lunedì 31 ottobre 2016


Questa è la tesi di mio nipote, una fervida mente, dottore Giuseppe Taverna, appena trentenne dirigente generale del Ministero della Pubblica Istruzione, in atto a Trastevere.  Attiene alla riforma del Titolo Quinto della Costituzione che ora Renzi vorrebbe rottamare. Tesi di gran valore, apprezzabile per lungimiranza politica e soprattutto per acume giuridico, vero titolo di merito per questo giovane fìglio di mio fratello. Calogero Taverna  






La novella costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 segna una tappa saliente del lungo e controverso processo di ammodernamento dello Stato democratico volto ad un decentramento a livello territoriale anche delle massime prerogative pubbliche non esclusa quella legislativa.

Se nel vecchio art. 114 la Repubblica si tripartiva in Regioni, Province e comuni secondo una elencazione scissa da criteri di coordinamento, subordinazioni, interdipendinze, priorità, non si sa se a cascata o in collateralità e via discorrendo (e tanto in proposito si è discettato) è certo che la nuova formulazione del dettato costituzionale del primo articolo del Titolo V scalza l’equivoco ed improprio concetto di ripartizione, denega ogni forma di parcellizzazione, tenta la formalizzazione di una monade, che  pur varia nelle sua composizione, assurge, però, ad una categoria che ora si compendia nell’unitario carattere costitutivo (“ la Repubblica è costituita etc.”). In definitiva coordina il disposto dell’ex art. 114 cost. con la perspicua definizione dell’art. 5 Cost. (unità ed indivisibilità della Repubblica)

Il nuovo titolo quinto è dunque  riforma profonda, fortemente innovativa, suscettibile quindi di revisioni scientifiche, politiche, giurisprudenziali dottrinazie di amplissimo respiro. E tanto deve indurre a cautele, scrollamento di idola anche inveterati. Necessita di approccio scevro da preconcetti tradizionali, schemi emermeneutici, coerenze con insegnamenti magari vetusti eppure anchilosati.

Ma ciò premesso, a volo d’uccello, dobbiamo subito aggiungere che la riforma costituzionale non chiude il processo, diciamo così, della regionalizzazione dello stato centralistico, apicale, accentratore delle classiche funzioni autoritative (i canonici poteri legislativi, impositivi e della difesa nazionale).



Valga ad esempio l’incombente postulazione di un nuovo federalismo che a tanti appare quale inammissibile frantumazione dell’unità nazionale.



Con l’art. 117 novellato nel 2001 intanto la peculiare potestà legislativa viene a dipanarsi tra Stato e Regioni non più sotto il vincolo del’interesse  nazionale (almeno stando alla lettera della norma) lungo una concettualizzazione di un potere legislativo esclusivo (art. 117 c. 2), concorrente (art. 117 v. 3) e residuale ma nel senso che si definisce un’area che compete in esclusiva (“non espressamente”) agli organismi regionali (art. 117 c.4).

Ed a noi occorre questa prima, molto approssimativa distizione per definire la latitudine della nostra ricerca che vuole incardinarsi nella novellata potestà legilativa “residuale” delle Regioni. In proposito diamo l’assunto della nostra tesi citando appunto il quarto comma dell’art. 117 Cost.: «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferiomento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

I padri Costituenti, invero, restringevano i poteri legislativi delle Regioni in una elencazione , quanto precisa e pregnante non furono poche le perplessità, subodordinanli ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e semprechè non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e  sempreche non colldeserro con le collaterali potestà delle altre Regioni.



Preliminarme s’impone la questione se davvero la riforma costituzionale abbia modificato il precedente assunto al riguardo e soprattutto in che misura. Ci pare, invero, che se il nuovo legislatore costitituzionale abbia davvero voluto incidere in siffatta materioa di esclusiva legislazione regionale – e noi ne siamo convnti – ci corre l’obbligo di significare che remore sono insorte all’istante persino nelle massime espressioni giurisdizionali, dichiaratamente inspirate dai  giudici emereti della stessa Corte costituzionale, che intrisi di ideologie nobilissime ma non più in sintonia con il nuovo corso delle visioni regionalistiche paiono incepparsi ed inceppare l’attuazione della nuova disciplina costituzionale. Aggiungasi che fino a quando le espressioni culturali territoriali – che sono affini e persino in simbiosi cone le istituzioni regionali – restano escluse o emarginate dai momenti delle oportune riforme costituzionali, delle connesse esplicazioni giurisdizionali ed al limite dalle egemonie culturali apicali – il rischio dello svilimento di una riforma, sino alla sua denegazione aliunde, è imminente e per il caso che ci occupa fors’anche effettivo ed effettuale.



Purtroppo, la riforma è partita con taluni peccati originali, con forzature e con frettolosità il cui postumo riverbero sta forse per inficiare la validità della modifica legislativa medesima. All’occaso della XIII legislatura, vigendo una precaria coalizione politica che si è ribaltata nella successiva legislatura, si è forzata la procedura parlamentare che con lo scarto di pochi voti e senza il coinvolgimento delle opposizioni di allora (divenute poi maggioranza) hanno inteso dare attuazione alla riforma costituzionale del titolo V. Va da sé che riforme siffatte vanno attuate, articolate e pensate con assensi ed apporti ad ampio raggio, oltre una risicata maggioranza parlamentare. Ciò nel nostro caso non avvenne. Il ripensamento successivo è stato persino ostentato. Il ridimensionamento esplicito. La rivisitazione giurisprudenziale paralizzante.

 L’iter della riforma del titolo V parte invero da lontano. Dopo un lungo dibattito sulle rifoprme istituzionali, protrattosi per decenni in dottrina e in parlamento (Commissione bicamerale per le riforme: Bozzi, 1983-1985; De-Mita.-Jotti 1992-94), nella tredicesima legislatura si arriva faticosamente alla modifica del titolo V della seconda parte della Costituzione repubblicana, dedicato a Regioni ed enti locali. La formazione (con legge costituzionale 1/97, del 24 gennaio 1997) di una nuova commissione bicamerale, presieduta dal deputato Massimo D’Alema, che sviluppa i suoi lavori a partire dal 4 febbraio 1997 fino al 30 giugno dello stesso anno, quando si approva il primo testo che tende a riscrivere e ristrutturare l’intera seconda parte della  Costituzione.

Durante l’estate del 1997, i parlamentari depositano proposte di modifica al testo, che quindi viene nuovamente discusso dalla Bicamerale ed approvato definitivamente il 4 novemvre 1997. Traasmesso all’aula della Camera, il progetto della Commissione D’Alema non ha fortuna, e l’esame parlamentare viene rinviato sine die dopo aspri contrasti sorti sia sulle singole parti, sia sull’impianto complessivo delle riforme.

L’approvazione di una legge costituzionale (la l. 1/99 del 22 novembre 1999) recante disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta Regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni ha costituito il secondo momento del processo riformatore. Un anno più tardi, a fine legislatura, è stata approvata anche la legge costituzionale 2/2001 recante disposizioni speciali per le elezione diretta del presidente delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Biolzano (31 gennaio 2001)



Infine si ha l’approvazione delle legge costituzionale 3/2001 che ci occupa. L’iter del disegno di legge costituzionale inizia dalla Camera (atto Camera 4462): il testo è approvato in prima lettura il 26 settembre 2000,  quindi giunge il primo sì al Senato (L’atto Senato 4809 è approvato il 17 novembre), po il secondo voto favorevole dell’Aula di Montecitorio (28 febbraio 2001) e quello di Palazzo Madama (8 marzo 2001).

Nella seconda doppia votazione, quella decisiva, vota a favore del testo soltanto lo schieramento di Centyro-sinistra e non si raggiunge il quorum per evitare la celebrazione del Referendum confermativo.

Successivamente, sia il Polo sia l’Ulivo promuovono la consultazione popolare sul testo, secondo quanto stabilisce l’art. 138 Cost. Il referendum si svolge il 7 ottobre 2001. L’afflusso alle urne è stato molto ridotto (34%) ed iltesto è stato approvato dal 64,2% dei votanti.

La Legge costituzionale 3/2001 risulta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 24 0ttobre 2001.



Alla riapertura della successiva legislatura si istituisce una commissione di indagine al Senato; essa tende a conoscere gli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione. A presiederla è il senatore PASTORE per il quale l’iniziatiava dovrebbe  “ soddisfare l'esigenza di orientare l'attività futura del Parlamento in conformità alle nuove disposizioni costituzionali.”. Apparentemente, dunque, l’indagine non avrebbe dovuto avare preconcetti di sorta,  avrebbe dovuto ispirarsi ad una scientifica avalutatività, caratteristica delle cosiddette scienze sociali. Vedremo che invece emergeranno linee ispiratrici che per tanti versi ridimensionano la portata innovativa della riforma costituzionale.[1]

Comunque, in esordio dei lavori, l’intervento del prof. Elia inquadra in modo preclaro la questione. E’ da rifuggire da qualche pregiudizio come ad esempio quello di “affermare che la riforma costituzionale del Titolo V sia stata varata soprattutto per dare una copertura costituzionale alle riforme Bassanini, alle riforme che con legge ordinaria erano già state realizzate ai fini del federalismo amministrativo di cui si era parlato fin dai primi passi del Governo Prodi”. Invero, così si immiserisce “la riforma della Costituzione perché si tratterebbe di una sorta di sottoprodotto, di evento conseguenziale. Il punto di fondo che come ragione costituzionale va evidenziato ed enunciato per primo é il superamento del contrasto interno alla Costituzione che si era determinato nel corso degli ultimi anni (caso alquanto singolare nella storia costituzionale): una nuova lettura dell'articolo 5 della Costituzione a proposito del principio di autonomia (insieme a quelli di unità e di indivisibilità) alla luce del principio di sussidiarietà, aveva determinato una scissura all'interno del corpo normativo della Costituzione, per cui gran parte del Titolo V veniva ad essere inadeguata e perfino contrastante con la nuova lettura che dell'articolo 5 veniva data.”

