mercoledì 21 dicembre 2016


Il teatro, Giugiu Di Falco e gli “altri” (con un pizzico di Sciascia, indefettibile come il prezzemolo).

 

 

Malgrado tutto, nonostante dovremmo essere classificati fra gli ingrati “altri” – saprofiti di chissà quali ricerche altrui – Giugiu Di Falco, amico antico e vero sin dalla nostra infanzia, ci prodiga delle sue ricerche, queste vere e valide, e del suo costosissimo archivio fotografico. Tutto naturalmente riferito al baraccone di moda, il teatro Regina Margherita di Racalmuto. Divenuto sacro perché Sciascia vi tenne una prolusione quando cominciò a pensare che questo era diventato un paese terribile, sol perché qualcuno osava contraddirlo.

 

Dicevamo che secondo le insinuazioni di un  settario foglio [1]locale (plagi sciasciani a parte) noi saremmo tra quelli che avremmo depredato la documentazione di aliene ricerche nei vari archivi statali, provinciali, locali. Ma non è vero il contrario? Non sono stati “altri” quelli che hanno premesso la firma come precipuo autore di un testo che neppure avevano letto?  E costoro non sono finiti nel luccichio di un CD comprato già, a dire il vero, dal Comune? E lì non v’era quanto ora a spese sempre del Comune si vuol pubblicare per la terza volta, ed anche molto di più? Ma quando a sindaco la cittadinanza ha voluto il nipote del proprio campiere si può pretendere questo e ben altro; persino con gli osanna del giornaletto di famiglia.

 

Noi fummo tra quelli che pagammo di tasca nostra viaggi da Roma – e pesantissime bollette telefoniche – per consentire a qualcuno di assolvere ridevoli onorificenze. Sappiamo ora che in cambio un passato sindaco ebbe informazioni sulle carte giacenti in tanti archivi persino stranieri. Ma per questo basta consultare pubblicazioni ponderose ed informatissime, basta che si conoscano.  Non fui forse io a guidare nelle ricerche d’archivio? Naturalmente mi servivo di quelle pubblicazioni. Ovviamente il destinatario ora – per quei miracoli della cattiva memoria – finge di ignorarlo.

 

Scrivevamo un tempo – e ci pare che il sullodato foglio non mancò di ospitarci –:

Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.


 

Ci pensa adesso l’aulico foglio a darcene conferma; ovvio che la voglia di riesumazioni di carcasse storiche ci pare imbecillotta. Dovremmo dunque commuoverci e spingerci a gratitudine eterna perchè un “signorino” venuto dalla città non si poteva mescolare con i locali coetanei  essendo cosparsi di infettive malattie “esantematiche” (che cosa erano? I banali “coccia”?).  Dovremmo poi esaltarci perché gli amici del signorino erano mezzadri pastori ed affini pronti al sussiego servile. Per fortuna loro, alcuni – anche se non tutti – erano di sufficiente intelligenza – come i soci del circolo unione – capaci persino di discutere per qualche ora su vari argomenti. Vivaddio avevano apprezzabili intelligenza sapienza ed equilibrio.

 

Tra costoro c’era forse il bisnonno del Sindaco che abbiamo conosciuto stimato ed onorato (anche come autorevole membro della mia plebea famiglia)? Ma quello aveva superiore intelligenza, sagace operosità ed anche ironica marpioneria per non essere capace di abbindolare i figli o meglio i nipoti di signori divenuti tali dopo le peripezie rimaste memorabili per la penna di Eugenio Napoleone Messana.

 

Pare che tra breve il Comune – che ci ha tartassato elevando l’aliquota ICI al debordante 6 per mille (più di Roma) – abbia voglia di sperperare quel che rimane delle esauste casse municipali in riverenti pubblicazioni, frutto si dice di decennali fatiche. O quanto annaspante è quella penna, o quanto stanca quella fantasia. Tanto rumore per nulla si recita nel teatro che Giugiu di Falco ha osannato con le carte e le foto che ci accingiamo a commentare. Ma quanto denaro per tanto rumore – teatrale e storico-letterario! Paghiamo o cittadini contriti e riverenti, servi e saccenti, attualmente il 6 e poi il 7 e poi l’8 e poi  .. dato che dobbiamo mantenere fondazioni ove non arrivano neppure le carte dovute o ove si deve far locupletare stranieri ingordi, e dobbiamo pubblicare tutto anche ciò che è sgangherato ed insenso per compiacenza verso chi magari ci fa causa per non essere stato subissato di denaro dopo un modesto esproprio di terreno marginale occorrente per una bretella salva vite, plebee però. (Ricordate la scritta marmorea sotto la centrale? E’ davvero lontana questa vita racalmutese dalla giustizia e dalla verità, cioè dalla libertà annotava irriverente ma con migliore forma della nostra Leonardo Sciascia).

 

Dicevamo, dunque, di Giugiu Di Falco. Ci ha rassegnato copia di un suo quaderno dattiloscritto e del corredo fotografico risalente al 1988 A penna, si intitola IL TEATRO COMUNALE REGINA MARGHERITA DI RACALMUTO.

 

 

PARTE SECONDA – NOTE IN MARGINE DEL TESTO DI GIUGIU DI FALCO

 

 

 

Iniziamo con … la conclusione del libro del mio amico. Ci vuol notificare che “all’opinione pubblica … ha fatto piacere la collaborazione di un personaggio che nella costruzione di spettacoli teatrali è il massimo a cui si possa aspirare. E’ il noto scrittore, regista e sceneggiatore Andrea Camilleri”. Invero l’ultraricco scrittore empedoclino ci vuol solo far sapere che in risposta a taluna piaggeria interessata lui è disposto a limitarsi solo “a quella che può essere la formazione di un cartellone e l’indicazione dei percorsi artistici”. Anche qui – come per tutto il resto – molto rumore per nulla come con sapida anche se inconscia autoironia si conclamava nella recita di inaugurazione del “rinascente” teatro Racalmutese, dopo il flop della sala vuota per insipienze burocratiche.

 

Noi che il nostro amico lo conosciamo – e stimiamo – da una vita pensiamo che quella ingenua sdilinguata non sia frutto del suo sacco. Il lavoro, austero circostanziato leggibile, esordisce ben bene Diligente, rispettosa lettura di carte dell’archivio di Racalmuto consentono al Nostro di notiziare meticolosamente sulle vicende amministrative dell’epoca matroniana nell’avventurarsi in una maniacale e dispendiosissima impresa: quella di farsi un teatro elitario per lor signori, a somiglianza di quello capitolino, della Palermo appena post-borbonica.

 

Naturalmente il giudizio di valore in negativo è nostro. Giugiu Di Falco ama il teatro, quel teatro; lo considera cosa propria, ed a ragione visto che tutto sommato lui ne è il vero salvatore. Con le sue ricerche, con il suo interessamento, con l’entrature che l’alta carica fiscale allora rivestita gli consentiva, sfruttando magari le accidiose sortite del suo grande compaesano e coetaneo, potè  dar inizio al salvataggio che in quest’anno finalmente si dice concluso, sia pure dopo un ventennio di spese improvvide e per noi superflue. Vi era altro a cui pensare a Racalmuto: un paese su cui ricade un’ICI gonfiata, a riflesso pure di una siffatta opera neppure lussuosa, solo pretenziosa.

 

Sbotta ad un certo punto della sua ricerca il Di Falco che tanti particolari, molte notiziole, certe singolarità ce li può rappresentare perché si è molto adoperato nella investigazione di carte nascoste in locali ad affitto parentale con accesso a noi interdetto. Così per le nostre operazioni di scopertura di tali vicende minuscole del vivere paesano dell’Ottocento ci siamo avvalsi delle solitarie peregrinazioni nell’archivio di stato centrale di Roma o in quello – prima bazzicato solo da Eugenio Napoleone Messana – di Agrigento. Chi ha orecchie da intendere, intenda. Lungi ovviamente da noi la malignità che il Di Falco si sia avvalso per questa sua minuziosa indagine archivistica dell’opera di chi si proclama l’unico e prodigo dispensatore di carte storiche racalmutesi.

 

Giugiu D Falco ha semmai il nostro identico difetto; con tecnica burocratica tipica del Ministero delle Finanze ci piace investigare, verificare, accertare. Nel momento elaborativo, in solitudine; prima sfruttando le dabbenaggini altrui oppure le voglie esibizionistiche o delatrici degli estranei.

 

Ma bando alle superfetazioni. Giugiu Di Falco ama il teatro – non solo quello murario ma anche quell’altro recitato – da tempi immemorabili. Rifuggendo dal postumo carro di Tespi di taglio paesano – propenso all’erotismo plurimo secondo natura con l’eccezione di chi vi andava contro – il Di Falco diveniva alla fine degli anni quaranta il pigmalione della filodrammatica parrocchiale. Nel teatrino che l’encomiabile arciprete Casuccio – chi l’avrebbe mai pensato – mise a disposizione ebbero applaudita anche se effimera vita recite come il patetico “Ho ucciso mio figlio” – con straziante preludio della Traviata – o come l’ilare “Pastorale” che mi si dice ora essere di un monaco san biagese.

 

Certi maligni del Circolo Unione mi ragguagliavano l’altra sera sulla boccaccesca vicenda di tanti arrapati galantuomini – peraltro noiosamente sposati - finiti in blenorragia  per non avere resistito alla tentazione di godersi a pagamento le grazie di una prima donna caduta con i compagni in ristrettezze economiche per la latitanza dei locali spettatori dalle recite cui quella compagnia si cimentava nel nostro  teatro comunale.

 

Noi rammentiamo una splendida bionda, che ebbe a turbare peccaminosamente i nostri quasi impuberi sguardi, una Lia Guazzelli, coniugata o compagna di Renato Pinciroli assurto poi a gloria cinematografica e pensiamo a benessere economico. E la ricordiamo intenta a recitare piamente una santa Rita proprio sulle scabre tavole del teatrino parrocchiale, appunto per guadagnare almeno la pagnotta quotidiana.

 

 Giugiu Di Falco, unico allora a disporre di uno stipendio, comprò  da mio padre la “musulina” residua per le quinte del teatrino parrocchiale. Non recitava, neppure in minuscole particine. E noi non possiamo nobilitarlo inventandoci regie rapsodiche di chi poi fini scrittore famoso.

Ecco il nostro filodrammatico, nella parte di direttore s’intende. Giovanissimo eppure già grande con i grandi, uno della triade; gli altri: l’austero arciprete Casuccio ed un serioso padre Puma, allora semplice cappellano. E poi, il solito presente-assente Lillo Savatteri, il falso barbuto Guido Picone, ed altri che non ci azzardiamo ad individuare temendo di sbagliare. Come corre il tempo! Lo giuro: eravamo tutti racalmutesi autentici e non avevamo schiviltoserie razziste. Eravamo i migliori.

 

La troupe eccola tutta qui; assenti quelli in veste talare e presenti mio fratello Giacomo, il regista Gino Caprera (più bravo e soprattutto più efficiente del futuro grande scrittore). Vi notiamo Pino Agrò, attore spumeggiante, Angelo Morreale. Naturalmente il leader Giugiu Di Falco non può mancare.

 

 

 

E siamo sulla scena: quadri radio di lusso, sedie e tavolinetto in vimini (prestati da Ernesto di Naro?). Le parti minori hanno qui eguale risalto, si tratti di un piccolo cameriere o di un telefonista quasi sosia di Amedeo Nazzari. Di nobile portamento Guido Picone ed a Cosimo La Rocca non difetta la mimica singolare. Pino Agrò, il bello della compagnia, disdegna di conferire con un Luigi Giudice, prima degli impegni ministeriali. Ed Angelo Morreale, bifronte: accetto dai pretenziosi virgulti della locale crestomazia – che facevano clan e circolo a parte – e presente tra noi della modesta plebe.

 

 

 

 

 

Il lavoro sul teatro comunale resta comunque prezioso fugando imprecisioni storiche false attribuzioni di paternità improprie requisizioni regime. Ci piacerà o meno ma la tela dei Vespri Siciliani (Sciascia precisino li vuole al singolare) non potremo più toglierla a  Giuseppe Carta per attribuirla magari  ai sigg. Tavelli e Belloni sulla scia dell’impreciso Messana. A Giovanni non dite – mi raccomando – che le varie tesi sull’attribuibilità del telone a vari artisti (e Sciascia ed Aldo Scimè ed altri vi ci sono cimentati) potrebbero integrarsi dato che Carta avrà ricevuto la commissione ma nulla fa pensare che l’abbia integralmente eseguita di suo pugno. Non vi è dubbio che si sia servito di suoi discepoli o aiutanti. Non per nulla non sembra che quello sciatto scenario l’abbia firmato. La vasta dimensione non significa pregio artistico, che invero è più arduo quanto più vasta è la superficie da colorare. 

 

 

In altri tempi, con altri intenti parleremo del lavoro di Giugiu Di Falco sul teatro Margherita e ci permetteremo qualche licenza critica che qui non sarebbe opportuna. Ci limitiamo a trasmettere alcune foto ad illustrazione del testo descrittivo del nostro grande amico Giugiu Di Falco. Ad malora Giovanni!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una pinacoteca a Racalmuto dedicata a Pietro d’Asaro

 

L’associazione racalmutese ECCLESIA (presidente padre PUMA, direttore Calogero TAVERNA) ha organizzato l’inaugurazione della pinacoteca Pietro d’Asaro aprendo i locali della vecchia chiesa di S. Sebastiano (tra S. Anna e S. Giovanni di Dio).

E’ stata una manifestazione di grande rilievo – oltre che per la comunità racalmutese – per l’intera realtà culturale agrigentina e persino regionale, tanto che non è mancato il patrocinio del Comune e della Provincia.

Nei locali di S. Sebastiano – dopo i restauri pubblici più o meno condivisibili – sono già custodite pale d’altare, tutte attribuite a Pietro d’Asaro, ma con disinvoltura critica, visto che solo le pale firmate sono indubitabilmente del pittore racalmutese; le altre attengono, ad avviso di alcuni critici, ad una scuola, non necessariamente racalmutese, cinquecentesca, tutta da studiare anche per la ricognizione della veridica microstoria locale e provinciale.

Comunque, la mostra pittorica si è estesa alla pittura dell’Arciprete, pittore ragguardevole, di notorietà nazionale. Vanta, infatti, varie esposizioni, la più prestigiosa in Piemonte, Altrove, in questo sito, potrà leggersi una critica non convenzionale sul Puma pittore.

 

L’inaugurazione è stata solennizzata dalle massime autorità religiose della Diocesi, da quelle militari e  civili della Provincia. Presente per l’intera giornata il Sindaco Restivo.

