domenica 15 ottobre 2017

Corriere della Sera - 15 ottobre 2017 - pagina 6

Addio alla «mucca in corridoio» Così il Bersani di governo diventò un politico «di lotta»

«Il voto di fiducia è la prova che c’è un inciucio in corso». E ancora, «Gentiloni ha perso ogni credibilità (…). Questo Rosatellum è una vergogna, si apre una questione democratica quanto una casa». Fino al gran finale, sempre dalla stessa inconfondibile voce, sempre con la stessa inconfondibile cadenza ma con toni e modi lontani da quelli usati in quasi mezzo secolo di politica attiva. «Chi osa dire che una cosa del genere assomiglia al Mattarellum è in malafede o fuori come un balcone. È un orgasmo per il trasformismo».
Non c’è bisogno di arrivare alla folla che l’ha preso di mira sui social network per quei «negretti» citati, a proposito dello ius soli, durante la trasmissione di La7 Piazzapulita . Né di evocare i tanti maligni secondo cui, ormai, Pier Luigi Bersani è impegnato a tempo pieno in un continuo slalom politico-retorico tra l’inclinazione Civati (nel senso di Pippo) e la tendenza Di Battista (nel senso di Alessandro). I tre giorni che hanno portato all’approvazione alla Camera del Rosatellum consegnano alla cronaca la metamorfosi di un leader che per anni ha rappresentato la sinistra di governo più che quella di lotta, la prudenza istituzionale più che il megafono della piazza, il riformismo del cacciavite più che il massimalismo del martello pneumatico.
Emblema di quel comunismo emiliano considerato tanto efficace nell’azione amministrativa quanto poco empatico per la leadership del partito, al tramonto del 2017 — anno che ha segnato l’addio al Pd di cui era stato segretario — Bersani è diventato un politico barricadero. Messe in naftalina le citazioni dei tacchini sui tetti e delle mucche in corridoio, il dirigente di Mdp ha spostato la sua comunicazione dal «pro» al «contro», dalla «costruzione» alla «battaglia», dalla «ditta» alla «lotta».
Tra i primi dirigenti della storia del centrosinistra ad aprire al superamento dell’articolo 18 senza inimicarsi il sindacato, molto stimato nel centrodestra e tra i cattolici di Comunione e liberazione, attento nel 2013 a non compromettere l’equilibrio precario di un Pd che aveva posizionato tra Nichi Vendola e Mario Monti, il Bersani del 2017 sembra un altro. E nemmeno assomiglia all’uomo dei tanti sacrifici fatti in prima persona in nome dell’«unità», poco importa che fosse del vecchio Pci-Pds-Ds, del Pd o del centrosinistra. Papabile alla guida dei Ds nel 2001, finì per fare spazio alla candidatura di Piero Fassino. Voglioso di correre per la leadership del 2007, si convinse a lasciare strada a Walter Veltroni. Sempre in silenzio e sempre toni bassi. Al massimo con quella frase — «Cosa fatta capo ha» — che segnava la fine dell’ennesima battaglia non combattuta «pur che si rimanga tutti insieme».
L’elmetto usato per denunciare «l’inciucio» dentro Montecitorio, tra l’altro, sembra un epilogo singolare assai pure per il ministro dello Sviluppo economico che aveva scelto un profilo basso anche per promuovere le lenzuolate di liberalizzazioni fatte approvare durante il governo Prodi. E dire che una volta, per Bersani, l’abito istituzionale era quasi un tatuaggio, ostentato anche nei momenti più improbabili. Anche al mitologico concerto di Bob Marley allo stadio San Siro di Milano, 27 giugno 1986, l’ex leader pd era arrivato in giacca e cravatta. «Avevo appena giurato da vicepresidente della giunta regionale dell’Emilia-Romagna. Conciato così e circondato da tutti quei fumatori di spinelli», racconta ancora oggi agli amici, «mi scambiarono per un poliziotto in borghese». Oggi non sarebbe più possibile. Neanche dentro Montecitorio.
Tommaso Labate
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