Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.
«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
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Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi – in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente – e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Saleno agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbia trovato assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato. Il papa da Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino, colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis caussa, adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.
E finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores spactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.
A Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostreà dopo a noi risulta qualcosa di dicerso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Senonché, non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali, imponendosi il totale riprisino dell’antica giurisdizione.
A questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie – prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette anni al servizio degli invittissimi re di Spagna, Filippo III e IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.
Un semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1650. I soliti legati alle chiese, qualnche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciè fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: suffi d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per la dotazione libraia del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed edificante vicenda di monsignor Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentisca il racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli comprova la città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».
Avremo, dopo, modo di provare che la “storia – purtroppo – volle rivelare” e ciò ebbe il tramite nell’indubitabile archivio segreto vaticano. Niente meno! L’assonanza di giudizio tra il nostro quasi racalmutese e l’esimio monsignore cammaratese – entrambi sinergici per idee e per opzioni politiche e sociali e chissà poi perché non tornato il primo, un secolo dopo, gradito al secondo – è sorprendente. Per una variazione sul tema, mi si lasci dire che il Camilleri prende il racconto sul vescovo del Re di Girgenti dalla mediata narrazione del Picone, stravolgendo per le sue necessità letterarie il costrutto storico.
Premettiamo che per il momento ci assilla la questione della natura della giurisdizione dei vescovi nella Sicilia feudale, in particolare in quella del Seicento. La feudalità siciliana, dopo le graffianti puntualizzazione di Mazzarese Fardella, resta un’incognita almeno sotto il profilo giuridico. Cosa non di poco conto se si ha a cuore la verità, almeno quella storica.
Gli abusi giurisdizionali in cui sarebbe incorso il Traina e sui quali ebbe ad interessarsene, con atteggiamenti ostili al vescovo, il Vaticano non sono stati sinora adeguatamente investigati. Monsignor De Gregorio – che pure è quel mostro di ricercatore che è e che non indulge a semplicionerie – ci pare riduttivo quando afferma che l’accusa del 1630 fosse quella di semplici “abusi di giurisdizione in alcuni paesi”, di tal ché ad Urbano VIII fu d’uopo “accettare la sua discolpa” anzi dovette il papa lodarlo “per il suo governo e il suo modo di vivere”. L’epilogo fu quello di “un accordo [raggiunto] con i baroni delle terre suddette” [e cioè Cammarata, S, Giovanni, Giuliana, Burgio, Chiusa e Racalmuto] e pertanto le dette terre “furono riportate all’antica giurisdizione”.
Purtroppo non fu così! Un fondo dell’Archivio segreto vaticano i cui indici siamo riusciti a consultare solo a fine del 2003, e ciò perché recentissimi, getta luce sull’incresciosa controversia tra il Vaticano ed il vescovo agrigentino, che ci pare burbanzosamente riluttante agli ordini romani, salvo, dopo, a dovere abbassare la cresta e con scottature che si faranno sentire nelle successive vicende dei moti – che la storia seppe tramandare in una luce non tanto favorevole al Traina.
Il fondo si denomina: Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche ed è tutto rubricato nell’indice 1182. Abbiamo consultato il reg. 2: 628v; 228-229; 425; 386-563-616-628-649-650; 326v; il reg. 3: 24-421v; 464v; 65v; il reg. 4: 83-100; 85v; 217v; il reg. 5: 169v; 191v; 298v; 301v; il reg. 13: 529v; il reg. 15: 16v; il reg. 18: 25v; il reg. 21: 62v; il reg. 23: 55r.
L’esordio è soft eppure si apre uno spiraglio su un contesto curiale non proprio edificante: il clero locale è tutt’altro che entusiasta del nuovo vescovo; già in dicembre nel 1627 la curia romana deve chiamare il presule agrigentino per una difesa presso il Vaticano; che informi almeno la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche sul “memoriale dato per parte del clero di codesta città” si scrive il 20 dicembre 1627; si vuol sapere “la verità del contenuto di esso” memoriale, ma nel frattempo il vescovo “non lasci difendere la esenzione degli ecclesiastici”.
Ci pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di Racalmuto.
Eppure, ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dosesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane cancellerie.
La pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandayo il zelo, et osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [1]con procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).
Per quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale gravissima censura è passata sotto silenzio. Che il vescovo Traina non abbia poi avuta comminata formalmente la scomunica e la sospensione a divinis? Che il cardinale Doria si sia intenerito verso il suo pur dispettoso subordinato? E sì perché la diocesi di Agrigento era assoggettata all’arcivescovado palermitano; il vescovo ne era suffraganeo.
Monsignor De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
a) non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
b) il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;
c) ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le propaie localo poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di reggenze in tempi di vacatio – era varia ed i canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a condizionarla. del regio La composizione del capitolo: Al tempo di monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla ; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce soprattutto la quantità.
