposizione non sia dovuta né per ragione di officio, né per giustizia, et
benché il detto Gioseppe sia morto, hoggi seguita ad esigere questa imposizione
per se medesimo.
«A
favore del medesimo impose una pensione confidenziale di 50 scudi sopra il
Priorato di Naro, et non ostante la detta morte, seguita a riscuoterla per se
medesimo.
Dai nipoti allo zio i 750 scudi del tesorierato
«Per
morte di Pietro Tomasino vacò il tesorierato di 750 scudi di rendita in Mense
Papae. Conferì il titolo a Cesare Malagrida suo secretario et riservò li frutti
a don Antonio Tomasini, suo nipote; morsero li sudetti e tornò a conferire il
titolo à don Antonio Bichetta et li frutti al detto suo fratello D. Gioseppe,
et questo morto, se li riscuote per se medesimo. Et pure il Vescovato rende
circa 24 mila scudi.
Bis in idem, quando si tratta di riscuotere crediti
«Si fa
pagare di nuovo alcuni suoi crediti, già soddisfatti al detto suo fratello come
procuratore. Come è seguito a Fabritio Tomasso, Michele Rizzo, Gioseppe Bellone
et altri.
La Cappella del Navarra diviene il sacello sepolcrale del vescovo – appropriazioni indebite – incauta vanità – crolla la cattedrale
«Il Canonico
Navarra fabbricò una Capella nella quale vi era eretta la Compagnia dell’anime
del Purgatorio, lasciandola in testamento al Capitolo per seppellirvi li
canonici pro tempore, et poiche non era perfezionata detto Monsignore se la
usurpò, et fattosi dare dal sacerdote D. Silvestro Civiltà all’hora depositario
di detta Capella circa 200 scudi pervenutegli di elemosine di Messe et altro,
levati li Monumenti marmorij che erano in detta Capella fece ristuccare et
imbancarla, mettendoci l’Arme sue, tenendola per propria.
«Dal
che ne resultano due considerabili mali. Il primo l’usurpatione della Capella
in uso proprio. Il 2° la propriatione a se del denaro destinato per sacrificio
dell’anime del Purgatorio.
«Et
perché dal suo trono non si poteva vedere questa puoca imbiancatura, ordinò
(benché avvisato di non farlo) che si aprisse un arco fatto murare da
Monsignore Giuliano Cibbo per fortificare le colonne maltrattate da un
terremoto del 1518 per la quale apertura caddero la nave di mezzo sopra il
Coro, et l’altra collaterale, fracassando circa 90 stalli, et un organo
superbissimo fatto già dal cardinale di Carpineto.
«E
quando doveva Monsignore rifare il tutto a proprie spese, dopo molto tempo
piglio 4 mila scudi di legati pii destinate a povere orfane , et simili opere
pie et fece rifare il cielo a volta di materia tanto cattiva, et mal fatto, che
non vi è Architetto che non concluda che il precepitio è necessario, con
pericolo di estrema consideratione.
Tovaglie d’altare sporche – rifiuto da parte di alcuni religiosi di celebrarvi
«Le
tovaglie dell’Altari sono si rotte e sporche, che alcuni Religiosi si sono
astenuti dal celebrare per haver vista la mala qualità di essi.
Vessazioni ed estorsioni
«Leva
li parrochi dalla cura delle loro chiese, sotto pretesto di porli al servizio
del Seminario.
«E
sono più anni che si riscuote 42 salme di grano assegnate per la prebenda
teologale, lasciando una lettura tanto necessaria con scusarsi d’haverla
applicata al seminario.
«Le
feste prima l’ingabellava, hora le dà in Commenda, e data licenza generale di
lavorare ogni tipo di commendatarij non si travagliano in altro che in
riscuotere, cavandone circa 2 mila et 500 scudi l’anno.
Tenero con chi ha commercio con il diavolo
«Asolve
l’incorsi nel Capitolo si qui suadente Diabulo, benche gravi e pubblichi siano
li delitti.
Blando con è in ora verso gli altri eccelsiastici
«Non
fa scrupolo nessuno sopra le censure delli ritardati pagamenti delli sudetti
pesi.
Le gravissime responsabilità del Traina durante i torbidi del ‘47
«In
tempo delle rivoluzioni populari per
colpa di esso Monsignore fù posta sotto li piedi la Dignità Vescovile, restando
morti dui canonici et undeci ecclesiastici per haver esso Monsignore sparato
alla moltitudine del Populo, che andava al Palazzo Vescovile per dimandare 700.
salme di grano che aveva di bisogno, et avendo visto il Popolo, che il medesimo
Pastore era distruttore del proprio gregge gli persero affatto il rispetto, et
se per opera di alcuni canonici e in
particolare del canonico Filippo Picella, che posposto il pericolo della
propria vita ritiratoselo in casa, gli diede comodità di fuggire, sarebbe
facilmente stato ammazzato.
