Il teatro, Giugiu Di Falco e gli “altri”
(con un pizzico di Sciascia, indefettibile come il prezzemolo).
Malgrado tutto, nonostante dovremmo essere classificati fra gli
ingrati “altri” – saprofiti di chissà quali ricerche altrui – Giugiu Di Falco,
amico antico e vero sin dalla nostra infanzia, ci prodiga delle sue ricerche,
queste vere e valide, e del suo costosissimo archivio fotografico. Tutto
naturalmente riferito al baraccone di moda, il teatro Regina Margherita di
Racalmuto. Divenuto sacro perché Sciascia vi tenne una prolusione quando
cominciò a pensare che questo era diventato un paese terribile, sol perché
qualcuno osava contraddirlo.
Dicevamo che secondo le
insinuazioni di un settario foglio [1]locale
(plagi sciasciani a parte) noi saremmo tra quelli che avremmo depredato la
documentazione di aliene ricerche nei vari archivi statali, provinciali,
locali. Ma non è vero il contrario? Non sono stati “altri” quelli che hanno
premesso la firma come precipuo autore di un testo che neppure avevano
letto? E costoro non sono finiti nel
luccichio di un CD comprato già, a dire il vero, dal Comune? E lì non v’era
quanto ora a spese sempre del Comune si vuol pubblicare per la terza volta, ed
anche molto di più? Ma quando a sindaco la cittadinanza ha voluto il nipote del
proprio campiere si può pretendere
questo e ben altro; persino con gli osanna del giornaletto di famiglia.
Noi fummo tra quelli che pagammo
di tasca nostra viaggi da Roma – e pesantissime bollette telefoniche – per
consentire a qualcuno di assolvere ridevoli onorificenze. Sappiamo ora che in
cambio un passato sindaco ebbe informazioni sulle carte giacenti in tanti
archivi persino stranieri. Ma per questo basta consultare pubblicazioni
ponderose ed informatissime, basta che si conoscano. Non fui forse io a guidare nelle ricerche
d’archivio? Naturalmente mi servivo di quelle pubblicazioni. Ovviamente il
destinatario ora – per quei miracoli della cattiva memoria – finge di
ignorarlo.
Scrivevamo un tempo – e ci pare
che il sullodato foglio non mancò di ospitarci –:
Si pensi che un ricambio in senso
classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli
anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di
amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
Ci pensa adesso l’aulico foglio a
darcene conferma; ovvio che la voglia di riesumazioni di carcasse storiche ci
pare imbecillotta. Dovremmo dunque commuoverci e spingerci a gratitudine eterna
perchè un “signorino” venuto dalla città non si poteva mescolare con i locali
coetanei essendo cosparsi di infettive
malattie “esantematiche” (che cosa erano? I banali “coccia”?). Dovremmo poi esaltarci perché gli amici del
signorino erano mezzadri pastori ed affini pronti al sussiego servile. Per
fortuna loro, alcuni – anche se non tutti – erano di sufficiente intelligenza –
come i soci del circolo unione – capaci persino di discutere per qualche ora su
vari argomenti. Vivaddio avevano apprezzabili
intelligenza sapienza ed equilibrio.
Tra costoro c’era forse il
bisnonno del Sindaco che abbiamo conosciuto stimato ed onorato (anche come
autorevole membro della mia plebea famiglia)? Ma quello aveva superiore
intelligenza, sagace operosità ed anche ironica marpioneria per non essere capace
di abbindolare i figli o meglio i nipoti di signori divenuti tali dopo le
peripezie rimaste memorabili per la penna di Eugenio Napoleone Messana.
Pare che tra breve il Comune –
che ci ha tartassato elevando l’aliquota ICI al debordante 6 per mille (più di
Roma) – abbia voglia di sperperare quel che rimane delle esauste casse
municipali in riverenti pubblicazioni, frutto si dice di decennali fatiche. O
quanto annaspante è quella penna, o quanto stanca quella fantasia. Tanto rumore
per nulla si recita nel teatro che Giugiu di Falco ha osannato con le carte e
le foto che ci accingiamo a commentare. Ma quanto denaro per tanto rumore –
teatrale e storico-letterario! Paghiamo o cittadini contriti e riverenti, servi
e saccenti, attualmente il 6 e poi il 7 e poi l’8 e poi .. dato che dobbiamo mantenere fondazioni ove
non arrivano neppure le carte dovute o ove si deve far locupletare stranieri
ingordi, e dobbiamo pubblicare tutto anche ciò che è sgangherato ed insenso per
compiacenza verso chi magari ci fa causa per non essere stato subissato di
denaro dopo un modesto esproprio di terreno marginale occorrente per una
bretella salva vite, plebee però. (Ricordate la scritta marmorea sotto la
centrale? E’ davvero lontana questa vita racalmutese dalla giustizia e dalla
verità, cioè dalla libertà annotava irriverente ma con migliore forma della
nostra Leonardo Sciascia).