 La puntualizzazione del prof. Elia, quanto opportuna e perspicua si vede a prima vista, recepisce il pensiero che la più autorevole dottrina costituzionalista aveva di già elaborato. Chiosa, ad esempio, il prof. Andrea Piraino [2], che recitando l’allora divisata riforma costituzionale “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato”, ne scaturisce un “ordinamento della Repubblica” con connotati di “federalismo” strutturato “secondo il principio di paritarietà tra i vari ambiti istituzionali”. Finisce così l’identificazione con lo stato venendo riconosciuto “il significato ed il valore dell’autonomia sancita dall’art. 5 della Costituzione. In sostanza, in virtù di questo nuovo criterio, lo stato [cessa] di essere l’ente sovra(n)ordinato agli altri ambiti istituzionali, così ridotti a semplici livelli subordinati al suo potere, e [diventa] una delle organizzazioni autonome che insieme alle regioni, alle province e ai comuni costituiscono il sistema federale della Repubblica. Sistema federale che […] non si [limita] a modificare i soli rapporti tra gli ambiti istituzionali, portando addirittura in prima fila comuni e province, ma [riguarda], secondo il principio di sussidiarietà, anche quelli tra questi ed i cittadini riuniti nella comunità civile.”

In sintesi è consentito affermare che “siamo ad una svolta […] epocale, perché nessuna delle tradizionali categorie giuridiche forgiate sotto l’usbergo dello stato moderno [è atta a] resistere”. Ed è legittimo aggiungere che “si è compiuto il cammino iniziato con la Costituzione del 1948”. Invero quel cammino si era interrotto “per il prevalere di logiche di accentramento (dovute anche alla strutturazione in blocchi contrapposti delle potenze internazionali) abbandonate solo con la caduta del muro di Berlino e con la rivoluzione del 1990, anno in cui videro la luce in rapida successione tre leggi fondamentali: la 86, la 142 e la 241.”

Con la novella 3/2001 può dirsi che si è raggiunto il punto terminale auspicato dal prof. Piraino nel cui contesto la Repubblica ha acquisit0 peculiarietà idonee a farne “un sistema federale in cui il ruolo delle autonomie locali [è divenuto] centrale” e soprattutto quello delle Regioni.

Il percorso riformatore ha superato varie tappe: innanzitutto si è dovuto superare “la crisi dello stato e della sua sovranità”; sono emersi “il senso ed il ruolo generale dell’autonomia dei vari ambiti istituzionali della Repubblica”; si è affermato “il valore politico degli interessi rappresentati [dalle Regioni] e dai comuni e dalle province o città metropolitane”; è emersa una inedita “struttura … delle funzioni [correlative]”; si imposto il “principio di sussidiarietà quale principio cardine dei rapporti istituzionali”; si è avuta “nella partecipazione popolare la risposta alla crisi della rappresentanza e dei partiti politici”. 



Siffatti processi, i conseguenti approdi, persino i risvolti legislativi, si sono compendiati nella cennata riforma del Titolo Quinto. Certo, sono sbocchi non sempre esaustivi e soprattutto non proprio soddisfacenti. Notisi che manca la classica relazione parlamentare per cui la “voluntas” del legislatore storico – per quel che vale – non è agevole coglierla nelle sedi pertinenti. E’ fuori l’usualità, ad esempio, l’audizione del prof. Leopoldo Elia in Senato che abbiamo avuto modo di citare. A ben leggerla, quella manifestazione impropria, ma tanto pregnante, supplisce all’assenza della declaratoria della voluntas riformatrice costituzionale del particolare costituente del 2001. L’autorevolezza della specifica audizione discende non tanto dalla rilevanza della sede istituzionale bensì dal ruolo, cultura e carisma del grande costituzionalista. Il quale non manca – e non può  evitarlo – di accedere al suo background politico, alle sue opzioni sociali ed al suo campo di valori di appartenenza che ovviamente non sempre e non tutti possono condividere.

Per quel che abiamo riportato sopra, l’Elia ricorre subito in premessa ad un’astuzia dialettica. Fingendo – almeno secondo noi – di escludere che l’intera riforma del Titolo Quinto a nient’altro possa ridursi se non ad una sorta di panacea delle fratture e lacerazioni costituzionali, che la notissima riforma Bassanini avrebbe prodotto nel sistema costituzionale italiano – sistema notoriamente rigido (la c.d. “costituzione formale”) non riformabile con mera legge ordinaria – finisce per affermare ciò che si nega e in definitiva si ha voglia di ridurre l’intera riforma del Titolo Quinto ad un semplice rattoppo della grave vulverazione che si era prodotta.

Ma riportando il tutto nell’alveo del nostro assunto (limitato alla c.d. potestà legislativa residuale delle Regioni) non v’è chi non veda che una cosa sarebbe la riforma ex il novello comma quarto dell’art. 117 Cost. se doverosamente si attribuisce portata ampliamente modificativa della concezione tradizionale di uno stato accentratore, specie nel settore legislativo e si inizia a pensare, agire e soprattutto a fare giurisprudenza in termini di “stato federativo” con una costituzione essenzialemnte federale, altra cosa è invece se l’intera architettura della legge 3/2001 la si voglia ridurre a lifting della gloriosa ma già vecchia costituzione del ’48.



Per l’Elia non v’è dubbio: «indubbiamente, uno degli indizi di questa frattura all’interno stesso della normativa costituzionale era poi offerto da una situazione paradossale: la riforma Bassanini era più in armonia con l’art. 5, basato sulla nuova interpretazione, che con il Titolo Quinto, così come si era venuto attuando dopo il 1970. Anche in mancanza di puntuali violazioni delle norme del Titolo Quinto, sta di fatto che il risultato delle riferme Bassanini sommate insieme comportava l’abbandono del criterio del parallelismo fra funzioni legislative e funzioni amministrative delle Regioni e conduceva, piuttosto, ad un criterio di dissociazione tra l’attività legislativa e l’attività amministrativa; tale situazione doveva essere superata e bisognava farlo con urgenza, perché non si poteva rimanere più a lungo con questa contraddizione all’interno della normativa costituzionale.»

Il taglio riduttivo che l’Elia dà alla riforma costituzionale si rende palese anche oltre la portata letterale del suo intervento. Abbiamo solo una patina di legittimazione del federalismo amministrativo; non si va oltre il superamento del contrasto interno della Costituzione; diciamo anche che vi è una nuova lettura dell’art. 5 della Costituzione venendo rimarcati i principi della autonomia e  della sussidiarietà; se in passato poteva lamentarsi l’abbandono del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative delle Regioni per privilegiare un criterio di dissociazione tra le due funzioni, ora si ristabiliva l’equilibrio fra le due attività; il disagio per la contraddizione che si era venuta determinando  non aveva più ragione di esistere.

In tale contesto la potestà legislativa esclusiva delle Regioni non ha latitudini soddisfacenti, specie in considerazione dell’insorgenza di attese e pretese dichiaratamente federaliste.



In effetti per un costituzionalista quale è il prof. Elia non è cosa da poco elidere constrasti interni alla Costituzione, armonizzare aree giuspubblicistice di indole amministratva  con quelle d’indole legislativa, dissolvere le aporie tra una legislazione statuale, ritualistica, rigida, garantista, a forte controllo parlamentare con una legislazione che può trascendere dagli alvei della conconzialità o subordinata  e controllata autonomia in quela addirittura vicaria che una Regione potrebbe contrapporre ad uno Stato centrale in presenza di un vezzo mentale di una gerarchia di sovrordine (per lo stato) e sottordine (per la Regione). Ma siffatta visione non è esente da sospetti di formalismo, di propensione ad armonie e simmetrie quasi di scuola, scissa dalle urgenze politiche di modernizzare un tradizionale stato accentratore con incidenze profonde a stampo federalistico anche sconvolgendo classiche architetture istituzionali.

Noi restiamo presi dal rigore logico dell’Elia quando argomenta nei termini che abbiamo osato eplicitare. Ma resta l’ombra di fondo che il tutto possa risolversi ad un innocuo discettare scolastico sfuggendo all’assillo della concretezza del politico. Riguardiamo ad esempio questo passo della memorabile audizione: «Si è proceduto … sulla base di una marcata distinzione tra funzione legislativa e funzione amministrativa. Quanto alla prima, qualcuno dice che si è inciso indirettamente sull’art. 70 della Costituzione, in base al quale la funzione legislativa è esercitata da Camera e Senato, anche se il potere legislativo delle Regioni era già riconosciuto. Certamente si è operata una innovazione molto forte non solo perché si è equiordinata, quanto a limiti e vincoli, la potestà legislativa dei due enti (Stato e Regioni) ma anche e soprattutto perché si è accentuata una contrapposizione tra Stato e Regioni in modo che con il famoso rovescoamento e l’inversione dell’enumerazione delle materie lo Stato è diventato il legislatore per eccezione mentre la fonte generale è divenuta la legge regionale per tutto un complesso di materie. Si è distinta fortemente l’attività amministrativa, affidandola in gran parte agli enti locali e, in particolare, ai comuni, salvo i casi che necesssitino di esercizio unitario.»

Quasi inaspettatamente, come per incidens, abbiamo però la scrittura della vera chiave di lettura del novellato Titolo Quinto della Costituzione: ecco i veri cardini della riforma:

·       un sostanziale e pregnante equiordinamento (la tenue locuzione: “molto forte” indice di preclusione ideologica appare quasi spuria) delle potestà legislative dello Stato e della Regione (saliente quella “residuale”  di quest’ultima che è poi il tema ci occupa);

·       accentuazione della contrapposizione fra i due ordini di enti;

·       rovesciamento ed inversione dell’enumerazione delle materia;

·       riduzione dello Stato quasi a legislatore “per eccezione”;

·       sussunzione della legge regionale a livello di fonte generale;

·       traslazione dell’attività amministrativa ad un’altra realtà (enti locali e comuni) sia pure con le precisazioni ed i limiti del caso.





Definita così la latitudine della riforma costituzionale, il prof. Elia fornisce un’acuta esegesi che, a parte certe ondivaghe indulgenze verso un inveterato tradizionalismo, oltre ad essere la prima nel tempo, presa la riforma nel suo insieme e riguardata in termini sistematici, è soprattutto la più illuminante. Trattasi di un inquadramento con connotati addirittura pandettistici da cui non si può prescindere e che c’inquadra la tematica specifica della legislazione residuale delle Regioni nel suo esordio. L’esperienza del prof. Elia è poi tale da avere anteveduto aporie, devianze e rigetti specie sotto il profilo dell’accoglimento giurisprudenziale.

L’esegesi eliana scandaglia la riforma e la racchiude in cinque cardini. Usa a dire il vero il termine più atecnico di “pilastro” come a mettere sull’avviso che è riforma non sempre approdabile con i bagagli della tradizionale cultura accademica.