 

In contemporanea, a supporto e ad amplificazione, si è svolta una giornata di studio, a completamento o a rettifica di quella già svoltasi per il V centenario della Saga del Monte. Il fulcro è stato la dottissima prolusione del prof. Mazzarese Fardella, direttore dell’istituto di storia del diritto all’Università di Palermo, che ha esplicato storia, diritto, araldica e costumi della Sicilia feudale. Non sono mancati perspicui riferimenti alla microstoria racalmutese (avendo il professore degnato di attenzione, naturalmente critica, lo studio di Calogero Taverna sulla “signoria racalmutese dei Del Carretto”); vi sono stati del pari coinvolgenti relativi alla “vinuta di la Bedda Matri di lu Munti”.

 

Con l’occasione il padre Stefano Pirrera ha dato incarico al Taverna di illustrare la figura del defunto padre Calogero Salvo, personalità poliedrica, sacerdote integerrimo, uomo di fede profonda (forse persino con tocchi giansenistici), studioso perspicuo anche delle nostre cose racalmutesi. Appartiene a quell’olimpo di grandi racalmutesi (pur se in veste talare) che vanno rievocati, apprezzati, onorati e studiati “a futura memoria”. Non possono essere per ignavia dei vivi cacciati nelle gore dell’oblio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un vescovo discusso
Mons. Trahina
nell'Agrigento del '600Giudizi discordanti
da Pirri a Camilleri
Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600


 


 


Una introduzione è d’obbligo


 


come giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?


 

 

Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.

 

Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.

 

Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»

 

Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?

 


 


Il Traina, l’uomo, il vescovo


 

 

 

Ma che vescovo fu codesto monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti. Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono, comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi, dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo confesso, è lo stesso canonico Picella  a farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso la sacra congregazione del Concilio.

Pensate che il Picella fino ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.

Codeste visite a Roma erano diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.

Fra le carte che siamo andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di elucubrazione in diritto, de jure, colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era anche qui una ragione economica.

 

L’interdetto comminato al vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità canonicale, converrà con noi su tale assunto.

Vedremo come il canonico Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.

Il Camilleri prende questo vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”, storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia. Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel 1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali, ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione, o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?

Lascia che i morti seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,), l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti protesi a seppellire altri morti?


 

 

Cenni biografici del Traina


 

 

Per una strana singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente, il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis” celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV – Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i due referenti di fiducia,  il messinese don Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona; possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73 anni.

Per quel che si vedrà, il medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci  suggeriscono che la mortalità infantile era feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.

Il certificato medico dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare almeno di doverlo sospettare.

Il Traina si proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima, di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus” scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città. et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è fatto in persona di  esso dottor Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è di 48 in 49 anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario, anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio

Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.

Il de Bardis ci informa che per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta, meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico, attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’ dotato  di grande dottrina ed è molto atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli “paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio, integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”.  Non per nulla il vescovo gli diede licenza di poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della sua vita e costumi.»

 

Nel gennaio del 1627 giunge al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”, invita “Y Cardinal Barverino”  e firmata da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il semplice taglio burocratico.

Il 10 febbraio il concistoro ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco Barberini, ex fratre germano nepos del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,

 

Il Blasco si dilunga nella descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti “relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.

Trascriviamo alcuni passi in latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.

 

«Eidem anno, indictione, mense die, et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice Cancellarium  dicti Almi Studij, et solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit tenoris infrascritti videlicet: 
In Nome Domini Amen, Nos don Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et temporalibus Vicarius Cat. sede vacante  ... (solita forma) ... significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum  fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de Mainoin  defectu lectoris  non doctoris etiam Compromotoris, et respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M. Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo  ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus, virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta, dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare confutando ac solvendo de consilio  et pari voto ad d. collegi magistrorum  et doctorum  eundem d. Franciscum nomine approbavimus
 
magna cum laude
 
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
 
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum solito sigillo mun.  videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque consiliarius etc. ... notum facimus  presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere insignisse  eidemque hab. primam clericalem tonsuram cum ceremonijs  ... etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor temporum  nativitatis, D.N. Jesu Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
 
Ego Odoardus Tibaldesius clericus Spoletinae..

 

E dopo tanto latino che pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della Sicilia.

 

Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo d.mum d. Franciscum Traynam dignum esse ut  ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem

Cad. Barberinus

Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card. Brandinus

Idem censeo ego C. presb. card. Pius

Item censeo ego diac. card. Aldobrandini

 

Avremmo qui voglia di continuare con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto di fede del futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo nella Santa Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato per cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata almeno rispetto al moderno catechismo.

 

Giunto il Traina ad Agrigento, inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i canonici del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per la visita alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il vescovo che, nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I canonici attivano gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a Palermo e presso la curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante scomunica da cui sarà assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed altri maggiorenti di Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche Racalmuto sono pronti a dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio dell’Arcivescovo di Palermo. Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la curia vaticana, Ma il re, titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non ammette simili fellonie. Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto scottante per Roma. Il Traina può gongolare. Intanto comincia a provar gusto nell’arricchirsi. Considera serpi in seno i canonici e si avvale in misura crescente dei propri parenti. Il Pirri gli fa visita e l’adula nella sua possente storia religiosa della Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico racalmutese, gli dedica un suo libro di medicina (il peggiore). Tutto sembra volgere al meglio quando scoppiano i tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il nostro discorso critico iniziando con la menzione di quanto, mutando registro, annota nei suoi diari che finiscono pubblici Rocco Pirri.


L’EPISCOPATO AGRIGENTINO DEL TRAINA


 

 

 

 

Dalla cronaca alle pubbliche accuse


 

Il Pirri, oltre alle sue opere storiche, ci ha lasciato una sorta di cronaca, un diario dei pubblici eventi degli anni terminali della sua vita:  gli annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Noi ci avvaliamo, però, della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo. «Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»

«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel crimenlese  e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.

«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea colà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»

Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fino nei minuti particolari, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime», ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640.  Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.

 

Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.

Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare, almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.

 

Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!

 

Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; è lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»

 

  Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.

 E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi – in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.

Il re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente - e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Salerno agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbiamo trovato assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato? Il papa da Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino, colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis causa, adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.

E finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.

Si mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?

Sei candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores speactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la pensavano così.

Ampliò il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.

A Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostrerà dopo a noi risulta qualcosa di diverso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).

 

Sennonché, non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali, imponendosi il totale ripristino dell’antica giurisdizione.

 

A questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie – prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi

 

Da vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:

«D.O.M.  DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette anni al servizio dell’invittissimo re di Spagna, Filippo III e IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le formule testamentarie dell’epoca.

 

Spetta al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639,  solemni ritu  della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.

 

Un semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente -  di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di novembre, addì 24.

Redige testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1651. I soliti legati alle chiese, qualche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciò fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: soffre d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.

Per la dotazione libraria del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed edificante  vicenda di monsignor Francesco Traina, oriundo cammaratese.

Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.

 

Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentesca il racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli compra la città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».

 

Ci pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle cause per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).

 

 Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di Racalmuto.

Eppure, ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dovesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire informazioni. (ibidem reg.  2, f. 386v del 18 novembre 1629).

 

Chi la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.]  che ha comminatione di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria,  n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che siamo nel 1630, il 26 agosto.

Il Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane cancellerie.

La pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del  vescovo, la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).

Ma giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina  (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).

Nel terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandato il zelo, et osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [2]con procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).

 

Per quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale gravissima censura non è passata sotto silenzio. Si vedrà alla fine del presente lavoro l’esito di quella scomunica. Sarà il cardinale di S. Onofrio ad irrogare le pene e poi ad assolvere il vescovo previa adeguata penitenza

 

Monsignor De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:

a)     non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;

b)    il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;

c)     ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le prosapie locali poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.

 

Vero è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di reggenza in tempi di  vacatio – era varia ed i canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a condizionarla. Diamo uno sguardo alla  composizione del capitolo: al tempo di monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno riesumato dall’oblio dei tempi.

 A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce soprattutto la quantità.

1
1632
GIUSEPPE
CICIO
ARCIPRETE
2
1632
FRANCESCO
TAGANO
CAPPELLANO
3
1632
SANTO
D ' AGRO'
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
4
1632
GIUSEPPE
SANFILIPPO
BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
 
 
 
 
CHIESA DI S. NICOLA
5
1632
LEONARDO
D ' AMODEO
 
6
1632
G.BATTISTA
ACQUISTA
 
7
1632
FRANCESCO
CICIO
CAPPELLANO
8
1632
PETRO
RAFFAELI
CAPPELLANO
9
1632
GIUSEPPE
TODARO
 
 
 
 
 
 
1
1632
FRANCESCO
CURTO
CHIERICO
2
1632
DOMENICO
SFERRAZZA
CHIERICO
 
 
 
 
 
ANNO 1634
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
1634
ANTONINO
MOLINARO
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
 
 
 
 
SO IL 12.3.1635
2
1634
LEONARDO
BERTUCCIO
CAPPELLANO
3
1634
PASQUALE
MACALUSO
 
4
1634
GIUSEPPE
TODARO
 
5
1634
PIETRO
CASUCCI
 
6
1634
GERLANDO
MARTORELLA
CAPPELLANO
7
1634
ANGELO
CASUCCI
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
1634
GIUSEPPE
GRILLO
SUDDIACONO
 
 
 
 
 
1
1634
G.BATTISTA
LO BRUTTO
CHIERICO
2
1634
ANDREA
MORREALE
CHIERICO
3
1634
SIMONE
SALVAGGIO
CHIERICO
4
1634
PIETRO
DI ROSA
CHIERICO
5
1634
ANTONINO
LO PORTO
CHIERICO
6
1634
GERLANDO
MORREALE
CHIERICO
7
1634
VINCENZO
RIZZO
CHIERICO
 
 
 
 
 
ANNO 1639
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
1639
GIUSEPPE
TRAINA
ECONOMO
 
 
 
 
 
1
1639
FRANCESCO
SFERRAZZA
DIACONO
2
1639
GIROLAMO
SCIRE'
DIACONO
 
 
 
 
 
1
1639
GIUSEPPE
D'ACQUISTA
CHIERICO
2
1639
GIUSEPPE
CASUCCIO
CHIERICO
3
1639
MICHELANGELO
D'ASARO
CHIERICO
4
1639
G.BATTISTA
BAERI
CHIERICO
5
1639
GIUSEPPE
LA LATTUCA
CHIERICO
6
1639
ANTONINO
MACALUSO
CHIERICO
7
1639
FEDERICO
LA MATTINA
CHIERICO
8
1639
MARIO
TURRETTA
CHIERICO
9
1639
GIOVANNI
PITROCELLA
CHIERICO
10
1639
GASPARE
TROISI
CHIERICO
11
1639
VITO
BURGIO
CHIERICO
12
1639
FILIPPO
DI CHIAZZA
CHIERICO
13
1639
ANTONINO
MUNTILIUNI
CHIERICO
14
1639
FRANCESCO
GIUSTINIANO
CHIERICO
15
1639
PIETRO
CURTO
CHIERICO
16
1639
ISIDORO
D'AMELLA
CHIERICO
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
ANNO 1645
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
1645
TOMMASO
TRAJNA
ARCIPRETE D.S.T.
2
1645
GIUSEPPE
TRAJNA
ECONOMO
3
1645
FRANCESCO
TIGANO
 
4
1645
FRANCESCO
SFERRAZZA
 
5
1645
GIUSEPPE
D'AGRO'
 
6
1645
PAOLO
LA MENDOLA
 
7
1645
VINCENZO
RIZZO
 
8
1645
SALVATORE
PITROZZELLA
 
9
1645
MARIANO
MALASPINA
CON LICENZA DI PARROCO
10
1645
FRANCESCO
MACALUSO
 
11
1645
PIETRO
CURTO
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
12
1645
LEONARDO
MORREALE
COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
13
1645
GIOVANBATTA
D'ACQUISTA
 
14
1645
FEDERICO
LA MATTINA
CAPPELLANO
15
1645
CALOGERO
DI PUMA
 
16
1645
GERLANDO
MORREALE
FONDATORE CHIESA S. MICHELE
 
 
 
 
 
ANNO 1649
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
1649
POMPILIO
SAMMARITANO
ARCIPRETE
2
1649
MARIANO
D ' AGRO'
BENEFICIALE S. NICOLO'
3
1649
ANTONIO
MACALUSO
 
4
1649
SIMONE
LO GUASTO
COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
 
 
 
 
 
1
1649
GIUSEPPE
GRILLO
DIACONO
 
 
 
 
 
1
1649
GIUSEPPE
LO SARDO
CHIERICO
2
1649
NATALE
DI ALFANO
CHIERICO

 

Ed ai fini di tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito un excursus su Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina, che riportiamo in appendice.

 

Il Traina dopo la scomunica


 

A metà del 1631, il vescovo Traina sembra essersi rinsaldato nel suo soglio episcopale; non si discute più la sua autorità; un compromesso con il cardinale Doria appare più che verosimile. I due prelati sono ora sulla stessa barca nella difesa dei privilegi penali delle loro rispettive chiese.  Francesco Ferdinando de la Cueva, duca d’Albuquerque è viceré spagnolo molto fedele al suo sovrano e non tenero verso le usurpazioni dello stato ecclesiastico siciliano, sempre pronto ad invadere campi alieni e rapace nell’annessione di poteri e di meri e misti imperi. Il f. 65 v. del reg. n° 3 della Sacra Congregazione delle Immunità ecclesiastiche  ci pare che sveli soprattutto preoccupazioni per l’attacco istituzionale del vicereame palermitano avverso la locale chiesa e lasci per il momento da parte le grintose grida o le scomuniche contro i propri vescovi per faccende minori. Là – il 6 maggio 1631 – si tramanda un invito al Traina e al Doria, in contemporanea: «rinnovandosi da ministri laici – si puntualizza – l’ingiusta loro pretensione, che gli officiali delle Curie vescovili non debbano godere il privilegio del foro in tutti li delitti che essi commettano davanti il loro ufficio in dette curie vescovili … si compiacciano [i presuli in indirizzo] difendere la giurisditione ecclesiastica da questo pregiudicio.»

 

Quindi, per oltre un triennio, Agrigento scompare dalle attenzioni dell sacra congregazione romana delle immunità ecclesiastiche. Solo nel dicembre del 1634 (Reg. n° 4 f. 83) si torna a scrivere al vescovo di Giurgento: «nella causa di Baldassare di Blasius – si esordisce nella missiva – V.S. lo facci ritenere ben custodito et sicuro … conforme la Bolla di Gregorio XIV … [e] facci pigliare giustificationi sopra le qualità di esso con trasmettere poi quanto pertinente alla S.C., acciò si possa pigliare la risolutione che sarà di giustitia.» Il documento trascende l’angusto limite delle controversie ecclesiastiche per darci squarci di diritto penale feudale, con gli annessi risvolti procedurali e con le implicazioni di una evanescente giustizia carceraria. Quella competenza del foro rivendicata dalla curia romana per crimini commessi nella lontanissima Agrigento in forza di una vaga Bolla di Gregorio XIV disorienta alquanto. I modernissimi studiosi di diritto feudale siciliano – un po’ forse distratti dalle aporie delle indecifrabilità istituzionali del settore pubblico e del diritto privato - non pare che per il momento siano sensibili a tali incognite della minuta giustizia dentro costituzioni atipiche come senza dubbio sono quelle che formalizzate o modellantisi in forza delle esigenze pragmatiche reggevano e vincolavano le realtà feudali tarde del Seicento.

