Questa è la tesi di mio nipote, una fervida mente, dottore
Giuseppe Taverna, appena trentenne dirigente generale del Ministero della
Pubblica Istruzione, in atto a Trastevere.
Attiene alla riforma del Titolo Quinto della Costituzione che ora Renzi
vorrebbe rottamare. Tesi di gran valore, apprezzabile per lungimiranza politica
e soprattutto per acume giuridico, vero titolo di merito per questo giovane fìglio
di mio fratello. Calogero Taverna
La novella costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 segna
una tappa saliente del lungo e controverso processo di ammodernamento dello
Stato democratico volto ad un decentramento a livello territoriale anche delle
massime prerogative pubbliche non esclusa quella legislativa.
Se nel
vecchio art. 114 la Repubblica si tripartiva in Regioni, Province e comuni
secondo una elencazione scissa da criteri di coordinamento, subordinazioni,
interdipendinze, priorità, non si sa se a cascata o in collateralità e via
discorrendo (e tanto in proposito si è discettato) è certo che la nuova
formulazione del dettato costituzionale del primo articolo del Titolo V scalza
l’equivoco ed improprio concetto di ripartizione, denega ogni forma di
parcellizzazione, tenta la formalizzazione di una monade, che pur varia nelle sua composizione, assurge,
però, ad una categoria che ora si compendia nell’unitario carattere costitutivo
(“ la Repubblica è costituita etc.”). In definitiva coordina il disposto
dell’ex art. 114 cost. con la perspicua definizione dell’art. 5 Cost. (unità ed
indivisibilità della Repubblica)
Il nuovo
titolo quinto è dunque riforma profonda,
fortemente innovativa, suscettibile quindi di revisioni scientifiche,
politiche, giurisprudenziali dottrinazie di amplissimo respiro. E tanto deve
indurre a cautele, scrollamento di idola
anche inveterati. Necessita di approccio scevro da preconcetti tradizionali,
schemi emermeneutici, coerenze con insegnamenti magari vetusti eppure
anchilosati.
Ma ciò
premesso, a volo d’uccello, dobbiamo subito aggiungere che la riforma
costituzionale non chiude il processo, diciamo così, della regionalizzazione
dello stato centralistico, apicale, accentratore delle classiche funzioni
autoritative (i canonici poteri legislativi, impositivi e della difesa
nazionale).
Valga ad
esempio l’incombente postulazione di un nuovo federalismo che a tanti appare
quale inammissibile frantumazione dell’unità nazionale.
Con l’art.
117 novellato nel 2001 intanto la peculiare potestà legislativa viene a
dipanarsi tra Stato e Regioni non più sotto il vincolo del’interesse nazionale (almeno stando alla lettera della
norma) lungo una concettualizzazione di un potere legislativo esclusivo (art.
117 c. 2), concorrente (art. 117 v. 3) e residuale ma nel senso che si definisce
un’area che compete in esclusiva (“non espressamente”) agli organismi regionali
(art. 117 c.4).
Ed a noi
occorre questa prima, molto approssimativa distizione per definire la
latitudine della nostra ricerca che vuole incardinarsi nella novellata potestà
legilativa “residuale” delle Regioni. In proposito diamo l’assunto della nostra
tesi citando appunto il quarto comma dell’art. 117 Cost.: «Spetta alle Regioni
la potestà legislativa in riferiomento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato».
I padri
Costituenti, invero, restringevano i poteri legislativi delle Regioni in una
elencazione , quanto precisa e pregnante non furono poche le perplessità,
subodordinanli ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e
semprechè non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e sempreche non colldeserro con le collaterali
potestà delle altre Regioni.
Preliminarme
s’impone la questione se davvero la riforma costituzionale abbia modificato il
precedente assunto al riguardo e soprattutto in che misura. Ci pare, invero,
che se il nuovo legislatore costitituzionale abbia davvero voluto incidere in
siffatta materioa di esclusiva legislazione regionale – e noi ne siamo convnti
– ci corre l’obbligo di significare che remore sono insorte all’istante persino
nelle massime espressioni giurisdizionali, dichiaratamente inspirate dai giudici emereti della stessa Corte
costituzionale, che intrisi di ideologie nobilissime ma non più in sintonia con
il nuovo corso delle visioni regionalistiche paiono incepparsi ed inceppare
l’attuazione della nuova disciplina costituzionale. Aggiungasi che fino a
quando le espressioni culturali territoriali – che sono affini e persino in
simbiosi cone le istituzioni regionali – restano escluse o emarginate dai
momenti delle oportune riforme costituzionali, delle connesse esplicazioni
giurisdizionali ed al limite dalle egemonie culturali apicali – il rischio
dello svilimento di una riforma, sino alla sua denegazione aliunde, è imminente e per il caso che ci occupa fors’anche
effettivo ed effettuale.
Purtroppo,
la riforma è partita con taluni peccati originali, con forzature e con
frettolosità il cui postumo riverbero sta forse per inficiare la validità della
modifica legislativa medesima. All’occaso della XIII legislatura, vigendo una
precaria coalizione politica che si è ribaltata nella successiva legislatura,
si è forzata la procedura parlamentare che con lo scarto di pochi voti e senza
il coinvolgimento delle opposizioni di allora (divenute poi maggioranza) hanno
inteso dare attuazione alla riforma costituzionale del titolo V. Va da sé che
riforme siffatte vanno attuate, articolate e pensate con assensi ed apporti ad
ampio raggio, oltre una risicata maggioranza parlamentare. Ciò nel nostro caso
non avvenne. Il ripensamento successivo è stato persino ostentato. Il
ridimensionamento esplicito. La rivisitazione giurisprudenziale paralizzante.
L’iter della riforma del titolo V parte invero
da lontano. Dopo un lungo dibattito sulle rifoprme istituzionali, protrattosi
per decenni in dottrina e in parlamento (Commissione bicamerale per le riforme:
Bozzi, 1983-1985; De-Mita.-Jotti 1992-94), nella tredicesima legislatura si
arriva faticosamente alla modifica del titolo V della seconda parte della
Costituzione repubblicana, dedicato a Regioni ed enti locali. La formazione
(con legge costituzionale 1/97, del 24 gennaio 1997) di una nuova commissione
bicamerale, presieduta dal deputato Massimo D’Alema, che sviluppa i suoi lavori
a partire dal 4 febbraio 1997 fino al 30 giugno dello stesso anno, quando si
approva il primo testo che tende a riscrivere e ristrutturare l’intera seconda
parte della Costituzione.
Durante
l’estate del 1997, i parlamentari depositano proposte di modifica al testo, che
quindi viene nuovamente discusso dalla Bicamerale ed approvato definitivamente
il 4 novemvre 1997. Traasmesso all’aula della Camera, il progetto della
Commissione D’Alema non ha fortuna, e l’esame parlamentare viene rinviato sine
die dopo aspri contrasti sorti sia sulle singole parti, sia sull’impianto
complessivo delle riforme.
L’approvazione
di una legge costituzionale (la l. 1/99 del 22 novembre 1999) recante
disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta
Regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni ha costituito il secondo
momento del processo riformatore. Un anno più tardi, a fine legislatura, è
stata approvata anche la legge costituzionale 2/2001 recante disposizioni
speciali per le elezione diretta del presidente delle Regioni a statuto speciale
e delle province autonome di Trento e Biolzano (31 gennaio 2001)
Infine si
ha l’approvazione delle legge costituzionale 3/2001 che ci occupa. L’iter del
disegno di legge costituzionale inizia dalla Camera (atto Camera 4462): il
testo è approvato in prima lettura il 26 settembre 2000, quindi giunge il primo sì al Senato (L’atto
Senato 4809 è approvato il 17 novembre), po il secondo voto favorevole
dell’Aula di Montecitorio (28 febbraio 2001) e quello di Palazzo Madama (8
marzo 2001).
Nella
seconda doppia votazione, quella decisiva, vota a favore del testo soltanto lo
schieramento di Centyro-sinistra e non si raggiunge il quorum per evitare la
celebrazione del Referendum confermativo.
Successivamente,
sia il Polo sia l’Ulivo promuovono la consultazione popolare sul testo, secondo
quanto stabilisce l’art. 138 Cost. Il referendum si svolge il 7 ottobre 2001.
L’afflusso alle urne è stato molto ridotto (34%) ed iltesto è stato approvato
dal 64,2% dei votanti.
La Legge
costituzionale 3/2001 risulta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 24
0ttobre 2001.
Alla
riapertura della successiva legislatura si istituisce una commissione di
indagine al Senato; essa tende a conoscere gli effetti nell'ordinamento delle
revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione. A presiederla è il
senatore PASTORE per il quale l’iniziatiava dovrebbe “ soddisfare l'esigenza di orientare
l'attività futura del Parlamento in conformità alle nuove disposizioni
costituzionali.”. Apparentemente, dunque, l’indagine non avrebbe dovuto avare
preconcetti di sorta, avrebbe dovuto
ispirarsi ad una scientifica avalutatività, caratteristica delle cosiddette
scienze sociali. Vedremo che invece emergeranno linee ispiratrici che per tanti
versi ridimensionano la portata innovativa della riforma costituzionale.[1]
Comunque,
in esordio dei lavori, l’intervento del prof. Elia inquadra in modo preclaro la
questione. E’ da rifuggire da qualche pregiudizio come ad esempio quello di “affermare che la riforma costituzionale del Titolo
V sia stata varata soprattutto per dare una copertura costituzionale alle
riforme Bassanini, alle riforme che con legge ordinaria erano già state
realizzate ai fini del federalismo amministrativo di cui si era parlato fin dai
primi passi del Governo Prodi”. Invero, così si immiserisce “la riforma della
Costituzione perché si tratterebbe di una sorta di sottoprodotto, di evento
conseguenziale. Il punto di fondo che come ragione costituzionale va
evidenziato ed enunciato per primo é il superamento del contrasto interno alla
Costituzione che si era determinato nel corso degli ultimi anni (caso alquanto
singolare nella storia costituzionale): una nuova lettura dell'articolo 5 della
Costituzione a proposito del principio di autonomia (insieme a quelli di unità
e di indivisibilità) alla luce del principio di sussidiarietà, aveva
determinato una scissura all'interno del corpo normativo della Costituzione,
per cui gran parte del Titolo V veniva ad essere inadeguata e perfino
contrastante con la nuova lettura che dell'articolo 5 veniva data.”
