Calogero
Taverna
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RACALMUTO
PREISTORICO
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RACALMUTO PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E SALE
Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi
vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie.
Su quell’altipiano - che, a ben vedere, altipiano non è -
l’uomo ha lasciato, da quasi quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora
rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo
preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel
secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina
Milena ebbe a prosperare una
popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe
avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del
tutto inospitale e la civiltà sicana scompare completamente (o non fu in grado
di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Già nella preistoria sono presenti due flussi migratori
diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante
sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti
che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L'immigrazione agricola di popoli attorno al XVIII secolo
a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. (Cfr. L.
Mauceri: Notizie su alcune
tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880). I pochi reperti fittili finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite per
la distruzione delle successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline
illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta
di Fra Diego. Il cospicuo numero di
tombe a forno dimostra l'esistenza di
gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i
cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una
vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. (Cfr. S. Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.).
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il
salgemma delle vicinanze e
fors'anche lo zolfo, all'epoca sicuramente
reperibile anche in superficie.
Contraddistingue
il popolo sicano un sentimento religioso tanto profondo da spingerlo ad opere
che scavalcano l’obliterazione dei millenni per giungere sino a noi. Sono
quelle tombe sicane le quali si affacciano
grandiose e impressionanti dalla parete della grotta di Fra Diego. Il culto dei morti affonda
le radici nel sentimento religioso, nel senso dell’al di là che connota ed
ossessiona persino l’uomo preistorico racalmutese.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li
avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune
terziarie progressivamente evaporate <sarebbe seguito> un processo di
sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della
fisica e della chimica, ma addirittura
uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» (Pratesi e Tassi, Guida alla natura della
Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss). In definitiva, dunque, le ricchezze della
rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono a quel geologico
vibrione.
RACALMUTO DA
TERRA ANELLENICA A DOMINIO GRECO
Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego
ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a
luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.
Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran
lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a
forno», ove è presente il corredo di vasi e oggetti fittili (Tusa-De Miro, Sicilia Occidentale, Roma 1983, p. 14).
Da quell'era sino al sesto secolo a. C. i nostri progenitori
- siano sicani o altro - riuscirono a
sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'età del Bronzo e di quella del Ferro in condizioni di relativo
benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle
tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse
minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono
sopravvivenza ed anche sviluppo.
Ma quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono
per il Mediterraneo e le genti rodiese e cretese, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i sicani di Racalmuto fu il prodromo
della diaspora.
Giunti i mitizzati tempi della famigerata tirannide di
Falaride, nel sesto secolo a.C., per le popolazioni di
Racalmuto fu l'inizio di una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni,
cercarono fortuna e dominio nei dintorni e così anche questo centro agricolo
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici
con la riconoscibile effigie del
granchio akragantino non svelano solo l'inclusione di quel territorio nella
circolazione monetaria delle varie
tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi
padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena sfuma sino a non lasciare
più le testimonianze delle caratteristiche sepolture in tombe a forno. I nuovi padroni venuti da
Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava,
nella titanica costruzione del tempio a Zeus. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi eppure irriducibili ed
incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le
prische connotazioni di uomini fieri ed indomabili.
La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con
rimarchevole continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i
dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un
ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri
giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
I GRECI A RACALMUTO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto diviene pertinenza
rurale della polis di Akragas. Frattanto nelle nostre
plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare
per la vicina polis, senza libertà di
movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o
allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia
e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora qui si sono
rinvenuti sono i soli pallidi segni di quella grama presenza.
Così Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi
sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare una aliena lingua dorica, e
si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al
grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o
con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini -
persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni
esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Crediamo che al tempo dei cartaginesi Racalmuto ebbe tempi
non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle
impervie e infide vallate racalmutesi. Per i commerci agrigentini e per la
tassazione decumana, al centro rurale sito sull’Altipiano si apriva un mercato
proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in
moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche nella parte occidentale,
appunto, dell'isola. Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di
argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di
un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le
dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C). I segni
monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e
prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a
quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire
tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra
Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....
