IL GUERCINO è di CENTO e Cento è nobilissima cittadina romagnola ove fioriscono fanciulle che ti stritolano di amore.
Guercino
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Giovanni Francesco Barbieri, soprannominato il Guercino (Cento, 2 febbraio 1591 – Bologna, 22 dicembre 1666), è stato un pittore italiano.
Il soprannome di Guercino dovette essergli aggiunto molto presto, se è vero quel che narra lo stesso biografo, raccogliendo la tradizione, che «essendo ancora in fasce, occorse che un giorno, mentre egli dormiva [ ... ] ci fu chi vicino a lui proruppe d'improvviso in grido così smoderato e strano che il fanciullo, svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi [ ... ] per siffatta guisa, che la pupilla dell'occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare»[4] Naturalmente, il suo strabismo non fu certamente provocato da questo presunto episodio: piuttosto, il suo difetto può avere influenzato la sua resa pittorica delle forme nello spazio.
Mostrò a sei anni una particolare inclinazione per il disegno e a otto anni, «senza avere avuto maestro alcuno, e soltanto sulla scorta d'una immagine in stampa, egli dipinse una «Madonna di Reggio» sulla facciata della casa dove abitava»[5] che si poté vedere fino a quando, due secoli dopo, la casa fu demolita. Assecondando le tendenze del figlio, il padre lo mandò a studiare, verso il 1600, nel vicino paese di Bastia, da un modesto artista, chiamato Bartolomeo Bertozzi,[6] che «dipingeva a guazzo», nella cui casa si stabilì per alcuni mesi, potendovi apprendere, commentano i biografi, solo la conoscenza e la mescolanza dei colori.
Considerando che il figliolo mostrava un talento che tuttavia occorreva educare e rafforzare, nel 1607 il padre lo affidò a un «pittore tollerabile»[7] di Cento, Benedetto Gennari senior ( ... -1610), che lo tenne con sé, corrispondendogli anche «annualmente certa poca moneta come per regalo»[8] affidandolo poi, verso il 1609, per maggiore e migliore istruzione, a Bologna, prima «a dozzina per una soma di grano e una castellata di vino, in casa di Paolo Zagnoni, pittore di poca levata»[9] e poi da Giovan Battista Cremonini, «pittore di qualche merito e veloce e pratico nel dipignere, massime a fresco, e prestamente ancora insegnava a' scolari, onde il nostro Barbieri molto profittò in breve tempo».[8]
Il soggiorno bolognese fu tanto più proficuo in quanto permise al giovane apprendista di studiare le opere di valore lì conservate e, fra le moderne, quelle dei Carracci. Egli stesso dirà anni dopo di aver tratto profitto dallo studio della Conversione di Paolo di Ludovico Carracci, allora nella chiesa di San Francesco, e d'un'altra sua tela, una Madonna con Bambino e santi, allora conservata nella chiesa dei Cappuccini a Cento, che l'adolescente Guercino chiamava «la sua Carraccina», ossia «la sua cara zinna»,[10] dalla quale avrebbe tratto il latte dell'arte, e non si stancava di osservare, arrampicandosi su una scala per studiarla da vicino.[11]
Un altro biografo del tempo, lo Scannelli, afferma anche che già allora il Guercino si presentò a Ludovico mostrandogli i suoi disegni e ricevendo da lui parole d'incoraggiamento.[12] È invece da escludere che abbia conosciuto Annibale e Agostino Carracci, da tempo trasferiti a Roma.
Il Lanzi, infine, vede la maniera giovanile del Guercino come «piena di fortissime ombre con lumi assai vivi, meno studiata ne' volti e nell'estremità, di carni che tirano al gialliccio, e in tutto il resto men vaga di colorito; maniera, che lontanamente somiglia la caravaggesca: di essa non pur Cento, ma Bologna ancora ha qualche saggio nel San Guglielmo».[14]
Al Caravaggio giustamente i biografi accostano più o meno strettamente Guercino per il suo rifarsi al vero, ma non va associato nell'uso dei contrasti di luce, che in Caravaggio sono un mezzo per dare risalto alla plasticità della forma, mentre nel Guercino la ricerca luministica è fine a sé stessa, mira cioè a raggiungere effetti puramente luministici.[15] La gran macchia, il chiaroscuro, «protesta questo intento antiplastico a favore di una scoperta esaltazione coloristica che, nei confronti delle intenzioni caravaggesche, non avrebbe potuto riuscire più antitetica»: il luminismo di Guercino «non è mai proteso alla rivelazione di una realtà che nel Merisi assume le intonazioni più crude e drammatiche».[16]
Nel 1612 venne da Bologna a Cento il futuro presidente del locale monastero dello Spirito Santo, il canonico Antonio Mirandola, appassionato d'arte, che favorì il giovane pittore facendogli conoscere i disegni a carboncino del pittore Pietro Faccini (1562-1602), allievo dei Carracci, che egli terrà presente nei suoi progetti, e soprattutto procurandogli le prime commissioni: fu così che il Guercino dipinse (ca 1612) i Due angeli col sudario e il San Carlo Borromeo della chiesa di Santa Maria Addolorata, gli affreschi del Padreterno e dell'Annunciazione per quella dello Spirito Santo (1613), le tre pale della parrocchiale di Renazzo di Cento (1614-1616), comprendenti la Madonna con i santi Pancrazio e una santa monaca (forse Santa Chiara), la Madonna in trono con i santi Francesco, Antonio abate e Bovo e Il miracolo di San Carlo Borromeo. Di quest'ultima notarono giustamente lo Scannelli[17] e il Calvi «con quanto studio il nostro Giovan Francesco seguisse le tracce di Lodovico Carracci».[18] E si è rilevato altresì[19] come l'illuminazione artificiale e l'atmosfera familiare del dipinto siano state influenzate da una pala di Lavinia Fontana del 1590, la Natività della Vergine, allora nella chiesa bolognese di San Biagio, che dunque Guercino poté conoscere bene.
Nei chiaroscuri della casa Provenzale (1614) «sempre maggiormente si scorge quanto il Barbieri avesse studiato sopra le opere del suddetto Lodovico, perché questi termini son fatti a imitazione di que' celebri del Carracci nella casa Favi di Bologna»,[18] ma un discorso a parte meritano i paesaggi della casa Pannini (1615-1617) il Guercino trova una voce del tutto personale: senza riferimenti di scuola, libero da condizionamenti d'accademia, la sua libertà di rappresentazione lo porta a manifestare il suo amore per la natura e per la vita dei campi, il piacere di osservare scene quotidiane con freschezza e sobrietà, come mostrano La mietitura, Una strada di Cento, Ragazzi che giocano davanti alla Chiesa di S. Biagio in Cento, La rozza, il Paesaggio con biancheria al sole; un gusto che si trova, più costruito, anche nelle tele del «meraviglioso»[20] Paesaggio al chiaro di luna con carrozza di Stoccolma o dello «squisito»[21] Paesaggio con donne bagnanti di Rotterdam. Che gli dovesse essere agevole il risultato lo testimonia anche il Passeri,[22] dove scrive che nelle rappresentazioni paesaggistiche gli erano «di gran giovamento le contigue campagne e siti rusticani della sua terra nativa, dove dimorò gran tempo».
Per il canonico Mirandola dipinse nel 1615 Quattro evangelisti, ora nella Pinacoteca di Dresda, tre dei quali, portati dal Mirandola a Bologna, furono notati dall'arcivescovo Alessandro Ludovisi - pochi anni dopo, il 9 febbraio 1621, sarà papa con il nome di Gregorio XV - che volle conoscere l'autore e li acquistò, dietro consulenza di Ludovico Carracci, per la discreta somma di venticinque scudi l'uno. Ludovico Carracci non si limitò a questo: il 25 ottobre 1617 il pittore scrisse a don Ferrante Carli di Parma[23] elogiando il Guercino come «gran disegnatore e felicissimo coloritore: è mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere. Non dico nulla: ei fa rimaner stupidi li primi pittori».