 

Sulla vicenda si torna il 22 maggio 1635  (ibidem f. 100) e così sappiamo che Baldassare de Blasio veniva perseguito in quanto «si pretese havesse commesso homicidio proditorio gode[ndo] l’immunità eccelsiastica.» Il vescovo aveva omesso di uniformarsi agli ordini vaticani, e da Roma gli si intimava di «avvisare il seguito giustificatamente»

 

Dal 1635 al 1636 vicerè è Luigi di Moncada, duca di Montalto. I Moncada hanno da tempo ramificazioni tra i nobili agrigentini e rientravano in quelle consorterie che in chiusura del XVI secolo si erano scontrate con il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ed ora, si è visto, non mancavano di contrapporsi al Traina che di nobili lombi non ne aveva di perfettissimi. Il duca di Montalto non gradisce l’autocrazia del vescovo di Agrigento. Lo avversa ed il vescovo si rivolge a Roma. La congregazione ne prende le difese ed il 25 novembre del 1636 invia una missiva del seguente tenore (ibidem reg. 4, f. 100):« La fiducia che hanno questi Em. S. nella prudenza ed integrità di V. S. dà occasione di pregarla a operare, che siano remosse le molestie che il Vescovo di Giorgento riceve da Ministri del Duca di Mont’alto, quali essendo trascorsi oltre il dovere meritano non restare impuniti di simili eccessi, et che con il dovuto pentimento usino quelli atti di riverenze che sono dovuti al Pastore. Si attenderà dunque l’effetti della prudenza di V.S. alla quale etc….»

La prudenza e l’integrità cui si rivolge il vaticano non emergono da documento in esame, ma è certo che viene coinvolto anche il cardinale Doria, cui spetta difendere l’aborrito vescovo agrigentino. Si sarà dato da fare? Ne dubitiamo. L’amanuense della Congregazione romana annotava: “si scrive per ordine di N.S. e del Sig. Cardinale Barberino”. Sapeva dunque della riluttanza dell’arcivescovo di Palermo per siffatta incombenza. Certo si è che il 3 febbraio del 1637 il cardinale Doria non aveva ottenuto (o aveva fatto in modo che non si ottenesse) alcun risultato apprezzabile: «si avvisa delle molestie – tornava a ripetere la curia papale – che da Ministri Laici si danno al vescovo di Giorgenti» (Ibidem reg. 4 f. 236v).


UN VESCOVO INDECIFRABILE – I CANONICI GLI SONO AVVERSI


 

 

Monsignor Traina alla luce delle sue “relationes ad limina”


 

 

Quanto fin qui siamo andati discorrendo, vediamo di riscontrarlo alla luce delle relazioni triennali della Congregazione Concistoriale quali sono consultabili presso l’Archivio segreto vaticano. Premettiamo che l’ultima carta precedente l’episcopato del Traina è datata 4 aprile 1621. La prima del vescovo che ci occupa porta invece la data apocrifa del 1631 (ASV – S.C. Concistoriale – Relationes reg. 16 – f. 81r). Trattasi della relatio per la quale erano state comminate le sanzioni cui si accennava.  Risulta firmata dall’«humill.s et devotiss.mus servus Franciscus episcopus agrigentinus.» Diretta agli “em.mi et rev.mi D.ni”, la relazione esordisce evocando la costituzione di Sisto V sulla visita dei sacri limini e delle cattedrali ecclesiastiche cui sono tenuti i presuli. Si ringrazia la Divina Provvidenza per aver dotato la chiesa di un papa come Urbano VIII. Si specifica che le visite di rito sono state effettuate il 21 ottobre del 1631. La visita attiene a quella obbligatoria per il quattordicesimo triennio. Il povero vescovo aveva lasciato Agrigento già nel febbraio precosro, ma “tempestatibus maris ac sinistrorum temporum iniurijs” gli era stato impedito di raggiungere i Sacri Limini. Dobbiamo credergli o è una pietosa bugia, questa dei mari procellosi e dei tempi infidi, per giustificare la riottosità agli ordini papali che prima abbiamo in qualche modo significato?

 

Il testo tradotto della prima “relativo ad limina” del Traina


 

 

Finalmente ci si risolve a rappresentare lo stato della chiesa agrigentina, “statum ecclesiae meae referam”. «Si dice che la Chiesa agrigentina – traduciamo – sia suffraganea della chiesa metropolitana palermitana, ma è lecito pretendere che essa, per i privilegi apostolici, sia esente e sia immediatamente assoggettata alla Sede Apostolica”. Si inizia, dunque, con un fendente avverso il non amato cardinale Doria.  Passando allo stato giuridico di Agrigento, si afferma: «La civitas di Agrigento sorge nel Regno di Sicilia ultra Pharum e nelle cose temporali è assoggettata al re Cattolico: un tempo di rito greco, poi, liberata dalla tirannide saracena dal conte Ruggero, tornata sotto il rito latino, vi persevera tuttora.» La recente peste ha, tuttavia, decimato la popolazione. Resta comunque un’ampia diocesi ripartita tra diverse città, vari paesi e non poche terre. Il vescovo assicura di avere visitato o fatto visitare tutte le 52 località nel precorso triennio. E, in tali occasioni, non ha mancato di svolgere la sua missione episcopale «sacramentum confirmationis administrando, et per me meosque visitatores predicando, monita salutaria populo dando, nulli labori pro animarum salute pavendo».

«Ho curato che in ogni località vi fosse la parrocchia con tutto quanto occorre, che i sacramenti venissero amministrati con la dovuta vigilanza ed accuratezza; ho ingiunto ai parroci di predicare al popolo ogni domenica e per tutto il tempo quaresimale facessero loro stessi o altri fruttuose omelie. Ottenni che ogni anno i padri gesuiti svolgessero le missioni per l’intera diocesi affinché con le esortazioni e le confessioni si convertissero le anime. Ho istituito le 40 ore nelle chiese parrocchiali ogni singola domenica per invocare Dio perché ci conceda felicità per lo  Stato e per la Chiesa e sovvenga alle pubbliche necessità.

«Ho disposto per la riparazione di tutte le chiese cadenti non mancandosi di dotarle dei paramenti e delle necessarie suppellettili.

«La diocesi conta 190.000 anime, di cui atte alla comunione 105.000. Le persone ecclesiastiche sono 3.449; le chiese secolari e regolari, con curato e semplici 614; monasteri maschili, collegi, conventi 153; monasteri di monache 22, una casa delle convertite, 6 case per orfane, 20 ospizi per gli infermi, un monte di pietà, chiese madri o curazie 87, associazioni e confraternite di laici 238.

«La cattedrale è sotto l’invocazione dell’Assunzione della Beata Maria, di San Giacomo apostolo e di S. Gerlando, una volta vescovo di questa città ed ora suo protettore e patrono.  La medesima chiesa che parzialmente minacciava di andare in rovina e necessitava di ripari ho adeguatamente fatto riparare ed ora ho iniziato ad ornarne le cappelle. In essa si trovano il sacrario, il coro, l’organo, la sacrestia, il cimitero, il campanile con molte campane e tutto quanto si addice ad una cattedrale. Ho ornato in sacrestia gli stipi e le arche di legno che contengono le suppellettili e gli altri paramenti sacri.

«Ho riparato varie parti della cattedrale e dell’annesso palazzo episcopale e di recente l’ho ornato con un giardino ed altri decorazioni. Nella cattedrale ci sono 4 dignità delle quali il maggiore e il primo dopo il pontificale è il diaconato e 16 canonici e molti altri presbiteri  e chierici che assistono agli uffici divini ed alle sacre funzioni. Legati e rendite sono sufficienti per il loro sostentamento.

«Al fine di evitare che vengano defraudate le volontà dei testatori, espressamente ho ordinato e disposto che nelle sacrestie della città e della diocesi venga esposta una tabella in cui si annotino gli oneri per messe e per anniversari. Per di più, ho fatto obbligo ai notai che sotto pena di scomunica debbano dare notizia al vicario generale o ai vicari fonanei della diocesi di tutte le disposizioni testamentarie, o d’altra specie, nonché delle donazioni per causa pia, e ciò entro otto giorni dalla data della disposizione.

«Nella predetta cattedrale sussiste la prebenda teologale ma non quella penitenziale. Mi adopero perché gli oneri penitenziari vengano sopportati da un canonico maestro di teologia. Ho predisposto un nuovo archivio ove conservare le scritture pubbliche e per consentire una facile consultazione ove occorra.

«Nella predetta città opera una pia casa di convertite il cui numero al presente ascende a 20 unità. La qual casa essendo del tutto priva di rendite viene da me sovvenzionata con le mie rendite. Ed ho anche dotato 150 vergini orfane per mio debito pastorale acciò per la loro povertà non finiscano male e si sottraggano al pericolo della loro pudicizia.

«Nella diocesi non ci sono monti di pietà, tuttavia vi sono alcune confraternite di laici simili ai monti di pietà che s’incaricano di seppellire i morti e di sistemare con buoni matrimoni le orfane povere. Io infatti ho sopperito alle necessità della città con paterna sollecitudine erigendo il monte di pietà e dotandolo di mille scudi.

«In città vi è pure il seminario dei fanciulli ecclesiastici da me riformato ed accresciuto in modo tale che sebbene vi fossero tenui redditi purtuttavia vi trovano alloggio e vi attendono agli studi ben 18 alunni; e ciò si spiega perché non manco di sopperire alle spese con contributi tratti dalla mia mensa episcopale.

«Nella chiesa cattedrale si venera il corpo di s. Gerlando ed il capo di santa Vittoria; a Licata il corpo di s. Angelo; a Sutera quello di s. Paolino; nella terra di Cammarata i capi di tre consorelle di s. Orsola sono onorate in vasi di argento; infine diverse altre reliquie vengono conservate nella stessa città e in diocesi.

«Ho convocato e celebrato secondo le prescrizioni dei decreti del sacro concilio tridentino il sinodo diocesano a cui ho deputato giudici ed esaminatori sinodali e ho pubblicato non poche costituzioni e ordini per la riforma e l’eliminazione di taluni abusi non mancando di prescrivere norme di vita sia per gli ecclesiastici che per i secolari che se Dio vuole saranno osservate per la salute dell’anima.

Che si serva il coro delle chiese in modo decente e con abito decoroso, con la tonsura clericale ho stabilito; che nei negozi secolari non si immischi il clero si è stabilito; del pari si è sancito di adoperarsi a che il popolo si mantenga docile, clemente e pieno di carità, mentre i giovani siano spinti alla debita osservanza dei sacramenti e rispettino i precetti della chiesa.,

«Mi industrio affinché in qualunque centro abitato della mia diocesi vi sia un maestro di grammatica e di musica e dove è possibile un lettore dei casi di coscienza. Ho ordinato che in qualunque matrice vi sia un maestro di cerimonie il quale abbia costantemente presso di sé il cerimoniale romano ed il direttorio del coro affinché gli uffici divini vengano celebrati decentemente.

«Nella diocesi vi sono due terre in cui permane il rito greco ed i loro sacerdoti sono stati consacrati in città e in modo specifico dal vescovo di Sant’Atanasio a questo effetto deputato. Procuro un cappellano addetto alla cura delle anime in quelle località in cui per povertà non può erigersi la parrocchia.

«In questo esordio della mia missione episcopale ho rinvenuto, specie per la sede vacante durata un triennio, nella città e in diocesi vari abusi e molteplici varietà di vizi, come ad esempio l’usura, l’incontinenza, la trasgressione del precetto festivo, l’inobbedienza, la sottrazione alla giurisdizione ecclesiastica, l’evasione dai tributi alla chiesa; di tal che i crediti degli ospizi, delle confraternite e degli altri pii luoghi ascendono ad oltre 100 mila scudi, né i debitori si possono facilmente costringere, in particolare perché vengono protetti iniquamente dai ministri temporali delle singole comunità. Infatti codesti ministri temporali o i loro domestici o familiari per la maggior parte sono loro stessi i debitori. Così i predetti luoghi pii soffrono non poco detrimento e le loro proprietà vengono usurpate da altri. Mi sforzo nel radicare siffati abusi e difendo con tutte le mie forze la giurisdizione e le libertà ecclesiastiche.»

La chiusa è di rito: un umile invito ai potentissimi cardinali di essere solleciti nel redarguirlo nelle mende in cui involontariemente fosse incorso. Altrettanto rituale la sottomissione alla volontà della sacra congregazione, ai decreti del sacro concilio tridentino ed alle sacre costituzioni apostoliche.

 

Si è visto che il papa ebbe a considerare adeguate le giustificazioni del vescovo e solo per non fare passare impunite le varie inadempienze agli ordini vaticani si invita il cardinale competente a punizioni che ci appaiono esagerate e che, sì, andarono ad effetto ma subito rientrarono con una solenne confessione ed apparente penitenza. Il papa ne diede incombenza al confessore del vescovo. Diranno, poi, i canonici ribelli che fu subito “benedetto”.

 

Chiose e commenti


 

La relazione del Traina è abile, piena di fervore religioso, per i suoi tempi persino provvida. Che mentisse? Non ci pare. Crediamo che prima delle calamità della metà del Seicento, quando il presule era ancora piuttosto giovane, l’uomo fosse valido. Invecchiando, con l’umano raggrinzirsi nelle morse dell’avarizia può essere peggiorato. E così le indubbie colpevolezze possono spiegarsi.

 

Il precedente 5 aprile il cardinale presbitero Roberto Ubaldino titolare di Santa Prassede aveva attestato l’avvenuta visita dei sacri limini da parte del vescovo agrigentino. Era stata una visita fatta personalmente per il XV triennio. Il foglio (84r) è pieno di incisi e monitori squisitamente ecclesiastici. Ma sembra che non sia servita a molto, se furono comminate (o semplicemente disposte) le sanzioni che in esordio abbiamo segnalate. Contro il vescovo cospiravano quindi le grandi famiglie dell’aristocrazia agrigentina; per quel che ne emerge trattavasi dei Gioeni di Giuliana,  del conte di Burgio, dei signori di Cammarata e di San Giovanni. Non può parlarsi del conte Giovanni del Carretto di Racalmuto, essendo costui appena un dodicenne.