La cattedrale allo sfascio
«Si
trova il 3° titolo della medesima Catedrale
da 18 mesi a questa parte puntellato da travi per il pericolo grande che
mostra di cadere, né fin hora vi è principio di ripararsi, anzi Monsignore ogni
giorno più attende à cumular denari, et comprar città, et farsi anche padrone
in temporale della medesima città di Giorgento.
E per pudore si tacciono altre vergogne
«Vi
sono anche altri capi di maggior scandalo, quali per modestia si taciono per
non farli noti con le carte, prima che con l’esame dei testimonij, e prove
concludenti siano note alla S.ta V.stra dalla quale si spera opportuno rimedio,
Che del tutto si riceverà a gratia singolarissima.»
Nostre osservazioni critiche
Il
rosario di accuse non è del tutto convincente. Vi sono momenti di rabbia, di
delusione, di rammarico. Si pensi a codesto canonico Picella che salva la vita
al Traina e per tutta risposta quello lo scomunica insieme al frate di S.
Francesco di Paola. Forse si era reso ardimentoso per quel suo atto umanitario.
Ma il vecchio e grifagno Traina non si lascia abbindolare. Canonico sulfureo,
ribelle ed ambizioso era e tale lo lascia il vescovo. Non lo accoglie tra i
suoi preferiti, non lo ricompensa né lo munifica in alcun modo pur avendone
sconfinate possibilità, Ciò, ovviamente, ci lascia indifferenti, Andiamo a
piluccare nelle sfilza delle accuse
quelle che ci convincono, mentre non mancheremo di asteriscare quelle che ci
sembrano inaccettabili o dubbie.
Agrigento
era vescovado ricco con i suoi settecento mila scudi di introiti (sia pure in
24 anni). Pare che il Traina fosse parsimonioso in misura accettabile al tempo
della sua elezione a vescovo; ma dopo esplode la sua senescente ed insaziabile
avarizia. “tira fuori le casse di denari; ne prende manciate, le spalma e vi si
corca sopra come fosse soffice
letto”, vorrebbe farci credere il Picella.
Per di più era un ferocissimo nepotista. Quando i canonici sciorinavano
gli addebiti di nepotismo al papa, non crediamo che avessero grande ascolto
essendo quella una piaga antica e nuova di santa romana chiesa. Traina
pontificò sotto due papi: sino al 1642 sotto Urbano VIII; dopo, negli anni più difficili, sotto Innocenzo X. Picella e Blasco sono canonici scaltri e, a
quanto pare, bene informati sulle cose romane; la penna si affina nell’accennare
al nepotismo del Traina dovendo riferire a papi che provengono dai grandi
feudatari romani quali i Barberini (Urbano VIII) e i Panfili (Innocenzo X). Il
Tomasino era nipote del Traina ed aveva incarichi che potevano evocare quelli dei cardinali nepoti. Era meglio non
rimarcare. Sono le usurpazioni, le offese al diritto di proprietà, le
inadempienze giuridiche, ed anche gli indebiti paludamenti liturgici che si
vogliono censurare, che si adducono a scandalo. Con quanta ipocrisia o con
quanta mal celata invidia non è dato ora sapere. Benefici sottratti ai
legittimi destinatari costituiscono ben più gravi capi di accusa. Abusi di
potere nel sottrarre possessi agli aventi diritto che si vedono costretti a
ricorrere alla giurisdizione parallela della Monarchia vengono puntigliosamente denunciati, al fine
anche di indispettire il pontefice che con quell’istituzione della Legazia
Apostolica aveva il dente avvelenato. La litigiosità del Traina contro gli
appannaggi dei suoi canonici è citata ma come di sguincio, tanto a Roma non
doveva importare molto. Solo che il Traina esagerava: espoliava
arcipreture a Chiusa ed a Giuliana,
disorientando i fedeli, propiziando le rivolte. Monsignore è esoso, avido,
impone pensioni confidenziali e le estorce. Arriva a disboscare una tenuta di
olivi per uso di cucina dissolvendo una rendita di 250 scudi l’anno. I
benefattori sono scornati. Lo scandalo è inevitabile e distoglie da altri pii
legati.