Ormai il Guercino aveva fama di maestro e prese l'iniziativa, nel 1617, di fondare una scuola di pittura a Cento: l'amico Bartolomeo Fabbri gli mise a disposizione due stanze e qui convennero «da Bologna, da Ferrara, da Modena, da Rimini, da Reggio e sin dalla Francia molti giovani [ ... ] di ventitré scolari ch'egli ebbe su quel principio, nessuno poté dire d'essere meno amato dell'altro [ ... ] e suoi familiarissimi ospiti in Cento si erano i marchesi Enzio e Cornelio Bentivoglio».[24] Fu quella la sua Accademia del nudo, celebre al tempo finché egli visse a Cento, ove il Guercino disegnava generalmente «l'ignudo col carbone, in carta leggermente tinta, e così grandioso il facea e così facile, con una macchia in cui percotendo il riflesso della luce, risaltavano li principali oscuri, e con pochi risoluti lumi di gesso o di biacca».[25]
Nel 1618 il Guercino accompagnò a Venezia, su suggerimento del Mirandola e munito di una raccolta di suoi disegni, un canonico centese, tal Pietro Martire Pederzani, il quale li mostrò al noto artista Jacopo Palma il giovane, affinché desse un giudizio sulle possibilità di quel giovane pittore desideroso di migliorarsi nella sua arte: si racconta che il pittore veneziano esprimesse la propria ammirazione dicendo che «molto più di me sa questo principiante»,[26] e lo accompagnasse poi per Venezia mostrandogli i dipinti dei migliori artisti.
La conoscenza dell'ultima pittura veneziana - di Tiziano e di Jacopo Bassano in particolare - lo confermò nella sua vocazione alla sensibilità cromatica, che mise in opera nel 1620 nella Vestizione di san Guglielmo d'Aquitania, dipinto per la chiesa bolognese di San Gregorio e ora nella Pinacoteca di Bologna, dove «tutto ha un carattere grande e maestrevole, le tinte non possono essere meglio compartite e quello che si chiama gusto di macchia è portato al sommo grado; brillano i lumi in mezzo a quella freschezza d'impasto e pochi principali scuri ben locati accrescono al dipinto una forza e un rilievo che incanta».[27] Il Marangoni lo considera il suo capolavoro per «la sua calda atmosfera come sparsa in un pulviscolo dorato e luminoso che bagna e sommerge le cose, rendendo ariose le ombre più dense con un risultato più unico che raro e che ci mostra il Guercino come uno dei maggiori e più originali maestri del rinnovamento luministico».[28]
Caratteristica di questa e di opere successive è la costruzione della composizione le cui linee vitali formano un rombo nel quale si racchiude il nucleo della rappresentazione - nel San Guglielmo i vertici della losanga si collocano nelle teste della Vergine, del vescovo, del monaco e nel ginocchio del santo - una scelta che dà vivacità alla composizione, contrapponendosi alla «ferma freddezza del rettangolo della tela»[29]
Così è nel contemporaneo San Francesco in estasi con san Benedetto e un angelo, dipinto per la chiesa di San Pietro a Cento e ora al Louvre, ove alla composizione romboidale si aggiunge anche il movimento a spirale del corpo di Francesco, «come quello di un serpente che viene affascinato»[30] dalla musica dell'angelo incantatore. Questa «eccezionale pittura»,[31] più volte replicata dal Guercino, fu ammiratissima nel XVIII secolo: Giuseppe Maria Crespi la incluse nello sfondo del suo Autoritratto, conservato nel Wadsworth Museum di Hartford.
Il nipote di papa Gregorio, il cardinale Ludovico Ludovisi, gli affidò la decorazione del Casino Del Monte, un villino appena acquistato, insieme con l'ampia vigna che gli si stendeva intorno, dal cardinale Francesco Maria Del Monte, che assumerà pertanto il nome di Casino Ludovisi.
Con l'assistenza di Agostino Tassi, che vi affrescò le quadrature architettoniche, il Guercino dipinse a secco sulla volta della sala centrale al pianterreno del Casino l'Aurora, rappresentata come giovane dea su un carro tirato da due cavalli, davanti ai quali fugge la Notte mentre un genio in volo incorona Aurora di fiori e un altro, sul carro, sparge fiori tutt'intorno; da una parte, sul letto, è il vecchio marito Titone; in alto, tre giovani donne raffigurano altrettante stelle, una delle quali versa rugiada da un'urna.
«La cosa più mirabile e veramente nuova in questa Aurora sono i due focosi cavalli, non tanto per l'audacia dello scorcio che li rende così dinamici, quanto per l'acuto senso moderno del bianco e nero e per la giustezza dei valori tonali. Felicissima è l'idea di aver sfruttato il pezzato del mantello dei cavalli giocando di bella audacia nell'avvicinare e confondere i capricciosi contorni delle macchie scure del mantello con quelli delle ombre, traendone un risultato di novità ed evidenza: così sicuro è il senso luministico del nostro pittore».[32]
L'esame iconografico del dipinto rivelerebbe[33] l'intenzione non tanto di rappresentare semplicemente il sorgere di un qualunque nuovo giorno, ma l'alba di una nuova era di gloria per la famiglia Ludovisi, intento riaffermato anche nell'affresco della Fama, che decora la volta della sala del piano superiore del Casino.
L'opera equivarrebbe anche a una sfida dei Ludovisi rivolta alla potente famiglia Borghese, che pochi anni prima aveva commissionato al Reni il medesimo tema nell'affresco del loro Casino (ora Rospigliosi-Pallavicini), finendo tuttavia per rappresentare, in campo artistico, un motivo di confronto del Guercino con il pittore bolognese: «Guercino fece conoscere la sua individualità e il suo ingegno evitando la ripetizione della composizione e dello stile di Guido. In netto contrasto con il soave classicismo del Reni e i suoi colori delicati, Guercino tratta il tema in modo campestre, pieno di paesaggio e animali dipinti in toni ricchi e ombreggiati».[34]
Mentre il Reni si muove nel solco della tradizione del classicismo romano, consentanea al suo estro controllato e diffidente di novità formali, Guercino unisce alla sua nativa e spontanea freschezza creativa - il putto accoccolato sul carro e gli altri che giocano sulle cime dei cipressi - le soluzioni prospettiche del Veronese osservate a Venezia - le sue inquadrature architettoniche fortemente scorciate godranno di grande fortuna per più di un secolo - senza rinunciare all'effusione poetica della meditazione lirica nella lunetta della Notte.
Ancora il Calvi scrive infatti che «fosse che in quest'opera l'impegno e l'emulazione gli aggiungesse stimolo o che traesse lume dalla vista di tante egregie pitture che adornano Roma, parve che il Guercino s'innalzasse sovra se stesso e studiasse di rendere ancor più pregevole e sorprendente il proprio stile dacché, oltre il giudizioso ritrovamento e la grandiosità delle parti ottimamente disposte, oltre l'aggiustato disegno e il contrasto delle ombre e dei lumi, espresse con maggior precisione le teste e l'estremità, le colorì con vivo e morbido impasto di vera carne e diede tanta armonia e tanta altezza alle tinte, che per la forza e per lo rilievo pare non potersi andare più oltre; e questa è quella che alcuni chiamano sua seconda maniera, la quale gli meritò da' forestieri dilettanti il titolo di Mago della Pittura italiana».[35]
Proprio quelli che apparivano i migliori pregi dell'opera sono modernamente soggetti a critica: i valori accademici di correttezza e precisione sono visti espressione di minore sincerità e originalità. Il Guercino conserva la sua caratteristica composizione a losanga «ma il nesso del quadro è già più slegato, più sovraccarico, meno necessario che nelle tele precedenti, il partito luminoso ha perso la trasparenza del San Guglielmo o il senso del bianco e nero dell'Aurora per appesantirsi nello sfumato; tutto si è aggravato, dalle architetture alle ali degli angeli, alla tavolozza che non è più tonale ma cromatica, con quelle sue ricchezze vistose. Il Guercino ha perduto qui il suo buon gusto misurato [ ... ]».[36]
Pochi altri dipinti eseguì in Roma: una grande tela nel soffitto di San Crisogono a Trastevere su commissione del cardinale Scipione Borghese - ora a Londra - e la Maddalena - che si trovava nella chiesa, non più esistente, di Santa Maria Maddalena delle Convertite, al Corso - ora nei musei Vaticani. Di quest'ultimo si conserva un bel dipinto inedito a Bologna in collezione privata, probabilmente preparatorio secondo Andrea Emiliani e Sir Denis Mahon. Con la morte, avvenuta l'8 luglio 1623, del papa Gregorio XV - del quale si conserva il ritratto del Guercino - viene meno la possibilità di eseguire la progettata grande decorazione in San Pietro, per la quale erano stati promessi al pittore ben 22.000 scudi, e il Guercino alla fine del mese prese la via del ritorno a Cento.
