quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo, gli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”. Questa fase, invero, appare così nebulosa per Racalmuto da doverla forse rigettare;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incontra il favore delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche aspetto diverso. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare “cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia, cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.
Ci siamo dilungati nelle citazioni sciasciane perché illustrano e spiegano un ventennio della storia racalmutese (che inizia un po’ dopo l’avvento del fascismo e finisce nel luglio del 1943). Poi, Le parrocchie di Regalpetra, La morte dell’inquisitore, in buona parte il giorno della civetta, e poi gli scritti minori e poi Occhio di capra e quindi questo meraviglioso fuoco all’anima (che la famiglia si intestardisce a censurare) martellano di commenti tristi e cupi l’evolversi della vita paesana sono alla morte dello scrittore. Noi, qui, facciamo richiami introduttivi. Diamo i temi. E nella formulazione dei temi v’è Sciascia e v’è la sua intelligente lettura del nostro essere racalmutesi nel suo secolo (con qualche riserva che ci deve essere permessa. Questa riserva – e talora divaricazione – la andremo ad ordire dopo, quando nella successione temporale degli eventi verrà il turno. Non ci si dica che non amiamo Sciascia, che lo critichiamo. Apprezzandolo, leggendolo, meditandoci sopra spesso la pensiamo diversamente. Qualche volta, contraddicendolo, ci contraddiciamo. Siamo suoi scolari, in fin dei conti.
Pilucchiamo dalle sue contraddizioni di Fuoco all’anima (secondo il dire di Manuel Vázquez Montalbán e s’intende innocenti). Sciascia pensa che non si deve aver casa ma lui ce l’ha a Palermo ed a Racalmuto. Vero è che quella di campagna proviene dal nonno, ma lui l’ha duplicata. In più tiene vigna. Dice di averla avuta sempre: l’ha comprata suo nonno più di un secolo fa; non l’ha però ingrandita, ha solo comprato un pezzo di terra di millecinquecento metri per timore che gli costruissero vicino. Vi ha piantato degli ulivi e presto hanno fatto i frutti. Ma la terra non arrivava a due ettari. Possedere la terra fa bene perché è un punto di riferimento e dà un senso di libertà. La terra però a Racalmuto costa; a coltivarla rappresenta un dispendio grosso. Il vino ha un costo altissimo. Sciascia lo faceva solo per tenerlo lì e offrirlo agli amici. Arrivava a cinque seicento bottiglie l’anno. Era troppo poco per venderlo e troppo per offrirlo agli amici. Per esempio Fernando Scianna non lo voleva perché lo trovava forte. Un altro suo amico, che era avvocato, lo voleva quando era giovane, dopo lo trovava troppo forte.
Sono note di comune vivere e sentire racalmutese, almeno del XX secolo, soprattutto da parte di chi si era redento dalla classe popolana e assurgeva a maestro elementare, ad avvocato di paese o presso la vicina Agrigento, diventava medico, farmacista (allora si considerava ricco, sopra di una spanna sui soci del Circolo Unione), insegnante delle scuole medie, neppure piccolo borghese, eppure con velleità di un’appartenenza ad una appagante classe media. Ineluttabilmente si finiva conservatori, quasi reazionari, più dei coetanei preti.
Fuoco all’anima prosegue:
- Porzio: e l’olio lo fai?
- Sciascia: l’olio quando l’annata è buona, ne faccio ma pochissimo. Una trentina di litri. E poi, siccome è piuttosto forte, è lo stesso discorso del vino.
- Porzio: L’ultima volta che ci siamo visti mi hai anche detto che nella proprietà ci sono una casa vecchia e una nuova.
- Sciascia: Ci sono due case ma vecchie tutte e due. C’è quella del nonno, ma ormai si sta sgranando. Si sono aperti i muri. Non si poteva restaurare, perché è costruita su un punto che frana. Mio nonno fece scavare sotto la casa una grotta, che usava come cantina. E siccome il terreno è di un tufo molto friabile, questa grotta ha segnato il destino della casa.
- Porzio: Cosa faceva tuo nonno?
- Sciascia: Eh, mio nonno era una persona straordinaria.
- Porzio: Stai parlando del nonno paterno?
- Sì. Il nonno paterno era zolfataro. Il padre gli morì quando aveva nove anni. Allora a nove anni andò alla zolfara, dove non c’era protezione per il lavoro minorile, niente. A nove anni. Alla sera, quando tornava a casa, andava a scuola dal prete. Lentamente divenne capomastro, e poi da capomastro passò all’amministrazione della zolfara.