La puntualizzazione del prof. Elia, quanto
opportuna e perspicua si vede a prima vista, recepisce il pensiero che la più
autorevole dottrina costituzionalista aveva di già elaborato. Chiosa, ad
esempio, il prof. Andrea Piraino [2],
che recitando l’allora divisata riforma costituzionale “la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato”, ne
scaturisce un “ordinamento della Repubblica” con connotati di “federalismo”
strutturato “secondo il principio di paritarietà tra i vari ambiti
istituzionali”. Finisce così l’identificazione con lo stato venendo
riconosciuto “il significato ed il valore dell’autonomia sancita dall’art. 5
della Costituzione. In sostanza, in virtù di questo nuovo criterio, lo stato
[cessa] di essere l’ente sovra(n)ordinato agli altri ambiti istituzionali, così
ridotti a semplici livelli subordinati al suo potere, e [diventa] una delle
organizzazioni autonome che insieme alle regioni, alle province e ai comuni
costituiscono il sistema federale della Repubblica. Sistema federale che […]
non si [limita] a modificare i soli rapporti tra gli ambiti istituzionali,
portando addirittura in prima fila comuni e province, ma [riguarda], secondo il
principio di sussidiarietà, anche quelli tra questi ed i cittadini riuniti
nella comunità civile.”
In sintesi
è consentito affermare che “siamo ad una svolta […] epocale, perché nessuna
delle tradizionali categorie giuridiche forgiate sotto l’usbergo dello stato
moderno [è atta a] resistere”. Ed è legittimo aggiungere che “si è compiuto il
cammino iniziato con la Costituzione del 1948”. Invero quel cammino si era
interrotto “per il prevalere di logiche di accentramento (dovute anche alla
strutturazione in blocchi contrapposti delle potenze internazionali)
abbandonate solo con la caduta del muro di Berlino e con la rivoluzione del
1990, anno in cui videro la luce in rapida successione tre leggi fondamentali:
la 86, la 142 e la 241.”
Con la
novella 3/2001 può dirsi che si è raggiunto il punto terminale auspicato dal
prof. Piraino nel cui contesto la Repubblica ha acquisit0 peculiarietà idonee a
farne “un sistema federale in cui il ruolo delle autonomie locali [è divenuto] centrale”
e soprattutto quello delle Regioni.
Il percorso
riformatore ha superato varie tappe: innanzitutto si è dovuto superare “la
crisi dello stato e della sua sovranità”; sono emersi “il senso ed il ruolo
generale dell’autonomia dei vari ambiti istituzionali della Repubblica”; si è
affermato “il valore politico degli interessi rappresentati [dalle Regioni] e
dai comuni e dalle province o città metropolitane”; è emersa una inedita
“struttura … delle funzioni [correlative]”; si imposto il “principio di
sussidiarietà quale principio cardine dei rapporti istituzionali”; si è avuta
“nella partecipazione popolare la risposta alla crisi della rappresentanza e
dei partiti politici”.
Siffatti
processi, i conseguenti approdi, persino i risvolti legislativi, si sono
compendiati nella cennata riforma del Titolo Quinto. Certo, sono sbocchi non
sempre esaustivi e soprattutto non proprio soddisfacenti. Notisi che manca la
classica relazione parlamentare per cui la “voluntas” del legislatore storico –
per quel che vale – non è agevole coglierla nelle sedi pertinenti. E’ fuori
l’usualità, ad esempio, l’audizione del prof. Leopoldo Elia in Senato che
abbiamo avuto modo di citare. A ben leggerla, quella manifestazione impropria,
ma tanto pregnante, supplisce all’assenza della declaratoria della voluntas
riformatrice costituzionale del particolare costituente del 2001. L’autorevolezza
della specifica audizione discende non tanto dalla rilevanza della sede
istituzionale bensì dal ruolo, cultura e carisma del grande costituzionalista.
Il quale non manca – e non può evitarlo
– di accedere al suo background politico, alle sue opzioni sociali ed al suo
campo di valori di appartenenza che ovviamente non sempre e non tutti possono
condividere.
Per quel
che abiamo riportato sopra, l’Elia ricorre subito in premessa ad un’astuzia
dialettica. Fingendo – almeno secondo noi – di escludere che l’intera riforma
del Titolo Quinto a nient’altro possa ridursi se non ad una sorta di panacea
delle fratture e lacerazioni costituzionali, che la notissima riforma Bassanini
avrebbe prodotto nel sistema costituzionale italiano – sistema notoriamente rigido
(la c.d. “costituzione formale”) non riformabile con mera legge ordinaria –
finisce per affermare ciò che si nega e in definitiva si ha voglia di ridurre
l’intera riforma del Titolo Quinto ad un semplice rattoppo della grave
vulverazione che si era prodotta.
Ma
riportando il tutto nell’alveo del nostro assunto (limitato alla c.d. potestà
legislativa residuale delle Regioni) non v’è chi non veda che una cosa sarebbe
la riforma ex il novello comma quarto dell’art. 117 Cost. se doverosamente si
attribuisce portata ampliamente modificativa della concezione tradizionale di
uno stato accentratore, specie nel settore legislativo e si inizia a pensare,
agire e soprattutto a fare giurisprudenza in termini di “stato federativo” con
una costituzione essenzialemnte federale, altra cosa è invece se l’intera
architettura della legge 3/2001 la si voglia ridurre a lifting della gloriosa
ma già vecchia costituzione del ’48.
Per l’Elia
non v’è dubbio: «indubbiamente, uno degli indizi di questa frattura all’interno
stesso della normativa costituzionale era poi offerto da una situazione
paradossale: la riforma Bassanini era più in armonia con l’art. 5, basato sulla
nuova interpretazione, che con il Titolo Quinto, così come si era venuto
attuando dopo il 1970. Anche in mancanza di puntuali violazioni delle norme del
Titolo Quinto, sta di fatto che il risultato delle riferme Bassanini sommate
insieme comportava l’abbandono del criterio del parallelismo fra funzioni
legislative e funzioni amministrative delle Regioni e conduceva, piuttosto, ad
un criterio di dissociazione tra l’attività legislativa e l’attività
amministrativa; tale situazione doveva essere superata e bisognava farlo con
urgenza, perché non si poteva rimanere più a lungo con questa contraddizione
all’interno della normativa costituzionale.»
Il taglio
riduttivo che l’Elia dà alla riforma costituzionale si rende palese anche oltre
la portata letterale del suo intervento. Abbiamo solo una patina di
legittimazione del federalismo amministrativo; non si va oltre il superamento
del contrasto interno della Costituzione; diciamo anche che vi è una nuova
lettura dell’art. 5 della Costituzione venendo rimarcati i principi della
autonomia e della sussidiarietà; se in
passato poteva lamentarsi l’abbandono del parallelismo tra funzioni legislative
e funzioni amministrative delle Regioni per privilegiare un criterio di
dissociazione tra le due funzioni, ora si ristabiliva l’equilibrio fra le due
attività; il disagio per la contraddizione che si era venuta determinando non aveva più ragione di esistere.
In tale
contesto la potestà legislativa esclusiva delle Regioni non ha latitudini
soddisfacenti, specie in considerazione dell’insorgenza di attese e pretese
dichiaratamente federaliste.
In effetti
per un costituzionalista quale è il prof. Elia non è cosa da poco elidere
constrasti interni alla Costituzione, armonizzare aree giuspubblicistice di
indole amministratva con quelle d’indole
legislativa, dissolvere le aporie tra una legislazione statuale, ritualistica,
rigida, garantista, a forte controllo parlamentare con una legislazione che può
trascendere dagli alvei della conconzialità o subordinata e controllata autonomia in quela addirittura
vicaria che una Regione potrebbe contrapporre ad uno Stato centrale in presenza
di un vezzo mentale di una gerarchia di sovrordine (per lo stato) e sottordine
(per la Regione). Ma siffatta visione non è esente da sospetti di formalismo,
di propensione ad armonie e simmetrie quasi di scuola, scissa dalle urgenze
politiche di modernizzare un tradizionale stato accentratore con incidenze
profonde a stampo federalistico anche sconvolgendo classiche architetture
istituzionali.
Noi
restiamo presi dal rigore logico dell’Elia quando argomenta nei termini che
abbiamo osato eplicitare. Ma resta l’ombra di fondo che il tutto possa
risolversi ad un innocuo discettare scolastico sfuggendo all’assillo della
concretezza del politico. Riguardiamo ad esempio questo passo della memorabile
audizione: «Si è proceduto … sulla base di una marcata distinzione tra funzione
legislativa e funzione amministrativa. Quanto alla prima, qualcuno dice che si
è inciso indirettamente sull’art. 70 della Costituzione, in base al quale la
funzione legislativa è esercitata da Camera e Senato, anche se il potere
legislativo delle Regioni era già riconosciuto. Certamente si è operata una
innovazione molto forte non solo perché si è equiordinata, quanto a limiti e
vincoli, la potestà legislativa dei due enti (Stato e Regioni) ma anche e
soprattutto perché si è accentuata una contrapposizione tra Stato e Regioni in
modo che con il famoso rovescoamento e l’inversione dell’enumerazione delle
materie lo Stato è diventato il legislatore per eccezione mentre la fonte
generale è divenuta la legge regionale per tutto un complesso di materie. Si è
distinta fortemente l’attività amministrativa, affidandola in gran parte agli
enti locali e, in particolare, ai comuni, salvo i casi che necesssitino di
esercizio unitario.»
Quasi
inaspettatamente, come per incidens, abbiamo però la scrittura della vera chiave
di lettura del novellato Titolo Quinto della Costituzione: ecco i veri cardini
della riforma:
·
un sostanziale e pregnante equiordinamento (la tenue
locuzione: “molto forte” indice di preclusione ideologica appare quasi spuria)
delle potestà legislative dello Stato e della Regione (saliente quella
“residuale” di quest’ultima che è poi il
tema ci occupa);
·
accentuazione della contrapposizione fra i due ordini
di enti;
·
rovesciamento ed inversione dell’enumerazione delle
materia;
·
riduzione dello Stato quasi a legislatore “per
eccezione”;
·
sussunzione della legge regionale a livello di fonte
generale;
·
traslazione dell’attività amministrativa ad un’altra
realtà (enti locali e comuni) sia pure con le precisazioni ed i limiti del
caso.
Definita
così la latitudine della riforma costituzionale, il prof. Elia fornisce
un’acuta esegesi che, a parte certe ondivaghe indulgenze verso un inveterato
tradizionalismo, oltre ad essere la prima nel tempo, presa la riforma nel suo
insieme e riguardata in termini sistematici, è soprattutto la più illuminante.
Trattasi di un inquadramento con connotati addirittura pandettistici da cui non
si può prescindere e che c’inquadra la tematica specifica della legislazione
residuale delle Regioni nel suo esordio. L’esperienza del prof. Elia è poi tale
da avere anteveduto aporie, devianze e rigetti specie sotto il profilo
dell’accoglimento giurisprudenziale.
L’esegesi
eliana scandaglia la riforma e la racchiude in cinque cardini. Usa a dire il
vero il termine più atecnico di “pilastro” come a mettere sull’avviso che è
riforma non sempre approdabile con i bagagli della tradizionale cultura
accademica.