si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere
antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
LA CONQUISTA ROMANA
N el 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della
lontana e suprema Roma. Per la Sicilia si creano
le premesse per l'infame detto
ciceroniano: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia ebbe
l'ingrato compito di far gustare per prima ai Romani quanto fosse bello
soggiogare popoli stranieri. A distanza di un secolo e mezzo, Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto):
tutto ciò era per i romani - anche se, come Cicerone, erano chiamati a difesa
dei diritti conculcati da un tremendo Verre - nient'altro che «extera gens» [straniera.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette essere alquanto
decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i
riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti fra i parenti che si
erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro infestarono le campagne racalmutesi, con più che probabile
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane e vaghe
testimonianze archeologiche sono diffusamente noti in vari tempi della storia
locale da almeno tre secoli.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore
in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per
trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle
voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o
molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu
trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782:
esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione
latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di
Torremuzza, nel suo rinomato "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
½ ½RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale
quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma
amputandola del riferimento alla diota ed eludendo
ogni commento prosopografico.
Il Fusco del vaso fittile era un romano o in ogni caso un
cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote
fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura
dal fisco romano sino a tarda età, come
si evince dalle Verrine di Cicerone.
MINIERE RACALMUTESI AI TEMPI DEI ROMANI
Senza memoria trascorse per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano.
Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha traccia
alcuna per quel periodo. Solo, sul declinare dell'impero romano, sotto Commodo si registra una svolta
economica di grande risalto per Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni
vecchi ancor oggi ricordano, presero piede nel nostro territorio.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla. Nell'Ottocento,
dopo un buio millenario, si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili
alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri ribaltati dell'indicazione dello
stabilimento minerario. A parlarne per primo è il nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti
della specie regalati dalla famiglia La Mantia
all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo
Archeologico di Agrigento.
kaibel e mommsen ne fecero
oggetto di studio nei rispettivi Corpora, senza
però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il Salinas aveva modo di rinvenire
proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con
fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono
vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, presumibilmente
nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava
nel bollettino dell'Accademia dei Lincei
«Notizie degli scavi» (Anno
1900, pagg. 659-60).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze
dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie
certe su una presenza mineraria: risale all'inizio del Settecento una nota
negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le
miniere. In data del 20 ottobre del 1706 Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, periva sotto
una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. «In fovea salinae,
ob ruinam salis repentinam, defunctus
est», è la malinconica annotazione
in latino.
VISIGOTI E GOTI,
BIZANTINI E LATINI A RACALMUTO
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei
barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al
tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di
barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli.
Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel
445, portò i suoi Vandali a devastare anche il
territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte
dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel
456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze
vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino
alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il
possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del
‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a
questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di
Grotticelli e di Casalvecchio e costituirvi un
consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il
toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze
archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo
che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incasione araba,
allorchè appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella
disabitata contrada della Montagna portano in
effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II. Il primo risale al 641; il
secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso
nel 705.
Le tante e ricorrenti testimonianze archeologiche (lucerne,
condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad
arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va
dallo Judì al Caliato; dalle
Grotticelle a Casalvecchio e dintorni attengono alla
cultura bizantina, prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Dal
VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco
del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane
presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La
locale comunità fu di certo grecofona e quanto al rito religioso ebbe ad optare
per quello ortodosso.
RACALMUTO BIZANTINO
Biagio Pace accenna ad un ipogeo
cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto»
(cfr. B. Pace, Arte e Civiltà, vol
IV, pag. 174): una presenza cristiana del quinto o sesto secolo nel nostro
paese con tanto di chiesetta cimiteriale era notizia di acuto interesse
storico.
Ma l'eclatante affermazione poggiava su un malcerto passo del
nostro Tinebra Martorana, il seguente: «..alla
contrada Grutticeddi esiste un
poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in
quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di
ossa». Da qui all'ipogeo cristiano del V secolo ce ne corre. Una ipotesi
dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti
archeologici nei dintorni vanno sempre meglio precisando.
Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una
plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Confinavano con le
contrade di Bigini e Cometi e tutte
tre le contrade risultano feudi nei
capibrevi minori di Luca Barberi e tali appaiono nel primo abbozzo di una mappa
catastale di Racalmuto custodita presso l'Archivio di Stato di Agrigento. Per contro vi sono i feudi
maggiori di Gibellini e del castello chiaramontano di Racalmuto.
Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa
Gregorio nel VI secolo o alla chiesa
di Ravenna oppure costituire beni
propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici (cfr. V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981) oggi è pur congetturabile una sorta di
continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu
profonda ma non invalicabile.
In tale contesto pensiamo che, se non tutti e due i nostri
castelli medievali, almeno il Castelluccio (nella vecchia contrada di
Gibellini) può sorgere su un antico nucleo bizantino: il «frourion».
