Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima
docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare».
Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare
popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e
ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi,
le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri
cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono
risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto
dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di
quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti.
Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui
successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel
grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici
ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi
consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei
romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una
vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per
Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella
lontanissima Roma.
IL PERIODO
ROMANO
Finite le guerre puniche, il console
Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono
all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi
della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo
di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua
vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente
grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse
all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel
territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete
romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi
del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da
parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il
Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale
quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo
ad un personaggio di nome FUSCO, del
tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti»
(VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un
Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius
Fuscus Salinator e via di seguito. Ma
una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto
era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a
Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si
evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere
racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del
secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si
registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne
seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme
romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con
scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu
l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il
Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del
1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni
del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della
corrispondenza si denoma: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate
del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati,
interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
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