In estrema
sintesi, questi sono i ravvisati nodi nevralgici:
1)
il primo pilastro concerne l’introduzione di un tratto
federalistico attraverso il rovesciamento ed l’inversione della elencazione
delle materie di competenza legislativa e regolamentare dei diversificati enti
(stato, regioni ed enti locali).;
2)
il secondo pilastro s’incadina nella funzione
amministrativa in un diverso riparto tra stato,
regioni ed enti locali;
3)
il terzo pilastro attiene alla riformulazione
dell’autonomia finanziaria (art. 119 Cost.);
4)
il quarto pilastro si articola nella nuova insorgente
diversificazione e divaricazione dei controlli;
5)
il quinto concerne il nodo nevralgico dei rapporti tra
regioni ed enti locali.
Punto primo
Non v’è
dubbio che la caratterizzazione in senso federale della nuova visione
costituzionale si materializza nel ribaltamento attraverso l’enumerazione delle
materie delle latitudini legislative dello stato rispetto all’equiparato ente
regionale. Non può prescindersi, per la comprensione del fenomeno, da alcuni
approdi al diritto comparato. Magistrale
quanto contenuto ed efficace l’Elia secondo il quale: «Questa inversione [e
cioè il cennato rovesciamento] è tipica delle costituzioni federali (Stati
Uniti, Svizzera e Germania), anche se nel nostro caso la Repubblica non è
definita tale.» E codesto è tratto saliente che “forse ad una prima lettura …
ci era sfuggito”, almeno nell’estensione di tanti connessi aspetti.
Va
ribadito, e con forza, che «il rovesciamento delle enumerazioni delle materie è
un tratto del federalismo». Tanto acquisisce maggiore risalto se riguardiamo,
con ottica comparativistica, ad esempio la Costituzione spagnola del 1931, o riconsideriamo
la nostra Costituzione del 1947; emerge che ivi «l’enumerazione delle materie
di competenza legislativa regionale, […] era un tratto del regionalismo,
imputandosi allo Stato l’area residuale. Un passaggio dunque qualificante: dal
regionalismo al federalismo.
Riepilogando
e ribadendo è da sottolineare che «la residualità [è] a favore delle regioni.».
Per di più trattasi di «un rovesciamento molto forte non solo perché ci
troviamo di fonte ad un tratto di indubbio federalismo – il diritto comparato
lo attesta – ma anche perché esso ci costringe ad un ripensamento di tanti
istituti disciplinati dalla Costituzione.»
La coda del
preesteso ragionamento è gravida di conseguenze ed apre voragini,
disorientamenti, aporie: in definitiva va riepnsata l’intera Costituzione.
Emblematico l’esempio che subito adduce l’Elia che attiene alla nota e
complessa questione della “riserva di legge”. «Mi riferisco – soggiunge infatti
l’esimio Costituzionalista – alle riserve di legge contenute contenute nella
prima parte della carta costituzionale e specialmente a quella disciplinata
dall’art. 23 sulle prestazioni personali o patrimoniali. Ci si chiede se esse
siano riserve di legge statali, come si era pensato fino ad ora (per lo meno in
larga misura) o se, invece, possano essere in alcuni casi anche di leggio
regionali; questione che i sostenitori di un’interpretazione dell’art. 119
della Costituzione in materia fiscale ritengono collegata al potere delle
regioni di istituire tributi propri. Se questo è attribuito alle regioni, la
legge regionali che li istituisce in qualche modo soddisfa e rientra nella
riserva di legge dell’art. 23.»
Ad
approfondire l’argomento scatta l’ostacolo di una corretta esegesi del varie
volte citata categoria giuridica del “equiordinamento” tra Stato e regioni.
L’Elia l’affronta in questi termini: «La maggiore controversia è sorta a
proposito del potere così vistosamente equiordinato tra Stato e rwegioni. Già
nel testo elaborato dalla Bicamerale era presente l’enumerazione rovesciata
mente per la legislazione concorrente si usava la formula: “spetta allo Stato
determinare con legge la disciplina generale relativa a … “. Si fa riferimento
al disegno di legge della Bicamerale, ma naturalmente si potrebbe parlare di
disegno di legge della Camera dei deputati, perché il 21, 22 e 23 aprile del
1998 gran parte di tale normativa fu approvata a Montecitorio da una
larghissima maggioranza. […] Il testo in questione non recava il primo comma
del nuovo art. 117 che appare molto innovativo. Esso recita “la potestà
legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali”. Sugli obblighi internazionali è sorto un vivace
dibattito che si svilupperà successivamente. Ci sono alcune affermazioni
contrapposte al riguardo: alcuni, come il prof. Pinelli, affermano che la norma
riguarda il rapporto fra ordinamenti, ma non tocca la disciplina attuale delle
fonti come è stata fissata soprattutto dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale; perciò si continuerebbe a non roconoscere nell’ordinamento
italiano un’autorità superiore alle normative che discendono da trattati
ratificati rispetto alle leggi ordinarie; altri, invece, come il prof. Luciani ed
il prof. Lombardi (con diversità di atteggiamenti nel merito), ritengono che da
questa impostazione derivi una situazione molto simile a quella disciplinata
dall’art. 55 della Costituzione francese della Quinta Repubblica. » Là si affermva che “il diritto interno cedeva
a quello internazionale pubblico; e il diritto internazionale pubblico era
interpretato non solo come diritto basato sui principi generali […] ma anche
come diritto pattizio”.
In Francia
è toccato alla Corte di Cassazione far valere la superiorità della normativa
dei trattati rispetto alle leggi ordinarie. Ed in casa nostra? «In base ad
alcuni principi della Convenzione di Vienna del 1969 – soggiunge l’Elia – sul
diritto dei trattati, il nostro ordinamento, specialmente a seguito di questa nuova
formulazione, può essere sostanzialmente ritenuto incline al riconoscimento di
ale superiorità, naturalmente senza toccare la formazione del processo che
porta a far valere nel diritto interno le norme dei trattati nel senso che il
parlamento rimarrebbe sempre competente ad intervenire in base all’art. 80
della Costituzione in cui si disciplina l’autorizzazione alla ratifica. Però,
una volta ratificato il trattato, la normativa in esso contenuta avrebbe un
rango gerarchicamente superiore a quello delle norme di legge ordinaria. Si è
tentato di far valere questo principio nella sentenza n. 10 del 1993 della
Corte costituzionale (relatore Baldassarre), rimasta però isolata. [..] La
dottrina e la giurisprudenza italiana hanno insistito molto sul dualismo tra
diritto interno e diritto internazionale. Peraltro, per quanto riguarda, il
diritto comunitario, l’interferenza è stata tale che ad un certo punto il
giudice italiano ha applicato senza mediazioni direttive ed altre norme
dell’ordinamento comunitario.»
A questo
punto non possiamo esimerci da alcune osservazioni: non v’è dubbio che alquanto
singolare risulta una cosiffatta equiordinazione. Nel settore le leggi
di emanazione statale finiscono con l’equipararsi a quelle di emanazione
regionale andando a colmare per tratto
di penna legislativa i gap culturali, politici, sociali tra organismi di
inveterata esperienza (come sono indubitabilmente, ed a prescindere da
prevenzioni ed avversioni ideologiche, quelli “statali”) e quelli regionali
(tutti da inventare, inverare, consolidare culturalmente e soprattutto
politicamente).
Soggiunge
l’Elia che «in base alla interpretazione Pinelli (chiamiamola così) circa il
rapporto tra ordinamenti, le leggi regionali – per il rapporto paritario tra
ordinamento statale e regionale – non potrebbero essere limitate ulteriormente,
per esempio, da una legge ordinaria statale che volesse ristabilire il
principio dell’indirizzo e coordinamento rendendo così superiore la legge
nazionale rispetto a quella regionale.»
Ma tale
assunto non può essere accettato senza riserve. Possono verificarsi eccezioni e
persino smagliature. L’Elia, ad esempio, adduce il caso della parità uomo-donna
nell’accesso alle cariche elettive. Il suo sottile argomentare ci induce a
riflettere. Seguiamolo nel suo ordito argomentativo: «l’unico elemento di
differenziazione che rimarrebbe a vincolo della legge regionale sarebbe
l’obbligo di promuovere la parità uomo-donna anche nell’accesso alle cariche
elettive. Può trattarsi di un principio importante perché in base alla legge costituzionale n. 1 del
1999 le Regioni, sia pure sulla base dei principi che dovrebbero essere
stabiliti dalla legge dello stato, hanno il potere di adottare una legge per le
elezioni del prioprio consiglio regionale. Da questo punto di vista la dottrina
si è divisa tra chi sostiene che questa norma supera la sentenza n. 422 del
1995 (reltore Ferri), che faceva cadere le quote femminili nella proporzionale,
ed altri autori (il prof. Romboli), secondo i quali una norma programmatico-promozionale
di per sé non si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza negativa della
Corte costituzionale. Certo è strano, che tale principio sia stato enunciato
solo per le leggi regionali mentre a rigore, dato l’argomento di cui si tratta,
dovrebbe valere su scala generale.»
Nel
contesto della riforma del Titolo Quinto non può negarsi che alcune materie
rivestono un’importanza particolare.
Meritano particolare attenzione – secondo l’Elia - «per la novità [le
materie] che non sono menzionate nel nuovo articolo 117, [le materie] che sono
coperte dal manto della residualità.»
Ma la
residualità non può essere un concetto da relegare all’angolo, quasi avesse un
ruolo marginale. La categoria è elemento portante di tutta la innovazione
riformatrice che ci occupa per quanto attiene al nostro tema specifico che è
quello della legislazione esclusiva delle regioni, “residuale” – ma nella sua
pregnante portata costituzionale, appunto.
«La
competenza esclusiva delle regioni – puntualizza molto opportunamente il N. – collegata
alla residualità, è prevista nel comma 4 del nuovo articolo 117 […] e riguarda,
tra l’altro, l’industria, i trasporti, la viabilità, la formazione
professionale, il turismo, l’agricoltura, l’artigianato, l’assistenza. Si
tratta di materie di evidente importanza, a cui qualcuno vorrebbe aggiungere
anche l’università in quanto, non essendo l’istruzione universitaria ricompresa
in nessuna delle materie nominate, essa ricadrebbe nella residualità. Però si
deve rispondere che per giudicare delle attribuzioni bisogna considerare anche
le altre norme costituzionali, le quali recano – nell’ultimo comma dell’art. 33
– una riserva di legge statale che, secondo buona parte della dotttrina, fa
salva la competenza legislativa dello stato in materia universitaria. Nel
progetto di legge della Bicamerale e della Camera, invece, erano state unite
istruzione, università, professioni nell’ambito della legislazione concorrente.
Nel disegno di legge governativo l’università passava nella legislazione
esclusiva dello Stato; ma poi scompariva dal testo finale, forse perché le
regioni avevano richiesto che l’istruzione universitaria rientrasse tra le
materie soggette a forme e condizioni particolari di autonomie. Più in
generale, la formulazione del comma
quarto sopra riferita impedisce di utilizzare il criterio interpretativo
dei poteri implici a favore dello stato.»