In estrema sintesi, questi sono i ravvisati nodi nevralgici:

1)    il primo pilastro concerne l’introduzione di un tratto federalistico attraverso il rovesciamento ed l’inversione della elencazione delle materie di competenza legislativa e regolamentare dei diversificati enti (stato, regioni ed enti locali).;

2)    il secondo pilastro s’incadina nella funzione amministrativa in un diverso riparto tra stato,  regioni ed enti locali;

3)    il terzo pilastro attiene alla riformulazione dell’autonomia finanziaria (art. 119 Cost.);

4)    il quarto pilastro si articola nella nuova insorgente diversificazione e divaricazione dei controlli;

5)    il quinto concerne il nodo nevralgico dei rapporti tra regioni ed enti locali.



Punto primo



Non v’è dubbio che la caratterizzazione in senso federale della nuova visione costituzionale si materializza nel ribaltamento attraverso l’enumerazione delle materie delle latitudini legislative dello stato rispetto all’equiparato ente regionale. Non può prescindersi, per la comprensione del fenomeno, da alcuni approdi al diritto comparato.  Magistrale quanto contenuto ed efficace l’Elia secondo il quale: «Questa inversione [e cioè il cennato rovesciamento] è tipica delle costituzioni federali (Stati Uniti, Svizzera e Germania), anche se nel nostro caso la Repubblica non è definita tale.» E codesto è tratto saliente che “forse ad una prima lettura … ci era sfuggito”, almeno nell’estensione di tanti connessi aspetti.

Va ribadito, e con forza, che «il rovesciamento delle enumerazioni delle materie è un tratto del federalismo». Tanto acquisisce maggiore risalto se riguardiamo, con ottica comparativistica, ad esempio la Costituzione spagnola del 1931, o riconsideriamo la nostra Costituzione del 1947; emerge che ivi «l’enumerazione delle materie di competenza legislativa regionale, […] era un tratto del regionalismo, imputandosi allo Stato l’area residuale. Un passaggio dunque qualificante: dal regionalismo al federalismo.

Riepilogando e ribadendo è da sottolineare che «la residualità [è] a favore delle regioni.». Per di più trattasi di «un rovesciamento molto forte non solo perché ci troviamo di fonte ad un tratto di indubbio federalismo – il diritto comparato lo attesta – ma anche perché esso ci costringe ad un ripensamento di tanti istituti disciplinati dalla Costituzione.»

La coda del preesteso ragionamento è gravida di conseguenze ed apre voragini, disorientamenti, aporie: in definitiva va riepnsata l’intera Costituzione. Emblematico l’esempio che subito adduce l’Elia che attiene alla nota e complessa questione della “riserva di legge”. «Mi riferisco – soggiunge infatti l’esimio Costituzionalista – alle riserve di legge contenute contenute nella prima parte della carta costituzionale e specialmente a quella disciplinata dall’art. 23 sulle prestazioni personali o patrimoniali. Ci si chiede se esse siano riserve di legge statali, come si era pensato fino ad ora (per lo meno in larga misura) o se, invece, possano essere in alcuni casi anche di leggio regionali; questione che i sostenitori di un’interpretazione dell’art. 119 della Costituzione in materia fiscale ritengono collegata al potere delle regioni di istituire tributi propri. Se questo è attribuito alle regioni, la legge regionali che li istituisce in qualche modo soddisfa e rientra nella riserva di legge dell’art. 23.»



Ad approfondire l’argomento scatta l’ostacolo di una corretta esegesi del varie volte citata categoria giuridica del “equiordinamento” tra Stato e regioni. L’Elia l’affronta in questi termini: «La maggiore controversia è sorta a proposito del potere così vistosamente equiordinato tra Stato e rwegioni. Già nel testo elaborato dalla Bicamerale era presente l’enumerazione rovesciata mente per la legislazione concorrente si usava la formula: “spetta allo Stato determinare con legge la disciplina generale relativa a … “. Si fa riferimento al disegno di legge della Bicamerale, ma naturalmente si potrebbe parlare di disegno di legge della Camera dei deputati, perché il 21, 22 e 23 aprile del 1998 gran parte di tale normativa fu approvata a Montecitorio da una larghissima maggioranza. […] Il testo in questione non recava il primo comma del nuovo art. 117 che appare molto innovativo. Esso recita “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Sugli obblighi internazionali è sorto un vivace dibattito che si svilupperà successivamente. Ci sono alcune affermazioni contrapposte al riguardo: alcuni, come il prof. Pinelli, affermano che la norma riguarda il rapporto fra ordinamenti, ma non tocca la disciplina attuale delle fonti come è stata fissata soprattutto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale; perciò si continuerebbe a non roconoscere nell’ordinamento italiano un’autorità superiore alle normative che discendono da trattati ratificati rispetto alle leggi ordinarie; altri, invece, come il prof. Luciani ed il prof. Lombardi (con diversità di atteggiamenti nel merito), ritengono che da questa impostazione derivi una situazione molto simile a quella disciplinata dall’art. 55 della Costituzione francese della Quinta Repubblica. »  Là si affermva che “il diritto interno cedeva a quello internazionale pubblico; e il diritto internazionale pubblico era interpretato non solo come diritto basato sui principi generali […] ma anche come diritto pattizio”.

In Francia è toccato alla Corte di Cassazione far valere la superiorità della normativa dei trattati rispetto alle leggi ordinarie. Ed in casa nostra? «In base ad alcuni principi della Convenzione di Vienna del 1969 – soggiunge l’Elia – sul diritto dei trattati, il nostro ordinamento, specialmente a seguito di questa nuova formulazione, può essere sostanzialmente ritenuto incline al riconoscimento di ale superiorità, naturalmente senza toccare la formazione del processo che porta a far valere nel diritto interno le norme dei trattati nel senso che il parlamento rimarrebbe sempre competente ad intervenire in base all’art. 80 della Costituzione in cui si disciplina l’autorizzazione alla ratifica. Però, una volta ratificato il trattato, la normativa in esso contenuta avrebbe un rango gerarchicamente superiore a quello delle norme di legge ordinaria. Si è tentato di far valere questo principio nella sentenza n. 10 del 1993 della Corte costituzionale (relatore Baldassarre), rimasta però isolata. [..] La dottrina e la giurisprudenza italiana hanno insistito molto sul dualismo tra diritto interno e diritto internazionale. Peraltro, per quanto riguarda, il diritto comunitario, l’interferenza è stata tale che ad un certo punto il giudice italiano ha applicato senza mediazioni direttive ed altre norme dell’ordinamento comunitario.»

A questo punto non possiamo esimerci da alcune osservazioni: non v’è dubbio che alquanto singolare risulta una cosiffatta equiordinazione. Nel settore le leggi di emanazione statale finiscono con l’equipararsi a quelle di emanazione regionale andando a colmare  per tratto di penna legislativa i gap culturali, politici, sociali tra organismi di inveterata esperienza (come sono indubitabilmente, ed a prescindere da prevenzioni ed avversioni ideologiche, quelli “statali”) e quelli regionali (tutti da inventare, inverare, consolidare culturalmente e soprattutto politicamente).

Soggiunge l’Elia che «in base alla interpretazione Pinelli (chiamiamola così) circa il rapporto tra ordinamenti, le leggi regionali – per il rapporto paritario tra ordinamento statale e regionale – non potrebbero essere limitate ulteriormente, per esempio, da una legge ordinaria statale che volesse ristabilire il principio dell’indirizzo e coordinamento rendendo così superiore la legge nazionale rispetto a quella regionale.»

Ma tale assunto non può essere accettato senza riserve. Possono verificarsi eccezioni e persino smagliature. L’Elia, ad esempio, adduce il caso della parità uomo-donna nell’accesso alle cariche elettive. Il suo sottile argomentare ci induce a riflettere. Seguiamolo nel suo ordito argomentativo: «l’unico elemento di differenziazione che rimarrebbe a vincolo della legge regionale sarebbe l’obbligo di promuovere la parità uomo-donna anche nell’accesso alle cariche elettive. Può trattarsi di un principio importante perché  in base alla legge costituzionale n. 1 del 1999 le Regioni, sia pure sulla base dei principi che dovrebbero essere stabiliti dalla legge dello stato, hanno il potere di adottare una legge per le elezioni del prioprio consiglio regionale. Da questo punto di vista la dottrina si è divisa tra chi sostiene che questa norma supera la sentenza n. 422 del 1995 (reltore Ferri), che faceva cadere le quote femminili nella proporzionale, ed altri autori (il prof. Romboli), secondo i quali una norma programmatico-promozionale di per sé non si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza negativa della Corte costituzionale. Certo è strano, che tale principio sia stato enunciato solo per le leggi regionali mentre a rigore, dato l’argomento di cui si tratta, dovrebbe valere su scala generale.»



Nel contesto della riforma del Titolo Quinto non può negarsi che alcune materie rivestono un’importanza particolare.  Meritano particolare attenzione – secondo l’Elia - «per la novità [le materie] che non sono menzionate nel nuovo articolo 117, [le materie] che sono coperte dal manto della residualità.»

Ma la residualità non può essere un concetto da relegare all’angolo, quasi avesse un ruolo marginale. La categoria è elemento portante di tutta la innovazione riformatrice che ci occupa per quanto attiene al nostro tema specifico che è quello della legislazione esclusiva delle regioni, “residuale” – ma nella sua pregnante portata costituzionale, appunto.

«La competenza esclusiva delle regioni – puntualizza molto opportunamente il N. – collegata alla residualità, è prevista nel comma 4 del nuovo articolo 117 […] e riguarda, tra l’altro, l’industria, i trasporti, la viabilità, la formazione professionale, il turismo, l’agricoltura, l’artigianato, l’assistenza. Si tratta di materie di evidente importanza, a cui qualcuno vorrebbe aggiungere anche l’università in quanto, non essendo l’istruzione universitaria ricompresa in nessuna delle materie nominate, essa ricadrebbe nella residualità. Però si deve rispondere che per giudicare delle attribuzioni bisogna considerare anche le altre norme costituzionali, le quali recano – nell’ultimo comma dell’art. 33 – una riserva di legge statale che, secondo buona parte della dotttrina, fa salva la competenza legislativa dello stato in materia universitaria. Nel progetto di legge della Bicamerale e della Camera, invece, erano state unite istruzione, università, professioni nell’ambito della legislazione concorrente. Nel disegno di legge governativo l’università passava nella legislazione esclusiva dello Stato; ma poi scompariva dal testo finale, forse perché le regioni avevano richiesto che l’istruzione universitaria rientrasse tra le materie soggette a forme e condizioni particolari di autonomie. Più in generale, la formulazione del comma  quarto sopra riferita impedisce di utilizzare il criterio interpretativo dei poteri implici a favore dello stato.»