I suoi primi dipinti di questo nuovo periodo sono l'Assunta dipinta per il conte Alessandro Tanari di Bologna - ora nel Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo - la Presentazione di Gesù al Tempio di Londra, dove ai forti contrasti di colore dei dipinti della prima maniera succede ora un'illuminazione uniforme e un rigore di composizione nello stile del raffaellismo romano del Domenichino e la Crocefissione della Madonna della Ghiara di Reggio Emilia, avvicinandosi allo stile classicamente composto di Guido Reni.
Chiamato il 12 maggio del 1626 dal vescovo di Piacenza a continuare gli affreschi della cupola del Duomo rimasti interrotti per la morte del Morazzone, concluse l'opera nel 1627: nel catino della cupola, diviso in otto comparti, aggiunse ai due del Morazzone altri sei Profeti, decorando le lunette sottostanti le vele con scene del Nuovo Testamento e sotto queste, un fregio di putti: le difficoltà tecniche di dover dipingere rapidamente in affresco e in forte scorcio furono da lui superate utilizzando numerosi e meticolosi disegni, guadagnandosi la lode dello storico Lanzi - «avanzò tutte le altre e se stesso» -[38] mentre anche il Marangoni, rilevato come «il Guercino non può dimenticarsi di Roma», ammette che «tutto sommato se la cava assai bene», anche se sostiene che rappresentano «gli ultimi lampeggiamenti di una fiamma che sta per spegnersi».[39]
Di ritorno a Cento, vi dipinse dal 1628 per l'Oratorio del Nome di Dio quel Cristo che appare alla Madonna, ora nella Pinacoteca civica, che fu lodatissima dai crici di un tempo: l'Algarotti affermò di non aver mai veduto due figure che meglio campeggino in un quadro, né «il lume serrato e la macchia guercinesca» adattarsi qui meglio che in altri suoi dipinti, mentre il Calvi vi trova «un non so che di più accurato nel disegno, certa miglior scelta di panneggiamenti e d'arie di teste espressive e belle, molto finimento condotto con amore, oltre la solita altezza e soavità di tinte ed il sommo rilievo delle figure».[40]
Ma altri vedono in quel finimento, panneggiamento e rilievo, proprio il limite che irrigidisce e appesantisce l'altrimenti felice scelta della costruzione piramidale delle due figure. Aperto è nel dipinto il riferimento al colorismo e al classicismo del Reni: «lo stile del drappeggio del Guercino e il comportamento delle sue figure gareggiano con le armoniose coreografie, quasi da balletto, che si trovano in pitture del Reni [ ... ] I motivi astratti dei panneggi e l'insistente geometria della composizione [ ... ] segnalano la fine del periodo di transizione del Guercino e l'inizio di un autentico e innovativo classicismo barocco».[41]
Dopo aver affrescato il soffitto di una sala del palazzo Sampieri-Talon di Bologna con un Ercole e Anteo, ricevette dalla regina Maria di Francia, tramite il cardinale Bernardino Spada, la commissione della Morte di Didone, che non andò a buon fine ma il dipinto fu acquistato dallo stesso cardinale. «Vedesi l'abbandonata amante che, stesa bocconi sul rogo, si è trapassato il petto con la spada del Trojano, ed a gran pena si sostiene tenendo le mani appoggiate al rogo medesimo; accorre a così atroce spettacolo la sorella Anna, con alcune damigelle costernate e dolenti, tra cortigiani e guardie, e scopresi in lontananza il porto di Cartagine e le fuggenti vele di Enea, col popolo che s'affolla inutilmente alla spiaggia, mentre vola per aria un amorino che come fuggitivo anch'egli s'allontana; tutto è insomma con saggio avvedimento disposto, se non che per bizzarro capriccio v'ha dipinto in prima veduta un giovine vestito come alla spagnuola, che sembra un ritratto e che accenna con la mano Didone».[43]
Lo storico evidenziava il grave difetto della mancanza di sincerità nell'opera: assistendo a una così grande tragedia, non si può mettere in posa un personaggio che si disinteressa di quanto succede; aggiunge tuttavia che il Reni avrebbe portato questa tela ad esempio dei suoi allievi, mostrando loro come si debbano utilizzare i colori. Il Marangoni vi vede invece «la caricatura del Guercino di bella memoria; nessun senso compositivo, figure che non stanno in piedi e che non pesano, un agitar scomposto di mani aperte; panneggi casuali lumeggiati a caso, assenza di convinzione e sensibilità luministica, e una meticolosità gretta e puerile nel perdersi intorno ai gioielli, ai ricami, ai particolari più insignificanti che sarà una delle brutte abitudini dell'ultima maniera del pittore».[44]
Nel 1633, quando aveva compiuto 42 anni, certi suoi amici cercarono di persuaderlo a prender moglie ma non ci fu verso: il Guercino sembra esser stato tutto inteso al lavoro e desideroso di mantenersi «per tutta la vita disciolto e in libertà».[45] Rifiutò nuovamente il pur allettante invito rivoltogli da Luigi XIII di trasferirsi in Francia, come declinò anche un ulteriore invito a recarsi in Inghilterra.
Come aveva definitivamente scelto di restare celibe e di rimanere in Italia, così aveva ormai stabilito le proprie scelte pittoriche: «il centese Artefice studiava moderare in parte e secondo l'opportunità, quella fierezza di macchia tanto altrui gradita, e ciò era sua elezione e non decadimento o mancanza di vigore e di foco; avanzando con gli anni in esperienza ed in senno, ha sovente, senza cangiar stile, temperata la primiera forza del colore, e più si è accostato alla vaghezza, e con più scelta di parti la bella e semplice Natura ha saputo imitare».[31]
Secondo il neoclassico Calvi, evidentemente, l'imitazione della natura si ottiene attraverso l'accademismo e nella «semplice natura» si ritrova l'intellettualistico «bello ideale». In realtà, Guercino rincorreva la maniera del Reni e la sua clientela: infatti, morto quest'ultimo a Bologna l'8 agosto 1642, Guercino vi si trasferì da Cento non avendo più «a temere il confronto di un così eccellente e celebrato compositore».[46]
Guido Reni aveva lasciato incompiuta una grande tela con un San Bruno destinata ai monaci della Certosa di Bologna. Il Guercino rifiutò la richiesta di completarla, proponendo loro un'opera tutta di sua mano. Dipinse così nel 1647 La visione di san Bruno, «una delle più vigorose ed emozionanti pale d'altare del periodo tardo»,[47] nel quale il santo, nella solitudine del deserto, ha la visione della Madonna con il Bambino, mentre un suo compagno, poco lontano, medita su un libro: celebrato per «forza e vaghezza di colore», il santo «spira nel volto un vivo affetto, ed è di carnagione adusta, qual si conviene ad uno che trovasi sovente esposto all'ardore del sole, ove al contrario il Bambino e la Vergine scorgonsi di fresca e morbida carne coloriti».[48]
Secondo la critica antiaccademica, invece, nell'opera sono «bei volti e belle membra modellati a carezze, mosse graziose e ben educate, panneggi da vetrina e, quanto al chiaroscuro, ripudiato tra i falli di gioventù ogni ricordo dell'ombreggiare strepitoso d'un tempo, quel tanto che non dia ai nervi dei placidi parrocchiani, tutte persone ammodo, abituate al miele rosato di Guido Reni». Benché ben drammaticamente rappresentato e superiore pittoricamente a ogni altra figura, lo stesso santo «ha panneggi senza ritmo sentito né stile e quel che è peggio, la sua figura non armonizza né lega colle altre parti del quadro. Abbiamo già qui il fatto, che vedremo via via aggraversi, di due quadri distinti uno sopra all'altro, forzatamente uniti dal soggetto ma che pittoricamente si ignorano e si nocciono a vicenda».[49]
Nel 1649 morì il fratello Paolo Antonio: il duca di Modena Francesco I d'Este invitò il Guercino nel suo Palazzo di Sassuolo per un breve periodo di riposo e di svago che gli facesse superare la depressione. Nella casa-studio di Bologna andarono a vivere la sorella Lucia e il cognato pittore Ercole Gennari, che subentrò a tutti gli effetti allo scomparso Paolo Antonio, collaborando con il Guercino e occupandosi dei suoi affari. Il nostro pittore, d'altra parte, pur continuando a soddisfare le numerose richieste di lavoro, teneva anche scuola nel suo studio ed era anche uno dei quattro direttori, insieme con Francesco Albani, Alessandro Tiarini e Michele Desubleo, della Scuola di nudo fondata nel suo palazzo dal conte Ettore Ghisilieri.