A questo
punto, l’esimio costituzionalista, in una mirabile ed estrema sintesi, ci
fornisce le coordinate ermeneutiche della riforma costituzionale de qua. «Lo ius superveniens del nuovo titolo quinto
– precisa il N. nella sua audizione parlamentare - è molto diverso da quello
relativo ad una legge ordinaria che è sottoposta al giudizio della Corte
costituzionale. Qui lo ius superveniens
è un paradigma costituzionale, è il termine nuovo di raffonto cui vengono
assoggettate le leggi ordinarie. Bisogna rendersi conto che a questa stregua è
già chiara l’incostituzionalità, per esempio, di una delle ultime leggi
approvate nella scorsa legoslatura – la legge n. 153 del 2001 in materia di
turismo – che certamente non resiste di fronte alla competenza esclusiva delle
regioni in materia appunto di turismo. Ciò vale naturalmente anche per altre
leggi analogamente viziate.»
Punto
secondo
Il secondo
pilastro che viene preso in considerazione è quello attinente ai riflessi ed
interdipendenze tra la precorsa riforma amministrativa (Bassanini) ed il
novellato Titolo quinto, specie ed anche per quanto ha tratto alla nuova
formulazione del potere legislativo delle regioni.
Va considerato
che non si parte da zero. «Oggi – prosegue l’Elia nella sua audizione che si
materia sempre più in una sorta di ricognizione surrettizia della voluntas del costituente storico –
mentre in altri campi occorre intervenire rapidissimamente per colmare delle
autentiche lacune, per quel che riguarda la funzione amministrativa, almeno in
linea di massima, il vuoto è già in buona parte colmato; perciò credo che per
un certo periodo andrebbe sperimentata la normazione che è stata prodotta nella
scorsa legislatura con decreti legislativi e con decreti del presidente del
consiglio sulla base della legge n. 59 del 1992. Naturalmente potranno esserci
degli scostamenti: in materia in cui le regioni hanno acquisito il potere
legisslativo esclusivo, possono essersi prodotte anche delle discrasie rispetto
all’assegnazione di poteri da parte dello stato. Tali discrasie, in linea di
massima, non dovrebbero prodursi quando, nelle materie già previste dall’art.
117 della Costituzione, è stata la regione ad assegnare funzioni ai comini ed
alle province con legge regionale. Ma in tutte le altre materie, in particolare
in quella che la regione acquisisce come competenza esclussiva, indubbiamente
in futuro si potrebbe dar luogo ad un’altra ondata di conferimenti, ove le regioni
ritenessero, nell’esercizio dei loro nuovi poteri, di allocare competenze ed
attribuzioni, già assegnate dai provvedimenti Bassanini, necessariamente per
categorie (ad esempio, i comuni in generale o quelli con un certo numero di abitanti), mentre il
legislatore regionale sarebbe in grado di allocare queste funzioni in relazioni
alle potenzialità effettive degli enti (comini e province).»
Punto terzo
Il terzo
cardine riguarda l’autonomia finanziaria, ripensata dal nuovo art. 119 della
Costituzione. Emerge la territorialità dell’imposta nel senso che la
compartecipazione della regione ai
tributi erariali va commisurata al gettito sul territorio. Si annota che non
dovrebbero esserci più i “calderoni” dei fondi in cui non si sa cosa sia
dell’Emilia, cosa della Calabria, e così via. Secondo l’Elia «questo diventa,
invece, il punto di riferimento base per una quota parte dell’entrata
regionale, che in Germania è quella preminente (aliquote dell’Irpef e
dell’Iva). Questo elemento della territorialità comporta un duplice riflesso.
Innanzitutto, vie è un riferimento al gettito, per cui oramai si dovrebbe
ritenere che non si possa arrivare ad una parificazione assoluta, nel carico
dei contribuenti delle varie regioni, altrimenti sarebbe stato inutile richiamarsi
al gettito nel loro territorio. In secondo luogo, c’è un riferimento alla
capacità fiscale per abitante cui ogni
regione dovrebbe sforzarsi di far corrispondere le proprie entrate, correndo il
rischio, altrimenti, di non potere utilizzare appieno l’accesso al fondo
perequativo: misura diretta chiaramente a scoraggiare l’eccessiva benevolenza
verso i contribuenti-elettori.»
Insorge qui
l’ardua questione che richiede un
impegno molto serio per il chiarimento delle relazioni tra il decreto
legislativo n. 56 del 2000 e questa nuova disciplina. C’è proprio da domandarsi
se veramente il finanziamento delle regioni potrà essere lo stesso, sia per le
materie che toccano i livelli essenziali dei diritti, sia per le materie di
competenza esclusiva, che, riguardando tra l’altro l’industria, il commercio ed
il turismo, non toccano direttamente l’esercizio di questi diritti.
Si domanda
l’Elia «Non si verrà a creare, come per i vecchi comuni tra spese obbligatorie
e spese facoltative, o più discrezionali? Ed il finanziamento di queste
differenti spese potrà in qualche modo essere disciplinato in maniera
differente?». Il Nostro non sa adare altra risposta se non quella di additarne
la problematicità le cui soluzioni sono demandate al futuro legislatore (dello
stato e/o della regione sarà tutto da vedere, caso per caso).
Punto
quarto
Al quarto
punto va agitato il problema dei controlli. In base e per la novellata legge
costituzionale del settore cadono tutti i controlli preventivi sulle leggi e
sugli atti amministrativi delle regioni, delle province e dei comuni. Per
quanto riguarda le regioni non può, però, escludersi che si possa realizzare
una carenza di garanzie. Specifica l’ex presidente della Corte costituzionale
che «se il Governo non impugna una legge regionale, questa legge non viene
sottoposta al sindacato della Corte costituzionale e quindi rimane
nell’ordinamento giuridico italiano.» Secondo una certa dottrina, si dovrebbero
configurare dei soggetti aggiuntivi, minoranze parlamentari che possano
investire della questione, nei 60 giorni successivi alla pubblicazione della
legge, la Corte costituzionale. Chiosa al riguardo il prof. Elia, nella più
volte citata audizione parlamentare: «In tale modo, questi ulteriori soggetti
potrebbero ovviare, con una sorta di azione pro Costituzione, ad un eventuale
omissione governativa. Si vorrebbe quindi aggiungere una garanzia nel caso in
cui il Governo sia d’accordo con una determinata regione per motivi politici, che non tengano abbastanza
conto della Costituzione. Tale garanzia sarebbe rinforzata se si desse alla
Corte costituzionale il potere cautelatre di sospendere l’efficacia di una
legge regionale che potrebbe produrre dei guasti altrimenti non riparabili.»
Punto
quinto
L’ultimo
aspetto concerne i rapporti tra regioni ed enti locali. Secondo l’Elia, «questo
rapporto non risulta chiarito, perché da una parte non si è voluto dare, a
causa della resistenza dei comuni (municipalismo contro regionalismo), ciò che
era stato riconosciuto alle regioni a statuto speciale, cioè il potere
ordinamentale.» Premesso che con legge costituzionale (quella del 1993) questo
potere era stato assegnato alle regioni
a stato speciale, che però non l’hanno esercitato, perché – spiega il N. –
“creava troppe reazioni nei comuni”, un dubbio rimane: quali poteri hanno le
regioni nei confronti degli enti locali. Nella cennata audizione, l’Elia
articola la seguente risposta: «In realtà, l’art. 118 chiarisce che ci sono
funzioni che possono essere conferite con legge regionale. Allora, se ci sono funzioni
che possono essere conferite con legge regionale, è evidente che anche la
regione può allocare competenze (probabilmente in queklle materie di competenza
esclusiva che abbiamo visto prima) al comune o alla provincia, i quali
dovrebbero arricchire le loro attribuzioni anche con competenze assegnate
mediante legge statale. […] Rimane tuttavia quest’incertezza circa i limiti del
potere allocativo delle regioni.»
L’esegesi
del prof. Elia non può venire, tutto sommato, considerata avversa alla riforma,
eppure sono forse più le ombre che qua e là l’ilustre costituzionalista
rinviene nell’ordito legislativo, pregiudizievoli le discrasie che vengono
individuate, le carenze che in definitiva pregiudicano e comprimono la validità
della riforma. Tocca ad un parlamentare particolarmente interessato (il
Bassanini) esprimere una nota amara, come un commento sfiduciato. «In questi
ultimi mesi - interloquisce il
parlamentare (pag. 16) – abbiamo visto contrapporsi tesi ed interpretazioni
singolarmente contraddittorie. Abbiamo letto editoriali che sostenevano che
questa riforma è “acqua fresca”, che non cambia sostanzialmente nulla;
editoriali anche autorevoli: ricordo uno studioso vicino alla mia parte
politica, Ilvo Diamante, in un editoriale su “Il sole-24 ore”, che affermava
che si tratta di una riforma di modestissima portata, ma esortava a votare sì
perchè è meglio che niente».
In sede
parlamentare la nostra tematica, dunque, ha acquisito una subitanea attenzione
non scevra da qualeche preoccupazione indotta da critiche esterne che, seppure
non accettate, in fondo si temeva di potere condividere. Il presidente della
citata indagine conoscitiva, senatore Pastore, nella seduta del 7 novembre 2001
si lascia andare ad un inciso, nel dare la parola al presidente emerito Aldo
Corasaniti, che lascia trasparire preoccupazioni di tal senso. Nel ringraziarlo
«per avere accolto l’invito a fornire un contributo … ai fini dello scolgimento dell’indagine
conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento della riforma costituzionale», quasi
riduttivamente aggiucge che siffatta riforma continuerà a chiamare «”riforma
regionale” per evitare polemiche sulla sua definizione e che, al di là delle
posizioni individuali, è comunque una riforma assai importante e
significativa.»
Per tanti
versi gli fa eco lo stesso Corasaniti che preliminarmente e forse
apoditticamente esplime un giudizio di valore sull’intera riforma, non tranchant stando al senso delle parole,
ma molto delimitante nella sostanza. Tutta la riforma forse non va oltre ad una «costituzionalizzazione di riforme
ordinamentali adottate durante la legislatura». A fronte di «un notevole
decentramento di funzioni e, in relazione ad esso, un notevole trasferimento di
risorse e di personale a favore delle regioni» era «necessario rendere duratura
la nuova situazione mediante la costituzionalizzazione delle riforme attuate.»
Comunque, trasferimenti e riforme ordinamentali inerenti alla Bassanini non
sono facilmente revocabili e rispettivamente modificabili.