Le
terre foranee sono allo sbando: da tempo immemorabile non vi si somministra la
cresima. Il vescovo è latitante; al suo posto un tal Femia che scimmiotta le
liturgie episcopali. Rocchetto e mitra non gli competono, ma il Femia ne fa
ostentato uso. Si veste coram populo
sull’altare maggiore come un prelato. Si fa baciar la mano. Non crediamo che
ciò impressionasse le plebi ed i campagnoli. Possibilmente era più avvenente
del vescovo. La magnificenza stordiva ma favorevolmente. Il popolo ne esultava.
Come molti secoli dopo, come con il vescovo Peruzzo sul quale Sciascia ebbe a
scrivere: « Lo ricordo, monsignor Peruzzo, nelle visite pastorali a Racalmuto, e
specialmente in quella in cui mi diede cresima. Ieratico in chiesa e in
processione, si scioglieva in compagnoneria e spirito quando privatamente
intratteneva o si intratteneva. Una volta venne al circolo: e sapendo qual covo
di mangiapreti fosse, lasciò cadere due o tre ridevoli aneddoti sui preti. Quei
fieri anticlericali ne furono edificati: finalmente un prete “diverso”» [4]
E non crediamo che nella terra di Sciacca si sia menato scandalo perché
l’allegra ciurma del Femia sia stata accolta allegramente da quelle suorine. Vi
erano “giovani discoli”? E che potevano fare sotto gli sguardi vigili ed
impertinenti di tanti commensali? Solo l’uzzolo sessuofobo poteva ispirare
quell’accigliata accusa.
La
storia del fratello gesuita del Traina non era poi così insolita. Chissà quanti
casi, anche a Roma. L’insinuazione cadeva nel vuoto (allora e soprattutto
adesso). La pensione confidenziale appioppata al priorato di Naro era bene che
restasse in famiglia. Roma sicuramente non eccepiva. Il tesorierato è ondivago
e per sua natura. Anche qui niente di esecrabile. Il Traina riscuote quanto già
riscosso dal fratello morto. Il ne bis in
idem non l’applica. Ma sarà stato poi vero? La faccenda della cappella
funeraria del canonico Navarra ci richiama le torbide faccende del vescovo
cinquecentesco Horozco Covarruvias y Leyva. Strano destino codesto del canonico
a suo tempo incriminato per incesto spirituale con una sessantenne. Quanto alla
faciloneria di vescovi e preti nel debilitare fabbriche vetuste che di
conseguenza si afflosciano è storia vecchia ed oggi avviene ancor più sovente
per le provvidenze dell’erario pubblico nel restauro di chiese, matrici e
cattedrali. Il vescovo è vanitoso, vuol vedere dal suo trono il sacello con le
sue armi; impone un arco ed il tetto crolla. Stornerà le rendite in favore di
povere orfane per una fabbrica friabile e prossima al crollo. Al papa tanto non
avrà destato eccessivo interesse. Non si destituisce un vescovo per così poco.
Sporchissime sono le tovaglie degli altari. Il Traina è ormai un vecchio
sordido; l’igiene non la praticherà per sé, figurarsi per gli altari secondari
della sua cattedrale. Religiosi schizzinosi si rifiutano di celebrarvi.
Pazienza, si sarà detto il Traina; il risparmio di qualche candela era pur
sempre apprezzabile. La prebenda teologale non va ai canonici, viene stornata
al seminario? Forse fu un bene. Noi moderni drizziamo le orecchie a vedere quei
canonici che accusano il vescovo di non essere molto preoccupato dalle dicerie
di bigotte e donnine allegre che vengono ammaliate dal diavolo (suadente diabulo); i canonici avrebbero
voluto spettacoli di fede con streghe bruciate, Monsignore ha maggiore ritegno
(e noi siamo con lui). Se vi sono morosi, il vescovo è indulgente.
Avremmo
quindi assolto il Traina se le accuse fossero state quelle sinora sciorinate.
Ma c’è un punto che capovolge la situazione. I canonici rievocano le faccende
dei tumulti popolari, con i tanti morti ammazzati. La diagnosi è pungente. Il
vescovo si mise la dignità episcopale sotto i piedi. Per colpa sua due canonici
ci hanno rimesso le penne; undici ecclesiastici sono periti «per avere esso
Monsignore sparato alla moltitudine» E non era popolo ribelle e sanguinario.
Era gente che voleva il pane quotidiano e che vedeva addensarsi su di essa le nubi
della fame per mancanza di grano nelle dispense comunali. Andava a chiedere a
pagamento 700 salme di grano. Ne aveva di bisogno. Ed il vescovo si mostrava
strano pastore volto più a distruggere il suo gregge che a sfamarlo. Gli fa
sparare addosso. Fu così che esplose la rabbia popolare, foriera di morte, di
stragi, di ferimenti, di violenze. Anche contro il vescovo che sol perché
l’aborrito canonico Picella è lesto nel trafugarlo e nel portarselo a casa la
fa franca.