A questo punto, l’esimio costituzionalista, in una mirabile ed estrema sintesi, ci fornisce le coordinate ermeneutiche della riforma costituzionale de qua. «Lo ius superveniens del nuovo titolo quinto – precisa il N. nella sua audizione parlamentare - è molto diverso da quello relativo ad una legge ordinaria che è sottoposta al giudizio della Corte costituzionale. Qui lo ius superveniens è un paradigma costituzionale, è il termine nuovo di raffonto cui vengono assoggettate le leggi ordinarie. Bisogna rendersi conto che a questa stregua è già chiara l’incostituzionalità, per esempio, di una delle ultime leggi approvate nella scorsa legoslatura – la legge n. 153 del 2001 in materia di turismo – che certamente non resiste di fronte alla competenza esclusiva delle regioni in materia appunto di turismo. Ciò vale naturalmente anche per altre leggi analogamente viziate.»



Punto secondo



Il secondo pilastro che viene preso in considerazione è quello attinente ai riflessi ed interdipendenze tra la precorsa riforma amministrativa (Bassanini) ed il novellato Titolo quinto, specie ed anche per quanto ha tratto alla nuova formulazione del potere legislativo delle regioni.

Va considerato che non si parte da zero. «Oggi – prosegue l’Elia nella sua audizione che si materia sempre più in una sorta di ricognizione surrettizia della voluntas del costituente storico – mentre in altri campi occorre intervenire rapidissimamente per colmare delle autentiche lacune, per quel che riguarda la funzione amministrativa, almeno in linea di massima, il vuoto è già in buona parte colmato; perciò credo che per un certo periodo andrebbe sperimentata la normazione che è stata prodotta nella scorsa legislatura con decreti legislativi e con decreti del presidente del consiglio sulla base della legge n. 59 del 1992. Naturalmente potranno esserci degli scostamenti: in materia in cui le regioni hanno acquisito il potere legisslativo esclusivo, possono essersi prodotte anche delle discrasie rispetto all’assegnazione di poteri da parte dello stato. Tali discrasie, in linea di massima, non dovrebbero prodursi quando, nelle materie già previste dall’art. 117 della Costituzione, è stata la regione ad assegnare funzioni ai comini ed alle province con legge regionale. Ma in tutte le altre materie, in particolare in quella che la regione acquisisce come competenza esclussiva, indubbiamente in futuro si potrebbe dar luogo ad un’altra ondata di conferimenti, ove le regioni ritenessero, nell’esercizio dei loro nuovi poteri, di allocare competenze ed attribuzioni, già assegnate dai provvedimenti Bassanini, necessariamente per categorie (ad esempio, i comuni in generale o quelli  con un certo numero di abitanti), mentre il legislatore regionale sarebbe in grado di allocare queste funzioni in relazioni alle potenzialità effettive degli enti (comini e province).»



Punto terzo



Il terzo cardine riguarda l’autonomia finanziaria, ripensata dal nuovo art. 119 della Costituzione. Emerge la territorialità dell’imposta nel senso che la compartecipazione della regione  ai tributi erariali va commisurata al gettito sul territorio. Si annota che non dovrebbero esserci più i “calderoni” dei fondi in cui non si sa cosa sia dell’Emilia, cosa della Calabria, e così via. Secondo l’Elia «questo diventa, invece, il punto di riferimento base per una quota parte dell’entrata regionale, che in Germania è quella preminente (aliquote dell’Irpef e dell’Iva). Questo elemento della territorialità comporta un duplice riflesso. Innanzitutto, vie è un riferimento al gettito, per cui oramai si dovrebbe ritenere che non si possa arrivare ad una parificazione assoluta, nel carico dei contribuenti delle varie regioni, altrimenti sarebbe stato inutile richiamarsi al gettito nel loro territorio. In secondo luogo, c’è un riferimento alla capacità fiscale per abitante  cui ogni regione dovrebbe sforzarsi di far corrispondere le proprie entrate, correndo il rischio, altrimenti, di non potere utilizzare appieno l’accesso al fondo perequativo: misura diretta chiaramente a scoraggiare l’eccessiva benevolenza verso i contribuenti-elettori.»

Insorge qui l’ardua questione  che richiede un impegno molto serio per il chiarimento delle relazioni tra il decreto legislativo n. 56 del 2000 e questa nuova disciplina. C’è proprio da domandarsi se veramente il finanziamento delle regioni potrà essere lo stesso, sia per le materie che toccano i livelli essenziali dei diritti, sia per le materie di competenza esclusiva, che, riguardando tra l’altro l’industria, il commercio ed il turismo, non toccano direttamente l’esercizio di questi diritti.

Si domanda l’Elia «Non si verrà a creare, come per i vecchi comuni tra spese obbligatorie e spese facoltative, o più discrezionali? Ed il finanziamento di queste differenti spese potrà in qualche modo essere disciplinato in maniera differente?». Il Nostro non sa adare altra risposta se non quella di additarne la problematicità le cui soluzioni sono demandate al futuro legislatore (dello stato e/o della regione sarà tutto da vedere, caso per caso).



Punto quarto



Al quarto punto va agitato il problema dei controlli. In base e per la novellata legge costituzionale del settore cadono tutti i controlli preventivi sulle leggi e sugli atti amministrativi delle regioni, delle province e dei comuni. Per quanto riguarda le regioni non può, però, escludersi che si possa realizzare una carenza di garanzie. Specifica l’ex presidente della Corte costituzionale che «se il Governo non impugna una legge regionale, questa legge non viene sottoposta al sindacato della Corte costituzionale e quindi rimane nell’ordinamento giuridico italiano.» Secondo una certa dottrina, si dovrebbero configurare dei soggetti aggiuntivi, minoranze parlamentari che possano investire della questione, nei 60 giorni successivi alla pubblicazione della legge, la Corte costituzionale. Chiosa al riguardo il prof. Elia, nella più volte citata audizione parlamentare: «In tale modo, questi ulteriori soggetti potrebbero ovviare, con una sorta di azione pro Costituzione, ad un eventuale omissione governativa. Si vorrebbe quindi aggiungere una garanzia nel caso in cui il Governo sia d’accordo con una determinata regione  per motivi politici, che non tengano abbastanza conto della Costituzione. Tale garanzia sarebbe rinforzata se si desse alla Corte costituzionale il potere cautelatre di sospendere l’efficacia di una legge regionale che potrebbe produrre dei guasti altrimenti non riparabili.»



Punto quinto



L’ultimo aspetto concerne i rapporti tra regioni ed enti locali. Secondo l’Elia, «questo rapporto non risulta chiarito, perché da una parte non si è voluto dare, a causa della resistenza dei comuni (municipalismo contro regionalismo), ciò che era stato riconosciuto alle regioni a statuto speciale, cioè il potere ordinamentale.» Premesso che con legge costituzionale (quella del 1993) questo potere  era stato assegnato alle regioni a stato speciale, che però non l’hanno esercitato, perché – spiega il N. – “creava troppe reazioni nei comuni”, un dubbio rimane: quali poteri hanno le regioni nei confronti degli enti locali. Nella cennata audizione, l’Elia articola la seguente risposta: «In realtà, l’art. 118 chiarisce che ci sono funzioni che possono essere conferite con legge regionale. Allora, se ci sono funzioni che possono essere conferite con legge regionale, è evidente che anche la regione può allocare competenze (probabilmente in queklle materie di competenza esclusiva che abbiamo visto prima) al comune o alla provincia, i quali dovrebbero arricchire le loro attribuzioni anche con competenze assegnate mediante legge statale. […] Rimane tuttavia quest’incertezza circa i limiti del potere allocativo delle regioni.»

L’esegesi del prof. Elia non può venire, tutto sommato, considerata avversa alla riforma, eppure sono forse più le ombre che qua e là l’ilustre costituzionalista rinviene nell’ordito legislativo, pregiudizievoli le discrasie che vengono individuate, le carenze che in definitiva pregiudicano e comprimono la validità della riforma. Tocca ad un parlamentare particolarmente interessato (il Bassanini) esprimere una nota amara, come un commento sfiduciato. «In questi ultimi mesi  - interloquisce il parlamentare (pag. 16) – abbiamo visto contrapporsi tesi ed interpretazioni singolarmente contraddittorie. Abbiamo letto editoriali che sostenevano che questa riforma è “acqua fresca”, che non cambia sostanzialmente nulla; editoriali anche autorevoli: ricordo uno studioso vicino alla mia parte politica, Ilvo Diamante, in un editoriale su “Il sole-24 ore”, che affermava che si tratta di una riforma di modestissima portata, ma esortava a votare sì perchè è meglio che niente».



In sede parlamentare la nostra tematica, dunque, ha acquisito una subitanea attenzione non scevra da qualeche preoccupazione indotta da critiche esterne che, seppure non accettate, in fondo si temeva di potere condividere. Il presidente della citata indagine conoscitiva, senatore Pastore, nella seduta del 7 novembre 2001 si lascia andare ad un inciso, nel dare la parola al presidente emerito Aldo Corasaniti, che lascia trasparire preoccupazioni di tal senso. Nel ringraziarlo «per avere accolto l’invito a fornire un contributo  … ai fini dello scolgimento dell’indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento della riforma costituzionale», quasi riduttivamente aggiucge che siffatta riforma continuerà a chiamare «”riforma regionale” per evitare polemiche sulla sua definizione e che, al di là delle posizioni individuali, è comunque una riforma assai importante e significativa.»



Per tanti versi gli fa eco lo stesso Corasaniti che preliminarmente e forse apoditticamente esplime un giudizio di valore sull’intera riforma, non tranchant stando al senso delle parole, ma molto delimitante nella sostanza. Tutta la riforma forse non va oltre  ad una «costituzionalizzazione di riforme ordinamentali adottate durante la legislatura». A fronte di «un notevole decentramento di funzioni e, in relazione ad esso, un notevole trasferimento di risorse e di personale a favore delle regioni» era «necessario rendere duratura la nuova situazione mediante la costituzionalizzazione delle riforme attuate.» Comunque, trasferimenti e riforme ordinamentali inerenti alla Bassanini non sono facilmente revocabili e rispettivamente modificabili. 