 

 

Troppe formalità per una delega – Una seconda scarna “relativo”


 

 

 

Non passa neppure un anno ed il travaglio del Trayna con la curia papale riprende: altra visita troppo onerosa per farla davvero, altre giustificazioni da accampare, altri atti formali da redigere Tre pagine fitte fitte vengono stilate dal notaio agrigentino (si ammira un sigillo disegnato a penna con un ingenuo logo notarile), Gaspar Quaglia apostolica et regia et potestate judex  ordinarius atque publicus notarius agrigentinus,  per una banale procura del vescovo Francesco Traina al proprio canonico S.T.D. Lorenzo Merenda. Chiamati a testimoniare due dottori in sacra teologia, don Cesare Malagrida e don Vincenzo Babbilonia, nonchè il n.h. Giovanni Games. Ci pare che per il momento il nepotismo non fosse piega molto estesa presso la curia di S. Gerlando.

 

Laurentius Merenda Canonicus Cathedralis Ecclesiae Agrigentinae ad Urbem specialiter transmissus ab episcopo suo agrigentino qui ob corporis indispositionem, et senilis aetatis ac longi itineris difficultates Sacra Apostolorum limina personaliter visitare nequit absque evidenti vitae periculo ac gregis sibi commissi detrimento attento … etc. etc. Anche se dette in latino – peraltro non cospicuo – le lamentele e gli inconvenienti paiono digressioni furbette. La sintesi della relazione – che segue – è troppo scarna e insoddisfacente; non è atta neppure a fornire la conferma dei paragrafi della precedente rappresentazione, ma non era passato, come già detto, neppure un anno: siamo infatti in data 21 gennaio 1632.

 

La terza relazione ai sacri limini


 

Il tempo scorre veloce e si è già nel 1634: altra rognosa scadenza con Roma. Altri tre fogli fitti per la delega, le giustificazioni, gli arabeschi notarili. Urbano ottavo lo si segnala papa per dono della “divina provvidenza”, ma per Filippo IV gli orpelli non finiscono mai. “regnante preminentissimo et invictissimo ac catholico domino nostro domino Philippo  quarto Dei gratia rege Castellae, Aragomum, utriusque Siciliae, Hierusalem, Partugalli, Ungariae, Dalmatiae, Croatiae, Navarrae,  Granatae, Toleti, Valentiae, Hijspali, Sardiniae, Corsicae, Murtiae, Algarbij, Algezeris, Gibiltaris, Insularum Canariae, et Terrae Fermae, el aliorum Regnorum feliciter Amen ..  e tutto ciò per attestare, da parte del notaio Ludovico Sciortino, che monsignor Francesco Traina delegava il canonico don Filippo Picella a rappresentarlo nella visita triennale a Roma e nelle connesse incombenze. Qui dunque il canonico Picella gode della fiducia del Traina, Un dodicennio dopo lo scenario cambierà e Picella diverrà astioso accusatore e denigratore del suo vescovo.  Emergono dal documento personaggi del tempo come Vincenzo Gibilaro, don Cesare Malapegna, Bartolomeo Cardilicchia, don Gerlando Tabbone, Antonio Barba avalla  con la sua autorità regia estesa per l’intera Val di Mazzara e appone il proprio logo a forma di lambiccato ostensorio. E poi una firma illeggibile, quella di Nicola Antonio Pancucci e di Giovan Battista De Labiso. E’ il 13 febbraio 1634.

La relazione presentata dal Picella è quasi una copia conforme della paginetta di due anni prima. Ma l’attestazione liberatoria – chissà quanto costata – è tutta lì  stilata con malcerta grafia, la prima parte, ed in bel corsivo la seconda. “Fidem facio ego infrascriptus qualiter  r. d. Philippus  Picella Canonicus Cathedralis Ecclesiae Agrigentinae pro ill.mo et Rev.mo D. Francisco Episcopo Agrigentino visitavit Sacra apostolorum limina “. … Scripsi et subscripsi hac die 20 Martii 1634 – Gabriel Mancinus Basilicae Sac.;  don Graziano Casarovius , monaco cassianense e sacrista di S. Paolo attesta la visita del delegato della basilica sopraddetta.

 

 


Le adempienze del 1638


 

 

Nel 1638 il rito deve ripetersi. Stavolta tocca al giudice della reggia curia stilare l’attestazione legale di delega: vi riscontriamo l’intrusione a vario titolo di diversi personaggi agrigentini. Iniziamo dal giudice: trattasi del dottore in entrambi i diritti (U.J.D.) Giuseppe Ugo, “iudex Reggiae Curiae causarum civilium huius magistraturae civitatis agrigentinae”. E’ assistito dal chierico Antonio Barba della medesima magistratura civile di Agrigento. Attesta che il Traina  “sponte et solemniter” costituisce suo procuratore speciale (fecit, costituit, creavit et solemniter ordinavit et ordinat eius verum legitimum, et indubitatum procuratorem attorem fattorem nuntium specialem et ad infrascriptam omnia et singula generalem et generalissimum itaque specialitas generaralitati non deroget nec e converso sed unam per aliam confirmatus et corroboretur” don Lorenzo Merenda di cui si è già detto.

Abbiamo riportato per esteso la formula apparentemente ripetitiva e rituale. In atto, anche la più prestigiosa scienza della storia del diritto italiano reputa del tutto scissa dal diritto romano la cultura giuridica di quello che noi ellitticamente denominiamo diritto feudale aragonese (e nel ‘600, essa è in Sicilia al suo acme). La suestesa formula di per sé non manca di forza demolitrice di siffatte tesi alquanto apodittiche. Le carte del vaticano vanno quindi studiate anche sotto tale profilo. Non può essere compito nostro; limitate peraltro sono le nostre forze.

 

 

Appunti per un quadro prosopografico agrigentino del ‘600


 

 

Suggellano l’importante atto da esibire alla lontana curia vaticana, il notaio Stefano Palumbo; Vincenzo Bichetta canonico agrigentino; il notaio Francesco Giardina; il S.t.d. Don Cesare Malagrida, canonico agrigentino; il notaio Mariano Cumbo; Giacomo Gonzales. Conclude la sfilza delle firme di avvaloramento Antonio Barba, regius et apostolicus notarius agrigentinus, che sottoscrive e certifica e per di più appone il suo solito sigillo  signavi meoqe solito signo”.

 

L’indispensabile quadro prosopografico della diocesi di Girgenti nei tempi del feudalesimo aragonese del 600 non è sinora disponibile. Accontentiamoci, pertanto, dell’abbozzo del compianto Gibilaro (v. Giovanni Gibilaro, i giurati e i sindaci di Agrigento degli ultimi sei secoli – AICS 1993). L’empedoclino ci informa che i giurati di Girgenti al tempo di Traina erano:

1626-27: Geronimo LA SITA; Gaspare GIARDINA ; Gaspare DE FIDE e don Annibale CAPUTI; capitano giustiziere: don Giovanni ALVARADO e dopo di lui Giovanni PERONA;

1627-28: Don Giuseppe MONREALE; don Gaspare VALGUARNERA; don Giuseppe MONTAPERTO e Geronimo LO IUDICI;

1628-29: Bernardo BELGUARDO; don Gaspare GIARDINA; Gaspare Gamez e Francesco LA SITA; capitano giustiziere: don Antonio de NARO;

1629-30: Bernardo BELGUARDO; Gaspare GIARDINA; Geronimo GAMEZ e Francesco LA SITA; capitano giustiziere: don Geronimo LA PEDRA (sino al 1633)

1630-31: Don Andrea LO PORTO; Giovanni GAMEZ; don Francesco Maria MONTAPERTO; Nicolantonio PANCUCCI;

1631-32: Don Giuseppe MONTAPERTO; don Stefano MONREALE; Gaspare De Fide; Geronimo LO IUDICI;

1633-34: Don Andrea LO PORTO; Geronimo LA SITA; Nicolantonio PANCUCCI; GASPARE de FIDE; capitano giustiziere: Diodato RAMIREZ;

1634       Don Francesco MONTAPERTO; don Pietro LO PORTO; Bernardo BELGUARDO; Don Gaspare VALGUARNERA;

1635-36: Don Stefano MONREALE; Don Giuseppe MONTAPERTO; Antonino de FIDE; Bernardo BELGUARDO; capitano giustiziere: don Geronimo De Castro; dopo Giacinto LA VEGA

1636-37: Geronimo LO IUDICI; don Andrea LO PORTO; Don Stefano MONREALE; Giovanni GAMEZ; captano giustiziere: don Francesco de VALDIVIA;

1637-38: Giov. Battista de ALBANO; Gaspare de Fide; Ippolito PIAMONTESE; Antonino de FIDE; capitano giustiziere: don Jachino de LUNAR;

1638-39: Ippolito PIAMONTESE; Antonino de FIDE; Giov. Battista ALBANO; Gaspare de FIDE;

1639-40: Giovanni GAMEZ; don Francesco VALGUARNERA; Don Stefano MONREALE; Lorenzo Cavallo; capitano giustiziere: Geronimo LA SITA e dopo don Francesco Maria MONTAPERTO;

1641-42: Pietro Mallia; don Corrado MONTAPERTO; Antonino de FIDE; Nicola Antonio PANCUCCI; capitano giustizier: Geronimo LA SITA;

1643-44: Don Andrea LO PORTO; Don Francesco Maria MONTAPERTO; Gaspare Giardina; Don Francesco LA SITA; capitano giustiziere: Vincenzo SANCHEZ;

1644-45: Don Francesco Maria MONTAPERTO; Antonio de FIDE; GIOVANNI GAMEZ; Don Michele LA SITA; capitano giustiziere: Nicolò Antonio PANCUCCI, e dopo don Stefano MONTEREGALE (quindi un salto sino al 1663)

1645-46: Girolamo LA SITA; Giuseppe Babilonia; Don Corrado MONTAPERTO; Don Giuseppe de FIDE;

1647            Gerardo SALA; Francesco MONASTRA; Fabrizio TOMASINO

1649     Andrea LO PORTO; Antonino de FIDE; Corrado MONTAPERTO; Francesco BRUNELLI;

1652   Corrado MONTAPERTO; Joseph BABILONIA; Francesco BRUNELLI; Gaspare GIARDINA

 

Notisi il salto significativo dal 1649 al 1652. Pensiamo che i dati prima da noi forniti possano colmare alcune lacune prosopografiche.

 

 

 

La relazione per il 18° triennio


 

 

Abbiamo quattro fogli riempiti ad Agrigento per la relazione a Roma sulla diocesi agrigentina valevole per il 18° triennio (firmata nel 1638 dall’umilissimo e devotissimo servo Francesco vescovo agrigentino). Dice il presule che era suo ardente desiderio visitare di persona i sacri limini ma era talmente malconcio che tanto gli era proprio impossibile (cum serio sit poene confectus, adversaque valetudine laboret, arduum et longum iter sine vitae dispensio peragere non valet). Ma vi penserà il suo delegato don Lorenzo Merenda ad essere esaustivo sullo stato della diocesi. Da parte sua, specifica che stando sul posto vigila sulla salute delle anime, punisce i crimini dei sudditi; li spinge sulla retta via; cura con la massima sollecitudine che fioriscano le virtù e non trascura alcunché per quanto attiene al culto divino. Non lascia in pace coloro che sono tenuti a dare tributi alla chiesa;  contro di loro agisce con il massimo rigore sia in forza dei sacri canoni e delle norme del Sacro Concilio di Trento sia avvalendosi della prescrizione della recentissima bolla del signor nostro Urbano VIII.

La massima vigilanza viene del pari esplicata al fine di far rispettare la volontà dei defunti testatori in favore delle fanciulle povere da dotare, o volta alla beneficenza per alimentare i poveri, non ammettendosi dolo alcuno né frode: e così viene approntato un libro in cui i nomi dei pii testatori e quanto da loro lasciato viene scrupolosamente annotato; tale libro va conservato nell’archivio pubblico. Vigile è egli pure sul suo monte di pietà, sugli ospedali, sugli altri luoghi pii; rettamente e con correttezza vanno tali istituzioni amministrate; se non personalmente almeno per il tramite di canonici debitamente delegati viene chiesto il rendiconto degli introiti e delle spese.

Esposta al pubblico, dentro la sacrestia delle chiese, è la tabella delle messe, perché non si ometta il suffragio delle anime dei defunti. Sia in Cattedrale sia nelle altre collegiate ecclesiastiche della diocesi sono recitati gli uffici divini con modestia ed attenzione a maggior gloria di Dio. Ha disposto a che venissero decorati con varie pitture la predetta cattedrale e la relativa cappella maggiore, unitamente a quella del santissimo sacramento ed all’altra di s. Francesco, non mancando di provvedere all’occorrente restauro.

Ha iniziato i lavori della cappella in onore di S. Gerlando patrono della cattedrale; del pari ha ordinato un’arca argentea del valore di tre mila ducati ove deporre più decorosamente le reliquie del Santo. Ha disposto per l’astensione dai commerci secolari da parte dei chierici. Ha a cuore la modestia e l’onestà del clero, l’osservanza del digiuno da parte dei laici ed il rispetto del precetto festivo.

 

Il seminario, in cui un tempo non c’erano più di 10 seminaristi, è stato ampliato, riordinato, e meglio sistemato nell’antica sede; al presente conta oltre trenta alunni (oltre ai lettori ed ai ministri); oltre la grammatica, le lettere umanistiche, vi si insegnano filosofia, teologia, diritto canonico, musica e contabilità; è dotato di una splendida biblioteca fornita di libri, di tal che in tutta la diocesi non v’è altro luogo di studi che gli possa competere. Ho stabilito che ogni giorno sia accessibile ai sacerdoti e a quanti dovessero essere interessati all’insegnamento dei sacri canoni e della teologia morale che si svolge durante le ore pomeridiane nel seminario stesso.

Vigila sulla clausura delle monache e su quanto attiene alle istituzioni religiose;  e se occorre innovare in alcunché non si può procedere senza l’ausilio dei preposti e degli eminentissimi patri regolari, di cui si chiede l’illuminato parere sui casi ardui e più difficili..

Purtroppo non è adeguatamente dotata di beni e di redditi la pia casa delle convertite che ascendono al presente a ben venti e pertanto ricade sul vescovo provvedervi a sue spese.

La libertà e la giurisdizione ecclesiasticche sono state perturbate in varie occasioni. Non pochi potenti  laici, figli delle tenebre, non si peritano di violarle, ma il vescovo non consente loro di infrangere le norme della giustizia e commina le sanzioni canoniche, ricorrendo anche alla massima censura. Certo è da deplorare la calamità dei tempi correnti. La suprema potestà laicale spesso impedisce di fatto la giurisdizione ecclesiastica, destituendo la famiglia armata del vescovo e degli altri prelati, proibendo allo stesso vescovo di perseguire i debitori laici delle chiese e delle istituzioni ecclesiastiche, pur essendo tutto ciò di competenza del vescovo medesimo per antica consuetudine. Viene contrapposto il principio in base al quale detta materia viene trattata come se riguardasse beni esclusivamente laici. Il vescovo ricorre pertanto alle Signorie Illustrissime per avere l’occorrente ausilio speciale. Del pari l’obbligo della visita non può assolvere appieno, impedito com’è dal potere laico ed a tal riguardo invoca analogo aiuto.  E tanto è da dire sullo stato della chiesa.

