Cavatieddi
cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri
cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo
Cavalieri di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma
per poco: promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha
dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che
mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di certo non lo
erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica,
neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe troneggiato il sindaco Pitruottu, ma
l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe tentato di disarcionarlo. Non vi
sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle ultime elezioni, era più abile:
qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no. Aveva
inventato i caffè letterari, finanziati dall’industriale Illy che pur doveva
essergli avversario politico, ma ignavo nel leggere si faceva sunteggiare il
fatterello del letterario parto dal proprio figliolo. Introduceva quella
variante nel suo dire ormai stereotipato; una qualche bella figura, invero,
riusciva a farla. La voce sensuale ed il petto latteo in generosa mostra della
subrettina avevano già ammansito il rado pubblico maschile, ancora assatanato
di sguardi coitali.
Poi Popò, evanescente in tutto, e l’aragonese tutto
preso di sé e decisamente diafano. Anche l’arciprete, materialone e loquace.
Immancabile il “riddilio di la chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma
con pensione di invalidità cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu
cammaratisi” sempre pronto a vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo
dire debordante ogni umano confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva
fare. Poi i suoi amici cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu
Aviluortu a Chardonnay , a Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu
Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la sua
intelletualitudine, gli invertiti maschi (per le lesbiche faceva eccezione)
risultavano indigesti … specie a tavola.
A tavola, invero, “li ‘arrusii” si potevano dire, era
però preferibile “la futtuta cu li fimmini”. Meluzzo – che le parrocchie di
Regalpetra le sapeva a memoria –rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi
corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più uno
scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del
giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti racconta a un
amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito gli scaricava
dietro due colpi. …»
I suoi
commensali si professano grandi amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo
qualche attricetta dopo il variété. (Ora, però, si sussurra di un prete
tenutario e di un napoletano prosseneta e sedicente regista che spingerebbero
giovanissime al sesso compiacente per un miraggio artistico …. malelingue!
…male lingue!). Fa eccezione, di sicuro, l’onorevole Lasagne. Bell’uomo,
suadente, non ha difficoltà a portarsi a letto giovani donne, moglie ribelli e
pare qualche amica delle figlie. A Montecitorio, a palazzo Marini per la
verità, ha trangugiato le grazie di tante procasissime commesse. Chi le pagava
è rimasto però subito deluso per l’inconsistenza delle rivelazioni che
l’onorevole era subdolamente spinto a confidare e le conquiste romane subito
scemarono per il Lasagne.
Con la sua vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della
Vecchia Maniera. L’asinello, di taglia piccola ma non sardignola, riprese a
ragliare. Meluzzo vi voltò a guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome. Era
spettacolo sconcio eppure non seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto
bianchiccio fu al culmine della foia solitaria. «Che anche lui soffra di
complesso di castrazione?» si disse con celia Meluzzo, in fondo per reprimere
il senso di vergogna di cui si vergognava.
Erano tempi in cui leggeva di psicanalisi specie per
approfondire la sessualità femminile, della cui conoscenza si sentiva a digiuno
e che voleva sondare per non essere superficiale nel parlare di donne nei suoi
romanzi.
Si era sciroppati i testi di Janine
Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di Helene Deutsch, di Ruth
McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di Ernest Jones etc. Nomi
prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle donne, “monismo
sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”,“fase fallica”,
“femminilità assimilata alla passività, mascolinità all’attività”, “bambino
anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”,“mater dolorosa”, e via di
questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo l’aforisma: «l’orgasmo è maschile.
La donna femminile non ha un acme orgiastico. La vagina è l’organo della
riproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua esperienza – ed era stata tanta – non
confliggeva. Per il resto? O non aveva capito niente delle donne o era
mistificazione. Forse la donna sino a metà del secolo scorso aveva tutte quelle
turbe sessuali. Ma ora, era il contrario. Erano i maschietti a ritrarsi nel
loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio le prossime sortite oscene con i
suoi simpatici commensali …- senza problemi erotici … almeno a tavola, alla
“vecchia maniera”.
Il genio mittel-europeo aveva lanciato una sfida al
mondo della cultura: Marx e Freud, in contesa, pensarono a strutture di base
con sovraccarico di complicazioni esistenziali. Il momento economico per Marx,
primigenio rispetto a tutte le sovrastrutture pensabili, l’eros per Freud e da
lì il travagliato vivere moderno (dell’uomo e della donna, afflitti in diverso
modo a seconda della diversa età): chi dei due ha ragione? Meglio, più ragione.
Meluzzo, un tempo, avrebbe detto Marx: ora è in bilico. Ma Freud – certo non
terapeuta, ma filosofo sì - la spunta sempre più su Marx se si investiga in
tante latebre del cuore umano o se si ha voglia di capire il moderno
riconformarsi degli assetti sociali. La spenta voglia procreativa – ed in
contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali, vaginali, castranti tanto
per esemplificare) – devia e deforma irriconoscibilmente l’umano genere del
2000, tanto più alto, tanto più erculeo, tanto più mirabile: si rende così
flebile il “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, motivo di preghiera per
Cristo e demoniaca forza conflittuale fra le classi per Marx.
Marx morto e sepolto, dunque? Manco per niente. Va
riletto, riconsiderato, aggiornato. Occorre “Marx oltre Marx”. E fino a quando
la sinistra – cessata l’onda idiota, riassunti i valori della critica – non
s’induce in Italia a sdoganare Tony Negri, a rispolverare i suoi appunti, a
vivificarli e ad aggredire gli idiomatismi telematici di una rincitrullita
cultura avversa, blaterata da nicodemi, notturni amici di un rinnegato cristo
socialista, il destino di partiti non più di massa e neppure di idee è
miseramente segnato.