ARRIVA LA
CIVILTA’ ARABA
Con gli Arabi l’antica civiltà
racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la
tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è
totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze scritte, né
tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. Trattasi
della pagina più buia della storia locale: può dirsi una storia quasi
trisecolare completamente oscurata.
Di
certo sappiamo che caduta Agrigento attorno all’ 828 in mano
dei Musulmani, anche per il tradimento
del greco Eufemio, quella che dovette essere
la popolazione bizantina sparsa per il territorio di Racalmuto finì sotto il
dominio arabo. Di certo, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i
berberi, gente della famiglia
camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro
religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri
progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi,
di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che
dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non
avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il
loro modo di essere maomettani a quelli che quella ‘grazia’ non era stata
concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il
Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento,
per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo
mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due
popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti
archeologici delle zone del Giudeo risalgono proprio a quei
secoli arabi, anche se sono attestazioni cristiane o ebree; oppure appunto per questo.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini rimasero sul luogo al tempo
della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone
alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono
nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie
alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano.
Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria
della gezia, il soldo per mantenere il
culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i berberi, insediatisi da noi, introdussero sistemi di coltivazione degli
ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati
dall'Amari descrivono la coltura delle
cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale
Fontana. I secoli dal nono
all'undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto.
NORMANNI E
SARACENI
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se
seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il
Malaterra, nelle sue cronache coeve,
che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un
castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei
dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è
inquinato e non si è certi della correttezza di tutti i toponimi. Sia come sia,
Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto
Rahal... Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include
nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a
quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di
tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia
dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche
toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono
essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della
Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato
per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi
del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle
pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di
Napoli.
IL NOME DI
RACALMUTO
Certo
che per quanto buia sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il
toponimo.
Già
nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine
saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca
edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra
il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone, agrigentino ma del ceppo
dei Picone del nostro paese, reiterava una settecentesca derivazione da due termini arabi: Rahal (‘Villaggio’ e sin qui si
può consentire) e Maut (‘della Morte’ e qua invece cervelloticamente). Il
Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi
correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline
alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene
difficile per chicchessia procedere ora
alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre
Antonio Parisi: secondo il quale
sarebbe stato «...un Hamud [...] a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato
Kamud o Kamut [...] dava
Rakal-kamut ..». Di certo, con la sua indiscussa autorità, ci aveva pensato il
Garufi a dissolvere quel lugubre
di “Paese dei Morti”. Pwe quell’Autore, «… l'unica
e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di
fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si
ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S.
Margherita di Polizzi …. Sin dalle sue origini il
casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte
ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133
feb. ind. XIa ».
Va
detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata
recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista
contemporaneo, Giovan Battista
Pellegrini, si è data la briga di
riesaminare quell’etimologia e propende per Racalmuto quale ‘Paese del moggio’. Ciò perché la denominazione «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale
Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium
'Moggio' ». Qui almeno, niente più accenni mortuari che tornano indigesti.
Dipanata
in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui
si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione
berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi
immediatamente successivi alla caduta (25 luglio del 1087), come noi siamo
inclini a credere?
Insediatosi
Ruggero il Normanno, presso gli abitanti arabi
del territorio di Racalmuto permase l’uso di chiamarsi quelli del Casale di
Hamùd e, tardivamente, i notai e
gli uomini colti dell’agrigentino - preponderantemente, ebrei - finirono col recepire
quella dizione, che solo nel XIII secolo resta raffermata in “Racalmuto” o più
precisamente “Rachal-Chamut”, come più
dettagliatamente vedremo in seguito.
I NORMANNI A RACALMUTO
La
conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino,
nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e
prospero.
L’evanescenza
di un centro abitato a Racalmuto, dopo la conquista normanna, si protrae nel
tempo. Neppure, per i primi decenni del secolo XII, ai tempi del geografo
Edrisi, si ha la prova certa della
sua esistenza. Con molta buona volontà, potremmo sfruttare un passo dell’opera
di quel geografo e collegare una delle località da lui descritte, Gardutah, con
Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema
dialettale "Racarmutu"). Era
questo «un grosso casale e luogo popolato, con orti e molti alberi e terreni da
seminare ben coltivati. Il contesto ben si addice aò nostro centro. « Da Sciacca a Platano corrono diciassette miglia
- il fiume Platano vi scorre a levante. Da Platano [si va] a Gardutah [che sta]
a levante [....] A tramontana di Gardutah è Sutir (comune di Sutera) [...] Da Sutera a Gardutah
si contano nove miglia ..»