Due note di commento


 

 

Il velo del gergo burocratico e l’asettico ragguaglio cui indulgono i funzionari della curia non devono trarre in inganno: non è corretto giudicare il vescovo dallo stile e dal tenore della relazione che abbiamo liberamente tradotto da un latino striminzito e poco espressivo. Eppure ci pare che trasudi una sensibilità diversa da quella del decennio precedente: il Traina non si preoccupa più delle cose eminentemente religiose e spirituali; l’assilla la faccenda della giurisdizione; soffre per il controllo del potere laico. La generosità verso i poveri, i derelitti è ora solo un inciso senza sentita partecipazione. Il seminario, la biblioteca, i corredi argentei, l’appariscenza insomma sono ormai in cima ai pensieri del vescovo. In dieci anni sembra essersi indurito l’animo e pare scemato il fervore mistico. Invecchiando il Traina peggiora – o almeno così a noi appare.


L’INTERLUDIO


 

 

 

Alla vigilia della grande crisi


 

 

«Non potendo io – scrive di suo pugno il vescovo Traina il 1° ottobre 1645 a giustificazione del non andare a Roma per la visita triennale – per l’età decrepita, et continue indispositioni venire alli piedi di Nostro S.re et complire la visita de sacri limini, secondo l’obligo, che impongono le Bolle Pontificie, mando D. Francesco Mazzullo canonico capitulare di questa mia Cathedrale a questo effetto. Supplico l’Em. VV. Rev.me humilissamente à degnarsi d’ammetterlo. Et à darli credito di quanto le rappresentarà à nome mio circa lo stato di questa chiesa, et Diocesi, et somministrarmi quegli aggiuti, che faranno di bisogno, massime per la diffesa della giurisditione ecclesiastica, che in questo Regno va cadendo. Et all’Em. VV. RR.me m’inchino, et bacio le sacre vesti. Di Girgenti li 1. Ottobre 1645 – Humil.mo et dev.mo servo Franciscus di Girgenti episcopo.»

 

Va sottolineato che per la prima volta il vescovo Traina ha l’ardire di indisporre il vaticano non solo non recandosi di persona a baciare li sacri limini, non solo di dare ampia e liberatoria delega al suo canonico Mazzullo, ma addirittura usando il volgare ed omettendo tutte le solennità curiali e notarili che abbiamo riscontrato in precedenza. Si vede che ormai il vecchio lupo si sente sicuro di sé ed acquista tracotanza e supponenza. La pagherà cara.

Non solo, ma anche la relazione da rassegnare alla grintosa congregazione concistoriale, a superbi ed altezzosi cardinali – che peraltro si avvalevano di colti prelati, tutti agghindati nel loro alato latino – viene stilato, neghittosamente e con tanta aria di sufficienza, in una lingua italiana periferica, quale si poteva scrivere nella prima metà del Seicento nella irraggiungibile Agrigento. «Che volete – sembra sussurrare sornionamente il presule agrigentino – signori cardinali miei? La mia età è “decrepita”, le mie “indisposizioni tante” e non ho voglia alcuna di sobbarcarmi a tanti sacrifici per vedere le vostre belle facce. Accontentatevi di un canonico, di codesto mio Mazzullo. Siate caritatevoli, accoglietelo “humilissimamente” ma s’intende lui, il canonico, non me, “ortus ex senatoria gente”, “amicus regis hispaniae”. Aria secentesca, senza dubbio. Degnatelo di consigli, ma non esagerate, limitatesi a darmi man forte nella mia lotta per la “mia giustizia” contro viceré palermitani e ministri laici di quell’odiosa città. In fin dei conti la mia guerra intestina collima con gli interessi di quella vostra congregazione concistoriale delle “immunità ecclesiastiche”.»

 

Una relazione tutta in volgare. Il preludio della tragedia


 

 

Non basta; scorriamo la sua sorprendente “relatio ad limina” in volgarissimo eloquio:

 «La lunghezza della diocesi di Girgento l’è di sessanta miglia in circa, et di lunghezza cinquanta, fa d’anime n. diecendue mila, et di communione n. quindici mila; li luoghi d’essa sono cinquantadue, cioè otto chiamati Città Regie, Principati sei, ducati cinque, marchisati otto, contee otto, baronie con vassallaggi undici, dominio di vassalli otto, baronie feudi cinquanta, chiese seicentoquatordici; cioè nella città e terre n. quattrocentocinquantanove, et fuori d’esse n. centocinquantacinque, monasteri di monache n. 24, case d’orfane cinque, di reparate n. 2, hospitali d’orfani n. undici, chiese matrici n. quarantanove, parochie n. 5, sacramentali n. undici, arcipretati n. ventisei, capellani curati n. trentatrè, vicarij foranei n. quarant’otto, confraternità et compagnie di laici n. dugento trent’otto.

«Don Francesco Traina moderno vescovo di Girgento diede principio alla sua Cura Pastorale dell’anno 1627 con una visita generale di tutta la diocesi, la quale ha poi rinnovata secondo la dispositione del sac. Concilio Trid. complendo con le sue obligatione di Prelato con la Crisma, con l’ordinatione, recognitione di conti delle chiese di legati pij et corretioni di costumi depravati, et nell’anno 1630 alli 3 ottobre convocò il sinodo diocesano, nel quale dispose tutto quello che conobbe esser di bisogno pel retto governo et amministratione della justitia et doversi osservare dal clero e suoi sudditi diocesani secondo la dispositione de sacri canoni, et sacro concilio tridentino, et si diede alle publiche stampe per Palermo appresso Decio Cirillo.

«E’ stato in ogni tempo acerrimo difensore della giurisditione ecclesiastica, come ben consta alla Santa Sede Apostolica poiché particolarmente nell’anno 1631 a 25 febraro fu chiamato ad istanza di alcuni di detta Diocesi per tal causa, et vista poi la sua integrità, et il suo zelo fu mandato alla sua chiesa precompenzato col titolo d’acerrimo defensore della giurisditione ecclesiastica, et contenuando poi nel medesimo zelo, giornalmente stà constrastando con chi procura conculcar la sua chiesa, non perdonando né a fatica né a spesa , essendo andato in Palermo più volte per simili difensioni avanti delli SS. Vicerè, et delli Ministri Regij, hà similmente portato li suoi ecclesiastici diverse volte davanti dei Delegati della Monarchia, et indicibili travagli, tutte per difesa della sua chiesa, et al presente procurando li giurati di quella città di collettare li feudi del suo vescovato, et li beni patrimoniali dei suoi ecclesiastici con l’impositione di due tarì per ogni salma di furmento, che si raccoglie, gagliardamente s’ha opposto procedendo a monitorij, mantenendosi et dalla Monarchia et dalla potenza dei tribunali laici turbata la sua giustizia, et per così dire legate le mani dalla violenza di coloro, supplica per il consiglio et aiuto.

«Da che ritornò da Roma tutto s’applica agli ornamenti della Cathedrale, et primeramente abbellì di stucchi, et pitture la capella maggiore, et poi fabricò altre tre magnifiche capelle, l’una del santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando primo Vescovo et Patrone della Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et due statue, cioè l’una di detto glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa Vittoria, fabricò un organo magnificentissimo di spesa quattro mila scudi , il quale poi rovinò con più della metà della chiesa, et tutto il choro, onde rivoltando esso monsignore vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et resarcimento con più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere di prima, et hoggi si sta fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un miserabile incendio l’anno 1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove traslato il corpo, et ossa d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi quattromila. Rifece il palazzo vescovile con aggiungersi un delizioso giardino; fondò il monte di pietà in sussidio di tutti i poveri et bisognosi non solo di Girgento, ma della diocesi. Spese da 12 mila scudi nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero degli alunni a sessanta dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del proprio per qualche manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle scuole della Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge civile et canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di strumenti, ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi de’ libri anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a fine di comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali vuole che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria; et finalmente fondò due monasterij l’uno della terra della Favara, et l’altro nella terra di Racalmuto, et un altro nella città di Naro.»


Una tragedia annunciata


 

 

 

Prima di Zosimo, prima del re di Girgenti, quando monsignor Reina si chiamava Francesco Traina oriundo di Cammarata


 

 

 

Siamo nel 1645 (ad essere precisi, sotto la data del primo ottobre): da li a meno di 20 mesi, pare nella primavera del 1647, s’infiamma lo scenario; il popolo si ribella, la moderata Agrigento esplode;  non sarà il tempo di Zosimo, il re di Girgenti di Camilleri perché costui appartiene ad un’altra rivolta, quella settecentesca ai tempi dei  savoiardi. È solo la truculenta ribellione di un popolo affamato proiettatosi, piromane ed omicida, contro le torri dell’altura di S. Gerlando, da poco corroborate dallo stucchevole Traina, un presule decrepito a suo dire, e non solo per età aggiungiamo noi.

Stralciamo da uno storico, in vena di marxismo o di avanzata dottrina sociale della chiesa, Santi Correnti (Storia della Sicilia, Longanesi 1982, pag. 152 e passim). «Le tristi condizioni generali dell’isola nel Seicento spiegano a sufficienza i motivi delle sanguinose sommosse, che frequentemente travagliarono la Sicilia in questo secolo, e di cui taluna ebbe carattere veramente rivoluzionario. …. Nella primavera del 1647 la situazione divenne insostenibile, sia perché sfumò la speranza di un buon raccolto, sia perché da Madrid arrivò l’ordine di ridurre di due once il peso del pane.» Scoppiano i moti a Palermo (il 16 agosto il d’Alesi “rimane padrone della situazione”) ed essi «non rimasero isolati, perché anche Catania, Randazzo, Patti, Bronte, Siracusa, Modica, Castelvetrano, Mazara, Agrigento e Sciacca insorsero con una consonanza di ideali veramente notevole, poiché i moti non ebbero carattere antispagnolo neppure in questi centri, ma squisitamente classista.» Circa l’insussistenza di antispagnolismo l’A. ci sembra piuttosto disinvolto; quanto all’insorgere di un ideale classista, beh! sarebbe tutto da dimostrare.

Di lì a poco sarà giustiziato l’infelice conte di Racalmuto, Giovanni V del Carretto, decapitato nel suo palazzo il 26 febbraio 1650.  L’anno dopo, una pira s’accenderà per bruciare vivo l’altro racalmutese, fra Diego La Matina, che giovanissimo ed insofferente delle privazioni del convento di S. Giuliano a Racalmuto emigra, con pressoché certezza, in Palermo facendo ciurma con ben 80 scherani, tutti del paese di Sciascia, sotto l’egida del Conte della loro natia terra. Sbandati, il frate diventa ladro di passo; viene acchiappato; egli viene in primo momento risparmiato per avere ricevuto il secondo degli ordini minori; sarà lui stesso ad affidarsi al più comprensivo Tribunale del Sant’Officio. Per tanti anni l’Inquisizione lo mantiene in vita, nelle galere o chiuso in carcere sì ma con carne e brodo di gallina e con sangria, fino a quando il nerboruto giovanottone, in un momento in cui era stato liberato dalle muffole per parlare serenamente con l’inquisitore, non lo uccide in preda ad irrefrenabili empiti di collera esistenziale. Sciascia ha un bel ricamarci sopra, ma persino i suoi accoliti, alla Russi Sciuti sono da tempo inclini a dargli di voce.

Resta improbo giudicare con gli occhi, diciamolo francamente, da intellettuale post-comunista (ma imbrattati sempre di marxismo) un personaggio del Seicento e per giunta vescovo e per di più siciliano sino all’osso, palermitano per fuga dall’angusta Cammarata di più o meno antichi avi. Noi non l’abbiamo in simpatia; l’abbiamo subito confessato; abbiamo così pagato il nostro obolo all’avalutatività delle scienze sociali, secondo i teoremi del nostro tempo. Altri – e sono storici ponderosi della locale storia della chiesa agrigentina – tendono ad esaltazioni ed encomiastiche valutazioni. Una via di mezzo, come scelta assennata?- Facile a dirsi. Questo vescovo che all’alba di una sanguinosa rivoluzione, di una rabbiosa rivolta sociale, non sa dire altro al Sommo Pontefice che quelle banalità, quelle scempiaggini, quelle reiterative autoesaltazioni d’indole penosamente materialistica come giudicarlo? – e non si può non giudicarlo. Sarà del Seicento, ma per un uomo di chiesa codesta assenza di umanità e di religiosità, codesta micragnosa voracità di beni mondani, codesta vanagloria, codesta ostentazione di ricchezza come si fa a dire che era solo un vezzo del suo tempo, una venialità, un paludamento ingenuo ma non colpevole?

Già quell’esordio pieno di lunghezze e di larghezze, di cifre statistiche, di stanche enumerazioni di ducati e di marchesati, di contee e di baronie e di baronie con vassalli e di baronie con feudi, con chiese e chiese dentro città e dentro terre, fuori città e fuori delle terre, con rosari di monasteri, ospedali, parrocchie, chiese sacramentali, arcipretati, cappellani, curati, vicari confraternite, compagnie laiche e con quel “dugento trent’otto”, tutto ciò non ha il fascino di un’aria mozartiana anche se ne evoca il numerare in crescendo. Tutto ciò sa di potere temporale, di burbanza sopraffattrice, di militaresco passare in rassegna, di vacuità mondana, di sacrilego inorgoglirsi.

 

Si vede subito che il vescovo non ha niente da dire, di nuovo di importante. Incombe uno sgradevole obbligo e lo si assolve straccamente. Alla curia romana relaziona che "don Francesco Traina (sic e senza acca ora che scrive in volgare) modermo vescovo di Girgento diede principio alla sua Cura Pastorale dell’anno 1627”.  E sono quindi diciotto anni, ci suggerisce subito il nostro spiritello laico. Troppi per un despota o per chi – magari un tempo alquanto alacre di spirito – ha aduggiato con un crescente satrapismo episcopale. Inoppugnabile, dunque, contrappuntare che erano cose ben note al Vaticano; erano stati atti anche romani e la curia d’oltretevere ha memoria d’elefante (ed archivi che non si inceneriscono per una banale rivoluzione come quella che da lì a poco scoppierà ad Agrigento, portando distruzione dentro i nuovi armadi del vescovo Traina).

 

Rammentare la visita d’esordio lungo tutta la diocesi a che serve, ora che è passato quasi un ventennio? Ha somministrato cresime e ha ordinato preti: ordinaria amministrazione per un vescovo, che peraltro spesso e volentieri usava darne incombenza al suo vicario generale. Dice che ha corretto i “costumi depravati”. E chi gli crede? Sì è vero, nel 1630 ha ispirato il sinodo diocesano. Ma son passati quindici anni. E poi, è cosa di poco merito per un presule: è tutta opera dei collaboratori, degli arcipreti della periferia, magari dei pretenziosi canonici ….. ed in quel tempo non erano ancora a maggioranza parenti del vescovo.