La costituzionalizzazione implica di per sé una sanatoria nel senso che, se ci fosse stato da dubitare della costituzionalità di parte della riforma ordinamentale, la sospettata incostituzionalità finiva sanata per costituzionalità sopravvenuta. Il Corasaniti, a questo punto, si pone al riguardo taluni dilemmi tecnici che affronta e risolve autorevolmente. «Mi domando – esplicita – per quella parte vi sarebbe stata una sanatoria, o, invece, un’abrogazione? In tale ultimo caso sarebbe possibile una dichiarazione di incostituzionalità per il tempo anteriore alla revisione. Sotto questo profilo, quindi, l’ipotesi di una sanatoria non è del tutto convincente. Per la parte in cui vi è conformità tra la riforma ordinamentale e la revisione del Titolo Quinto, questa conferisce indubbiamente alla prima una maggiore resistenza, una blindatura.»

Il Corasaniti, ad ogni modo, esprime un giudizio favorevole quanto alla valutazione relativamente alle riforme ordinamentali che questa riforma costituzionale era diretta a costituzionalizzare. «Dal punto di vista tecnico – soggiunge – cioè in relazione all’obiettivo di un autonomismo più spinto e più rigoroso, la cosidetta riforma Bassanini è ineccepibile; dal punto di vista politico, cioè in riferimento a un’opzione di tipo federalistico, si potrebbe dire diversamente ma, rispetto agli obiettivi che si proponeva, la riforma ordinamentale era perfetta … e questo giustifica l’ansia, espressa dalla dottrina prima che in sede parlamentare, di vederla costituzionalizzata.»

In sede già di indagine conoscitiva fa capolino una questione di estrema importanza: l’istituzione di un consiglio delle autonomie locali. Sempre il Corasaniti, ad esempio, constata: «tutte le regioni, nei nuovi statuti che stanno eleborando, hanno inserito la previsione del consiglio delle autonomie, alcuni attribuendogli una funzione meramente consultiva, altre anche di intervento, sia pure indiretto, sulla legislazione, nel senso di prevedere, in caso di dissonanza, una procedura legislativa aggravata davanti al consiglio regionale.»



Una particolare sensibilità in tema di necessaria dotazione degli organi legiferanti regionali di un congegno consultivo del tipo prima additato ha mostrato il prof. Andrea Piraino, quala abbiamo potuto avvertire personalmente seguendo il suo corso accademico.



Una risivitazione del contesto generale della riforma de qua viene approntata, in quella sede parlamentare che possiamo considerare propedeutica rispetto all’impatto concreto della nuova legge costituzionale con la realtà effettuale, dal Presidente dell’associazione italiana dei costituzionalisti, prof. Sergio Panunzio. Così, tra l’altro, puntualizza la portata del nuovo art. 117, il centro della nostra ricerca: «L’art. 117 è il più rilevante anche per le future responsabilità del Parlamento. A parte il rovesciamento del criterio di riparto – competenza residuale e generale alle regioni e competenza solo in casi tassativamente previsti allo stato – il primo comma introduce la disciplina con una formula che afferma la parità dei limiti che incombono in modo uguale sia alla potestà legislativa dello stato sia a quella delle regioni. E’ una norma emblematica, che rispecchia la posizione nuova che, entro l’ordinamento della Repubblica, spetta sia all’ordonamento statale che a quello regionale, così come risulta dall’art. 114. Tutti hanno lo stesso valore, sono sottoposti soltanto alle norme della Costituzione e ugualmente vincolati dallke norme dell’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Non credo, anche se oggetto di dibattito, che con il primo comma sia stato inserito una sorta di adeguamento automatico delle leggi alle norme internazionali, né che sia stata prevista un’automatica incostituzionalità delle medesime, qualora non corrispondano alle norme internazionali. Mi sembra che in questo quadro di riconoscimento di pari dignità degli ordinamenti, il riferimento ai “vincoli” contenuto nel primo comma non modifichi la situazione esistente per quanto riguarda tali problemi. E’ chiaro che vi è un obbligo dello stato e delle regioni di rispettare i trattati,ma da ciò ne deriva necessariamente una invalidità delle loro leggi in caso di inadempienza.»



Scendendo al quarto comma del citato articolo 117, in particolare va annotato che «si possono ancora utilizzare le norme legislative statali vecchie, ma lo stato non può intervenire in via suppletiva con leggi nuove. Certo è che su questi problemi – ed anche questo giustifica la possinilità di usare le vecchie norme – non si possono adottare, soprattutto in una fase transitoria (ed in mancanza di norme costituzionali transitorie), dei criteri troppo rigidi. Vi è un principio di continuità tra ordinamento statale e ordinamento regionale, anche in caso di mutamento di norme costituzionale sulle competenze, che la Corte ha riconosciuto nella sua giurisprudenza (con la sentenza n. 13 del 1974) e che anche qui può essere utilizzato. Tanto più la necessità di non essere troppo rigidi s’impone per il fatto che nel nuovo Titolo Quinto non ci sono norme espresse in materia di poteri sostitutivi dello Stato nel corso di mancato esercizio delle funzioni legislative delle regioni.»



Conclusivamente, va rimarcato che «non essendoci poteri sostitutivi dello Stato per l’attività legislativa (e non avendo gli esecutivi regionali il potere di adottare atti con forza di legge), se le regioni le leggi non le fanno, occorre una certa elasticità nella individuazione di soluzioni operative per far funzionare il sistema.»