BORGO ARABO AL
TEMPO DEI NORMANNI
Del
tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata
Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal
1092 al 1282. Si suol dire che il
silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve
ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo
esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e
livelli agli ingordi canonici del capitolo della asfissiante cattedrale di San
Gerlando. Basta scorrerle, quelle
carte per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte
agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che
avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato,
consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di Santa Maria. Lo studio del 1961
dimostra intanto che trattavasi di posti collocabili presso Santa Margherita
I
racalmutesi a questa tradizione tengono come si evince dai cartelli
pubblicitari che tuttora si ostentano. Si continui pure nelle credenze,
purché in definitiva si sappia che la chiesa
di Santa Maria sorse in un periodo almeno
di due secoli posteriore alla pretesa
data della sua fondazione: forse si può risalire al 1308 se accreditiamo in tal
senso un documento vaticano delle decime avignonesi.
Racalmuto
- nullo o pressoché inesistente sotto Ruggero il Normanno, tanto che non vi si
appuntarono in un primo momento gli appetiti tassaioli dei canonici agrigentini
- poté sorgere, attorno alla metà del XII secolo, sotto la spinta di un
signorotto transalpino del tipo del Malconvenant o per spinta di monaci
dell’ordine dei benedettini, come siamo più propensi a credere. Villani o
schiavi risultarono certi arabi, più o meno importati; padroni erano invece stranieri
non residenti o abbazie.
GLI ESORDI
FEUDALI DI RACALMUTO
Dissolto il falso di una
chiesetta eretta nel 1108, svanisce anche la credenza
di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni
possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe
attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie
parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile;
sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente
una notizia del Fazello e nell’altro concessa una
qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino -
autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e,
sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei
Del Carretto, ci informa che il primo
signore di Racalmuto ( o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica)
fu tal Federico Musca, forse appartenente alla
grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca
tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel
1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro
Nigrello di Belmonte. I Vespri Siciliani ci
mostrano un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è
costretto a nominare dei Sindaci fra le persone
più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito
giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a
sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i
suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse
gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once. Il Bresc ne desume una popolazione
di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti.
Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est Bajulo Judicibus et universis
hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor», cioè
Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con
un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si
trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti
probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con
perizia di antica tradizione. Non erano più villani
dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino
furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere
prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel
castello di Guastanella fino a quando non ebbe
pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro. Federico II ristabilì l’ordine
confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il
risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto
di manodopera contadina. Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di
Federico II verso la chiesa agrigentina
che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I
danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami
imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il
vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di
sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli
ebrei e quelli della tintoria di
Agrigento.
FEDERICO II
CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I
Chiaramonte si sono impossessati di
Racalmuto all’inizio del secolo XIII.
Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia
- aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio,
l’attuale fortezza, forse una, forse
tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et
castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310
costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle
pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni
infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia
ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio
omertoso, sia pure in tema di verità storica?
Nel
1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. Fu l’artefice della sconcertante condanna a
morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere
la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse
tornato utile.
Ne
approfittò Matteo del Carretto per farsi riconoscere il
titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento.
L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente
inverato dagli storici. All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di
quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di
Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di
averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante
colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e
pare che abbia lasciato i suoi beni agli eredi del suo fratellastro Antonio del
Carretto. Antonio del Carretto iunior frattanto si era trasferito a
Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età
alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto.
Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna
comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il riconoscimento della
baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un
negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne
sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di
acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito
conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta
Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio
racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le
nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^
Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto”.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV
SECOLO
Il
secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a
Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di
quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato
alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni
del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il
contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo
feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio degli Agliata.
Attorno
alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene
ratificata l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è
l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di
Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di
Palermo. In un documento del 7
luglio 1474, Ind. VII vengono narrate le
circostanze raccapriccianti del crimine.
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della “venuta” della Madonna del Monte. Dominava il barone (non
certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da
fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto
proprio a Racalmuto per meglio investigare
sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a
dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero
barone Ercole Del Carretto. Gli
contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è
costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la
corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe:
traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa.
In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di
religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della
Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra
su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto
preesisteva.
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