Una diatriba secentesca tra vescovi e nobili


 

 

Anche Racalmuto nella querelle


 

 

 E giungiamo al punctum dolens, la diatriba con nobili, arcivescovo di Palermo, tribunali laici, giurisdizione ecclesiastica dilatata oltre misura con l’istituto dei monitorij, ed altro del 1631 ed anno successivo. In esordio abbiamo dato le coordinate di tali controversie basandoci sulle carte della Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche. L’esteso arco di tempo trascorso non ha del tutto emarginato la ferita episcopale: brucia ancora ed il presule se ne lamenta con Roma con  empiti di orgoglio di burbanza: “fu mandato alla sua chiesa preconizzato col titolo di acerrimo defensore della giurisditione ecclesiastica”. Non era vero; non fosse stato per l’intrigo regale, Cammarata, S. Giovanni, Chiusa, Giuliana, Racalmuto sarebbero state piazze (remunerative sotto il profilo degli alterchi giudiziari) sottratte al Traina ed assegnate al cardinale Doria e suoi successori; noi sappiammo d’altronde come è andato a finire quell’interdetto infamante delegato all’ostile porporato panormitano. Vi sarà stato un compromesso, ed a scorno dell’oriundo cammaratese, questi dovette inginocchiarsi pubblicamente dinanzi il suo confessore e fare penitenza per essere ribenedetto. Gongolarono i suoi canonici avversi e se ne ricordarono nel processo che in definitiva imposero alla congregazione romana. Non fosse nel frattempo morto, il Traina avrebbe avuto sanzioni cocentissime per essere un recidivo.

 

Su vede bene comunque che ancora, nel 1645, le acque non si erano del tutto quietate: «continuando nel medesimo zelo, giornalmente stà contrastando con chi procura conculcar la sua chiesa, non perdonando ne a fatica ne a spesa, essendo andato in Palermo più volte per simili defensioni avanti delli SS. Viceré e delli Ministri Regij.» Già – avranno pensato a Roma – guarda sto’ vecchio per venire a Roma e assolvere il suo debito “sta decrepito”; per contrastare caparbiamente i richiami alla moderazione nella gestione della giustizia, sia pure da parte laica, ha forze fisiche, ardimento e tracotanza e fa la spola tra Agrigento e Palermo, sia pure per via mare – sicura – anziché per via terra temendo i valichi interni tanto minacciosi.

 

Eppure non ottiene molto: continua a patire «con li suoi ecclesiastici diverse volte invasione di Delegati della Monarchia, et indicibili travagli».Roma giammai era stata tenera con tale istituto monarchico, sfaccettatura della Legazia Apostolica, invenzione del XII secolo su manipolazioni di falsi diplomi, non c’era dubbio. Il Traina tenta qui la captatio benevolentiae, ma non ci riesce. Diversamente dal solito il passo non è neppure degnato di un segno particolare, di un memorandum per il seguito di competenza. Pare che i curiali romani non abbiano neppure dato uno sguardo all’informale – e tutto sommato, irriguardoso – documento vescovile.

 

 

Fa capolino la tormentata faccenda delle gabelle comunali


 

 

Vi è ora un passo nodale: «al presente procura[no] li giurati di quella Città (Agrigento) di collettare li feudi del suo vescovato, et li beni patrimoniali dei suoi ecclesiastici con l’impositione di due tarì ogni salma di frumento, che si raccoglie». Egli «gagliardamente s’ha opposto procedendo a monitorij, mantenendosi et dalla Monarchia, et dalla potenza dei Tribunali Laici turbata la sua giustizia». E tutto ciò definisce un insopportabile legar le mani, una intollerabile violenza.

 

Crediamo che quei due tarì non siano stati corrisposti, né dal vescovo né dai suoi ecclesiastici, e quanto ai feudi del vescovado e ai beni patrimoniali degli ecclesiastici agrigentini latitudine, lunghezza e larghezza dovevano avere ubicazioni, dimensioni e titolarità dominicale indefinibili; immunità per ogni dove, dunque; scarsezza di gettito per la locale giurazia. La ristrettezza delle finanze locali avrà impedito l’acquisto cautelativo di grano in annata propizia; poi, la siccità, un’incipiente peste, una rarificazione dei suoli a frumento tassabili hanno dato il colpo letale alle giacenze ed alle riserve dei monti frumentari della città e la fame, il sottopeso della pagnotta, il deterioramento del pane presso i fornai sono stati micce che hanno fatto deflagrare una rivolta popolare rimasta memorabile accanto alle più celebrate di Palermo (d’Alesi) e di Napoli (Masaniello).

 

E d’improvviso ecco far capolino la finanza locale del ‘600. Non è materia molto arata dagli studiosi. Poche annotazioni, tanti luoghi comuni ed un aspetto della grama vita dei popoli si appanna sino a sparire, come se non si fosse trattato di un dramma quotidiano, già del “pane quotidiano”. Abbiamo visto come i vescovi non si fanno troppo carico di quello che è un passo inquietante del “pater noster” che pur recitano all’infinito in un salmodiare con preti monaci, monache bigotte e popolino. Tralasciando i testi paludati delle nostre moderne università – tanta presunzione, poco costrutto – qualcosa troviamo in Francesco De Stefano (Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo – Laterna UL, p.34 e ss.). E’ questo un campo in cui non possiamo asserire furbescamente che siamo semplici dilettanti e quindi esonerati da approfondimenti e pronunciamenti anche malevoli. Questa è finanza locale e per rispetto ai nostri tanti padroni pubblici che ci hanno profumatamente pagato, dobbiamo dire la nostra. Contro la feluca universitaria siamo costretti ad opporre la puntigliosità della politica economica della Banca Centrale ed il presuntuoso suppore e presupporre fiscale del sapere minesteriale.

Dice dunque il De Stefano che metodi finanziari del governo e metodi delle amministrazioni locali si equivalevano. Quando abbiamo seguito la tassazione comunale della Racalmuto del ‘Cinquecento abbiamo notato differenze sostanziali, procedure accertative molto sagge, equilibri nel riparto del carico tributario. I giurati saranno stati eletti dal conte o da lui proposti al vicerè (dipende dai tempi) ma erano tutti presi da una saggezza amministrativa e da un localismo umanitario davvero edificanti. L’imposizione palermitana era di certo becera, proporzionalista, vessatoria; l’imposizione comitale si trasmutava di valore e si intrideva di irrazionalità con quel trasferire ai soggiogatari  gettiti e prelievi (soluto pro insoluto); ma il radunarsi, al suono della campanella, nella chiesetta della Nunciata (a Racalmuto) con i maggiorenti a capo ma non discordi dai capi-famiglia e tutti assieme procedere al migliore e più equo riparto di quelle calamità che erano le tasse spagnole, vicereali, ecclesiastiche, comitali e quindi comunali desta ancora ammirazione e plauso.

 

Soggiunge il De Stefano che erano «in mano dei baroni le feudali, spadroneggiate da gruppi o clientele quelle demaniali; quasi tutte mal dirette e in gran disordine» e ciò perché così annotava, ad esempio, il presidente del regno nel 1575. Noi, nel nostro piluccare tra diplomi, processi d’investitura, carte dell’archivio palermitano o in quelle del vaticano o presso quelle stesse che ancora si custodiscono in Curia o nelle parrocchie dell’agrigentino penseremmo il contrario. I baroni o conti tutto vendevano, tutto cercavano di monetizzare subito e ogni cosa andavano a scialacquarla tra la burbanza nobiliare della Capitale (palermitana). Ma gli esattori trovavano poi ostacoli e legittime difese in loco e difficilmente la spuntavano. E bisogna dirlo: il clero locale era caritatevole, amico del proprio popolo e là dove i vescovi o disertavano o tradivano o addirittura infierivano con il loro carico di ingiustizia e di nequizie il locale arciprete, il parroco di campagna (meno, il vicario foraneo, colluso con il suo superiore-fiduciante in rosso) il modesto sacerdote e i francescani, i carmelitani, gli agostiniani centuripini supplivano, correggevano, lottavano succubi anche loro della prepotenza vescovile o abbaziale o del provinciale. Non eroi – sia chiaro – ma neppure impacciati don abbondii; e d’altra parte di cardinali Borromei neppure l’ombra. Non c’erano i fra Cristofori ma neppure i Don Rodrigo. Si vuol descrivere tale, ad esempio, Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, ma è fandonia popolaresca, nobilitata dal solito sommo ingegno localistico.

«L’abitudine spendereccia, - dice sempre il Nostro - la mancanza di controlli efficaci, la catena di loschi interessi tra amministratori e debitori nei comuni demaniali caratterizzano la storia della finanza locale». Agrigento fu comune demaniale, almeno fino a quando non venne al Traina l’uzzolo di feudalizzarlo (ma durò poco, la residua vita del decrepito vescovo; e non per generosità come vorrebbe il Picone, ma per le ferree e forse meno riprovevoli di quel che non si pensi leggi feudali). E la vicenda della rivolta popolare, e quella presa di posizione dei giurati che tanto fastidio dà al presule, e quanto abbiamo già detto e quanto non mancheremo di aggiungere tratteggiano un quadro del tutto opposto alla pessimistica visione del De Stefano: i giurati ad Agrigento (e quelli di Racalmuto), quelli feudali ed ancor più quelli demaniali – anche perché vigeva un democratico principio di rotazione – ci risultano più dalla parte dei loro concittadini o compaesani che da quella del lontano principe, marchese, conte, barone o inaccessibile viceré e suoi accoliti. Quello del De Stefano può chiamarsi erudita aporia senza riscontro storico, senza approfondimento, senza la debita avalutatività delle moderne scienze sociali.

 

Non possiamo non essere d’accordo sul fatto che «le casse comunali erano sempre esauste, nonostante le alienazioni di terre e gabelle, i prestiti ed altrettali operazioni.»  Ma ciò dice poco. E le cause? Il mito del bilancio in pareggio crediamo che sia ingenuità ottocentesca finita nel museo degli orrori economicistici. Anche, oggi, a dire il vero sta vigile la Banca d’Italia di Fazio, grintosa nella difesa di non si sa più quale moneta, vista la fine della lira. Una illuminata politica della spesa pubblica può venire censurata da certi arcigni liberali o liberisti ma fa onore alla saggezza di siffatti governanti. Ed all’epoca i giurati trasudavano più saggezza che propensioni sperperatrici. Anche allora c’era chi credeva nella privatizzazione dei beni demaniali il toccasana degli equilibri di cassa, il risanamento dell’erario. Non si andava allora – come ora – di là di una cocente disillusione. E salvo i re spagnoli, non era facile trovare un pubblico amministratore che fosse lì pronto a venderti una defensa o un solacium (i castra appartenevano al re)  o un viridarium  o altro bene demaniale. Discorso diverso erano le usurpazioni, allora come ora.

 

Le immunità ecclesiastiche al limite dell’invadenza giurisdizionale


 

Il guaio erano le “immunitates” tutte arrogate da santa romana chiesa (cioè alto clero e porporati e quasi sempre stranieri): emblematico – si direbbe – quello che va lamentando il Traina nientemeno che a papa Urbano VIII. Se davvero «il parlamento fece sentire la sua voce, e il governo talvolta intervenne per far riassettare le finanze locali» fu intervento spurio e soprattutto inconcludente. Gridano i cittadini racalmutesi che, dopo la peste e la fame ed il dimezzamento della popolazione del 1575 non ce la fanno più a pagare tande ed imposte al signor re spagnolo, ai suoi burocrati di Palermo ma è vox clamantis in deserto: si indebitino ancor di più, l’esattore è lì pronto a sovvenirli nei donativi regali e se dopo è ancor più miseria e fame e morte, pazienza, gli inviati di Palermo, con diarie da nababbi, non hanno orecchie, non sentono pietà. Sanno essere inflessibili. Ottengono quel che spetta al re (o a loro) e se lasciano ondate di miseria e fame e morte ed odio questo le carte non possono dire; la censura, il santo ufficio, i tribunali laici, il vescovo, la curia tacciono ed in fin dei conti sono annuenti. Solo il basso clero dovrà poi lenire le ferite, attivare gli ospedali, benedire i morti. Ed i giurati non stanno dalla parte dei carnefici. Anzi: convocano l’intero popolo, al suono della campanella, e trovano acconce soluzioni, vie d’uscita. Il panizzo si mantiene per merito loro. La fame può venire lenita. La sopravvivenza assicurata, i paesani resistono “come erba abbarbicata alla roccia” scrive poeticamente ma con tanta veridicità Leonardo Sciascia.

Se Messina, Polizzi, Alcamo e Patti lamentano le incrostazioni e l’immobilismo nel carico tributario ed invocano che siano gli stessi maestri razionali del regno a prodursi in equi aggiornamenti, non è per fiducia verso quella istituzione centralizzata, vorace quanto una moderna famiglia di appaltanti delle imposte in Sicilia, ma per trovare un espediente legale capace di rastremare le parti più inique dell’intollerabile carico tributario che viene da lontano, dalla Spagna (e ci dispiace per chi oggi vuole attenuare le tinte dell’atavico antispagnolismo, radicatissimo almeno nel popolo).

  Non basta una prammatica (ci riferiamo a quella citata del 1650) «per sapersi … da chi ha processo il mancamento delle università»; quanto ad Agrigento, le fibule episcopali ed il viola delle mitre canonicali vi hanno molto contribuito con la pretesa di una diffusa esenzione dai tributi locali. Non sono poi soluzioni pertinenti «ridurre gli interessi troppo onerosi delle soggiogazioni  … costringere alle contribuzioni quei facoltosi cittadini che sfuggivano  alle tasse sugli affari ‘facendo trapassare in vari titoli, tutti, o la maggior parte dei loro beni’.» Erano codeste neppure manovre tributarie ma “grida manzoniane” sia pure d’indole fiscale e tutto si poteva raggiungere ma non certo “la perequazione del carico tributario”. Il De Stefano ne trae questa sconsolata inferenza: «la soluzione del problema della finanza locale urtava negli ostacoli medesimi contro i quali cozzava quello della ripartizione del gravame fiscale. Anche in questo campo si ergeva, con tutta la sua rigidezza, il privilegio. In forza di questo, infatti, non tutte le città erano sottoposte ai tributi generali, o, se lo erano, come il donativo, l’aggravio era sproporzionato, perché i censimenti erano poco veritieri e non aggiornati, e la ripartizione era fatta in parti uguali tra comuni feudali e demaniali.»