L’articolazione del pensiero del Panunzio fu molto pregnante e in qualche modo fa giustizia di taluni giudizi ingenerosi nei confronti della Riforma che pure erano echeggiati in quell’austera sala senatoriale. Soddisfazione accentuata mostra ovviamente il Bassanini che non ne fa velo. «Mi sembra di capire – infatti esclama – che il prof. Panunzio ritenga che si tratti di una riforma molto impegnativa, mentre autorevoli opiniosti hanno scritto che si tratta di un fatto di poca rilevanza; penso, per esempio, a quanto scritto da Ilvo Diamanti.» Codesto opinionista, sia pure in altra sede  aveva forse con talule punte un po’ petulanti, ma – dobbiamo riconoscerlo - con considerazioni critiche inquietanti e difficilmente controdeducibili, aveva scritto [3]:  «Giustificata è, certo, la preoccupazione di garantire a tutte le Regioni le condizioni di base che rendano possibile un sistema competitivo (qual è, in qualche misura, ogni modello federalista), evitando che i diversi gradi di dinamismo producano effetti dissociativi. Tuttavia, pensare a un modello che funzioni allo stesso modo e si sviluppi con gli stessi tempi per la Lombardia e il Veneto come per la Calabria e la Sicilia, significa, semplicemente, evitare di risolvere il problema. Rinviando - perennemente - il federalismo a data da destinarsi. [..] Il fatto è che la propensione federalista in Italia è molto elevata a parole. Assai meno nei fatti. Le riserve sorgono da  valutazioni di carenza e coerenza. Scaturiscono, anzitutto, da quel che non c'è, più che da ciò che vi si trova scritto. Non c'è la Camera delle autonomie locali. 
Manca la parte relativa alla responsabilità finanziaria. Il capitolo, cioè, del federalismo fiscale. Ma trasferire poteri e competenze senza prevedere su quali risorse debbano contare e gravare (la sanità, da sola, impegna oltre metà dei bilanci regionali), significa suscitare aspettative distorte. Evitando, anzitutto, il presupposto di ogni vero federalismo. Che è il principio di responsabilità. A meno che non si pensi  [..]  di moltiplicare per venti la condizione delle attuali Regioni a statuto speciale (come la Valle d'Aosta o il Trentino Alto Adige; ma anche la Sicilia); che sommano le proprie risorse ai trasferimentidello Stato. Il che, più di uno Stato federale, confederale o devoluto profilerebbe il Paese di Bengodi.
Manca, inoltre, ogni ragionamento sull'articolazione del territorio. Dal punto di vista finanziario. [ …]  Visto che molte delle Regioni attuali non hanno tradizioni né morfologiasocioeconomica comuni.
Mentre, postulando la centralità regionale, si trascura il ruolo delle città, che tanta parte hanno nella storia e nell'organizzazione sociale e civile italiana.
Per questo, al di là del merito, mi preoccupa maggiormente il metodo. Più di quel che c'è, mi sorprende quel che non c’è... Così, dopo [..] discussioni, elaborazioni e precisazioni, fondate su questa base incerta, non ci sarebbe da sorprendersi se si giungesse, infine, alla devolution. Ma della devolution.»
*   *   *
Condivisibile o meno, un siffatto approccio critico è pur sempre impregnato di passionalità politica non accoglibile in una ricerca come la nostra che tende, asetticamente e persino avalutativamente, a cogliere l’architettura giuridica di una riforma costituzionale passata attraverso il vaglio ed il travaglio non solo delle istituzioni parlamentari ma anche da un referendum che pur limitato nella partecipazione elettorale è stato pur sempre un foro popolare ove poteva sentirsi - si è sentita - la voce comiziale (rammentiamo l’ “adprobo” della repubblicana Roma) della più genuina sede democratica, quella del corpo elettorale.
Purtroppo la stroncatura è venuta anche da un presidente emerito della corte Costituzionale ed in sede della cennata indagine conoscitiva, il noto e tendenzialmente polemico dott. Vincenzo Caianiello.   Rastrellando ogni aporia tecnica della riforma, il dott. Caianiello redige una stroncatura per fortuna non sempre significativa ma spesso meramente formale toccando aspetti marginali e persino insignificanti.[4]
Per il Caianiello, intervenendosi solo sulla seconda parte della Costituzione non potevano non nascere  contrasti con la prima parte, perché  ci sono delle norme di difficile coordinamento tra loro.  Sappiamo che l'articolo 5 della Costituzione recita: “La Repubblica, una ed indivisibile, ........”, per cui l'unità e l'indivisibilità della Repubblica è un “dato presupposto” e non un “carattere che deriva dalla Costituzione”, percheé l'articolo 5 non dice che la Repubblica è una e indivisibile. Non è perciò la Costituzione la fonte di questa unità, ma essa dà per scontato un modo di essere già esistente nella realtà, per cui si limita a registrarlo, proseguendo poi nel testo evidenziando “l'esigenza di riconoscere e promuovere le autonomie locali.”
Tale articolo è divenuto perciò di difficile coordinamento con il nuovo articolo 114, il quale ingenera l'impressione di “una diffusione, di una compartecipazione o, peggio, di una dispersione, della sovranità dello Stato”.
E qui giunto, con tocco caustico, il Caianiello esclama: «Come se non mancassero tutte le altre dispersioni della sovranità!».
Invero ciò è dovuto ad altri eventi, anche positivi, come quello, per esempio, della nostra partecipazione all'Unione europea. Qui invece si genera un'erosione della sovranità mediante diffusione su altri enti politici, quali sono i comuni, le provincie e le città metropolitane (fantomatiche, perchè non si sa se verranno mai ad esistenza).
Nel precedente testo della Costituzione, Stato e Repubblica erano “termini adoperati in senso alternativo come sinonimi”.  Certo non si può seguire il Caianiello nel seguito del suo argomentare (stroncare?) ma non lo si può tacere. «Si diceva Repubblica – seguita infatti - per dire Stato e viceversa. Si diceva leggi dello Stato per contrapporle a leggi delle Regioni; si diceva leggi della Repubblica per contrapporle a leggi delle Regioni. Oggi quindi lo Stato, identificato con la Repubblica, concepito come Stato ordinamento, non ha piu¡ questa qualificazione. E questo suo modo di essere all'interno, credo lo indebolisca all'esterno perché -  come si sa  - per come lo Stato si atteggia al suo interno, così appare verso l'esterno. Per cui, per esempio, il Presidente della Repubblica non si potrebbe più chiamare Capo dello Stato se lo vogliamo anche indicare come Capo di tutte le altre entita¡. A meno che non si voglia accettare l'idea che il Capo dello Stato sia Capo solo di una parte della Repubblica. Può anche darsi che queste siano soltanto delle sottigliezze [corsivo ns.], però non escludo che un giorno qualcuno potrebbe eccepire ai rappresentanti dello Stato apparato, considerato ormai soltanto una delle componenti, che essi non rappresentano piu¡ la Repubblica, non rappresentano piu¡ l'unità nazionale.
Infatti le regioni (parliamo solo di esse), siccome hanno loro specifiche competenze legislative ± e come si e¡ detto sembrerebbero condividere il potere sovrano con lo Stato  potrebbero, per quel che concerne le loro materie, essere ritenute rappresentative della Repubblica; non potremo quindi più dire che i nostri ambasciatori rappresentino solo lo Stato, perché dovrebbero agire anche in nome delle regioni. Questo varrebbe anche per quanto riguarda la stipula di accordi internazionali, anch'essi previsti, da parte delle regioni.»
Per il Caianiello, è assiomatico: «vi sono molte difficoltà di ordine sistematico e di raccordo del Titolo V con la prima parte della Costituzione, tuttora fortunatamente [corsivo, ns.] in vigore e che dovrebbe prevalere sulla seconda [sottolineatura ns.]»
Il nostro costituzionalista prende atto che «l'argomento d'ordine sostanziale che più viene in evidenza è il capovolgimento delle competenze rispetto alla tradizionale elencazione delle materie regionali e alla residualità delle materie dello Stato. »
«Sappiamo  - commenta - che tale formula venne proposta già all'epoca della commissione De Mita-Iotti, venne riproposta nella Bicamerale e adesso è stata recepita nel nuovo testo. E’ un modo come un altro per distribuire la potestà legislativa -  perché di questo parla l'articolo 117 della Costituzione - tra il Governo centrale e i governi locali, il che però in questa forma si spiega più in una concezione di Stato federale in senso proprio, che cioè  nasce dall'aggregazione di un insieme di entità politiche originariamente separate che delegano ad uno Stato federale alcune competenze di cui sono  titolari. Così accadde anche con la Costituzione americana, quando fu scritta nel 1786. Ci fu l'esigenza di dire: “Noi che siamo titolari di tutti i poteri cediamo questi allo Stato federale”.»
All’atto pratico, per il Caianiello, vi è difficoltà nell’operare il raccordo del nuovo articolo 117 con l'articolo 5 della Costituzione (che per fortuna costituisce un'ancora di salvezza), da cui le autonomie nascono come poteri locali derivati: si può avere il massimo dell'autonomia di quei poteri, ma non potranno mai essere concepiti come poteri propri che si amalgamano poi con quelli dello Stato.  «Ripeto, perciò , - martella - che c'è una difficoltà di raccordo dell'articolo 117 con l'articolo 5. »
Pertanto, queste difficoltà non sarebbero prive di conseguenze quando si vanno a interpretare le norme successive. «Se fossi – argomenta quindi - chiamato da qualcuno a districare la materia, a stabilire, anche solo con approssimazione dopo le riforme, che cosa debba fare lo Stato e cosa le regioni non nasconderei la mia indecisione e rifiuterei questo incarico. Non essendovi tenuto allo stato da alcun obbligo istituzionale, avrei molte difficoltà a stabilire come si possa discriminare tra loro, per esempio, quando passiamo alla legislazione concorrente in materia finanziaria, che impone l'armonizzazione della materia, sulla quale si diceva finora che con l'articolo 119 vecchia maniera, quella degli enti locali era pur sempre una finanza derivata. Adesso diventa una finanza autosufficiente.»
Nel dettaglio, scatterebbe una difficoltà a comprendere perché al quarto comma del nuovo articolo 119 si dice: “Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono...”; meglio sarebbe stato usare le parole: “debbono consentire”, mentre questo ´”consentono” sembra
indicare un dato scontato già esistente nella realtà, quando invece si tratta di stabilire in che modo le risorse si debbano distribuire al punto da consentire l'autonomia di bilancio e finanziaria.
Sempre per quanto concerne la legislazione concorrente in materia finanziaria, laddove si parla di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, viene in evidenza il sistema tributario.
Ed al riguardo non ci si può non preoccupare del fatto che è difficile che avvenga un'armonizzazione in una sede che non sia unitaria, nella quale cioè le parti trovino l'armonia per dettare delle regole.
Incidenter tantum, si censura un’aporia che a prima vista può appire inconferente, ma è passaggio necessario per comprendere l’ideologia del Nostro critico. «Non so  - annota con astuzia retorica - da chi è stato gia¡ rilevato che ciò troverebbe una sua logica in un sistema di autonomie. Non uso il termine ”federale”, che ritengo in contrasto con l'articolo 5 della Costituzione e, fino a quando esso non sarà eliminato (se possa esserlo, essendo un principio supremo della nostra Costituzione), non vi è un luogo nel quale l'armonizzazione come confronto politico possa avvenire a livello di poteri garantiti costituzionalmente, e non da una legge ordinaria come lo è quella che prevede un organo di raccordo tra le regioni che, non essendo previsto in Costituzione, non ha il potere di dare indicazioni cogenti per le regioni.»
Ne discende, ad ogni modo, che le Regioni ora possono legiferare in piena autonomia, non possono essere condizionate da determinazioni estranee ai loro consigli regionali, mentre potrebbero esserlo solo in base ad un meccanismo (che non si saprebbe dove collocare nella gerarchia delle fonti) che risolva in prevenzione il conflitto.
In tale contesto – e forse qui bisogna essere d’accordo - fino a quando non ci sarà quella Camera delle regioni, che ancora stenta ad essere varata, è arduo individuare una sede politica di raccordo fra Stato e regioni.

Comunque , al presente, dovrebbe essere ancora lo Stato con una legge cornice a dettare i princcipi fondamentali. In una materia delicata come quella finanziaria, è di ardua configurabilità  un processo atto a  stabilire i confini e porre quei principi che armonizzino la finanza statale con quella regionale.
Ma intanto le regioni, potrebbero iniziare a legiferare tranquillamente anche se lo Stato non intervenisse con la predeterminazione di principi fondamentali per l'armonizzazione. Le regioni potrebbero intanto emanare i propri provvedimenti.
Additata la potestà, il Caianiello sembra ritrarsi speventato: per lui, il fatto che una regione si dedichi a emanare provvedimenti finanziari senza una legge cornice «sarebbe veramente un disastro perchè, mentre in altre materie si possono fare degli aggiustamenti, l'economia non perdona. Ci troveremmo quindi di fronte ad un disastro: con un Governo che dovrebbe redigere il Documento di programmazione economico-finanziaria e la legge finanziaria e un Parlamento che dovrebbe approvare quest'ultima, mentre le regioni se ne andrebbero per conto loro, e poi, a posteriori, una Corte costituzionale, non “attrezzata” a compiere valutazioni di carattere finanziario, chiamata a verificare il merito delle scelte operate per la distribuzione delle risorse dovrebbe stabilire i princý¡pi per l'armonizzazione, desumendoli da altre leggi.»
Invero non può negarsi che si addosserebbero «alla Corte compiti che non le spettano, anche se
l'immaginassimo formata da rappresentanti delle regioni, quasi che sia possibile ipotizzare un giudice composto di “rappresentanti” delle parti in causa; questa è veramente una distorsione mentale: neppure nei collegi arbitrali si dice che l'arbitro è rappresentante di una parte. Solo negli organismi conciliativi ci sono tali forme di rappresentanza. L'idea di una futura Corte formata da rappresentanti delle regioni, che necessariamente si contrapporrebbero a quelli dello Stato, cozza contro l'articolo 111 della Costituzione, perchè quello della terzietà del giudice rispetto alle parti è principio generale di qualsiasi processo ed anche di quello costituzionale. Così, avremmo una Corte costituzionale formata se mai esclusivamente da rappresentanti delle regioni (abolendo il “ciarpame” vetusto costituito da coloro che vengono nominati dal Presidente Repubblica, dai magistrati e dal Parlamento nazionale) e trasformata in Camera delle Regioni.
Dimenticando però che in quanto Corte funziona pur sempre con il metodo giudiziario, cioe¡ di prefissione di un parametro di riferimento e di individuazione del caso da decidere per dare alla soluzione un supporto giuridico. La funzione di armonizzazione è invece di per sé politica; essa suppone la possibilità di disporre discrezionalmente dell'oggetto del contendere, cioè per dettare una politica composizione degli interessi, che appunto in altri ordinamenti, come quello tedesco, è compiuta in prima battuta dalla Camera dei La»nder e in seconda battuta dal tribunale costituzionale che verifica se in quella sede è stato rispettato il patto federativo o Bundestreu, come viene definito nel diritto tedesco.»