A questo periodo, intorno all'anno 1654, va ascritto il celebre San Giovanni Battista che predica, oggi conservato alla Pinacoteca civica di Forlì, le cui qualità pittoriche ne fanno "un pezzo di notevole suggestività"[50].
Nel novembre 1661 si riprese da un infarto: la sua attività, come mostra il Libro dei conti, ebbe un notevole rallentamento. L'«11 di dicembre 1666 fu sorpreso da nuovo e grave malore a cui non poté troversi rimedio, e giunto alli 22 dello stesso mese dovette soccombere al comun destino, ed incontrollo con rassegnata ilarità e tutto a Dio rivolto».[51] L'atto di morte fu redatto nella chiesa bolognese di San Salvatore: «Addì, 24 dicembre 1666. Il Sig. Gio. Francesco Barbieri Pittore famosissimo, uomo religiosissimo d'anni 74, dopo aver ricevuto li santissimi Sacramenti, rese l'anima al Creatore. Fu sepolto in nostra Chiesa nella sepoltura di mezzo, essendogli state celebrate solennissime esequie».[52]
Indice
[nascondi]Biografia[modifica | modifica wikitesto]
La formazione artistica[modifica | modifica wikitesto]
Giovanni Francesco nacque a Cento, paese allora appartenente al Ducato di Ferrara, da Andrea Barbieri ed Elena Ghisellini, una nobile famiglia di modesta condizione che abitava a pigione «in una piccola casa fuori di Cento, non lontana che pochi passi dalla Porta detta della Chiusa».[1] Si disse a lungo che fosse nato il 2 febbraio 1590, finché il pittore e letterato Jacopo Alessandro Calvi non scoprì, nella Collegiata di San Biagio, a Cento, l'atto di battesimo redatto l'8 febbraio 1591: «Zan. Franc. Fig. de Andrea Barbiero, et Lena Ghisellina fu battez. a dì detto 8. Comp. M. Alex. Redolfini, et la Com. Alda Dottoni».[2] È allora probabile che la sua data di nascita fosse proprio il 2 febbraio, essendo stato una banale svista l'indicazione dell'anno.[3]Il soprannome di Guercino dovette essergli aggiunto molto presto, se è vero quel che narra lo stesso biografo, raccogliendo la tradizione, che «essendo ancora in fasce, occorse che un giorno, mentre egli dormiva [ ... ] ci fu chi vicino a lui proruppe d'improvviso in grido così smoderato e strano che il fanciullo, svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi [ ... ] per siffatta guisa, che la pupilla dell'occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare»[4] Naturalmente, il suo strabismo non fu certamente provocato da questo presunto episodio: piuttosto, il suo difetto può avere influenzato la sua resa pittorica delle forme nello spazio.
Mostrò a sei anni una particolare inclinazione per il disegno e a otto anni, «senza avere avuto maestro alcuno, e soltanto sulla scorta d'una immagine in stampa, egli dipinse una «Madonna di Reggio» sulla facciata della casa dove abitava»[5] che si poté vedere fino a quando, due secoli dopo, la casa fu demolita. Assecondando le tendenze del figlio, il padre lo mandò a studiare, verso il 1600, nel vicino paese di Bastia, da un modesto artista, chiamato Bartolomeo Bertozzi,[6] che «dipingeva a guazzo», nella cui casa si stabilì per alcuni mesi, potendovi apprendere, commentano i biografi, solo la conoscenza e la mescolanza dei colori.
Considerando che il figliolo mostrava un talento che tuttavia occorreva educare e rafforzare, nel 1607 il padre lo affidò a un «pittore tollerabile»[7] di Cento, Benedetto Gennari senior ( ... -1610), che lo tenne con sé, corrispondendogli anche «annualmente certa poca moneta come per regalo»[8] affidandolo poi, verso il 1609, per maggiore e migliore istruzione, a Bologna, prima «a dozzina per una soma di grano e una castellata di vino, in casa di Paolo Zagnoni, pittore di poca levata»[9] e poi da Giovan Battista Cremonini, «pittore di qualche merito e veloce e pratico nel dipignere, massime a fresco, e prestamente ancora insegnava a' scolari, onde il nostro Barbieri molto profittò in breve tempo».[8]
Il soggiorno bolognese fu tanto più proficuo in quanto permise al giovane apprendista di studiare le opere di valore lì conservate e, fra le moderne, quelle dei Carracci. Egli stesso dirà anni dopo di aver tratto profitto dallo studio della Conversione di Paolo di Ludovico Carracci, allora nella chiesa di San Francesco, e d'un'altra sua tela, una Madonna con Bambino e santi, allora conservata nella chiesa dei Cappuccini a Cento, che l'adolescente Guercino chiamava «la sua Carraccina», ossia «la sua cara zinna»,[10] dalla quale avrebbe tratto il latte dell'arte, e non si stancava di osservare, arrampicandosi su una scala per studiarla da vicino.[11]
Un altro biografo del tempo, lo Scannelli, afferma anche che già allora il Guercino si presentò a Ludovico mostrandogli i suoi disegni e ricevendo da lui parole d'incoraggiamento.[12] È invece da escludere che abbia conosciuto Annibale e Agostino Carracci, da tempo trasferiti a Roma.