La
costituzionalizzazione implica di per sé una sanatoria nel senso che, se ci
fosse stato da dubitare della costituzionalità di parte della riforma
ordinamentale, la sospettata incostituzionalità finiva sanata per
costituzionalità sopravvenuta. Il Corasaniti, a questo punto, si pone al
riguardo taluni dilemmi tecnici che affronta e risolve autorevolmente. «Mi
domando – esplicita – per quella parte vi sarebbe stata una sanatoria, o,
invece, un’abrogazione? In tale ultimo caso sarebbe possibile una dichiarazione
di incostituzionalità per il tempo anteriore alla revisione. Sotto questo
profilo, quindi, l’ipotesi di una sanatoria non è del tutto convincente. Per la
parte in cui vi è conformità tra la riforma ordinamentale e la revisione del
Titolo Quinto, questa conferisce indubbiamente alla prima una maggiore
resistenza, una blindatura.»
Il
Corasaniti, ad ogni modo, esprime un giudizio favorevole quanto alla
valutazione relativamente alle riforme ordinamentali che questa riforma
costituzionale era diretta a costituzionalizzare. «Dal punto di vista tecnico –
soggiunge – cioè in relazione all’obiettivo di un autonomismo più spinto e più
rigoroso, la cosidetta riforma Bassanini è ineccepibile; dal punto di vista
politico, cioè in riferimento a un’opzione di tipo federalistico, si potrebbe dire
diversamente ma, rispetto agli obiettivi che si proponeva, la riforma
ordinamentale era perfetta … e questo giustifica l’ansia, espressa dalla
dottrina prima che in sede parlamentare, di vederla costituzionalizzata.»
In sede già
di indagine conoscitiva fa capolino una questione di estrema importanza:
l’istituzione di un consiglio delle autonomie locali. Sempre il Corasaniti, ad
esempio, constata: «tutte le regioni, nei nuovi statuti che stanno eleborando,
hanno inserito la previsione del consiglio delle autonomie, alcuni
attribuendogli una funzione meramente consultiva, altre anche di intervento,
sia pure indiretto, sulla legislazione, nel senso di prevedere, in caso di
dissonanza, una procedura legislativa aggravata davanti al consiglio
regionale.»
Una particolare
sensibilità in tema di necessaria dotazione degli organi legiferanti regionali
di un congegno consultivo del tipo prima additato ha mostrato il prof. Andrea
Piraino, quala abbiamo potuto avvertire personalmente seguendo il suo corso
accademico.
Una
risivitazione del contesto generale della riforma de qua viene approntata, in quella sede parlamentare che possiamo
considerare propedeutica rispetto all’impatto concreto della nuova legge
costituzionale con la realtà effettuale, dal Presidente dell’associazione
italiana dei costituzionalisti, prof. Sergio Panunzio. Così, tra l’altro,
puntualizza la portata del nuovo art. 117, il centro della nostra ricerca:
«L’art. 117 è il più rilevante anche per le future responsabilità del
Parlamento. A parte il rovesciamento del criterio di riparto – competenza
residuale e generale alle regioni e competenza solo in casi tassativamente
previsti allo stato – il primo comma introduce la disciplina con una formula
che afferma la parità dei limiti che incombono in modo uguale sia alla potestà
legislativa dello stato sia a quella delle regioni. E’ una norma emblematica,
che rispecchia la posizione nuova che, entro l’ordinamento della Repubblica,
spetta sia all’ordonamento statale che a quello regionale, così come risulta
dall’art. 114. Tutti hanno lo stesso valore, sono sottoposti soltanto alle
norme della Costituzione e ugualmente vincolati dallke norme dell’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. Non credo, anche se oggetto di
dibattito, che con il primo comma sia stato inserito una sorta di adeguamento
automatico delle leggi alle norme internazionali, né che sia stata prevista
un’automatica incostituzionalità delle medesime, qualora non corrispondano alle
norme internazionali. Mi sembra che in questo quadro di riconoscimento di pari
dignità degli ordinamenti, il riferimento ai “vincoli” contenuto nel primo
comma non modifichi la situazione esistente per quanto riguarda tali problemi.
E’ chiaro che vi è un obbligo dello stato e delle regioni di rispettare i
trattati,ma da ciò ne deriva necessariamente una invalidità delle loro leggi in
caso di inadempienza.»
Scendendo
al quarto comma del citato articolo 117, in particolare va annotato che «si
possono ancora utilizzare le norme legislative statali vecchie, ma lo stato non
può intervenire in via suppletiva con leggi nuove. Certo è che su questi
problemi – ed anche questo giustifica la possinilità di usare le vecchie norme
– non si possono adottare, soprattutto in una fase transitoria (ed in mancanza
di norme costituzionali transitorie), dei criteri troppo rigidi. Vi è un
principio di continuità tra ordinamento statale e ordinamento regionale, anche
in caso di mutamento di norme costituzionale sulle competenze, che la Corte ha
riconosciuto nella sua giurisprudenza (con la sentenza n. 13 del 1974) e che
anche qui può essere utilizzato. Tanto più la necessità di non essere troppo
rigidi s’impone per il fatto che nel nuovo Titolo Quinto non ci sono norme
espresse in materia di poteri sostitutivi dello Stato nel corso di mancato
esercizio delle funzioni legislative delle regioni.»
Conclusivamente,
va rimarcato che «non essendoci poteri sostitutivi dello Stato per l’attività
legislativa (e non avendo gli esecutivi regionali il potere di adottare atti
con forza di legge), se le regioni le leggi non le fanno, occorre una certa
elasticità nella individuazione di soluzioni operative per far funzionare il
sistema.»
L’articolazione del pensiero del
Panunzio fu molto pregnante e in qualche modo fa giustizia di taluni giudizi
ingenerosi nei confronti della Riforma che pure erano echeggiati in
quell’austera sala senatoriale. Soddisfazione accentuata mostra ovviamente il
Bassanini che non ne fa velo. «Mi sembra di capire – infatti esclama – che il
prof. Panunzio ritenga che si tratti di una riforma molto impegnativa, mentre
autorevoli opiniosti hanno scritto che si tratta di un fatto di poca
rilevanza; penso, per esempio, a quanto scritto da Ilvo Diamanti.» Codesto
opinionista, sia pure in altra sede
aveva forse con talule punte un po’ petulanti, ma – dobbiamo
riconoscerlo - con considerazioni critiche inquietanti e difficilmente
controdeducibili, aveva scritto [3]: «Giustificata è, certo, la preoccupazione
di garantire a tutte le Regioni le condizioni di base che rendano possibile
un sistema competitivo (qual è, in qualche misura, ogni modello federalista),
evitando che i diversi gradi di dinamismo producano effetti dissociativi.
Tuttavia, pensare a un modello che funzioni allo stesso modo e si sviluppi
con gli stessi tempi per la Lombardia e il Veneto come per la Calabria e la
Sicilia, significa, semplicemente, evitare di risolvere il problema.
Rinviando - perennemente - il federalismo a data da destinarsi. [..] Il fatto
è che la propensione federalista in Italia è molto elevata a parole. Assai
meno nei fatti. Le riserve sorgono da
valutazioni di carenza e coerenza. Scaturiscono, anzitutto, da quel
che non c'è, più che da ciò che vi si trova scritto. Non c'è la Camera delle
autonomie locali.
Manca la parte relativa alla responsabilità
finanziaria. Il capitolo, cioè, del federalismo fiscale. Ma trasferire poteri
e competenze senza prevedere su quali risorse debbano contare e gravare (la
sanità, da sola, impegna oltre metà dei bilanci regionali), significa
suscitare aspettative distorte. Evitando, anzitutto, il presupposto di ogni
vero federalismo. Che è il principio di responsabilità. A meno che non si
pensi [..] di moltiplicare per venti la condizione
delle attuali Regioni a statuto speciale (come la Valle d'Aosta o il Trentino
Alto Adige; ma anche la Sicilia); che sommano le proprie risorse ai
trasferimentidello Stato. Il che, più di uno Stato federale, confederale o
devoluto profilerebbe il Paese di Bengodi.
Manca, inoltre, ogni ragionamento
sull'articolazione del territorio. Dal punto di vista finanziario. [ …] Visto che molte delle Regioni attuali non
hanno tradizioni né morfologiasocioeconomica comuni.
Mentre, postulando la centralità
regionale, si trascura il ruolo delle città, che tanta parte hanno nella
storia e nell'organizzazione sociale e civile italiana.
Per questo, al di là del merito, mi
preoccupa maggiormente il metodo. Più di quel che c'è, mi sorprende quel che
non c’è... Così, dopo [..] discussioni, elaborazioni e precisazioni, fondate
su questa base incerta, non ci sarebbe da sorprendersi se si giungesse,
infine, alla devolution. Ma della devolution.»
*
* *
Condivisibile o meno, un siffatto
approccio critico è pur sempre impregnato di passionalità politica non
accoglibile in una ricerca come la nostra che tende, asetticamente e persino
avalutativamente, a cogliere l’architettura giuridica di una riforma
costituzionale passata attraverso il vaglio ed il travaglio non solo delle
istituzioni parlamentari ma anche da un referendum
che pur limitato nella partecipazione elettorale è stato pur sempre un foro
popolare ove poteva sentirsi - si è sentita - la voce comiziale (rammentiamo
l’ “adprobo” della repubblicana Roma) della più genuina sede democratica,
quella del corpo elettorale.
Purtroppo
la stroncatura è venuta anche da un presidente emerito della corte
Costituzionale ed in sede della cennata indagine conoscitiva, il noto e
tendenzialmente polemico dott. Vincenzo Caianiello. Rastrellando ogni aporia tecnica della riforma,
il dott. Caianiello redige una stroncatura per fortuna non sempre
significativa ma spesso meramente formale toccando aspetti marginali e
persino insignificanti.[4]
Per il
Caianiello, intervenendosi solo sulla
seconda parte della Costituzione non potevano non nascere contrasti con la prima parte, perché ci sono delle norme di difficile
coordinamento tra loro. Sappiamo che
l'articolo 5 della Costituzione recita: “La Repubblica, una ed indivisibile,
........”, per cui l'unità e l'indivisibilità della Repubblica è un “dato
presupposto” e non un “carattere che deriva dalla Costituzione”, percheé
l'articolo 5 non dice che la Repubblica è una e indivisibile. Non è perciò la
Costituzione la fonte di questa unità, ma essa dà per scontato un modo di
essere già esistente nella realtà, per cui si limita a registrarlo,
proseguendo poi nel testo evidenziando “l'esigenza di riconoscere e
promuovere le autonomie locali.”
Tale articolo è divenuto perciò di difficile
coordinamento con il nuovo articolo 114, il quale ingenera l'impressione di
“una diffusione, di una compartecipazione o, peggio, di una dispersione,
della sovranità dello Stato”.
E qui giunto, con tocco caustico, il Caianiello
esclama: «Come se non mancassero tutte le altre dispersioni della
sovranità!».
Invero ciò è dovuto ad altri eventi, anche positivi,
come quello, per esempio, della nostra partecipazione all'Unione europea. Qui
invece si genera un'erosione della
sovranità mediante diffusione su altri enti politici, quali sono i
comuni, le provincie e le città metropolitane (fantomatiche, perchè non si sa
se verranno mai ad esistenza).