Non
sono aspetti censurabili da parte di un papa. Ma da chi nutre spirito
umanitario, sì. Ora come allora. Nei tempi di oggidì ci ha pensato Andrea
Camilleri nel suo il re di Girgenti. Fra
i contemporanei del vescovo, i canonici Picella e Blasco, e poi il Pirri che
prima era stato prodigo di elogi verso il Traina. Questa sporca faccenda del
grano prima promesso e poi denegato per motivi di speculazione finanziaria;
questo intrigo di canonici ed ecclesiastici chiamati a sparare sulla folla
inerme; questo decrepito vecchio che non ha pietà e commina scomuniche, mentre
si arricchisce; e con le tante ricchezze accumulate compra pro tempore città e meri e misti imperi, è pagina storica nefasta.
Quel vescovo va censurato. Anche a volere perseguire l’avalutatività delle
scienze sociali, il giudizio è di condanna, negative
et amplius, ad usare il gergo dei preti.
SOMMARIO
[1] ) non
ci pare pedissequa la citazione sistina; tanto almeno se abbiamo ben capito il
magistrale lavoro di Sergio M. Pagano e Giovanni Castaldo sulle visite ad limina dei vescovi di Piazza
Armerina, pubblicato nell’Archivio Storico per la Sicilia orientale, 1987 fasc.
I-III. La dovizia di notizie, la perspicuità delle note bibliografiche, la
conoscenza diretta degli archivi vaticani rendono quello studio basilare e
concisamente esaustivo sulle visite che ci occupano. Il profluvio di scritti e
librario desta smarrimento e propizia
solo dispersiva erudizione. Pagano e Castaldo ci danno la cifra colta
nell’essenzialità del testo per una circospetta ed avveduta lettura dell’immane
mole cartacea che inonda il ricercatore di microstoria della propria diocesi.
Speriamo che gli insigni autori congedino presto altri lavori su altre diocesi,
magari minori, magari non ricche di spunti storicistici atti a suscitare gli
interessi dei sommi quali, ad esempio il De Rosa. Vero è che Pagano e Castaldo
ci segnalano il Sindoni per certi orientamenti sulla peculiarità ecclesiastica
siciliana ma noi non abbiamo trovato bussole adeguata nella ricerca sulla
diocesi agrigentina (nelle nostre frequentazioni dell’ASV nel tempo passato) e
su quella del nisseno (oggi oggetto delle nostre attenzioni). Speriamo che vi
ovviino Pagano e Castaldo.
[2] ) C.
A. Garufi, Patti Agrari e Comuni Feudali di nuova fondazione in Sicilia, dallo
scorcio del secolo XI agli albori del Settecento – Studi storico-diplomatici – parte
II in Archivio Storico Siciliano – Serie III – vol. II – gennaio 1947 – Palermo
presso la Società Siciliana per la Storia Patria MCMXLVIII – p. 7 ss- -
Stralciamo da pag. 34 «Coi «capitoli dell’accordo del 15 gennaio 1580 [Rogito
di notar Monteleone di Palermo, transuntato il 25 luglio 1609 nelle minute di
Notar Gabriele, an. 1608-10, n. 17103
cfr. Archivio di Stato di Palermo, Notai defunti, minute di Vincenzo di
Gabriele] da rathificarsi infra due mesi, fra l’altezzoso Don Girolamo del
Carretto, per sé e successori, e i rappresentanti del popolo e dell’università
di Racalmuto, da ambo le parti s’intese e fu imposto perpetuo silencio circa la
questione e lite pendente fra lo dicto Signor Conte e la vendita di detta terra
in la R. Gran Corte del Regno. … Il 2°
capitolo , unico nel suo genere e ispirato a quanto sembra alle norme igieniche
sanitarie proposte per la prima volta in Italia dal celebre protomedico G.
Filippo Ingrassia … sanzionò … pene
severissime. Ed una pena di quattro onze impose, il Del Carretto nel proibire a
chiunque di «potiri lavari nello loco di undi currunu li canali di la funtana
di lo loco denominato la fonte et la biviratura, et corsi abasso dove curri
l’acqua chi nesci di detti canali, et biviraturi», eccetto, e qui spunta il
burbero signore, «li genti di casa per usu di detto Conte, suo castello e casa.
… [per il seguito cfr. sopra].»
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