La «prima maniera»[modifica | modifica wikitesto]
Rilevò già il Calvi[13] la lontananza del giovanissimo pittore dal «vecchio stile», ossia dalla pittura manierista dei Procaccini, dei Fontana e dei Samacchini i quali spesso, «volendo correggere la natura, la deformano e la guastano» e come nelle sue prime opere, Guercino fosse «tutto fondato sul naturale, dal quale religiosamente copiava ogni cosa nella sua stessa rozzezza e semplicità; prendeva il lume assai d'alto per ottenere l'effetto d'una gran macchia ch'egli sapeva dolcemente accordare, e pareano le sue cose dipinte a chiaroscuro anziché no; ma dall'uso di ritrarre del continuo il vero, prese poco a poco tal padronanza e tale ardimento di colore, che quasi un altro Caravaggio a tutti diede nell'occhio, e venne meritamente ad incontrare l'universale approvazione».Il Lanzi, infine, vede la maniera giovanile del Guercino come «piena di fortissime ombre con lumi assai vivi, meno studiata ne' volti e nell'estremità, di carni che tirano al gialliccio, e in tutto il resto men vaga di colorito; maniera, che lontanamente somiglia la caravaggesca: di essa non pur Cento, ma Bologna ancora ha qualche saggio nel San Guglielmo».[14]
Al Caravaggio giustamente i biografi accostano più o meno strettamente Guercino per il suo rifarsi al vero, ma non va associato nell'uso dei contrasti di luce, che in Caravaggio sono un mezzo per dare risalto alla plasticità della forma, mentre nel Guercino la ricerca luministica è fine a sé stessa, mira cioè a raggiungere effetti puramente luministici.[15] La gran macchia, il chiaroscuro, «protesta questo intento antiplastico a favore di una scoperta esaltazione coloristica che, nei confronti delle intenzioni caravaggesche, non avrebbe potuto riuscire più antitetica»: il luminismo di Guercino «non è mai proteso alla rivelazione di una realtà che nel Merisi assume le intonazioni più crude e drammatiche».[16]
Nel 1612 venne da Bologna a Cento il futuro presidente del locale monastero dello Spirito Santo, il canonico Antonio Mirandola, appassionato d'arte, che favorì il giovane pittore facendogli conoscere i disegni a carboncino del pittore Pietro Faccini (1562-1602), allievo dei Carracci, che egli terrà presente nei suoi progetti, e soprattutto procurandogli le prime commissioni: fu così che il Guercino dipinse (ca 1612) i Due angeli col sudario e il San Carlo Borromeo della chiesa di Santa Maria Addolorata, gli affreschi del Padreterno e dell'Annunciazione per quella dello Spirito Santo (1613), le tre pale della parrocchiale di Renazzo di Cento (1614-1616), comprendenti la Madonna con i santi Pancrazio e una santa monaca (forse Santa Chiara), la Madonna in trono con i santi Francesco, Antonio abate e Bovo e Il miracolo di San Carlo Borromeo. Di quest'ultima notarono giustamente lo Scannelli[17] e il Calvi «con quanto studio il nostro Giovan Francesco seguisse le tracce di Lodovico Carracci».[18] E si è rilevato altresì[19] come l'illuminazione artificiale e l'atmosfera familiare del dipinto siano state influenzate da una pala di Lavinia Fontana del 1590, la Natività della Vergine, allora nella chiesa bolognese di San Biagio, che dunque Guercino poté conoscere bene.
Nei chiaroscuri della casa Provenzale (1614) «sempre maggiormente si scorge quanto il Barbieri avesse studiato sopra le opere del suddetto Lodovico, perché questi termini son fatti a imitazione di que' celebri del Carracci nella casa Favi di Bologna»,[18] ma un discorso a parte meritano i paesaggi della casa Pannini (1615-1617) il Guercino trova una voce del tutto personale: senza riferimenti di scuola, libero da condizionamenti d'accademia, la sua libertà di rappresentazione lo porta a manifestare il suo amore per la natura e per la vita dei campi, il piacere di osservare scene quotidiane con freschezza e sobrietà, come mostrano La mietitura, Una strada di Cento, Ragazzi che giocano davanti alla Chiesa di S. Biagio in Cento, La rozza, il Paesaggio con biancheria al sole; un gusto che si trova, più costruito, anche nelle tele del «meraviglioso»[20] Paesaggio al chiaro di luna con carrozza di Stoccolma o dello «squisito»[21] Paesaggio con donne bagnanti di Rotterdam. Che gli dovesse essere agevole il risultato lo testimonia anche il Passeri,[22] dove scrive che nelle rappresentazioni paesaggistiche gli erano «di gran giovamento le contigue campagne e siti rusticani della sua terra nativa, dove dimorò gran tempo».
Per il canonico Mirandola dipinse nel 1615 Quattro evangelisti, ora nella Pinacoteca di Dresda, tre dei quali, portati dal Mirandola a Bologna, furono notati dall'arcivescovo Alessandro Ludovisi - pochi anni dopo, il 9 febbraio 1621, sarà papa con il nome di Gregorio XV - che volle conoscere l'autore e li acquistò, dietro consulenza di Ludovico Carracci, per la discreta somma di venticinque scudi l'uno. Ludovico Carracci non si limitò a questo: il 25 ottobre 1617 il pittore scrisse a don Ferrante Carli di Parma[23] elogiando il Guercino come «gran disegnatore e felicissimo coloritore: è mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere. Non dico nulla: ei fa rimaner stupidi li primi pittori».
Ormai il Guercino aveva fama di maestro e prese l'iniziativa, nel 1617, di fondare una scuola di pittura a Cento: l'amico Bartolomeo Fabbri gli mise a disposizione due stanze e qui convennero «da Bologna, da Ferrara, da Modena, da Rimini, da Reggio e sin dalla Francia molti giovani [ ... ] di ventitré scolari ch'egli ebbe su quel principio, nessuno poté dire d'essere meno amato dell'altro [ ... ] e suoi familiarissimi ospiti in Cento si erano i marchesi Enzio e Cornelio Bentivoglio».[24] Fu quella la sua Accademia del nudo, celebre al tempo finché egli visse a Cento, ove il Guercino disegnava generalmente «l'ignudo col carbone, in carta leggermente tinta, e così grandioso il facea e così facile, con una macchia in cui percotendo il riflesso della luce, risaltavano li principali oscuri, e con pochi risoluti lumi di gesso o di biacca».[25]
Nel 1618 il Guercino accompagnò a Venezia, su suggerimento del Mirandola e munito di una raccolta di suoi disegni, un canonico centese, tal Pietro Martire Pederzani, il quale li mostrò al noto artista Jacopo Palma il giovane, affinché desse un giudizio sulle possibilità di quel giovane pittore desideroso di migliorarsi nella sua arte: si racconta che il pittore veneziano esprimesse la propria ammirazione dicendo che «molto più di me sa questo principiante»,[26] e lo accompagnasse poi per Venezia mostrandogli i dipinti dei migliori artisti.
La conoscenza dell'ultima pittura veneziana - di Tiziano e di Jacopo Bassano in particolare - lo confermò nella sua vocazione alla sensibilità cromatica, che mise in opera nel 1620 nella Vestizione di san Guglielmo d'Aquitania, dipinto per la chiesa bolognese di San Gregorio e ora nella Pinacoteca di Bologna, dove «tutto ha un carattere grande e maestrevole, le tinte non possono essere meglio compartite e quello che si chiama gusto di macchia è portato al sommo grado; brillano i lumi in mezzo a quella freschezza d'impasto e pochi principali scuri ben locati accrescono al dipinto una forza e un rilievo che incanta».[27] Il Marangoni lo considera il suo capolavoro per «la sua calda atmosfera come sparsa in un pulviscolo dorato e luminoso che bagna e sommerge le cose, rendendo ariose le ombre più dense con un risultato più unico che raro e che ci mostra il Guercino come uno dei maggiori e più originali maestri del rinnovamento luministico».[28]
Caratteristica di questa e di opere successive è la costruzione della composizione le cui linee vitali formano un rombo nel quale si racchiude il nucleo della rappresentazione - nel San Guglielmo i vertici della losanga si collocano nelle teste della Vergine, del vescovo, del monaco e nel ginocchio del santo - una scelta che dà vivacità alla composizione, contrapponendosi alla «ferma freddezza del rettangolo della tela»[29]
Così è nel contemporaneo San Francesco in estasi con san Benedetto e un angelo, dipinto per la chiesa di San Pietro a Cento e ora al Louvre, ove alla composizione romboidale si aggiunge anche il movimento a spirale del corpo di Francesco, «come quello di un serpente che viene affascinato»[30] dalla musica dell'angelo incantatore. Questa «eccezionale pittura»,[31] più volte replicata dal Guercino, fu ammiratissima nel XVIII secolo: Giuseppe Maria Crespi la incluse nello sfondo del suo Autoritratto, conservato nel Wadsworth Museum di Hartford.
Guercino a Roma (1621-1623)[modifica | modifica wikitesto]
Chiamato dal suo grande ammiratore Alessandro Ludovisi, appena divenuto papa col nome di Gregorio XV, che intendeva affidargli commissioni di grande prestigio, come la decorazione della Loggia delle Benedizioni in San Pietro, mai realizzata per la morte del papa, Guercino partì per Roma il 12 maggio 1621, accompagnato dal suo illustratore di fiducia nonché suo concittadino, Giovanni Battista Pasqualini.Il nipote di papa Gregorio, il cardinale Ludovico Ludovisi, gli affidò la decorazione del Casino Del Monte, un villino appena acquistato, insieme con l'ampia vigna che gli si stendeva intorno, dal cardinale Francesco Maria Del Monte, che assumerà pertanto il nome di Casino Ludovisi.