1
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1632
|
FRANCESCO
|
TAGANO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1632
|
SANTO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
|
4
|
1632
|
GIUSEPPE
|
SANFILIPPO
|
BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
|
CHIESA DI S. NICOLA
| ||||
5
|
1632
|
LEONARDO
|
D ' AMODEO
| |
6
|
1632
|
G.BATTISTA
|
ACQUISTA
| |
7
|
1632
|
FRANCESCO
|
CICIO
|
CAPPELLANO
|
8
|
1632
|
PETRO
|
RAFFAELI
|
CAPPELLANO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
| |
1
|
1632
|
FRANCESCO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
2
|
1632
|
DOMENICO
|
SFERRAZZA
|
CHIERICO
|
ANNO 1634
| ||||
1
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
SO IL 12.3.1635
| ||||
2
|
1634
|
LEONARDO
|
BERTUCCIO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1634
|
PASQUALE
|
MACALUSO
| |
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
| |
5
|
1634
|
PIETRO
|
CASUCCI
| |
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MARTORELLA
|
CAPPELLANO
|
7
|
1634
|
ANGELO
|
CASUCCI
| |
1
|
1634
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
SUDDIACONO
|
1
|
1634
|
G.BATTISTA
|
LO BRUTTO
|
CHIERICO
|
2
|
1634
|
ANDREA
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
3
|
1634
|
SIMONE
|
SALVAGGIO
|
CHIERICO
|
4
|
1634
|
PIETRO
|
DI ROSA
|
CHIERICO
|
5
|
1634
|
ANTONINO
|
LO PORTO
|
CHIERICO
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
7
|
1634
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
CHIERICO
|
ANNO 1639
| ||||
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
ECONOMO
|
1
|
1639
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
DIACONO
|
2
|
1639
|
GIROLAMO
|
SCIRE'
|
DIACONO
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
D'ACQUISTA
|
CHIERICO
|
2
|
1639
|
GIUSEPPE
|
CASUCCIO
|
CHIERICO
|
3
|
1639
|
MICHELANGELO
|
D'ASARO
|
CHIERICO
|
4
|
1639
|
G.BATTISTA
|
BAERI
|
CHIERICO
|
5
|
1639
|
GIUSEPPE
|
LA LATTUCA
|
CHIERICO
|
6
|
1639
|
ANTONINO
|
MACALUSO
|
CHIERICO
|
7
|
1639
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CHIERICO
|
8
|
1639
|
MARIO
|
TURRETTA
|
CHIERICO
|
9
|
1639
|
GIOVANNI
|
PITROCELLA
|
CHIERICO
|
10
|
1639
|
GASPARE
|
TROISI
|
CHIERICO
|
11
|
1639
|
VITO
|
BURGIO
|
CHIERICO
|
12
|
1639
|
FILIPPO
|
DI CHIAZZA
|
CHIERICO
|
13
|
1639
|
ANTONINO
|
MUNTILIUNI
|
CHIERICO
|
14
|
1639
|
FRANCESCO
|
GIUSTINIANO
|
CHIERICO
|
15
|
1639
|
PIETRO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
16
|
1639
|
ISIDORO
|
D'AMELLA
|
CHIERICO
|
ANNO 1645
| ||||
1
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE D.S.T.
|
2
|
1645
|
GIUSEPPE
|
TRAJNA
|
ECONOMO
|
3
|
1645
|
FRANCESCO
|
TIGANO
| |
4
|
1645
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
| |
5
|
1645
|
GIUSEPPE
|
D'AGRO'
| |
6
|
1645
|
PAOLO
|
LA MENDOLA
| |
7
|
1645
|
VINCENZO
|
RIZZO
| |
8
|
1645
|
SALVATORE
|
PITROZZELLA
| |
9
|
1645
|
MARIANO
|
MALASPINA
|
CON LICENZA DI PARROCO
|
10
|
1645
|
FRANCESCO
|
MACALUSO
| |
11
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
12
|
1645
|
LEONARDO
|
MORREALE
|
COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
|
13
|
1645
|
GIOVANBATTA
|
D'ACQUISTA
| |
14
|
1645
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CAPPELLANO
|
15
|
1645
|
CALOGERO
|
DI PUMA
| |
16
|
1645
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
FONDATORE CHIESA S. MICHELE
|
ANNO 1649
| ||||
1
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1649
|
MARIANO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE S. NICOLO'
|
3
|
1649
|
ANTONIO
|
MACALUSO
| |
4
|
1649
|
SIMONE
|
LO GUASTO
|
COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
DIACONO
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
LO SARDO
|
CHIERICO
|
2
|
1649
|
NATALE
|
DI ALFANO
|
CHIERICO
|
Ed ai fini di tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito questo excursus su Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina.
RACALMUTO NEL ‘600
1613: - PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo adnotata nomina etc (una silloge di sacerdori e chierici defunti dal 1590 in poi che si custodisce in Matrice a Racalmuto), al f. 1, n°. 11 «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.
In una memoria del 1738 [2], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([3]) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([4]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([5]) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ammiccanti relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([6]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro. Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([7])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([8])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione
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