Nel precedente testo della Costituzione, Stato e
Repubblica erano “termini adoperati in senso alternativo come sinonimi”. Certo non si può seguire il Caianiello nel
seguito del suo argomentare (stroncare?) ma non lo si può tacere. «Si diceva
Repubblica – seguita infatti - per dire Stato e viceversa. Si diceva leggi
dello Stato per contrapporle a leggi delle Regioni; si diceva leggi della
Repubblica per contrapporle a leggi delle Regioni. Oggi quindi lo Stato, identificato
con la Repubblica, concepito come Stato ordinamento, non ha piu¡ questa
qualificazione. E questo suo modo di essere all'interno, credo lo indebolisca
all'esterno perché - come si sa - per come lo Stato si atteggia al suo
interno, così appare verso l'esterno. Per cui, per esempio, il Presidente
della Repubblica non si potrebbe più chiamare Capo dello Stato se lo vogliamo
anche indicare come Capo di tutte le altre entita¡. A meno che non si voglia
accettare l'idea che il Capo dello Stato sia Capo solo di una parte della
Repubblica. Può anche darsi che queste siano soltanto delle sottigliezze [corsivo ns.], però non
escludo che un giorno qualcuno potrebbe eccepire ai rappresentanti dello
Stato apparato, considerato ormai soltanto una delle componenti, che essi non
rappresentano piu¡ la Repubblica, non rappresentano piu¡ l'unità nazionale.
Infatti le regioni (parliamo solo di esse), siccome
hanno loro specifiche competenze legislative ± e come si e¡ detto
sembrerebbero condividere il potere sovrano con lo Stato potrebbero, per quel che concerne le loro
materie, essere ritenute rappresentative della Repubblica; non potremo quindi
più dire che i nostri ambasciatori rappresentino solo lo Stato, perché
dovrebbero agire anche in nome delle regioni. Questo varrebbe anche per
quanto riguarda la stipula di accordi internazionali, anch'essi previsti, da
parte delle regioni.»
Per il Caianiello, è assiomatico: «vi sono molte
difficoltà di ordine sistematico e di raccordo del Titolo V con la prima
parte della Costituzione, tuttora fortunatamente
[corsivo, ns.] in vigore e che dovrebbe prevalere sulla seconda
[sottolineatura ns.]»
Il nostro costituzionalista prende atto che
«l'argomento d'ordine sostanziale che più viene in evidenza è il
capovolgimento delle competenze rispetto alla tradizionale elencazione delle
materie regionali e alla residualità delle materie dello Stato. »
«Sappiamo -
commenta - che tale formula venne proposta già all'epoca della commissione De
Mita-Iotti, venne riproposta nella Bicamerale e adesso è stata recepita nel
nuovo testo. E’ un modo come un altro per distribuire la potestà legislativa
- perché di questo parla l'articolo
117 della Costituzione - tra il Governo centrale e i governi locali, il che
però in questa forma si spiega più in una concezione di Stato federale in
senso proprio, che cioè nasce
dall'aggregazione di un insieme di entità politiche originariamente separate
che delegano ad uno Stato federale alcune competenze di cui sono titolari. Così accadde anche con la
Costituzione americana, quando fu scritta nel 1786. Ci fu l'esigenza di dire:
“Noi che siamo titolari di tutti i poteri cediamo questi allo Stato
federale”.»
All’atto pratico, per il Caianiello, vi è difficoltà
nell’operare il raccordo del nuovo articolo 117 con l'articolo 5 della
Costituzione (che per fortuna costituisce un'ancora di salvezza), da cui le
autonomie nascono come poteri locali derivati: si può avere il massimo
dell'autonomia di quei poteri, ma non potranno mai essere concepiti come
poteri propri che si amalgamano poi con quelli dello Stato. «Ripeto, perciò , - martella - che c'è una
difficoltà di raccordo dell'articolo 117 con l'articolo 5. »
Pertanto, queste difficoltà non sarebbero prive di
conseguenze quando si vanno a interpretare le norme successive. «Se fossi –
argomenta quindi - chiamato da qualcuno a districare la materia, a stabilire,
anche solo con approssimazione dopo le riforme, che cosa debba fare lo Stato
e cosa le regioni non nasconderei la mia indecisione e rifiuterei questo
incarico. Non essendovi tenuto allo stato da alcun obbligo istituzionale,
avrei molte difficoltà a stabilire come si possa discriminare tra loro, per
esempio, quando passiamo alla legislazione concorrente in materia
finanziaria, che impone l'armonizzazione della materia, sulla quale si diceva
finora che con l'articolo 119 vecchia maniera, quella degli enti locali era
pur sempre una finanza derivata. Adesso diventa una finanza autosufficiente.»
Nel dettaglio, scatterebbe una difficoltà a
comprendere perché al quarto comma del nuovo articolo 119 si dice: “Le
risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono...”;
meglio sarebbe stato usare le parole: “debbono consentire”, mentre questo
´”consentono” sembra
indicare un dato scontato già esistente nella realtà,
quando invece si tratta di stabilire in che modo le risorse si debbano
distribuire al punto da consentire l'autonomia di bilancio e finanziaria.
Sempre per quanto concerne la legislazione concorrente
in materia finanziaria, laddove si parla di armonizzazione dei bilanci
pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, viene in evidenza il
sistema tributario.
Ed al riguardo non ci si può non preoccupare del fatto
che è difficile che avvenga un'armonizzazione in una sede che non sia unitaria,
nella quale cioè le parti trovino l'armonia per dettare delle regole.
Incidenter tantum, si censura un’aporia che a prima vista può appire
inconferente, ma è passaggio necessario per comprendere l’ideologia del
Nostro critico. «Non so - annota con
astuzia retorica - da chi è stato gia¡ rilevato che ciò troverebbe una sua
logica in un sistema di autonomie. Non uso il termine ”federale”, che ritengo
in contrasto con l'articolo 5 della Costituzione e, fino a quando esso non
sarà eliminato (se possa esserlo, essendo un principio supremo della nostra
Costituzione), non vi è un luogo nel quale l'armonizzazione come confronto
politico possa avvenire a livello di poteri garantiti costituzionalmente, e
non da una legge ordinaria come lo è quella che prevede un organo di raccordo
tra le regioni che, non essendo previsto in Costituzione, non ha il potere di
dare indicazioni cogenti per le regioni.»
Ne discende, ad ogni modo, che le Regioni ora possono
legiferare in piena autonomia, non possono essere condizionate da determinazioni
estranee ai loro consigli regionali, mentre potrebbero esserlo solo in base
ad un meccanismo (che non si saprebbe dove collocare nella gerarchia delle
fonti) che risolva in prevenzione il conflitto.
In tale contesto – e forse qui bisogna essere d’accordo
- fino a quando non ci sarà quella Camera delle regioni, che ancora stenta ad
essere varata, è arduo individuare una sede politica di raccordo fra Stato e
regioni.
Comunque , al presente, dovrebbe essere ancora lo
Stato con una legge cornice a dettare i princcipi fondamentali. In una
materia delicata come quella finanziaria, è di ardua configurabilità un processo atto a stabilire i confini e porre quei principi
che armonizzino la finanza statale con quella regionale.
Ma intanto le regioni, potrebbero iniziare a
legiferare tranquillamente anche se lo Stato non intervenisse con la
predeterminazione di principi fondamentali per l'armonizzazione. Le regioni
potrebbero intanto emanare i propri provvedimenti.
Additata la potestà, il Caianiello sembra ritrarsi
speventato: per lui, il fatto che una regione si dedichi a emanare
provvedimenti finanziari senza una legge cornice «sarebbe veramente un
disastro perchè, mentre in altre materie si possono fare degli aggiustamenti,
l'economia non perdona. Ci troveremmo quindi di fronte ad un disastro: con un
Governo che dovrebbe redigere il Documento di programmazione
economico-finanziaria e la legge finanziaria e un Parlamento che dovrebbe
approvare quest'ultima, mentre le regioni se ne andrebbero per conto loro, e
poi, a posteriori, una Corte costituzionale, non “attrezzata” a compiere
valutazioni di carattere finanziario, chiamata a verificare il merito delle
scelte operate per la distribuzione delle risorse dovrebbe stabilire i
princý¡pi per l'armonizzazione, desumendoli da altre leggi.»
Invero non può negarsi che si addosserebbero «alla
Corte compiti che non le spettano, anche se
l'immaginassimo formata da rappresentanti delle
regioni, quasi che sia possibile ipotizzare un giudice composto di
“rappresentanti” delle parti in causa; questa è veramente una distorsione
mentale: neppure nei collegi arbitrali si dice che l'arbitro è rappresentante
di una parte. Solo negli organismi conciliativi ci sono tali forme di
rappresentanza. L'idea di una futura Corte formata da rappresentanti delle
regioni, che necessariamente si contrapporrebbero a quelli dello Stato, cozza
contro l'articolo 111 della Costituzione, perchè quello della terzietà del
giudice rispetto alle parti è principio generale di qualsiasi processo ed
anche di quello costituzionale. Così, avremmo una Corte costituzionale
formata se mai esclusivamente da rappresentanti delle regioni (abolendo il
“ciarpame” vetusto costituito da coloro che vengono nominati dal Presidente
Repubblica, dai magistrati e dal Parlamento nazionale) e trasformata in
Camera delle Regioni.
Dimenticando però che in quanto Corte funziona pur
sempre con il metodo giudiziario, cioe¡ di prefissione di un parametro di
riferimento e di individuazione del caso da decidere per dare alla soluzione
un supporto giuridico. La funzione di armonizzazione è invece di per sé
politica; essa suppone la possibilità di disporre discrezionalmente
dell'oggetto del contendere, cioè per dettare una politica composizione degli
interessi, che appunto in altri ordinamenti, come quello tedesco, è compiuta
in prima battuta dalla Camera dei La»nder e in seconda battuta dal tribunale
costituzionale che verifica se in quella sede è stato rispettato il patto
federativo o Bundestreu, come viene definito nel diritto tedesco.»
Con tocco finalmente propositivo, il Caianiello si
accinge a concludere la sua audizione rispondendo a questa sua domanda: «ome
potrà allora avvenire da noi l'armonizzazione?» Secondo il Nostro, pur
rispondendosi con un’altra domanda, in definitiva, la prassi dovrebbe
articolarsi «con una competenza ripartita; lo Stato, da una parte, che detta
dei principi e le regioni, dall'altra, che li debbono applicare».
Certo non è un modo idoneo per realizzarla. Infatti,
nella competenza ripartita o concorrente le regioni sono tenute a rispettare
i princý¡pi fissati dallo Stato e quindi vi è
una specie di gerarchia tra essi e la regione, per cui il parametro
costituito dal principio fondamentale, se non e¡ stato impugnato per tempo
dalle regioni, costituisce una fonte inderogabile che queste devono
osservare.