C’è del vero; ma l’ordito ci risulta lasco. Un esempio a chiarimento: abbiamo studiato Racalmuto, e ne abbiamo scritto …  col cuore ed in modo alluvionale, ci viene autorevolmente rimproverato. Ma lì i censimenti – tanti, troppi quelli da noi seguiti - sono accuratissimi. Quattro quartieri con quattro soprintendenti agli ordini della giurazia, tutte personalità assennate e patriottiche, redigono diligenti e competenti numerazioni dei fuochi e dei componenti con specifica della capacità contributiva. Commissioni tributarie raccolgono le dichiarazioni dei redditi, dei patrimoni, delle gravezze e delle esenzioni. Ne fanno poi una verifica da fare invidia alle moderne agenzie delle entrate. Ci hanno incuriosito le rettifiche delle elusive postulazioni di oneri detraibili, ad esempio da parte del furbo pittore racalmutese del Seicento Pietro D’Asaro. Non era lì il marcio: era nella bolsa macchina tributaria di ispirazione spagnola. Non riguardava la finanza locale il disequilibrio impositivo sibbene, appunto, il riparto dei donativi. Era l’imposta capitaria che colpiva dissennatamente a favore del re, del papa, del vescovo, del lontano convento che con abilità avvocatesca era riuscito ad impossessarsi delle rendite di un conte il cui antenato non aveva rispettato il diritto di paragio di una malevola sorella, virgo in capillis, e questa aveva a dispetto lasciato, come nel caso di donna Aldonza del Carretto, il calpestato diritto in eredità ad un istituendo monastero di Santa Rosalia a Palermo. Dopo cinquant’anni, accondiscendenti tribunali davano ragione all’abate palermitano che requisiva capitali (pochi) ed interusurij (dieci, venti volte il capitale) distraendo dalla lontana contea (in questo caso, Racalmuto) preziosissima liquidità a vantaggio di monache ricche e preti damerini dell’opulenta Palermo. A ciò si aggiunga che “il peso dal quale erano esonerate le città privilegiate si riversava sulle altre», ma non osiamo seguire fino in fondo l’autorevole A. quando scrive: «allo stesso modo, nell’ambito di ciascun municipio i ceti privilegiati facevano valere nella tassazione la loro condizione particolare; e quando sopraggiungevano carichi ai quali nessuno avrebbe dovuto sottrarsi, cercavano di scaricarli sugli altri.» Abbiamo visto il Traina e i suoi più fidi ecclesiastici contrastare la giurazia quanto all’indifferibile soprattassa di due tarì per ogni salma di frumento. L’abbiamo visto lanciare i suoi micidiali momitorij, di cui parleremo dopo. Non ci risulta che i nobili agrigentini abbiano seguito la stessa strada; oltretutto non avevano monitorij da scoccare. A Racalmuto, non ci consta un solo caso di sottrazione alle imposte comunali – ed erano tante e sorprendentemente moderne – da parte di “ceti privilegiati”. In un centro agricolo di seimila abitanti, di ceti privilegiati non ce ne stavano, salvo qualche ricco prete, di norma locupletatosi con la peccaminosa usura.  E tale categoria, quella degli usurai, era per tradizione e per istinto odiata e perseguitata. Un tal Sabia di Palermo, alla fine del Quattrocento, era stato crudelmente lapidato e bruciato. Ed allora l’antisemitismo allignava persino nelle più lontane plaghe paesane.

«La finanza comunale – per il De Stefano – si fondava, come la statale, più sulle imposte che sulle tasse, e gli aumenti più forti avvenivano proprio nel campo dei tributi indiretti: sicché in tutte le sollevazioni delle plebi uno solo fu sempre il grido “fora le gabelle”, perché “le gabelle per lo più li pagano li poveri et no li ricchi”». La vicenda impositiva locale aveva risvolti che mi sembra non possano ridursi a categorie piuttosto fruste quali le imposte distinte dalle tasse, residuati di una scienza delle finanze che oggi lascia il tempo che trova. Analizziamo quello che a fine ‘Cinquecento erano le imposte locali di Racalmuto.

 


 


La finanza locale a chiusura del XVI secolo


 

Stabili e gravezze,  introiti ed esiti, struttura di un bilancio comunale del XVI secolo eccoli secondo una testimonianza preziosa e piuttosto completa quale ce la fornisce un Rivelo del 1593 di Racalmuto:

« [f. n.° 807] Praesentant  Ragalmuti die XI Julij V ind. 1593 [...]

Rivelo Ragalmuto .. presentato allo spettabile Natalitio Buscello in virtù di bando promulgato d’ordine di detto spettabile delegato.

 
Stabili                                                                                                                        
 

In primis la gabella dello pane et foglie: lo pilo, vino, formaggio, panno, la ligname,  pesci e sono affittate questo anno onze quattrocento sesanta che a ragione de dieci per cento sono onze quattromiliaseicento...............................................................................................................-/ 4.600

stabili onze quattromilia sei cento ........................................................................................ -/ 4.600
 
Gravezze
 
Nota: Paga ognie anno alli Sindicaturi onze quindici; il capitale sono onze centocinquanta: a dieci per cento................................................................................................................................ -/     150
Paga ognie anno per salario dello orloggio, oglio  et conci onze dodici:
 il capitale sono centovinte.................................................................................................... -/     120
                                                                                                                                                                   e anno per salario dello mastro notaro et carta per le ocurentie onze dieci: il capitale
son onze cento  ..................................................................................................................... -/    100
 
Paga ognie anno per spese de bagaglie de cumpagnia onze trenta:
 il capitale son onze tricento...................................................................................................-/    300
 
Paga ognie anno per salario di procuratori per occorentia apresso la Corte onze dudici:
il capitale sono cento vinte ................................................................................................... -/    120
 
Paga ognie anno alla Regia Corte onze tricentosettantaquattro, tarì tridici e grana quattro a dieci per cento sono onze tremila setticento quaranta quattro ............................................................ -/ 3.744
 
Paga ognie anno onze sei per lo pagamento della Regia Corte in tre tande onze sei; il capitale sono onze sesanta ........................................................................................................................... -/     60
 
Paga ognie anno a don Loise  Mastro-Antonio di Palermo onze vinteotto e tarì dicidotto a ragione de dieci per cento: il capitale sono onze duecentoottantasei ................................................ -/    286
 
GRAVEZZE QUATTROMILIA OTTO CENTO OTTANTA ......................................... -/   4.880
 
INTROITO ONZE QUATTROCENTO SESANTA.......................................................... -/     460
 

ESITO ONZE QUATTROCENTO OTTANTA OTTO TARI' UNO E                                   GRANA   QUATTRO………………………………………………………………..... -/   488.1.4

 
RESTA DI GRAVEZZE OGNIE ANNO ONZE VINTE OTTO TARI' UNO E GRANA QUATTRO.......................................................................................................................-/   280.1.4
 
che a dieci per cento dette onze vinte otto tarì uno e grana quattro a dieci per cento sono il
capitale onze duecento ottanta tarì undici ..................................................................... -/  280.11.0
                                                                                                                                        ------------ 
 
                                                                                                                                      
+ cola macaluso. J[uratus]
+ joseppi cachaturi. [Juratus]
+ antonino vilardo J:[uratus]
+ notar giseppi sauro e grillo __ J[uratus].

 

Una realtà locale come Racalmuto, con le sue cinque-sei  mila anime ed uno “stato” feudale pari alla metà dell’attuale territorio (l’altra metà costituiva lo stato di Gibillini con un bel castrum su al Castelluccio) veniva tributariamente inventariata: valore patrimoniale, onze 4.600 (noi calcoliamo 350 euro ad onza, pari quindi ad euro 1.610.000, circa  3.117 milioni delle vecchie lire). Tale posta patrimoniale si calcolava capitalizzando gli introiti dalle gabelle comunali pari ad onze annue 460 (euro: 161.000; £. 311 milioni) con un tasso di patrimonializzazione pari al 10%. Non sarà un sistema altamente sofisticato, non è il non plus ultra della scienza delle finanze, non è sottile come un modello econometrico, ma ha grossa efficacia rappresentativa. Sugli “stabili” insistono poi le “gravezze”: sono pari ad onze 4.880 (pari ad euro 1.708 mila o a vecchie lire £. 3.307 milioni) e rappresentano la patrimonializzazione sempre al 10% di spese correnti puntigliosamente elencate. E tornando ai fattori reddituali, abbiamo solo onze 460 annue di introiti (euro: 161.000; £. 311.739 mila) non sufficienti a fronteggiare gli esiti pari ad onze 488.1.4 (euro: 170.800; £. 330.715 mila).

Ogni anno il deficit ascende dunque ad onze 20, tarì 1 e grana 4 (euro: 7.000; circa £. 13 milioni e mezzo).

 
 
 

 

Rivengono gli incassi comunali dalle gabelle soprattutto del pane e delle foglie, e poi da quelle del pilo, del formaggio, del panno, della ligname dei pesci. Sono gabelle date in affitto; non consentono gettito superiore ad appena 311 milioni delle vecchie lire. Non si può dire dunque che siano aggravi intollerabili (72.396,53 delle vecchie lire pro capite). Ma era proprio un onere indifferente per quell’epoca? A distanza di un mezzo millennio e con i salti quantitativi e qualitativi della moderna economia monetaria è difficile dirlo. La ristrettezza delle spese e soprattutto l’assoluta assenza di spese d’investimento comunale fanno pensare ad una economia curtense saggia ma oltremodo sparagnina. In ogni caso non era il gettito comunale a salassare l’industre centro agricolo: re e preti; vescovo arcipreti, notai e soprattutto gli esattori del conte segnavano poste ben più gravose.

Per un qualche ragguaglio sulle singole specie di gabelle, ci avvaliamo delle note del prof. Enrico Mazzarese Fardella al testo di Giovan Luca Barberi (J. Luca de Barberis – Liber de secretis – a cura di Enrico Mazzarese Fardella, Giuffré Milano 1966, passim):

1.     Gabella dei panni: «Tale gabella gravava sui panni importati, e in minor misura su quelli stessi provenienti dall’Isola. Rappresentava una considerevole fonte di reddito per il fisco giacché “li denari di lo Regno, ut plurimum, nexino per li vestimenti di panni e siti … “ – Capitula Regni Siciliae, cap. XCI. (cfr. pag. 9).» Ci sorge il dubbio che per i pochi e non pregevoli tessuti immessi nello stato feudale di Racalmuto scattasse la doppia imposizione, alla fonte ed al consumo (tassa comunale).

2.     Gabella del pilo: « E’ una delle gabelle ‘nuove’ del secolo XIV, così dette per distinguerle da quelle contenute in precedenti pandette. Essa riguardava cotone, formaggi, lana, cuoio, pelli, burro, strutto, miele, sego, esclusi restando i derivati della macellazione. – pag. 10»

3.     Gabella della piscaria: riguarda il pesce venduto in “piscaria”.

4.     Gabella della ligname: Riguardava la legna consumata per forni ed altre funzioni.

 

 

Dobbiamo restare, però, subito avvertiti che l’elenco del Rivelo è molto sbrigativo e non può considerasi in alcun modo esaustivo; non per nulla non v’è dato fiscale specifico. Peraltro, le vere gabelle erano quelle del conte, o meglio quelle che il conte affittava a sua volta. La ragnatela è lì minuziosa, capillare, fantasiosa, asfissiante.  A titolo esemplificativo riportiamo questa sfilza di tasse e gravami, variamente definibili:

 

1)  La gabella del giardino della Fontana di Gian Ventura;

2)  Item la gabella della grana;

3)  Item la gabella della bocceria;

4)  Item la gabella del fundaco;

5)  Item la gabella dello zagato dell’oglio;

6)  Item la gabella del zagato del salume;

7)  Item la gabella della mercia;

8)  Item la gabella del molino di suso;

9)  Item la gabella del molino d’immenzo;

10) Item la gabella gabella del molino di Archi;

11) Item la gabella del molino novo;

12) Item la gabella del molino della Botte con sue terre;

13)Item la gabella del molino di Garamoli con sue terre;

14) Item la gabella dell’arangi e nocille;

15) Item la gabella delle tre mesi della vendita del vino;

16) Item la gabella del molino di Ercole con sue terre;

17) Item la gabella del mastro notaro del capitano;

18) Item la gabella della baglia;

19) Item la gabella delle vigne di Garamuli con la dispenza;

20) Item la gabella delle chiuse di Garamuli;

21) Item la gabella dell’orto Menzi Arati;

22) Item la gabella dell’altro menzo tratto;

23) Item li terragioli dentro e fuori.

 

Ma qui si esula dalla tassazione comunale, dalla finanza locale ed in questa sede soprassediamo. Con gravezze si indicano le poste di spesa che stranamente vengono capitalizzate. Una innocua superfetazione: quel che conta è l’ordito degli esiti. Quindici onze all’anno (5.250 euro o 10/milioni circa di vecchie lire) vanno ai “sindicaturi” l’equivalente dell’attuale sindaco e della sua giunta. Il salario per tenere in efficienza l’orologio pubblico fissato nella torre comunale al centro del paese comporta un esborso di 12 onze l’anno (420 euro per otto milioni circa di vecchie lire) Vi sono compresi l’oglio ed i conci (olio e riparazioni). Dieci onze al notaio  (350 euro per oltre sei milioni e mezzo di lire), comprensive di salario, spese di cancelleria et “ocurentie” varie.

Noi, però, siamo propensi a pensare che vi erano forme succedanee di tassazione comunale che in qualche modo erano atte a sopperire ai buchi di bilancio. Analizziamo, ad esempio, la transazione del 15 gennaio del 1580 tra il conte Girolamo del Carretto e l’università di Racalmuto. Una clausola impressionò il Garufi[3] e lo indusse a credere che tanta solerzia spingesse il lontano padrone racalmutese ad imporre misure per la salvaguardia dell’igiene del suo popolo ed in tale ottica avesse vietato l’uso delle acque della Fontana per un deleterio lordare la fonte da parte delle caratteristiche lavandaie locali. Se scandagliamo il testo di quell’articolato cinquecentesco difficilmente giungiamo alle medesime conclusioni del grande storico. Vi troviamo invece i germi di una tassazione surrettizia a vantaggio della finanza locale sia pure sotto le mentite spoglie di contravvenzioni comitali. Guardiamo insieme il testo:

1).