Una bella carriera questa del nonno paterno di Sciascia. E siamo nel XIX secolo. Chiaro questo emblema della redenzione di qualcuno a Racalmuto: da “carusu” ad amministratore di zolfare. Amato dal padrone. Era, quel padrone, un Matrona (che in spagnolo abbiamo scoperto di recente significa “mammana”: altro che nobiltà!). L’esaltazione che farà Sciascia di quel Matrona, della di lui villa di campagna, della signorilità dell’intera prosapia della crestomazia racalmutese, scintilla nella pubblicazione degli “Amici della Noce”..
La faccenda dei “carusi”, dei “carusi” sfruttati dai Matrona diverrà un capitolo di questa nostra microstoria racalmutese. Le nostre simpatie sono però di segni opposto. Non ci possiamo ascrivere tra gli amici della Noce.
Riprendiamo il discorso dal “Fuoco all’anima”:
- Porzio: E guadagnò tanto da potersi comprare un pezzo di terra?
- Sciascia: Sì, una casa e un pezzo di terra.
- Porzio: E come accadde che anche tuo padre lavorò nell’ambito delle zolfare?
- Sciascia: Mio nonno voleva fare di lui un ingegnere, per cui l’aveva mandato a studiare ad Agrigento. Ma mio padre aveva la fissazione della caccia. Non si può immaginare che cosa è questa passione.
- Porzio: Intendi in Sicilia?
- Sciascia: Sì. Dopo la seconda o terza classe delle scuole tecniche, lasciò gli studi.
- Porzio: Per la passione della caccia?
- Sciascia: per la passione della caccia, della campagna. Allora mio nonno lo istruì nel mestiere della zolfara e anche mio padre entrò lì.
Storia racalmutese, questa. Emblematica. Manie, tendenze, voglia di caccia. Se Porzio chiede: La caccia è una forma di felicità? Sciascia eccede: Sì, una forma di felicità. Che lui però non ha provata. Suo fratello invece la provava. Ma lui sparava bene, “eh, sì, avevo mira”, ammette. E la mania per la caccia ancora persiste a Racalmuto, con le solite esagerazioni dei cacciatori, con i cacciatori che ora parlano e parlano di caccia, di conigli fulminati, di conigli in preda a morìe, ma soprattutto di cani, di cani da caccia che spariscono e ritornano taluni dopo un giorno tal altro, del gruppo, dopo giorni, con l’unghia scagliata. Poverina – naturalmente è una cagnuola – era precipitata in una fossa, profonda ma friabile. Aveva graffiati e graffiato la terra. L’unghia era partita. I cani del gruppo, tutti di proprietà, l’avevano aspettata, per ore. Poi, per fame, l’avevano lasciata. Ed erano ritornati al canile dell’angustiato cacciatore. Dopo, con pazienza, con tenacia, la cagnuola, era riuscita a risalire. Era potuta rientrare, affamata ma salva. Il padrone è commosso. Ci deve propinare tutta la sua commozione al Circolo Unione. Anche a noi che non amiamo la caccia, non crediamo che sia felicità, che non abbiamo mai avuto mira. Sciascia e il fratello di Sciascia. Morto prematuro il primo, morto suicida, ventenne, il secondo. Uno non ama la caccia (ma forse a sessant’anni), l’altro l’ama. Un’evasione, quella venatoria, che può dare felicità. O così si crede ancora a Racalmuto. E questa non sarà storia memorabile … ma manie da ricordare, sì.
- Porzio: Ma allora ti piaceva sparare?
- Sciascia: Mi piaceva tirare al bersaglio. Ho sempre avuto familiarità con le armi, con il fucile da caccia.
- Porzio: E il papà faceva le spedizioni da caccia?
- Sciascia: Sì, finché a un certo punto si è stancato, non ci è andato più. Mi ricordo di mio zio, il sarto; in quella bottega si parlava solo di caccia, dalla mattina alla sera. Ci venivano tutti i cacciatori come se fosse un circolo. E tutti raccontavano storie di caccia, talvolta, esagerando sulla preda. I cacciatori sono anche bugiardi.
La frotta di quei bugiardi a dire il vero si è ora assottigliata. Tra licenze, porto d’armi e soprattasse è “vizio” costoso. Qualcuno è diventato dentista ed animalista. La caccia, ora l’avversa. I residui dell’arte venatoria a Racalmuto adesso non hanno più né sartoria né circolo per adunarvisi. Se ne stanno a passeggiare nel marciapiede ove finge di farlo la iperrealista statua bronzea di Sciascia (deforme in una gota ed inverosimilmente cresciuto d’altezza.)
Sciascia le stigmate della violenza mafiosa e quelle – spesso connesse – delle smodate smanie venatorie le portò nel suo DNA come tanti racalmutesi. E’ paradigmatico quindi quello che scrive in proposito. “Nero su nero” anche noi riportiamo questa pagina sciasciana, a chiarimento del vivere locale, delle demenze della memoria, dell’essere racalmutesi.