*
* *
Riforma epocale o mera
costituzionalizzazione della Bassanini, l’introduzione di una potestà
legislativa in capo alle Regioni è rivisitazione costituzionale di grande
momento. Ed è persino di immediato intuito che in un siffatto contesto il
ribaltamento delle enumerazioni di competenza legislativa addirittura tra
stato e regioni e l’avere fissato l’epicentro del potere legislativo in capo
alla regione che cessa di essere subalterna ma diviene equiordinata con lo
stato nell’emanazione di leggi (sia pure in un settore che si dice
“residuale” ma trattasi di campo esteso e propenso alla dilatazione, una
volta stabilite le coordinate delle materie centrali o statuali), designano
tematiche e sollevano problematiche che ci siamo già industriati di definire,
in attesa di operare i necessari approfondimenti settoriali. Ma già, sin da
ora possiamo affermare che la
riforma della potestà legislativa dello stato e delle regioni va considerata come uno dei cardini della
legge costituzionale 18 ottobre n. 3
Ci siamo soffermati, crediamo a
sufficienza, su tale assunto sia pure in termini di inquadramento generale e
di propedeutico approccio. Nei capitoli che seguono, tenteremo di essere più
espliciti e pertinenti.
La novella costituzionale del 2001 non
raffigura solo un implemento legislativo dell’istituto regionale, quale - piuttosto ristretto in sede
dell’assemblea costituente del 46-48, e ripreso ma asfitticamente con la
visione regionalistica degli anni ’70 – può oggi invece considerarsi basilare
per una ristrutturazione federalistica della Repubblica italiana. Si è
radicata una visione nuova dello stato. E tanti sono i nodi nevralgici che s’intessono nella riforma del
2001, peraltro pronuba di ben altre rivisitazioni costituzionali, ove
preponderante non potrà non essere l’opzione federalistica, abbia o non fortuna una estrosa ed inaccettabile
concezione c.d. “deregolatrice” (deregolation, tanto per intendersi, una
impalpabile “cosa” che citiamo pur conoscendone il patetico e prematuro
occaso).
In un sinteticissimo comma 4 dell’art.
117 Cost. si compendia una modifica costituzionale d’amplissimo – e per il
momento, fors’anche ancora incompreso – risvolto rivoluzionario:
all’organismo regionale compete ora un potere legislativo che tolto quello
esclusivo dello stato e l’altro concorrente sempre della stessa regione con
quello statale investe il “rimanente” (si suol chiamare ma non riduttivamente
“residuale’) campo legislativo. Il potere di dettare legge, va da sé non può
essere scisso da altre realtà giuspubblicistiche, subisce sottordinazione
(rispetto alla nuova ed accrescentesi sovranità comunitaria), impone
coordinamenti e controlli. Una sorta di rete, di nodi nevralgici, che
diventano un sistema; tutto quanto da prendere in considerazione se si vuol
ben comprendere lo specifico o il nostro potere “residuale” legislativo della
regione.
Noi ci siamo già industriati a fare
una prima sommaria ricognizione di tale non agevole ordito. Naturalmente, in
prosieguo, la trattazione dovrà essere più sistematica, più cogente, meno
dispersiva. Nelle precorse pagine abbiamo, comunque, cercato di mettere a
nudo i sotterranei legamenti, ad esempio, con l’art. 114 c. 1. Non per nulla
in precedenza (pag. 22) abbiamo citato una autorevole
dottrina secondo la quale quella
dell’art. 117 c. 4 è “norma emblematica, che rispecchia la posizione nuova
che, entro l’ordinamento della Repubblica, spetta sia all’ordinamento statale
che a quello regionale, così come risulta dall’art. 114. Tutti hanno lo
stesso valore, sono sottoposti soltanto alle norme della Costituzione e
ugualmente vincolati dalle norme dell’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali”.
Resta
ineludibile rimeditare sulla configurazione della potestà legislativa dopo la
riforma. Ormai si è obbligati a cambiare registro nelle usuali ermeneutiche
costituzionali; deve essere chiaro che si è assottigliata la potestà
esclusiva dello stato; si è incuneata quella concorrente tra stato e regioni
e soprattutto si è definita, corroborata e dilatata la “potestà residuale
delle regioni” che naturalmente ci occupa con vincoli di specificità, ma non
di esclusività, pena l’incomprensione della riforma medesima.
Aspetti,
questi, cui preliminarmente ci siamo adoperati di porre i paletti della
delimitazione ermeneutica, i quali invece dovranno essere ulteriormente
dispiegati nel seguito della nostra indagine.
L’approccio
parlamentare, quello dei presidenti emeriti della Corte costituzionale (tanti
e non tutti d’identico indirizzo scientifico, giurisprudenziale e culturale),
l’altro della più autorevole dottrina si sono imposti all’attenzione degli
studiosi e degli specialisti. Gli orientamenti sono molto diversificati, il
giudizio di valore sostanzialmente positivo. Qualche picco osannante non è
mancato; qualche stridula nota demolitiva (Caianiello) si è levata ed in sede
addirittura parlamentare. La riforma del titolo quinto, la residualità
legislativa delle regioni, il risvolto innovativo – pur non rivoluzionario –
incontrano ormai incondizionato accoglimento.
Ma,
ai margini, offuscano le non poche “ombre” che su riverberano sulla
disciplina della potestà legislativa residuale.
Iniziamo
dalla “ermeneutica” – a dire il vero incipiente e già ondivaga – della Corte
costituzionale.
Può
sembrare persino paradossale affermare che le Costituzioni passano, ma la giurisprudenza… resta,
dal momento che ordinariamente è vero proprio l’inverso, rinnovandosi la
pratica giuridica al proprio interno senza sosta (e. in maggiore o minore
misura, a seconda dei campi e degli istituti) sulla base di un impianto
costituzionale formalmente rimasto, nel suo insieme, immutato. Quando, però,
si riscontrano manifestazioni della pratica stessa tendenzialmente portate a
trasmettersi sempre identiche a sé nel tempo, malgrado il sopravvenuto
mutamento costituzionale si è naturalmente portati a far luogo ad una seria e
disincantata riflessione sulla forza
effettiva di cui la Costituzione è dotata e sui limiti strutturali ai quali
essa soggiace, vuoi per l’ambiguità e vaghezza concettuale dei suoi enunciati
e vuoi ancora per ragioni legate al contesto in cui si cala ed invera, che la
obbligano a piegarsi docile, a mò di sostanza gommosa, a “manipolazioni” di
vario segno, tra le quali appunto quelle che determinano la perdurante,
tralaticia affermazione di antichi indirizzi (giurisprudenziali e non)
formatisi in seno ad un quadro costituzionale pure originariamente assai
diverso da quello successivamente invalso.
[…]
Non
si dà al riguardo… alcun giudizio di valore, né in un senso né nell’altro:
anche perché, ove ci si ponesse da un angolo visuale siffatto, il giudizio
potrebbe rovesciarsi di continuo su se stesso, a seconda dell’esperienza di
volta in volta osservata. E’ chiaro che, in prospettiva ideologicamente
condizionata, la continuità rispetto ad una disciplina anteriore maggiormente
apprezzata di quella che ne ha preso il posto verrebbe salutata con favore,
pur “compensato” dal rammarico per altra disciplina, in atto vigente e
giudicata “migliore” della precedente, alla quale ultima tuttavia
l’esperienza seguiti a mostrarsi, stranamente fedele. Eppure, gettata la
maschera ideologica che non di rado ne copre il volto, il giurista, in un
caso e nell’altro, non può che provare un certo disagio di fronte ad un
diritto costituzionale fatto, almeno in parte, oggetto di torsioni
ricostruttive ed applicative.
[…]
Per
un minimo di chiarezza espositiva, è consigliabile dividere la giurisprudenza
in due “tronconi”: quello che, per brevità, potrebbe chiamarsi di ordine
istituzionale e l’altro di ordine sostantivo, pur nella ovvia precisazione
che entrambe le parti si rimandano ed implicano a vicenda e che, perciò, la
loro separazione non può farsi a colpi di accetta.
[…]
La
giurisprudenza di ordine sostantivo conferma quanto siano maneggevoli le
etichette che contrassegnano le materie di Stato e Regione e come la più
vigorosa tendenza sia… nel senso di recuperare, almeno in parte, al primo ciò
che la Carta novellata vorrebbe invece ormai acquisito al patrimonio
funzionale della seconda, pur in un quadro giurisprudenziale attraversato da
un moto incessante, assai frastagliato nei suoi lineamenti di fondo,
connotato… da forti oscillazioni, incertezze, problematica coerenza interna.
Paradossalmente,
l’inversione della tecnica di riparto delle materie, almeno in qualche caso,
sta nei fatti giocando contro
l’autonomia
Un secondo intervento del legislatore
costituzionale, certamente opportuno al fine di completare e consolidare la
svolta in direzione fortemente autonomista che il sistema ha compiuto con
riscrittura del titolo quinto, concerne la disciplina della corte
costituzionale. La posizione della Corte è destinata a divenire “strategica”
,[5] sia per
quanto riguarda la risoluzione dei conflitti di competenza legislativa tra
stato e regioni, verosimilmente in futuro assai numerosi, sia per quanto
attiene, più in generale all’attuazione dle nuovo sistema di rapporti e
raccordi tra stato, regioni ed autonomie locali. Il modo con il quale la
Corte interpreterà le nuove norme costituzionali e siprattutto le madalità
con cui essa di volta in volta le applicherà quando si tratterà di decidere
in ordine alle prevededibili controversie che nasceranno tra stato, regioni e
sistema delle autonomie locali, saranno di assoluta rilevanza per definire il
sistema effettivo che discenderà dalla riforma del titolo quinto. E’
comprensibile quindi la necessità, da più pari manifestata, [6] di
rivedere e di ripensare la composizione della corte (nonché il suo stesso modo di funzionamento
e le modalità di accesso ad essa) in coerenza con un sistema che, ancorché
lungi dall’essere pienamente compito, risulta profondamente diverso da quello
disegnato dai nostri padri costituenti.
Tale riflessione deve tuttavia essere
condotta e sviluppata in ogni sede con la massima prudenza e la massima
ragionevolezza possibile. Proposte [7] volte a
modificare la composizione della corte introducendovi una certa quota di
giudici nominati da un’assemblea di presidenti di giunta e di consiglio
regionali, o dei consigli regionali stessi non non possono non suscitare
fortissime perplessità. Pur dovendo riconoscere che
in passato la Corte ha talvolta concorso alla realizzazione del sistema con
un occhio di favore per la supremazia dello Stato e concordando, quindi, in
ordine all’opportunità di rendere più aperta e sensibile la giustizia
costituzionale alle istanze del pluralismo, non pare che la strada da seguire
possa essere quella di affidare ai giudici costituzionali una sorta di
impropria rappresentanza degli interessi dei soggetti che li hanno nominati.