Con tocco finalmente propositivo, il Caianiello si accinge a concludere la sua audizione rispondendo a questa sua domanda: «ome potrà allora avvenire da noi l'armonizzazione?» Secondo il Nostro, pur rispondendosi con un’altra domanda, in definitiva, la prassi dovrebbe articolarsi «con una competenza ripartita; lo Stato, da una parte, che detta dei principi e le regioni, dall'altra, che li debbono applicare».
Certo non è un modo idoneo per realizzarla. Infatti, nella competenza ripartita o concorrente le regioni sono tenute a rispettare i princý¡pi fissati dallo Stato e quindi vi è  una specie di gerarchia tra essi e la regione, per cui il parametro costituito dal principio fondamentale, se non e¡ stato impugnato per tempo dalle regioni, costituisce una fonte inderogabile che queste devono osservare.
*   *   *



Riforma epocale o mera costituzionalizzazione della Bassanini, l’introduzione di una potestà legislativa in capo alle Regioni è rivisitazione costituzionale di grande momento. Ed è persino di immediato intuito che in un siffatto contesto il ribaltamento delle enumerazioni di competenza legislativa addirittura tra stato e regioni e l’avere fissato l’epicentro del potere legislativo in capo alla regione che cessa di essere subalterna ma diviene equiordinata con lo stato nell’emanazione di leggi (sia pure in un settore che si dice “residuale” ma trattasi di campo esteso e propenso alla dilatazione, una volta stabilite le coordinate delle materie centrali o statuali), designano tematiche e sollevano problematiche che ci siamo già industriati di definire, in attesa di operare i necessari approfondimenti settoriali. Ma già, sin da ora possiamo affermare che la riforma della potestà legislativa dello stato e delle regioni  va considerata come uno dei cardini della legge costituzionale 18 ottobre n. 3
Ci siamo soffermati, crediamo a sufficienza, su tale assunto sia pure in termini di inquadramento generale e di propedeutico approccio. Nei capitoli che seguono, tenteremo di essere più espliciti e pertinenti.

La novella costituzionale del 2001 non raffigura solo un implemento legislativo dell’istituto regionale, quale  - piuttosto ristretto in sede dell’assemblea costituente del 46-48, e ripreso ma asfitticamente con la visione regionalistica degli anni ’70 – può oggi invece considerarsi basilare per una ristrutturazione federalistica della Repubblica italiana. Si è radicata una visione nuova dello stato. E tanti sono i nodi nevralgici che s’intessono nella riforma del 2001, peraltro pronuba di ben altre rivisitazioni costituzionali, ove preponderante non potrà non essere l’opzione federalistica, abbia o non  fortuna una estrosa ed inaccettabile concezione c.d. “deregolatrice” (deregolation, tanto per intendersi, una impalpabile “cosa” che citiamo pur conoscendone il patetico e prematuro occaso).

In un sinteticissimo comma 4 dell’art. 117 Cost. si compendia una modifica costituzionale d’amplissimo – e per il momento, fors’anche ancora incompreso – risvolto rivoluzionario: all’organismo regionale compete ora un potere legislativo che tolto quello esclusivo dello stato e l’altro concorrente sempre della stessa regione con quello statale investe il “rimanente” (si suol chiamare ma non riduttivamente “residuale’) campo legislativo. Il potere di dettare legge, va da sé non può essere scisso da altre realtà giuspubblicistiche, subisce sottordinazione (rispetto alla nuova ed accrescentesi sovranità comunitaria), impone coordinamenti e controlli. Una sorta di rete, di nodi nevralgici, che diventano un sistema; tutto quanto da prendere in considerazione se si vuol ben comprendere lo specifico o il nostro potere “residuale” legislativo della regione.

Noi ci siamo già industriati a fare una prima sommaria ricognizione di tale non agevole ordito. Naturalmente, in prosieguo, la trattazione dovrà essere più sistematica, più cogente, meno dispersiva. Nelle precorse pagine abbiamo, comunque, cercato di mettere a nudo i sotterranei legamenti, ad esempio, con l’art. 114 c. 1. Non per nulla in precedenza (pag. 22) abbiamo citato una autorevole dottrina secondo la quale  quella dell’art. 117 c. 4 è “norma emblematica, che rispecchia la posizione nuova che, entro l’ordinamento della Repubblica, spetta sia all’ordinamento statale che a quello regionale, così come risulta dall’art. 114. Tutti hanno lo stesso valore, sono sottoposti soltanto alle norme della Costituzione e ugualmente vincolati dalle norme dell’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Resta ineludibile rimeditare sulla configurazione della potestà legislativa dopo la riforma. Ormai si è obbligati a cambiare registro nelle usuali ermeneutiche costituzionali; deve essere chiaro che si è assottigliata la potestà esclusiva dello stato; si è incuneata quella concorrente tra stato e regioni e soprattutto si è definita, corroborata e dilatata la “potestà residuale delle regioni” che naturalmente ci occupa con vincoli di specificità, ma non di esclusività, pena l’incomprensione della riforma medesima.

Aspetti, questi, cui preliminarmente ci siamo adoperati di porre i paletti della delimitazione ermeneutica, i quali invece dovranno essere ulteriormente dispiegati nel seguito della nostra indagine.
L’approccio parlamentare, quello dei presidenti emeriti della Corte costituzionale (tanti e non tutti d’identico indirizzo scientifico, giurisprudenziale e culturale), l’altro della più autorevole dottrina si sono imposti all’attenzione degli studiosi e degli specialisti. Gli orientamenti sono molto diversificati, il giudizio di valore sostanzialmente positivo. Qualche picco osannante non è mancato; qualche stridula nota demolitiva (Caianiello) si è levata ed in sede addirittura parlamentare. La riforma del titolo quinto, la residualità legislativa delle regioni, il risvolto innovativo – pur non rivoluzionario – incontrano ormai incondizionato accoglimento.

Ma, ai margini, offuscano le non poche “ombre” che su riverberano sulla disciplina della potestà legislativa residuale.
Iniziamo dalla “ermeneutica” – a dire il vero incipiente e già ondivaga – della Corte costituzionale.

Può sembrare persino paradossale affermare che le Costituzioni passano, ma la giurisprudenza… resta, dal momento che ordinariamente è vero proprio l’inverso, rinnovandosi la pratica giuridica al proprio interno senza sosta (e. in maggiore o minore misura, a seconda dei campi e degli istituti) sulla base di un impianto costituzionale formalmente rimasto, nel suo insieme, immutato. Quando, però, si riscontrano manifestazioni della pratica stessa tendenzialmente portate a trasmettersi sempre identiche a sé nel tempo, malgrado il sopravvenuto mutamento costituzionale si è naturalmente portati a far luogo ad una seria e disincantata riflessione sulla forza effettiva di cui la Costituzione è dotata e sui limiti strutturali ai quali essa soggiace, vuoi per l’ambiguità e vaghezza concettuale dei suoi enunciati e vuoi ancora per ragioni legate al contesto in cui si cala ed invera, che la obbligano a piegarsi docile, a mò di sostanza gommosa, a “manipolazioni” di vario segno, tra le quali appunto quelle che determinano la perdurante, tralaticia affermazione di antichi indirizzi (giurisprudenziali e non) formatisi in seno ad un quadro costituzionale pure originariamente assai diverso da quello successivamente invalso.
[…]
Non si dà al riguardo… alcun giudizio di valore, né in un senso né nell’altro: anche perché, ove ci si ponesse da un angolo visuale siffatto, il giudizio potrebbe rovesciarsi di continuo su se stesso, a seconda dell’esperienza di volta in volta osservata. E’ chiaro che, in prospettiva ideologicamente condizionata, la continuità rispetto ad una disciplina anteriore maggiormente apprezzata di quella che ne ha preso il posto verrebbe salutata con favore, pur “compensato” dal rammarico per altra disciplina, in atto vigente e giudicata “migliore” della precedente, alla quale ultima tuttavia l’esperienza seguiti a mostrarsi, stranamente fedele. Eppure, gettata la maschera ideologica che non di rado ne copre il volto, il giurista, in un caso e nell’altro, non può che provare un certo disagio di fronte ad un diritto costituzionale fatto, almeno in parte, oggetto di torsioni ricostruttive ed applicative.
[…]
Per un minimo di chiarezza espositiva, è consigliabile dividere la giurisprudenza in due “tronconi”: quello che, per brevità, potrebbe chiamarsi di ordine istituzionale e l’altro di ordine sostantivo, pur nella ovvia precisazione che entrambe le parti si rimandano ed implicano a vicenda e che, perciò, la loro separazione non può farsi a colpi di accetta.
[…]
La giurisprudenza di ordine sostantivo conferma quanto siano maneggevoli le etichette che contrassegnano le materie di Stato e Regione e come la più vigorosa tendenza sia… nel senso di recuperare, almeno in parte, al primo ciò che la Carta novellata vorrebbe invece ormai acquisito al patrimonio funzionale della seconda, pur in un quadro giurisprudenziale attraversato da un moto incessante, assai frastagliato nei suoi lineamenti di fondo, connotato… da forti oscillazioni, incertezze, problematica coerenza interna.
Paradossalmente, l’inversione della tecnica di riparto delle materie, almeno in qualche caso, sta nei fatti giocando contro l’autonomia



Un secondo intervento del legislatore costituzionale, certamente opportuno al fine di completare e consolidare la svolta in direzione fortemente autonomista che il sistema ha compiuto con riscrittura del titolo quinto, concerne la disciplina della corte costituzionale. La posizione della Corte è destinata a divenire “strategica” ,[5] sia per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti di competenza legislativa tra stato e regioni, verosimilmente in futuro assai numerosi, sia per quanto attiene, più in generale all’attuazione dle nuovo sistema di rapporti e raccordi tra stato, regioni ed autonomie locali. Il modo con il quale la Corte interpreterà le nuove norme costituzionali e siprattutto le madalità con cui essa di volta in volta le applicherà quando si tratterà di decidere in ordine alle prevededibili controversie che nasceranno tra stato, regioni e sistema delle autonomie locali, saranno di assoluta rilevanza per definire il sistema effettivo che discenderà dalla riforma del titolo quinto. E’ comprensibile quindi la necessità, da più pari manifestata, [6] di rivedere e di ripensare la composizione della corte  (nonché il suo stesso modo di funzionamento e le modalità di accesso ad essa) in coerenza con un sistema che, ancorché lungi dall’essere pienamente compito, risulta profondamente diverso da quello disegnato dai nostri padri costituenti.
Tale riflessione deve tuttavia essere condotta e sviluppata in ogni sede con la massima prudenza e la massima ragionevolezza possibile. Proposte [7] volte a modificare la composizione della corte introducendovi una certa quota di giudici nominati da un’assemblea di presidenti di giunta e di consiglio regionali, o dei consigli regionali stessi non non possono non suscitare fortissime perplessità. Pur dovendo riconoscere che in passato la Corte ha talvolta concorso alla realizzazione del sistema con un occhio di favore per la supremazia dello Stato e concordando, quindi, in ordine all’opportunità di rendere più aperta e sensibile la giustizia costituzionale alle istanze del pluralismo, non pare che la strada da seguire possa essere quella di affidare ai giudici costituzionali una sorta di impropria rappresentanza degli interessi dei soggetti che li hanno nominati. La Corte è infatti un organo di garanzia e quindi ogni intervento riformatore della sua composizione deve avere lo scopo di rafforzarne il ruolo «terzo», l’autorevolezza e l’ineliminabile funzione di «magistero costituzionale». A tal stregua, può certamente condividersi la posizione di chi62 ritiene che l’adeguamento della composizione della Corte al pluralismo istituzionale delineato dalla riforma del Titolo V debba passare attraverso più corposi e diversi interventi, a partire dalla tanto attesa Camera delle autonomie la quale ben potrebbe essere coinvolta nel processo formativo della Consulta.