Con l'assistenza di Agostino Tassi, che vi affrescò le quadrature architettoniche, il Guercino dipinse a secco sulla volta della sala centrale al pianterreno del Casino l'Aurora, rappresentata come giovane dea su un carro tirato da due cavalli, davanti ai quali fugge la Notte mentre un genio in volo incorona Aurora di fiori e un altro, sul carro, sparge fiori tutt'intorno; da una parte, sul letto, è il vecchio marito Titone; in alto, tre giovani donne raffigurano altrettante stelle, una delle quali versa rugiada da un'urna.
«La cosa più mirabile e veramente nuova in questa Aurora sono i due focosi cavalli, non tanto per l'audacia dello scorcio che li rende così dinamici, quanto per l'acuto senso moderno del bianco e nero e per la giustezza dei valori tonali. Felicissima è l'idea di aver sfruttato il pezzato del mantello dei cavalli giocando di bella audacia nell'avvicinare e confondere i capricciosi contorni delle macchie scure del mantello con quelli delle ombre, traendone un risultato di novità ed evidenza: così sicuro è il senso luministico del nostro pittore».[32]
L'esame iconografico del dipinto rivelerebbe[33] l'intenzione non tanto di rappresentare semplicemente il sorgere di un qualunque nuovo giorno, ma l'alba di una nuova era di gloria per la famiglia Ludovisi, intento riaffermato anche nell'affresco della Fama, che decora la volta della sala del piano superiore del Casino.
L'opera equivarrebbe anche a una sfida dei Ludovisi rivolta alla potente famiglia Borghese, che pochi anni prima aveva commissionato al Reni il medesimo tema nell'affresco del loro Casino (ora Rospigliosi-Pallavicini), finendo tuttavia per rappresentare, in campo artistico, un motivo di confronto del Guercino con il pittore bolognese: «Guercino fece conoscere la sua individualità e il suo ingegno evitando la ripetizione della composizione e dello stile di Guido. In netto contrasto con il soave classicismo del Reni e i suoi colori delicati, Guercino tratta il tema in modo campestre, pieno di paesaggio e animali dipinti in toni ricchi e ombreggiati».[34]
Mentre il Reni si muove nel solco della tradizione del classicismo romano, consentanea al suo estro controllato e diffidente di novità formali, Guercino unisce alla sua nativa e spontanea freschezza creativa - il putto accoccolato sul carro e gli altri che giocano sulle cime dei cipressi - le soluzioni prospettiche del Veronese osservate a Venezia - le sue inquadrature architettoniche fortemente scorciate godranno di grande fortuna per più di un secolo - senza rinunciare all'effusione poetica della meditazione lirica nella lunetta della Notte.
La «seconda maniera»[modifica | modifica wikitesto]
Considerato dai suoi contemporanei e dai commentatori successivi fino ai primi del Novecento il massimo risultato dell'arte del Guercino, l'enorme pala della Sepoltura di santa Petronilla - il dipinto della mitica figlia di san Pietro misura più di sette metri per quattro - fu commissionata per un altare della Basilica di San Pietro, da dove fu rimossa nel 1730 per essere sostituita da una copia a mosaico di Pietro Paolo Cristofari ed è attualmente esposta nei Musei Capitolini.Ancora il Calvi scrive infatti che «fosse che in quest'opera l'impegno e l'emulazione gli aggiungesse stimolo o che traesse lume dalla vista di tante egregie pitture che adornano Roma, parve che il Guercino s'innalzasse sovra se stesso e studiasse di rendere ancor più pregevole e sorprendente il proprio stile dacché, oltre il giudizioso ritrovamento e la grandiosità delle parti ottimamente disposte, oltre l'aggiustato disegno e il contrasto delle ombre e dei lumi, espresse con maggior precisione le teste e l'estremità, le colorì con vivo e morbido impasto di vera carne e diede tanta armonia e tanta altezza alle tinte, che per la forza e per lo rilievo pare non potersi andare più oltre; e questa è quella che alcuni chiamano sua seconda maniera, la quale gli meritò da' forestieri dilettanti il titolo di Mago della Pittura italiana».[35]
Proprio quelli che apparivano i migliori pregi dell'opera sono modernamente soggetti a critica: i valori accademici di correttezza e precisione sono visti espressione di minore sincerità e originalità. Il Guercino conserva la sua caratteristica composizione a losanga «ma il nesso del quadro è già più slegato, più sovraccarico, meno necessario che nelle tele precedenti, il partito luminoso ha perso la trasparenza del San Guglielmo o il senso del bianco e nero dell'Aurora per appesantirsi nello sfumato; tutto si è aggravato, dalle architetture alle ali degli angeli, alla tavolozza che non è più tonale ma cromatica, con quelle sue ricchezze vistose. Il Guercino ha perduto qui il suo buon gusto misurato [ ... ]».[36]
Pochi altri dipinti eseguì in Roma: una grande tela nel soffitto di San Crisogono a Trastevere su commissione del cardinale Scipione Borghese - ora a Londra - e la Maddalena - che si trovava nella chiesa, non più esistente, di Santa Maria Maddalena delle Convertite, al Corso - ora nei musei Vaticani. Di quest'ultimo si conserva un bel dipinto inedito a Bologna in collezione privata, probabilmente preparatorio secondo Andrea Emiliani e Sir Denis Mahon. Con la morte, avvenuta l'8 luglio 1623, del papa Gregorio XV - del quale si conserva il ritratto del Guercino - viene meno la possibilità di eseguire la progettata grande decorazione in San Pietro, per la quale erano stati promessi al pittore ben 22.000 scudi, e il Guercino alla fine del mese prese la via del ritorno a Cento.
Il ritorno a Cento[modifica | modifica wikitesto]
La sua fama è giunta in Inghilterra, dove lo si vorrebbe ospitare «con l'offerta di un'annua generosa pensione e di pagargli le opere a qual prezzo ch'egli avesse voluto», ma Guercino non è persona da «risolversi ad abbandonar la patria e la famiglia e nel migliore possibil modo levossi d'impegno»[37] e inviò a Londra la Semiramide che riceve la notizia della rivolta di Babilonia - ora a Boston - tipico esempio di pittura da salotto, amata dai suoi committenti.I suoi primi dipinti di questo nuovo periodo sono l'Assunta dipinta per il conte Alessandro Tanari di Bologna - ora nel Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo - la Presentazione di Gesù al Tempio di Londra, dove ai forti contrasti di colore dei dipinti della prima maniera succede ora un'illuminazione uniforme e un rigore di composizione nello stile del raffaellismo romano del Domenichino e la Crocefissione della Madonna della Ghiara di Reggio Emilia, avvicinandosi allo stile classicamente composto di Guido Reni.