La Corte è infatti un organo di garanzia e quindi ogni intervento riformatore
della sua composizione deve avere lo scopo di rafforzarne il ruolo «terzo»,
l’autorevolezza e l’ineliminabile funzione di «magistero costituzionale». A
tal stregua, può certamente condividersi la posizione di chi62 ritiene che
l’adeguamento della composizione della Corte al pluralismo istituzionale
delineato dalla riforma del Titolo V debba passare attraverso più corposi e
diversi interventi, a partire dalla tanto attesa Camera delle autonomie la
quale ben potrebbe essere coinvolta nel processo formativo della Consulta.
Una volta così delineato il quadro dei
problemi interpretativi ed applicativi che la nuova disciplina costituzionale
sul potere legislativo regionale dischiude, pare opportuno dedicare alcune
brevi riflessioni al completamento del processo di riforma in chiave coerente
con l’assetto policentrico e fortemente autonomo del sistema. [8] La disposizione contenuta all’art. 11 della
legge cost. n. 3 del 2001, possiede, come già rilevatoun significativo valore
in quanto con essa si mira a realizzare, per la prima volta, l’innesto delle
autonomie territoriale nel parlamento nazionale. Malgrado ciò e ridadendosi
l’urgenza di provvedere in tempi rapidi alla sua attuazionwe, non può
tuttavia mancare di rilevarsi che l’integrazione della commissione
parlamentare per le questioni regionali non sembra rappresentare lo snodo
sufficiente per completare l’assetto istituzionale e dare solidità al nuovo
sistema delineato dal titolo quinto. Essa costituisce, ai fini del
coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nell’esercizio della
funzione legislativa statale, una “soluzione minima di natura organizzativa” [9]: se
infatti, da un lato, la commissione prevista dalla Costituzione (art. 126 c.
1° Cost. ) è una semplice articolazione del Parlamentoo, dall’altro l’art. 11
c. 2°, conferisce ad essa, una volta integrata, la competenza ad esprimere un
parere rinforzato sui soli progetti di legge riguardanti le materia di cui
agli artt. 117 c. 3° e 119 cost. Lo stesso art. 11 c. 1°, fissando il termine
della sua validità nella futura “revisione delle norme del Titolo Primo della
parte seconda della Costituzione”, oltre a sancire la transitorietà della
previsione in esso contenuta, sembrerebbe indicare che la riforma approvata,
per essere pienamente e armoniosamente in grado di fondare un nuovo sistema
costituzionale nei rapporti ed altri livelli territoriali di governo,
necessita di una adeguata e coerente riforma del Parlamento, della
composizione delle due camere e dei poteri ad esse attribuiti.
La revisione dell’attuale
bicameralismo, e., segnatamente, la trasformazione di uno dei due rami del
Parlamento, presumibilmente il Senato, in una rappresentanza del Governo locale,
costituisce, secondo larga parte della dottrina, un “passo necessario e in
qualche modo ineludibile”, [10] al fine
di completare e consolidare la svolta in direzione fortemente autonomista che
il sistema costituzionale italiano ha compiuto con la legge costituzione n. 3
del 2001. In proposito, viene sostenuto che esiste una relazione piuttosto
stretta tra la riforma dei governi territoriali in senso accentuatamente
autonomista e la riforema del sistema parlamentare: il coinvolgimento del
sistema delle autonomie nel processo decisionale centrale è una esigenza
fondamentale per un ordinamento, quale quello italiano, in cui, come ha
significativamente riconosciuto la recente sentenza n. 106 del 2002 della
Corte Costituzionale, le autonomie territoriali concorrono a plasmare
l’essenza stessa della sovranità popolare.
Molti dei problemi legati
all’attuazione della riforma, prima, e al corretto funzionamento a regime del
sistema, dopo, difficilmente potranno essere affrontati senza poter contare
su una sede nella quale sia possibile associare a scelte determinanti per il
sistema istituzionale tutti gli elementi che ne fanno parte e, da oggi, a
pari titolo (art. 114 c. 1° Cost.). In particolare, ed è questo il profilo
più rilevante ai fini della nostra analisi, una simile riconfigurazione del
sistema bicamerale permetterebbe di affrontare con più sicurezza e fluidità
le dinamiche legate al nuovo assetto delle competenze legislative.
Le considerazioni rapidamente svolte
nella premessa hanno messo in evidenza la circostanza per cui il riparto
delle delle competenze legisklative tra stato e regioni delineato dal nuiovo
Titolo quinto, malgrado sia ispirato ad una impostazione di tito
tendenzialmente duale, fondata sulla separazione-contrapposizione tra centro
e periferia, presenta “inevitabili varchi di flessibilità” .[11]
Si pensi, in proposito, a quelle voci,
presenti soprattutto nell’elenco contenuto all’art. 117 c. 2° Cost., le quali
si riferiscono a “competenze senza oggetto” (elegante locuzione per tentare
di designare, ad esempio, gli sfuggenti campi dei “livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” – art. 117 c. 2 lett. m), ossia a competenze le quali sono
chiamate a definire se stesse mediante il proprio esercizio.
|
[1] )
Cfr. gli atti della indagine conoscitiva del Senato la cui commissione si
insediò il 17 ottobre 2001 sotto la presidenza appunto del senatore Pastore.
Stando al sommario, il Presidente “ illustra la proposta di indagine
conoscitiva in titolo ed il relativo programma come definiti nel corso dei
lavori dell'Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi nella
riunione di ieri. Si tratta di un'iniziativa che si rende opportuna anche per
soddisfare l'esigenza di orientare l'attività futura del Parlamento in
conformità alle nuove disposizioni costituzionali. Si acquisisce il “consenso
sull’iniziativa del senatore MANCINO, anche a nome della sua parte politica”.
Segue l’autorevole assenso del senatore BASSANINI, che anche “ a nome del suo
gruppo, dichiara di concordare con la proposta illustrata dal Presidente
ritenendo necessario avviare un'ampia riflessione sulle conseguenze della
approvazione della legge di revisione del Titolo V della Parte II della
Costituzione.” Quindi sii apre i un dibattito sulla proposta di programma da
sottoporre all'esame della Presidenza del Senato nel quale prendono la parola i
senatori MANCINO, BOSCETTO, VALDITARA, BASSANINI, DEL PENNINO e VITALI. “ In
conclusione, il presidente PASTORE, raccogliendo le indicazioni emerse, illustra
il programma da inoltrare alla Presidenza del Senato che prevede la richiesta
di un contributo ai Presidenti emeriti della Corte costituzionale nonché
l'audizione del Presidente e del Procuratore generale della Corte dei conti,
del Presidente del Consiglio di Stato, dei Presidenti delle autorità di
garanzia, del Parlamento europeo, della Commissione e della Corte di giustizia
delle Comunità europee, dei Presidenti della lega dell'autonomia, dell'UNCEM,
dell'UPI, della Conferenza dei Presidenti delle giunte regionali e delle
province autonome di Trento e di Bolzano e della Conferenza dei Presidenti dei
consigli regionali, delle associazioni degli studiosi di diritto costituzionale
e di diritto amministrativo, dei rappresentanti delle categorie produttive,
professionali, sindacali e del terzo settore, nonché dei Ministri per le
riforme istituzionali e la devoluzione, per la funzione pubblica, per gli
affari regionali, per le politiche comunitarie e dei Ministri dell'interno e
dell'economia e delle finanze. “ Segue l’atto formale con il quale “la
Commissione unanime approva la proposta di indagine conoscitiva in titolo
convenendo con il relativo programma. Su proposta del Presidente si conviene di
richiedere per le audizioni dell'indagine il resoconto stenografico a
pubblicazione immediata.” A quel resoconto stenografico ed a quelli delle
successive riunioni noi, in questo lavoro, rinviamo per i riferimenti del caso.
[4] ) SENATO DELLA REPUBBLICA XIV LEGISLATURA 1„
COMMISSIONE PERMANENTE (Affari costituzionali, affari della Presidenza del
Consiglio e dell'interno, ordinamento generale dello Stato e della Pubblica
Amministrazione) INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI EFFETTI NELL'ORDINAMENTO DELLE
REVISIONI DEL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 3Î Resoconto
stenografico SEDUTA DI MERCOLEDI¡ 24 OTTOBRE 2001 (Pomeridiana) Presidenza del
presidente PASTORE IC 0113 TIPOGRAFIA DEL SENATO (500) Senato della Repubblica
XIV Legislatura ± 2 ± 1„ Commissione 3Î Resoconto Sten. (24 ottobre 2001) I N D
I C E Audizione del professor Vincenzo Caianiello * CAIANIELLO Pag. 3, 19, 23
[5] Franco Pizzetti, dalle
riforme della costituzione ad un sistema costituzionale condiviso. La difficile
sfida italiana, in Le Regioni,
2002, pag. 617
[6] ) Cfr. A. Piraino, in G. Berti-G.C. De Martin (a
cura di); S. Bartole …, F. Pizzetti … V. Cerulli Irelli … in A. Ferrara-L.R.
Sciumbata (a cura di); L. Vandelli …; G.C. De Martin, L FUNZIONE STATUTARIA E
REGOLAMENTARE DEGLIENTI LOCALI,
[7] ) Ci
si riferisce alle proposte inizialmente contenute nel progetto di «devolution»
del Ministro Bossi (d.d.l. n.1187), poi stralciate. Esse hanno alimentato forti critiche
all’interno della dottrina: cfr. A. MANZELLA, Le Regioni divise nell’Italia di Bossi,
in La Repubblica del
31 luglio 2001, il quale, con riferimento alla proposta di giudici
costituzionali eletti da un’assemblea comune dei presidenti delle Giunte e dei
Consigli regionali, parla di una Corte costituzionale quale “collegio arbitrale
di tipo corporativo”; F. PIZZETTI, op. ult. cit., p.619, secondo cui la proposta è
“inammissibile e inaccettabile”; A. RUGGERI, “Regionalizzazione” apparente e “politicizzazione”
evidente della Corte costituzionale attraverso la modifica della sua
composizione, intervento al forum in rete di Quad. cost., in www.unife.it
[8] ) Chiara Aquili, la potestà legislativa regionale nella riforma del titolo quinto: le
prospettive aperte ed i nodi connessi all’attuazione delle nuove disposizioni
costituzionali, in “Amministrazioneincammino” (www.luiss.it)
[9] ) Franco Pizzetti, l’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e
nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’Unione
Europea, in Le Regioni, 2002,
pag. 653 e ss.
[10] ) M. Cammelli, Principio di sussidiarietà e sistema amministrativo nel nuovo quadro
costituzionale, in G.Berti-G.C. De Martin (a cura di )
[11] ) Adele Anzon, un passo indietro verso il regionalismo “duale” in www.associazionedeicostituzionalisti.it
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