Una volta così delineato il quadro dei problemi interpretativi ed applicativi che la nuova disciplina costituzionale sul potere legislativo regionale dischiude, pare opportuno dedicare alcune brevi riflessioni al completamento del processo di riforma in chiave coerente con l’assetto policentrico e fortemente autonomo del sistema. [8]  La disposizione contenuta all’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, possiede, come già rilevatoun significativo valore in quanto con essa si mira a realizzare, per la prima volta, l’innesto delle autonomie territoriale nel parlamento nazionale. Malgrado ciò e ridadendosi l’urgenza di provvedere in tempi rapidi alla sua attuazionwe, non può tuttavia mancare di rilevarsi che l’integrazione della commissione parlamentare per le questioni regionali non sembra rappresentare lo snodo sufficiente per completare l’assetto istituzionale e dare solidità al nuovo sistema delineato dal titolo quinto. Essa costituisce, ai fini del coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nell’esercizio della funzione legislativa statale, una “soluzione minima di natura organizzativa” [9]: se infatti, da un lato, la commissione prevista dalla Costituzione (art. 126 c. 1° Cost. ) è una semplice articolazione del Parlamentoo, dall’altro l’art. 11 c. 2°, conferisce ad essa, una volta integrata, la competenza ad esprimere un parere rinforzato sui soli progetti di legge riguardanti le materia di cui agli artt. 117 c. 3° e 119 cost. Lo stesso art. 11 c. 1°, fissando il termine della sua validità nella futura “revisione delle norme del Titolo Primo della parte seconda della Costituzione”, oltre a sancire la transitorietà della previsione in esso contenuta, sembrerebbe indicare che la riforma approvata, per essere pienamente e armoniosamente in grado di fondare un nuovo sistema costituzionale nei rapporti ed altri livelli territoriali di governo, necessita di una adeguata e coerente riforma del Parlamento, della composizione delle due camere e dei poteri ad esse attribuiti.
La revisione dell’attuale bicameralismo, e., segnatamente, la trasformazione di uno dei due rami del Parlamento, presumibilmente il Senato, in una rappresentanza del Governo locale, costituisce, secondo larga parte della dottrina, un “passo necessario e in qualche modo ineludibile”, [10] al fine di completare e consolidare la svolta in direzione fortemente autonomista che il sistema costituzionale italiano ha compiuto con la legge costituzione n. 3 del 2001. In proposito, viene sostenuto che esiste una relazione piuttosto stretta tra la riforma dei governi territoriali in senso accentuatamente autonomista e la riforema del sistema parlamentare: il coinvolgimento del sistema delle autonomie nel processo decisionale centrale è una esigenza fondamentale per un ordinamento, quale quello italiano, in cui, come ha significativamente riconosciuto la recente sentenza n. 106 del 2002 della Corte Costituzionale, le autonomie territoriali concorrono a plasmare l’essenza stessa della sovranità popolare.
Molti dei problemi legati all’attuazione della riforma, prima, e al corretto funzionamento a regime del sistema, dopo, difficilmente potranno essere affrontati senza poter contare su una sede nella quale sia possibile associare a scelte determinanti per il sistema istituzionale tutti gli elementi che ne fanno parte e, da oggi, a pari titolo (art. 114 c. 1° Cost.). In particolare, ed è questo il profilo più rilevante ai fini della nostra analisi, una simile riconfigurazione del sistema bicamerale permetterebbe di affrontare con più sicurezza e fluidità le dinamiche legate al nuovo assetto delle competenze legislative.
Le considerazioni rapidamente svolte nella premessa hanno messo in evidenza la circostanza per cui il riparto delle delle competenze legisklative tra stato e regioni delineato dal nuiovo Titolo quinto, malgrado sia ispirato ad una impostazione di tito tendenzialmente duale, fondata sulla separazione-contrapposizione tra centro e periferia, presenta “inevitabili varchi di flessibilità” .[11]
Si pensi, in proposito, a quelle voci, presenti soprattutto nell’elenco contenuto all’art. 117 c. 2° Cost., le quali si riferiscono a “competenze senza oggetto” (elegante locuzione per tentare di designare, ad esempio, gli sfuggenti campi dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” – art. 117 c. 2 lett. m), ossia a competenze le quali sono chiamate a definire se stesse mediante il proprio esercizio.







[1] ) Cfr. gli atti della indagine conoscitiva del Senato la cui commissione si insediò il 17 ottobre 2001 sotto la presidenza appunto del senatore Pastore. Stando al sommario, il Presidente “ illustra la proposta di indagine conoscitiva in titolo ed il relativo programma come definiti nel corso dei lavori dell'Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi nella riunione di ieri. Si tratta di un'iniziativa che si rende opportuna anche per soddisfare l'esigenza di orientare l'attività futura del Parlamento in conformità alle nuove disposizioni costituzionali. Si acquisisce il “consenso sull’iniziativa del senatore MANCINO, anche a nome della sua parte politica”. Segue l’autorevole assenso del senatore BASSANINI, che anche “ a nome del suo gruppo, dichiara di concordare con la proposta illustrata dal Presidente ritenendo necessario avviare un'ampia riflessione sulle conseguenze della approvazione della legge di revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione.” Quindi sii apre i un dibattito sulla proposta di programma da sottoporre all'esame della Presidenza del Senato nel quale prendono la parola i senatori MANCINO, BOSCETTO, VALDITARA, BASSANINI, DEL PENNINO e VITALI. “ In conclusione, il presidente PASTORE, raccogliendo le indicazioni emerse, illustra il programma da inoltrare alla Presidenza del Senato che prevede la richiesta di un contributo ai Presidenti emeriti della Corte costituzionale nonché l'audizione del Presidente e del Procuratore generale della Corte dei conti, del Presidente del Consiglio di Stato, dei Presidenti delle autorità di garanzia, del Parlamento europeo, della Commissione e della Corte di giustizia delle Comunità europee, dei Presidenti della lega dell'autonomia, dell'UNCEM, dell'UPI, della Conferenza dei Presidenti delle giunte regionali e delle province autonome di Trento e di Bolzano e della Conferenza dei Presidenti dei consigli regionali, delle associazioni degli studiosi di diritto costituzionale e di diritto amministrativo, dei rappresentanti delle categorie produttive, professionali, sindacali e del terzo settore, nonché dei Ministri per le riforme istituzionali e la devoluzione, per la funzione pubblica, per gli affari regionali, per le politiche comunitarie e dei Ministri dell'interno e dell'economia e delle finanze. “ Segue l’atto formale con il quale “la Commissione unanime approva la proposta di indagine conoscitiva in titolo convenendo con il relativo programma. Su proposta del Presidente si conviene di richiedere per le audizioni dell'indagine il resoconto stenografico a pubblicazione immediata.” A quel resoconto stenografico ed a quelli delle successive riunioni noi, in questo lavoro, rinviamo per i riferimenti del caso.



[2] ) Andrea Piraino: Le autonomie locali nel sistema della Repubblica, Torno 1998, p. XI e ss.
[3] ) Ilvo Diamanti: "Devolution della devolution" da “il Sole 24 ore “ del 2 agosto 2001

[4] ) SENATO DELLA REPUBBLICA XIV LEGISLATURA 1„ COMMISSIONE PERMANENTE (Affari costituzionali, affari della Presidenza del Consiglio e dell'interno, ordinamento generale dello Stato e della Pubblica Amministrazione) INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI EFFETTI NELL'ORDINAMENTO DELLE REVISIONI DEL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE 3Î Resoconto stenografico SEDUTA DI MERCOLEDI¡ 24 OTTOBRE 2001 (Pomeridiana) Presidenza del presidente PASTORE IC 0113 TIPOGRAFIA DEL SENATO (500) Senato della Repubblica XIV Legislatura ± 2 ± 1„ Commissione 3Î Resoconto Sten. (24 ottobre 2001) I N D I C E Audizione del professor Vincenzo Caianiello * CAIANIELLO  Pag. 3, 19, 23

[5] Franco Pizzetti, dalle riforme della costituzione ad un sistema costituzionale condiviso. La difficile sfida italiana, in Le Regioni, 2002, pag. 617
[6] ) Cfr.  A. Piraino, in G. Berti-G.C. De Martin (a cura di); S. Bartole …, F. Pizzetti … V. Cerulli Irelli … in A. Ferrara-L.R. Sciumbata (a cura di); L. Vandelli …; G.C. De Martin, L FUNZIONE STATUTARIA E REGOLAMENTARE DEGLIENTI LOCALI,
[7] ) Ci si riferisce alle proposte inizialmente contenute nel progetto di «devolution» del Ministro Bossi (d.d.l. n.1187), poi stralciate. Esse hanno alimentato forti critiche all’interno della dottrina: cfr. A. MANZELLA, Le Regioni divise nell’Italia di Bossi, in La Repubblica del 31 luglio 2001, il quale, con riferimento alla proposta di giudici costituzionali eletti da un’assemblea comune dei presidenti delle Giunte e dei Consigli regionali, parla di una Corte costituzionale quale “collegio arbitrale di tipo corporativo”; F. PIZZETTI, op. ult. cit., p.619, secondo cui la proposta è “inammissibile e inaccettabile”; A. RUGGERI, “Regionalizzazione” apparente e “politicizzazione” evidente della Corte costituzionale attraverso la modifica della sua composizione, intervento al forum in rete di Quad. cost., in www.unife.it

[8] ) Chiara Aquili, la potestà legislativa regionale nella riforma del titolo quinto: le prospettive aperte ed i nodi connessi all’attuazione delle nuove disposizioni costituzionali, in “Amministrazioneincammino” (www.luiss.it)
[9] ) Franco Pizzetti, l’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’Unione Europea, in Le Regioni, 2002, pag. 653 e ss.
[10] ) M. Cammelli, Principio di sussidiarietà e sistema amministrativo nel nuovo quadro costituzionale, in G.Berti-G.C. De Martin (a cura di )
[11] ) Adele Anzon, un passo indietro verso il regionalismo “duale” in www.associazionedeicostituzionalisti.it

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