Chiamato il 12 maggio del 1626 dal vescovo di Piacenza a continuare gli affreschi della cupola del Duomo rimasti interrotti per la morte del Morazzone, concluse l'opera nel 1627: nel catino della cupola, diviso in otto comparti, aggiunse ai due del Morazzone altri sei Profeti, decorando le lunette sottostanti le vele con scene del Nuovo Testamento e sotto queste, un fregio di putti: le difficoltà tecniche di dover dipingere rapidamente in affresco e in forte scorcio furono da lui superate utilizzando numerosi e meticolosi disegni, guadagnandosi la lode dello storico Lanzi - «avanzò tutte le altre e se stesso» -[38] mentre anche il Marangoni, rilevato come «il Guercino non può dimenticarsi di Roma», ammette che «tutto sommato se la cava assai bene», anche se sostiene che rappresentano «gli ultimi lampeggiamenti di una fiamma che sta per spegnersi».[39]
Di ritorno a Cento, vi dipinse dal 1628 per l'Oratorio del Nome di Dio quel Cristo che appare alla Madonna, ora nella Pinacoteca civica, che fu lodatissima dai crici di un tempo: l'Algarotti affermò di non aver mai veduto due figure che meglio campeggino in un quadro, né «il lume serrato e la macchia guercinesca» adattarsi qui meglio che in altri suoi dipinti, mentre il Calvi vi trova «un non so che di più accurato nel disegno, certa miglior scelta di panneggiamenti e d'arie di teste espressive e belle, molto finimento condotto con amore, oltre la solita altezza e soavità di tinte ed il sommo rilievo delle figure».[40]
Ma altri vedono in quel finimento, panneggiamento e rilievo, proprio il limite che irrigidisce e appesantisce l'altrimenti felice scelta della costruzione piramidale delle due figure. Aperto è nel dipinto il riferimento al colorismo e al classicismo del Reni: «lo stile del drappeggio del Guercino e il comportamento delle sue figure gareggiano con le armoniose coreografie, quasi da balletto, che si trovano in pitture del Reni [ ... ] I motivi astratti dei panneggi e l'insistente geometria della composizione [ ... ] segnalano la fine del periodo di transizione del Guercino e l'inizio di un autentico e innovativo classicismo barocco».[41]
La «terza maniera»[modifica | modifica wikitesto]
«Il dì 4 Gennaro 1629 in Cento. Questo libro servirà per tenere il conto di tutti li danari che si tireranno e guadagneranno da mio fratello Gio. Francesco e da me Paolo Antonio Barbieri pittori in Cento, quali danari si noteranno per ordine, e nel fine di ciaschedun anno saranno sommati, come ancora vi riporterò la somma di quanto si sarà speso per mantenimento della famiglia, cavata dal libro, o vacchetta generale». Così il Guercino, insieme con il fratello Paolo Antonio, suo convivente, anch'egli pittore all'interno della bottega specializzato prevalentemente alla realizzazione di nature morte, istituì il Libro dei conti, una contabilità dei pagamenti ricevuti per le sue tele, molto prezioso perché permette di individuare le opere del Guercino e le date della loro composizione.[42]Dopo aver affrescato il soffitto di una sala del palazzo Sampieri-Talon di Bologna con un Ercole e Anteo, ricevette dalla regina Maria di Francia, tramite il cardinale Bernardino Spada, la commissione della Morte di Didone, che non andò a buon fine ma il dipinto fu acquistato dallo stesso cardinale. «Vedesi l'abbandonata amante che, stesa bocconi sul rogo, si è trapassato il petto con la spada del Trojano, ed a gran pena si sostiene tenendo le mani appoggiate al rogo medesimo; accorre a così atroce spettacolo la sorella Anna, con alcune damigelle costernate e dolenti, tra cortigiani e guardie, e scopresi in lontananza il porto di Cartagine e le fuggenti vele di Enea, col popolo che s'affolla inutilmente alla spiaggia, mentre vola per aria un amorino che come fuggitivo anch'egli s'allontana; tutto è insomma con saggio avvedimento disposto, se non che per bizzarro capriccio v'ha dipinto in prima veduta un giovine vestito come alla spagnuola, che sembra un ritratto e che accenna con la mano Didone».[43]
Lo storico evidenziava il grave difetto della mancanza di sincerità nell'opera: assistendo a una così grande tragedia, non si può mettere in posa un personaggio che si disinteressa di quanto succede; aggiunge tuttavia che il Reni avrebbe portato questa tela ad esempio dei suoi allievi, mostrando loro come si debbano utilizzare i colori. Il Marangoni vi vede invece «la caricatura del Guercino di bella memoria; nessun senso compositivo, figure che non stanno in piedi e che non pesano, un agitar scomposto di mani aperte; panneggi casuali lumeggiati a caso, assenza di convinzione e sensibilità luministica, e una meticolosità gretta e puerile nel perdersi intorno ai gioielli, ai ricami, ai particolari più insignificanti che sarà una delle brutte abitudini dell'ultima maniera del pittore».[44]
Nel 1633, quando aveva compiuto 42 anni, certi suoi amici cercarono di persuaderlo a prender moglie ma non ci fu verso: il Guercino sembra esser stato tutto inteso al lavoro e desideroso di mantenersi «per tutta la vita disciolto e in libertà».[45] Rifiutò nuovamente il pur allettante invito rivoltogli da Luigi XIII di trasferirsi in Francia, come declinò anche un ulteriore invito a recarsi in Inghilterra.
Come aveva definitivamente scelto di restare celibe e di rimanere in Italia, così aveva ormai stabilito le proprie scelte pittoriche: «il centese Artefice studiava moderare in parte e secondo l'opportunità, quella fierezza di macchia tanto altrui gradita, e ciò era sua elezione e non decadimento o mancanza di vigore e di foco; avanzando con gli anni in esperienza ed in senno, ha sovente, senza cangiar stile, temperata la primiera forza del colore, e più si è accostato alla vaghezza, e con più scelta di parti la bella e semplice Natura ha saputo imitare».[31]
Secondo il neoclassico Calvi, evidentemente, l'imitazione della natura si ottiene attraverso l'accademismo e nella «semplice natura» si ritrova l'intellettualistico «bello ideale». In realtà, Guercino rincorreva la maniera del Reni e la sua clientela: infatti, morto quest'ultimo a Bologna l'8 agosto 1642, Guercino vi si trasferì da Cento non avendo più «a temere il confronto di un così eccellente e celebrato compositore».[46]
Guido Reni aveva lasciato incompiuta una grande tela con un San Bruno destinata ai monaci della Certosa di Bologna. Il Guercino rifiutò la richiesta di completarla, proponendo loro un'opera tutta di sua mano. Dipinse così nel 1647 La visione di san Bruno, «una delle più vigorose ed emozionanti pale d'altare del periodo tardo»,[47] nel quale il santo, nella solitudine del deserto, ha la visione della Madonna con il Bambino, mentre un suo compagno, poco lontano, medita su un libro: celebrato per «forza e vaghezza di colore», il santo «spira nel volto un vivo affetto, ed è di carnagione adusta, qual si conviene ad uno che trovasi sovente esposto all'ardore del sole, ove al contrario il Bambino e la Vergine scorgonsi di fresca e morbida carne coloriti».[48]
Secondo la critica antiaccademica, invece, nell'opera sono «bei volti e belle membra modellati a carezze, mosse graziose e ben educate, panneggi da vetrina e, quanto al chiaroscuro, ripudiato tra i falli di gioventù ogni ricordo dell'ombreggiare strepitoso d'un tempo, quel tanto che non dia ai nervi dei placidi parrocchiani, tutte persone ammodo, abituate al miele rosato di Guido Reni». Benché ben drammaticamente rappresentato e superiore pittoricamente a ogni altra figura, lo stesso santo «ha panneggi senza ritmo sentito né stile e quel che è peggio, la sua figura non armonizza né lega colle altre parti del quadro. Abbiamo già qui il fatto, che vedremo via via aggraversi, di due quadri distinti uno sopra all'altro, forzatamente uniti dal soggetto ma che pittoricamente si ignorano e si nocciono a vicenda».[49]
Nel 1649 morì il fratello Paolo Antonio: il duca di Modena Francesco I d'Este invitò il Guercino nel suo Palazzo di Sassuolo per un breve periodo di riposo e di svago che gli facesse superare la depressione. Nella casa-studio di Bologna andarono a vivere la sorella Lucia e il cognato pittore Ercole Gennari, che subentrò a tutti gli effetti allo scomparso Paolo Antonio, collaborando con il Guercino e occupandosi dei suoi affari. Il nostro pittore, d'altra parte, pur continuando a soddisfare le numerose richieste di lavoro, teneva anche scuola nel suo studio ed era anche uno dei quattro direttori, insieme con Francesco Albani, Alessandro Tiarini e Michele Desubleo, della Scuola di nudo fondata nel suo palazzo dal conte Ettore Ghisilieri.
A questo periodo, intorno all'anno 1654, va ascritto il celebre San Giovanni Battista che predica, oggi conservato alla Pinacoteca civica di Forlì, le cui qualità pittoriche ne fanno "un pezzo di notevole suggestività"[50].