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso: ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Condividiamo con Sciascia che la caccia, qui a Racalmuto, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una meschina guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose pare l’abbiano trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, il mandante era stato il barone; l’organizzatore un famoso campiere del barone. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero del tutto assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco e consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempi d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, una guardia comunale a nome Leonardo Sciascia – omonimia con qualche vincolo di parentela però – riemerge da quelle carte ed è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
Noi restiamo impigliati – lo confessiamo – nella aporia o pseudo contraddizione di Sciascia che nel presentare la storia del Tinebra, prima dice del libro di Eugenio Napoleone Messana che trattasi di opera “voluminosa, fitta di notizie” e poi – a conclusione della sapidissima prefazione – vuole il nostro paese povero di memorie storiche di origine libresca o documentaria, dacché “limitato è il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e manoscritti”. L’insigne scrittore si salva in corner asserendo e dimostrando che “moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria”. Ma se anche noi, trovata venia per gli sporadici spunti sopra estesi, seguissimo (pur con la modestia dei nostri mezzi espressivi) il sommo racalmutese ci parrebbe di andare a navigare in una memoria demente, per dirla con qualche ermetico del ‘900.
Sciascia esige invero notizie “narrabili”, (oppure, in mancanza, notizie fervorose distillate dalla memoria collettiva del paese). Ci rammenta, in Occhio di Capra: «la mia infanzia è stata tutta un rondò di zie e zii. Di parenti e di amicizia. Personaggi indimenticabili: e pochi credo di averne dimenticati, scrivendo. Col loro nome o dandogliene un altro. Ma la memoria, che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane, oggi me ne fa riapparire due di cui mi pare di non avere mai scritto …». A sceverare Occhio di Capra o Nero su Nero o Cruciverba e soprattutto Fuoco all’anima, abbiamo di che rimembrare con il ricordare di Sciascia su fatti usi e bizzarrie (ed anche demenze) racalmutesi. Ma la storia, quella non astringibile in aneddotica di famiglia o di paese? Beh, Sciascia è pessimista. A Racalmuto è rada, larvatissima la “vita che Américo Castro direbbe «narrabile», da «descrivibile» che appena e soltanto era.” E molto ci affligge e ci intimorisce questa lezione contenuta nella presentazione sciasciana della storica mostra su Pietro d’Asaro, svoltasi dal novembre 1984 al 13 gennaio 1985 nella Matrice (destinata - pare - per incuria, insipienza e peggio a crollare) e nel santuario del Monte, acropoli moderna votata all’ascesi e alle mistiche redenzioni locali.
Castro ci avvince, in qualche modo lo conosciamo e quindi crediamo di non tradire la sua teorica addentrandoci in ricostruzioni fattuali racalmutesi che se non proprio nobilmente (e presuntuosamente) narrabili restano pur sempre rivelatrici di vicende descrivibili, e per la microstoria locale tanto va perseguito, ascrivendosi a merito per interessi della cultura o. se non altro, della memoria collettiva del locale aggregato sociale. Non mancherebbe un ritorno turistico, non scevro di additive risorse economiche, disprezzabili dalle guglie degli elitari colti o supponenti tali, necessitanti per la sopravvivenza della collettività. Cose piccole, non disprezzabili, però.
In tale riquadro, va riguardata questa nostra fatica. Vogliamo riscrivere la storia di Racalmuto – narrabile o solo descrivibile, poco ci importa. E ci pare di non potere essere smentiti se diciamo che tante, tantissime sono le notizie ricavabili da scritti altrui e soprattutto da documenti, diplomi, “rolli”, archivi - nazionali, vaticani, esteri e persino parrocchiali. Certo non basta additarli, quegli archivi, per credersi benemeriti della rievocazione storica racalmutese. Occorre faticare, respirare polvere – nociva ai polmoni ed agli occhi – e soprattutto “intelligerli” (alla Sciascia per intendersi). Non presumiamo di riuscirvi in pieno. Ma qualche risultato ci sembra di averlo conseguito. Agli altri, però, l’ardua sentenza.
Il più antico documento, a ben vedere, è la grotta di Fra Diego: non è molto che si chiama così. Sciascia con la sua Morte dell’Inquisitore ha contribuito a sancire tale denominazione. Prima, in una visita di William Galt attorno al 1934, pronubi Pedalino De Rosa ed il notaio Sajeva (dice Giovanni Di Falco che fu notaio racalmutese per un solo atto) si era insinuato che il toponimo di Fra Diego che pur circolava si potesse riferire al noto – e per i clericali, famigerato – fra Diego La Matina, monaco agostiniano del ‘600 dell’ordine centuripino di S. Giuliano. Vi avrebbe addirittura preso dimora nei periodi della sua fuga. Pensate che nei rilievi militari dell’esercito effettuati subito dopo l’Unità d’Italia il toponimo non figura in alcun modo.