Si diceva di Meluzzo che quando passava agli argomenti
politici diveniva dannunziano, vago, passionale, enunciatore astratto di
incomprensibili principi, vacuo di fatti, contumelioso. Si rifaceva con i suoi
“gialli”, fattuali e leggeri, spesso gassose ghiacciate, gradevolissime nelle
arsure delle estati siciliane.
Sesso e consorzio umano, economia e società quali
interconnessioni? C’era circolazione sanguigna, magari extra-corporea? Marx e
Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in amalgama. Dov’era però il
genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000? Non c’era, non c’erano,
diamine!
* * *
Al simposio andava come convitato d’eccellenza e,
soprattutto, quale sommo sacerdote di un rito pagano; andava a dare sacralità
laica ad una crapula di cibi fatti risorgere dagli smarriti usi del vivere
contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola, partorita dal genio liso ma non
consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano ora adunando per l’intellettualissima
abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il primo germe l’aveva avuto Aurelio,
purtroppo assente per misteriosa ammazzatina. Ricercatore di antiche
cose locali, s’imbattè in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era
con lui benevolo e compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il
materialone con qualche beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui
pulpiti e nei banchetti, specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e
quanto a sensibilità per la storia religiosa degli antichi padri, il nulla.
“Rolli”,registri, pergamene, sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie
gestatorie”, ed anche piviali e cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori,
mozzette e balaustre lignee, come gli smantellati stalli del coro settecentesco
per i mansionari voluti dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e
figurano mal registrate nelle denunce di furto presso la caserma dei
carabinieri a S. Grigoli.
Aurelio era riuscito a decifrare il primo volume della
«FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO D'INTROITO ED
ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di D. Lucio
Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica della
Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel
volume, rogato con grafia davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria
Colonna, fra i libri vecchi poco richiesti. Un’inchiesta vi fu; per pronta
giustificazione si concluse che il manoscritto si era smarrito quando l’intera
raccolta della matrice era stata traslata ad Agrigento per il restauro dei
BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva però trascritto con il vecchio excel
l’intero volume (altri). Il passo che qui ci incuriosisce recita: «per
havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20. e più per pani salzizza e
vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana» Era il
mese di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora
migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i
porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il
venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò
Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo
(come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel
sottobosco degli Agliannari al Castelluccio. Ignari gli Avareddi
vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il
tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più
sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.
Vini antichi – si sperava simili a quelli che nelle
olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine memorie
– si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi seppe
ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo e
malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione –citava
Marziale:
- mescesi
… il Massico vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu
Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non si
parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col miele: era come
profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare balzano,
non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si ottenne
con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”,non senza
sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” –qualità
locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico II dagli
arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva ricavato dal
biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si teneva per sé,
«pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena laureato
alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di fama
mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare“saperi
e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al titolo di un
epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere i profumi
oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella, cercò di
sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva di afrore
erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava appiccicaticcio
sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla combriccola. Si
preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle olive portate da
Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i suoi uliveti sulle
pendici settentrionali di Villa Petrone andavano salvaguardati solo con la
carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito. Solo lui conosceva
modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania dell’omertà bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe
risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima,
la“bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e
compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono
a li “Pantaneddi”: nella voragine prodotta dall’insipiente sfruttamento del
salgemma poté annidarsi una coppia di leporidi nostrani, farla franca dagli
accoppiamenti dei blenorrogici animaletti che incauti cacciatori avevano senza
difese sanitarie introdotto dalla Jugoslavia ed avevano figliato a iosa, sani e
gustosissimi. Questo dicevano Giacuminu e compagni e stavolta non erano
contraddetti dal solito Miserere. Il cronista riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi
interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso
della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno,
altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di
malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai
l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla gola
come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater, invocare la benedizione celeste
sul cibo che poco parco certo non era, e quindi«gloria patri et filio et
spiritu sancto»(il latino approssimativo era il massimo che l’arciprete
potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma ecclesiastica di Paolo
VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno di celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le verdurelle
commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente miscuglio, saltate
in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo Alosa (abbiamo dovuto
fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …e per quell’uso
condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte dalle presse in
basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette (memoria di li cudduruna
di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle e lattughe degli orti
di Pitruotto e spizzichi di tumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una
volta tanto senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da
sempre, incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino
ardimentoso …ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu
Beddocchio lo chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si
concedeva letterari toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e
gli altri crapara del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA.
Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non
subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloi
stava imponendo nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI
secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola dell’odore del sugo
del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare “li cavatieddi”come
usava una volta, per devozione all’antico mestiere di pastaro della sua
famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza delle
prelibatezze– i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale allevato
tra gli agliannari del Castelluccio ed altre specialità del luogo (non
essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante. Il mio apporto è
consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta della legna per
ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con vocazioni
culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del pranzo, per
spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci, amaretti, alle
mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda, eccellenti i
taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare meglio, e
deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste libagioni, ora rideva a
squarciagola Bisteccone: pur sempre meno rosso, a tavola era eccellente
commensale. Provammo l’antico rosolio: ma non riuscì. Si imitarono i “marsala”
e si superò il porto ed anche le celsitudini dei Whitaker . Finì ubriaco
persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo gratias.
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