Nel novembre 1661 si riprese da un infarto: la sua attività, come mostra il Libro dei conti, ebbe un notevole rallentamento. L'«11 di dicembre 1666 fu sorpreso da nuovo e grave malore a cui non poté troversi rimedio, e giunto alli 22 dello stesso mese dovette soccombere al comun destino, ed incontrollo con rassegnata ilarità e tutto a Dio rivolto».[51] L'atto di morte fu redatto nella chiesa bolognese di San Salvatore: «Addì, 24 dicembre 1666. Il Sig. Gio. Francesco Barbieri Pittore famosissimo, uomo religiosissimo d'anni 74, dopo aver ricevuto li santissimi Sacramenti, rese l'anima al Creatore. Fu sepolto in nostra Chiesa nella sepoltura di mezzo, essendogli state celebrate solennissime esequie».[52]
Allievi[modifica | modifica wikitesto]
Fra gli allievi del Guercino, sono da ricordare: Paolo Antonio Barbieri; Giuseppe Maria Galeppini; Bartolomeo Gennari e Matteo Loves.Opere[modifica | modifica wikitesto]
Note[modifica | modifica wikitesto]
- ^ J. A. Calvi, Notizie della vita e delle opere... , 1808, p. 1
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 2: il nome della madrina non è però Alda Dottoni, ma Alda Novi
- ^ La svista sull'anno di nascita è del Baruffaldi: cfr la sua Vita dei pittori e scultori ferraresi, 1846 p. 428
- ^ ibidem
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 3
- ^ Il Calvi ipotizzava trattarsi di Paolo Zagnoni, quadraturista e collaboratore del pittore Cremonini, presso il quale avrebbe soggiornato anni dopo a Bologna, ma il nome del Bertozzi fu poi accertato da Gaetano Atti: cfr G. Baruffaldi, Vite dei pittori e scultori ferraresi, p. 430, n. 1
- ^ L'espressione è del Baruffaldi, cit., p. 430
- ^ a b J. A. Calvi, cit., p. 4
- ^ G. Baruffaldi, cit., p. 431
- ^ Così infatti viene a pronunciarsi Carraccina nel dialetto emiliano
- ^ Ora nella Pinacoteca civica di Cento
- ^ F. Scannelli, Microcosmo della Pittura, 1657, p. 361
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 5-6
- ^ L. Lanzi, Storia pittorica, V, III, p. 106
- ^ M. Marangoni, Il vero Guercino, 1927 p. 72
- ^ A. Ottani, Guercino, p. 4
- ^ F. Scannelli, cit., p. 361
- ^ a b J. A. Calvi, cit., p. 7
- ^ L. Salerno, I dipinti del Guercino, p. 87
- ^ D. M. Stone, Guercino, p. 34
- ^ D. H. Stone, p. 68
- ^ G. Passeri, Vite de' Pittori, Scultori ed Architetti
- ^ Raccolta di lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura, Roma 1754, pp. 209-210
- ^ G. Baruffaldi, cit., p. 437
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 10-11
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 14
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 15
- ^ M. Marangoni, cit., p. 73
- ^ M. Marangoni, cit., p. 74
- ^ D. M. Stone, cit., p. 92
- ^ a b Ibidem
- ^ M. Marangoni, cit., p. 75
- ^ C. Wood, Visual Panegyric in Guercino's Casino Ludovisi Frescoes, 1986
- ^ D. M. Stone, cit., p. 100
- ^ J. A. Calvi, cit., pp. 18-19
- ^ M. Marangoni cit., p. 76
- ^ J. A. Calvi, cit., 22
- ^ L. Lanzi, cit.
- ^ M. Marangoni, cit., p. 77
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 24
- ^ D. M. Stone, cit., p. 142
- ^ Il Libro dei conti fu pubblicato dal Calvi in allegato alla sua biografia. In esso sono registrate solo le opere pagate in denaro. Non compaiono quelle ricompensate in natura o regalate. Il Guercino teneva un altro registro nel quale erano semplicemente indicate le date dei dipinti eseguiti, conosciuto dal Malvasia che lo utilizzò nella sua biografia per stilare il catalogo delle opere del pittore. Risulta anche dal Libro i criteri di valutazione dell'opera fatta dal Guercino, che si faceva pagare 75 scudi a figura: così Guercino valutò il Cristo risorto appare alla Vergine 150 scudi. Il ritocco del dipinto, effettuato nel 1653, comportò 20 scudi, più 17 per le maggiori spese del prezioso colore oltremare.
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 25
- ^ M. Marangoni, cit., p. 79
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 26
- ^ Ivi, p. 29
- ^ D. M. Stone, cit., p. 236
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 31
- ^ M. Marangoni, cit., p. 81
- ^ G. Viroli, La Pinacoteca Civica di Forlì, Emmediemme, Forlì 1980, p. 248.
- ^ J. A. Calvi, cit., p. 36
- ^ Ivi, p. 37
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
- Francesco Scannelli, Microcosmo della Pittura, Cesena 1657
- Carlo Cesare Malvasia, Felsina pittrice, Bologna 1678
- Giambattista Passeri, Vite de' Pittori, Scultori ed Architetti, Roma 1772
- Jacopo Francesco Calvi, Notizie della vita e delle opere del cavaliere Gioan Francesco Barbieri, detto il Guercino da Cento, celebre pittore, Bologna 1808
- Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia dal Risorgimento delle arti fin presso al fine del XVIII secolo, t. V, epoca III, Firenze 1822
- Girolamo Baruffaldi, Vite dei pittori e scultori ferraresi, Ferrara 1844-1846
- Matteo Marangoni, Il vero Guercino, in «Dedalo», Firenze 1920, e in «Arte barocca», Firenze 1927
- Dwight C. Miller, BARBIERI, Giovanni Francesco detto il Guercino, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1964. URL consultato il 24 giugno 2015.
- Anna Ottani, Guercino, Milano 1965
- Nefta Barbanti Grimaldi, Il Guercino, Bologna 1968
- Denis Mahon, Il Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, 1591-1666): catalogo critico dei dipinti, Bologna 1968
- Renato Roli, Guercino, Firenze 1972
- Prisco Bagni, Guercino e i suoi incisori, Roma 1988
- Luigi Salerno (colla collaborazione di Denis Mahon), I dipinti del Guercino, Roma 1988
- David M. Stone, Guercino. Catalogo completo, Firenze 1991 ISBN 88-7737-137-4
- Denis Mahon et alii, Il Guercino, catalogo della mostra di Bologna-Cento, Bologna 1991 ISBN 88-7779-283-3
- Stefano Zuffi, Guercino, Milano 1992
- Massimo Pulini (a cura di), Guercino, racconti di paese. Il paesaggio e la scena popolare nei luoghi e nell'epoca di Giovanni Francesco Barbieri , catalogo della mostra di Cento, Milano 2001, ISBN 8871792955
- AA.VV., Guercino - Poesia e sentimento nella pittura del '600, catalogo della mostra di Milano-Roma, Milano 2003
- Barbara Ghelfi, Il talento naturale e la ricerca dell'equilibrio. Il Guercino a Ferrara, in Museoinvita, nº 1, Ferrara, Comune di Ferrara, febbraio 2015, ISSN 2420-9597. URL consultato il 13 aprile 2015.
Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]
- Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Guercino
Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]
- Pinacoteca Civica Il Guercino, guercino.comune.cento.fe.it. URL consultato il 24 dicembre 2015.
- Mostra virtuale "Guercino a Fano" in alta risoluzione, guercino.fondazionecarifano.it. URL consultato il 24 dicembre 2015.
- ECA - Catalogo on-line del patrimonio artistico degli Estensi sparso per i musei del mondo, eca.provincia.fe.it. URL consultato il 24 dicembre 2015.
Controllo di autorità | VIAF: (EN) 49248688 · LCCN: (EN) n50082058 · SBN: IT\ICCU\CFIV\019642 · ISNI: (EN) 0000 0001 2131 914X · GND: (DE) 118978128 · BNF: (FR) cb120730207 (data) · ULAN: (EN) 500021925 · CERL: cnp00402679 |
---|
Nessun commento:
Posta un commento