Quell’antro, ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della grotta, ai fianchi a ridosso. Che cosa sia uno zubbio è detto in testi scientifici. Qui basta accennarvi. Così sotto il costone abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire del mio amico sig. Palumbo di Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati, esplorati da squadre di speleologi professionisti: più della grotta visto che ivi non è stato trovato granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei sette inghiottitoi a valle vi saranno di sicuro argille cotte ed altro materiale sicano e d’altre culture, a testimonianza del vivere che in Gargilata v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi mostrava analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà pre-sicana (quale noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici risalenti ad una decina di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella contermine Milena), a quella delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e che si sogliono datare agli esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla successiva della Magna Grecia (dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà greco-romana, a quella intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti, etc.), alla restaurazione bizantina, per giungere a certa ceramica araba che andrebbe studiata con molta attenzione per i risvolti nella chiarificazione della dominazione araba (a dire il vero berbera) e del succedersi delle vicende legate a normanni e svevi, sino al 1271. Questo caleidoscopio storico giace negletto in terre un tempo vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad attingere l’acqua con una minuscola brocca zingata (lanciddruzza); si trovava nello sprofondo di Gargilata. Ora, per incuria delle autorità preposte alla vigilanza la sorgiva è stata sotterrata per un po’ di vigna. Quelli di Agrigento hanno erroneamente invertito le particelle catastali soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera disattenzione o censurabile compiacenza? E perché, nonostante le mie segnalazioni, non se ne danno per intesi?
La vita a Racalmuto parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena giacché decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori dell’Università di Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la cultura pre-greca dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su Casalvecchio, o su lo Judì e via discorrendo peccano di erudizione. Faranno tutto ma non storia o veridica microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il bisturi del suo scrivere alato nella locale microstoria per dirci che “Racalmuto … [uguale] Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza” (Occhio di Capra) ed indulge nella diceria del “paese che esisteva già, un po’ più a valle” (presentazione mostra Pietro d’Asaro), e se giunge persino all’aforisma di un paese (che «profondamente gli pare di conoscere, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires. “ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita non si riesce “ad immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o almeno dello scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali che si scriveva Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi laici. Ed il nome nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono ridevoli. Si pensi, oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che tutto ha valenza terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche … etc. etc.). Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista vivente, Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non ha fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far scintillare la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale teatro, costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso nel mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale, autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per significativi manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano il vivere antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là dove era disponibile.
Prima del Pliocene centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese fosse tutto un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio a tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi scienziati ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col termine di Desulfovibrio desulfuricans) pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati solfiferi delle future miniere. Altri sconvolgimenti geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni di anni addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al fiumiciattolo ed oltre sino al sistema collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo “Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro versante, da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle punte del Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del Quaternario, al Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che dobbiamo parlare di sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra è pigra; Cugni Luonghi, Mangiauomini ed altre lande acquitrinose non hanno destato molto attaccamento alla terra; la moderna costruzione di un autodromo lascia nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è da congetturare che verranno assordati); altro discorso invece per il versante ovest: se vi si progetta un aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre feraci, humus fertilissimo, terreno intoccabile insomma vogliono rappresentarcelo. Stanno ordendo una rivolta civica. Manco a farlo apposta, a mo’ di torre vi è la contrada Noce ove albergava d’estate Sciascia per scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva raccogliervisi ed ispirarsi e comporre con la sua prosa non scivolosa, ipotattica disse Pasolini. Il silenzio si addice ai dintorni della Noce, scrivono persino gli eccentrici organi di stampa meneghina.
Storia narrabile dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi sarà).
La civiltà sicana che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche nelle contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro per fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca di Cocalo. Le note del Mauceri, nelle relazioni al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da Licata si inerpica sino all’interno, sino a Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro territorio Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per le rotaie della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito depredate). Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano regolatore racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente l’errore del Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea località di Castrofilippo. Quando si dice un ricorso storico secolare. Per colmo d’ironia, quel De Miro, proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di reperti archeologici greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o atto di devozione verso un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati, invocano la negletta archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno vi si stendano i vincoli di dovere.
Dal Castelluccio, l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio terra argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la successiva incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di spogliarla (e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci centuripini di S. Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il loro lento scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo valle. Prima i sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro sepolture. Un patrimonio archeologico che almeno andrebbe inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero altri massi che scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui cigli con sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido. Come nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo additato all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una locale televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi. La labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli “amici”).
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