2) Item perché è antica consuetudine ed osservanza, et prohibizione potersi lavare nello loco d’undi currino li canali di la funtana di lo loco nominato lo fonti e la bivatura, e quelli che in tali lochi proibiti hanno lavato su stati incorsi in pena di onze 4.7.10 applicata detta pena le onze 4 allo barone che pro tempore sù stati ed al presente al Conte, e li tt. 7.10 a li baglij, per tanto stante la nuova convenzione et accordio si patta e statuisce che ogn’anno s’abbia di promulgare bando per ordine di detto illustrissimo Signor Conte e suoi successori; lo detto bando di proibizione di lavarsi in detti lochi per lo quale si proibiscono tutti e qualsivoglia persone che siano in detta terra di Racalmuto di qualsivoglia stato grado e condizione che siano altro non eccettuato ne escluso eccetto che li genti di casa per uso di detto signor Conti, suo castello e casa, ma che tutti l’altri incorrono alla predetta pena delle onze 4.7.10 applicati del modo infrascritto, cioè delli tt. 7.10  alli Baglij tt. 3.15 e l’altri 3.15 abbiano d’entrare in potere delli magnifici giurati della detta terra, e cossì similmente pagandosi le dette onze 4 si debbano di partiri onze 2 à detto Conti ed onze 2 in potiri delli jurati, delli quali dinari di pena  che intriranno à detti jurati s’abbiano da fare tutte le spese e tutti consi e cosi necessarij di detta fontana ed aquedutti, nello quali loco si concede facoltà ad ogn’uno dell’università putiri denunciari la pena di quella persona che ci incorrirà, ita che li lavandari di detto illustrissimo signor conte lavando altre robbe di casa di detto illustre conte siano nella medesima pena nell’esazione, della quale pena sia data  l’autorità e potestà alli giurati presenti et qui pro tempore saranno di potere creare una persona deputata ogn’anno la quale habbia potestà d’esigeri auctoritate propria le sudette pene e pigliare in pena qualsivoglia persona che controverrà, la quale in fine anni aggia di rendiri alli giurati di detta terra justo e legali cunto della sua amministrazione e lo illustre conti non pozza impedire in cosa nessuna si non tantum et dumtaxat in la porzione che compatisce ad esso le quale pene ch’entriranno ut supra d’erogarsi e spendiri tanto in la predetta fontana come in l’orologio ed altre cose in beneficio dell’università, ed in quanto alla pena di onze 4 relasciandoci il conte la sua parte, in tutto ò in parte s’intenda relaxata la parte competente alli jurati.

 

La contorsione sintattica, il rovello impositivo, l’inverosimiglianza delle infrazioni ed altro non ci consentono una percezione esaustiva del fenomeno; non possiamo ammettere che ogni lavandaia che avesse osato portare i panni a sciacquarli nel deflusso delle acque della Fontana fosse in grado di corrispondere la multa di quattro onze (circa 2.800.000 di vecchie lire); sarebbe stata una imposizione impossibile; et ad impossibilia nemo tenetur anche allora. Siamo indotti quindi a pensare che bastasse pagare alcuni picciuli per usufruire del diritto di lavaggio nelle acque comitali della Fontana; per l’accordo, la metà degli introiti annui andava al conte l’altra ai giurati per le opere pubbliche di manutenzione della fontana stessa e per la riparazione dell’orologio «ed altre cose in beneficio dell’università»

 

 

Le commissioni tributarie locali, a dire del De Stefano


 

 

Ripigliamo il De Stefano: «il governo intervenne perché le commissioni per la tassazione fossero  costituite non solo di “facultosi”, ma anche di “mediocri” e “infimi” in numero uguale, e ordinò che ogni anno si convocasse il consiglio generale. Ma la equa ripartizione e il riassetto finanziario restarono sempre un mito. Nonostante i continui espedienti e le operazioni finanziarie di molti comuni […] la finanza locale fu sempre “exausta”, “pauperrima”, e lo stesso Filippo II se ne preoccupò; i bilanci furono sempre dissestati per le spese della stessa amministrazione, per i bisogni dell’annona, per gli interessi su debiti – “per cui sono continuamente vessati da commissari et delegati quali veramente consumano et rovinano”, tanto che alcuni comuni furono costretti a chiedere anche moratoria – per le fortificazioni e mura cittadine, per i diritti di posata e di alloggiamento delle truppe, dei capitan d’armi, dei loro provisionati.»

 

Non difetta l’informazione; ma l’acume critico non sempre soddisfa. Abbiamo riportato un esempio concreto, quello di Racalmuto. Piccolo centro si dirà per essere significativo. Là, comunque, le spese per l’annona sono molto contratte, per l’equità tributaria non pare vi siano dati per preoccuparsene, ma le spese militari risultano sovrabbondanti, gli squilibri sono perniciosi soprattutto per pompaggi di liquidità, forieri di ristrettezze e di malessere sociale. La genesi della mala politica tributaria va ricercata altrove; diciamolo pure, nella sudditanza da un re straniero, da un governo spagnolo, da una nequizia palermitana con il suo parlamento, con le arroganze dei tre bracci egemoni, con l’insensibilità verso la periferia, il comune agricolo, il paesino in cui questo distinguo tra ‘facultusi’, ‘mediocri’ ed ‘infimi’ non è rilevante, non è barriera sociale e non consente furbizie impositive. I rappresentanti dei quartieri appartengono quasi tutti ad un minuscolo ceto medio, a mastri più svegli di li jurnatari ma rispettosi e sostanzialmente assimilabili ai pochi ‘allittrati’, ai magnifici che fanno il notaio nel piccolo centro, o il capitano, o il nobil uomo addetto al governatore del castello, o il prete (l’arciprete, quasi sempre, viene da fuori, prescelto da un vescovo che raramente mette piede in paese). Non vi è molta acredine tra le classi sociali; queste non sempre si distinguono con steccati insormontabili. Qualche tendenza a fare matrimoni separati per il mantenimento del patrimonio familiare conquistato con tenacia e sacrificio (talora invero con la deprecabile usura) la si registra. Pullulano però le confraternite; là l’interclassismo è fisiologico: gestire i sottosuoli delle chiese di proprietà per la “buona morte”, per la sepoltura dignitosa – sperando che sia ‘immarcescibile’ - accomuna, smussa le differenze: con rotazioni persino semestrali si diventa governatori, sindaci, priori, membri del consiglio di amministrazione, diremmo oggi. E la scelta ricade indistintamente tra i più apprezzati confrati, e non sempre sono i ‘magnifici’ a spuntarla, pur numerosi e pur validi. Vi è anzi una rappresentanza interclassista che ancor oggi sorprende e favorevolmente. ‘Monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini’ si diceva, ma senza malanimo o anticlericalismo; il motto stava a significare che tolta la parte religiosa – per questo c’era il cappellano –  poi l’amministrazione e la gestione competevano ai laici. I rolli che si conservano in matrice a Racalmuto testimoniano ancora  una corretta e valente gestione.

 

I monitorij


 

 

Nella “relatio” in volgare del Traina che abbiamo tralasciato forse da troppo tempo ecco sbucare l’accenno ad un istituto tutto particolare del ‘600 episcopale agrigentino: i monitorrj. Dice il Traina che la sua arma contro giurati sopraffattori, a suo favore ed a favore dei privilegi degli ecclesiastici suoi amici ha usato (e noi pensiamo: abusato) l’arma dei monitorij. Un’arma che doveva essere religiosa e diviene invece una sopraffazione ecclesiastica contro la giusta richiesta di contributi alla locale finanza, non solo disastrata ma soprattutto necessaria di fondi appunto per l’annona, per dare il pane quotidiano di cui parla il pater noster al popolo affamato. Si tratta in parole povere di uno snaturamento della giurisdizione ecclesiastica. L’andazzo avrà ulteriori risvolti perniciosi fino a degenerare nella arcinota controversia liparitana, concretatasi ad Agrigento in una crisi politica e religiosa nei primi decenni del Settecento, quale nella sostanza è mirabilmente rappresentata nel Re di Girgenti di Camilleri.

Un quarto dei registri dei vescovi di quell’epoca è costituito, ad Agrigento, da codeste sanzioni, apparentemente di natura religiosa, in sostanza espressione di un potere usurpato, quello giudiziario in materia civile. Studi negli anni ‘Sessanta del Collura ne forniscono significati ed ingerenze antigiuridiche. In mancanza ancora di codici e di separazione tra i vari poteri vigeva una sorta di costituzione materiale, donde codesto potere giudiziario del vescovo nel campo dei diritti civili, ed anche purtroppo in quello delle pressioni giuspubblicistiche. I giurati non potevano tassare per le finalità della locale finanza, bloccati e braccati com’erano allorché  andavano a toccare pretesi privilegi della chiesa agrigentina. Si beccavano una scomunica, subivano intollerabili ‘monitoij’.

 

Per un orientamento ci avvaliamo di un vecchio testo di diritto ecclesiastico[4] e ne stralciamo un paragrafo:

XXIV de literis monitorialibus.

Praeterea quascumque monitoriales, poenalesque literas in forma significavit, consueta, contra occultos, et ignotos malefactores, satisfacere, conscios vero revelare differentes, servata tamen forma Concilii Tridentini, nec non constitutionis Pii Papae V, praedecessoris nostri, super haec editae, concedendi.

 

 Trattavasi dunque di lettere monitorie contro malfattori ignoti ed occulti, con l’obbligo di chi sapeva qualcosa di renderla nota, ovviamente nel rispetto della forma voluta dal Concilio Tridentino e con l’osservanza delle costituzioni di Pio V. Il Gallo, avvocato siciliano del XIX secolo segnalava

a pag. 131 un dispaccio borbonico che precisava contorni ed abusi dei monitori.



Non ostante che il Concilio di Trento con un suo provvido Stabilimento avesse dichiarato (98 ), che i monitorii i quali si spedivano dalle curie vescovili ad finem revelationis pro deperditis seu subtractis rebus, fossero contrari alla sacra dottrina della Chiesa, e che in questi casi i soli vescovi per se stessi e per motivi urgentissimi potessero spedirli, pure l'esperienza costante dal dì che fu pubblicato il concilio di Trento, ha dimostrato sì in questo regno, come in altri luoghi, che gli abusi de' monitorj per i motivi additati eransi resi insoffribili, in grave pregiudizio non meno della giustizia, che in aperto disprezzo delle censure ecclesiastiche, le quali non debbono mai fulminarsi che per gli soli motivi canonici, di pubblico scandalo, di peccatori ostinati e di altri simili eccessi, ma non mai per causa meramente temporale, e per cui le parti offese, per essere ristorati de' loro danni, o per recuperare le robe perdute, o per impedire gli effetti delle false testimonianze, hanno aperto la strada ne' tribunali ordinarj dove per lo appunto queste materie debbono trattare colla dovuta imparzialità ed esattezza. Cotesti monitorj provvidamente furono anni sono proibiti in questo regno (99 S.M. ora non trova ragionevole motivo per recedere da una cotanto salutare disposizione uniforme a' sacri canoni ed all'utilità delle censure, le quali, per essere proficue, non debbano vagare sopra di oggetti estranei, e contrarj al fine per cui sono state inculcate.

 

Leonardo Sciascia s’imbatté in un atto giudiziale del vescovo Traina. Non ne capì molto, a dire il vero. Del resto il documento gli era stato fornito dall’allora sacerdote Di Giovanna. Il Racalmutese a quel tempo s’industriava nel rendere storico il romanzo di William Galt Fra Diego La Matina ma aveva poca materia per le mani. «Per scrupolo, per non trascurare niente – annotava malinconicamente nella Morte dell’Inquisitore – vogliam aggiungere che può darsi vi sia un fondo di verità […] nella romanzesca invenzione del Natoli […] e vien fuori da un documento che si trova nell’Archivio della Curia Vescovile di Agrigento [Registro Visite, 1643-164]. Da tale documento si rileva che il 6 novembre del 1643 il vescovo di Girgenti ordinava, presumibilmente ad un magistrato della Curia vescovile, di recarsi nella terra di Racalmuto, per scomunicare (servatis servandis), arrestare, tradurre a Girgenti con ogni precauzione, don Federico La Matina. …».

 

Abbiamo rintracciato quella disposizione e vi abbiamo notato solo certi aspetti procedurali; ovviamente vi era stata prima una lettera monitoria; si erano scoperte talune inadempienze (che noi supponiamo riguardare il patrimonio di quel prete che nulla ebbe a che vedere con il monaco agostiniano ribelle e che fu poi un probo sacerdote molto più assiduo di quel confessare suor Maria Maddalena Camalleri, come s’intigna lo Sciascia); erano scattate le sanzioni di cui parla lo Scrittore.

 

 

I monitori secenteschi della Racalmuto di Sciascia


 

 

Ben più significativi sono i monitorij che donna Beatrice del Carretto ed altri racalmutesi riuscirono a farsi concedere, a dire il vero alcuni anni prima dell’avvento del Traina ad Agrigento. Stralciamo da un nostro precedente lavoro sulla storia della Racalmuto del Seicento.

 

Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo III che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era veramente precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado.  La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro  c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione  racalmutese del Seicento.

 

Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622  altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.

 

Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo III del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice Del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.

La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a Racalmuto.

 

Riemerge la più generale questione della latitudine della giurisdizione episcopale. L’istituto del monitorio affiora con contorni che non ci pare che gli accademici paludati abbiano del tutto sviscerato; francamente, a nostro avviso, non l’hanno neppure sfiorato. Sempre pronti comunque a chiedere venia per questa nostra arrogante affermazione. Da dilettanti, manteniamoci entro limiti di furba modestia.


 

Gli anni del tramonto


 


 


L’età decrepita


 


 


L’alacrità del Traina di ritorno da Roma


 

«Da che ritornò da Roma tutto s’applica agli ornamenti della Cattedrale» abbiamo visto come il presule reagisce alla scoppola dell’inchiesta pontificia, dedicandosi agli orpelli, alla “fabbrica”, ad indorare cattedrale e cappelle. Dimostra un’angustia mentale e soprattutto una mancanza di spirito pastorale, di religiosità che francamente ci turba in un vescovo. “Tutto s’applica” ormai, ma a che cosa? Alle vanità ed alle pompe di questo mondo. Francesco d’Assisi era passato invano, e dire che Traina ne porta il nome. Egli innanzitutto … ma lasciamo a lui la parola: «et primeramente abbellì di stucchi, et pitture la capella maggiore, et poi fabricò altre tre magnifiche capelle, l’una del santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando primo Vescovo et Patrone della Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et due statue, cioè l’una di detto glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa Vittoria, fabricò un organo magnificentissimo di spesa quattro mila scudi, il quale poi rovinò con più della metà della chiesa, et tutto il choro, onde rivoltando esso monsignore vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et resarcimento con più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere di prima, et hoggi si sta fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un miserabile incendio l’anno 1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove traslato il corpo, et ossa d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi quattromila. Rifece il palazzo vescovile con aggiungersi un delizioso giardino.»

 

Qualche empito di generosità a dire il vero non manca e neppure difetta una certa sensibilità alla cultura ed alla formazione dei suoi sacerdoti. Il seminario, soprattutto: «fondò il monte di pietà – si vanta e qui a ragione -  in sussidio di tutti i poveri et bisognosi non solo di Girgento, ma della diocesi.» Non bada a spese per il suo seminario: «spese da 12 mila scudi nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero degli alunni a sessanta dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del proprio per quel che manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle scuole della Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge civile et canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di strumenti, ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi de’ libri anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a fine di comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali vuole che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria.» Ma per il bene delle anime?: nulla ci risulta. E per il resto della diocesi?

 

 

 

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