Dicevamo, dunque, di Giugiu Di
Falco. Ci ha rassegnato copia di un suo quaderno dattiloscritto e del corredo
fotografico risalente al 1988 A penna, si intitola IL TEATRO COMUNALE REGINA
MARGHERITA DI RACALMUTO.
PARTE SECONDA – NOTE IN MARGINE DEL
TESTO DI GIUGIU DI FALCO
Iniziamo con … la conclusione del
libro del mio amico. Ci vuol notificare che “all’opinione pubblica … ha fatto
piacere la collaborazione di un personaggio che nella costruzione di spettacoli
teatrali è il massimo a cui si possa aspirare. E’ il noto scrittore, regista e
sceneggiatore Andrea Camilleri”. Invero l’ultraricco scrittore empedoclino ci
vuol solo far sapere che in risposta a taluna piaggeria interessata lui è
disposto a limitarsi solo “a quella che può essere la formazione di un
cartellone e l’indicazione dei percorsi artistici”. Anche qui – come per tutto
il resto – molto rumore per nulla come con sapida anche se inconscia autoironia
si conclamava nella recita di inaugurazione del “rinascente” teatro
Racalmutese, dopo il flop della sala vuota per insipienze burocratiche.
Noi che il nostro amico lo
conosciamo – e stimiamo – da una vita pensiamo che quella ingenua sdilinguata
non sia frutto del suo sacco. Il lavoro, austero circostanziato leggibile,
esordisce ben bene Diligente, rispettosa lettura di carte dell’archivio di
Racalmuto consentono al Nostro di notiziare meticolosamente sulle vicende
amministrative dell’epoca matroniana nell’avventurarsi in una maniacale e
dispendiosissima impresa: quella di farsi un teatro elitario per lor signori, a
somiglianza di quello capitolino, della Palermo appena post-borbonica.
Naturalmente il giudizio di
valore in negativo è nostro. Giugiu Di Falco ama il teatro, quel teatro; lo
considera cosa propria, ed a ragione visto che tutto sommato lui ne è il vero
salvatore. Con le sue ricerche, con il suo interessamento, con l’entrature che
l’alta carica fiscale allora rivestita gli consentiva, sfruttando magari le
accidiose sortite del suo grande compaesano e coetaneo, potè dar inizio al salvataggio che in quest’anno
finalmente si dice concluso, sia pure dopo un ventennio di spese improvvide e
per noi superflue. Vi era altro a cui pensare a Racalmuto: un paese su cui
ricade un’ICI gonfiata, a riflesso pure di una siffatta opera neppure lussuosa,
solo pretenziosa.
Sbotta ad un certo punto della
sua ricerca il Di Falco che tanti particolari, molte notiziole, certe
singolarità ce li può rappresentare perché si è molto adoperato nella
investigazione di carte nascoste in locali ad affitto parentale con accesso a
noi interdetto. Così per le nostre operazioni di scopertura di tali vicende
minuscole del vivere paesano dell’Ottocento ci siamo avvalsi delle solitarie
peregrinazioni nell’archivio di stato centrale di Roma o in quello – prima
bazzicato solo da Eugenio Napoleone Messana – di Agrigento. Chi ha orecchie da
intendere, intenda. Lungi ovviamente da noi la malignità che il Di Falco si sia
avvalso per questa sua minuziosa indagine archivistica dell’opera di chi si
proclama l’unico e prodigo dispensatore di carte storiche racalmutesi.
Giugiu D Falco ha semmai il
nostro identico difetto; con tecnica burocratica tipica del Ministero delle
Finanze ci piace investigare, verificare, accertare. Nel momento elaborativo,
in solitudine; prima sfruttando le dabbenaggini altrui oppure le voglie
esibizionistiche o delatrici degli estranei.
Ma bando alle superfetazioni.
Giugiu Di Falco ama il teatro – non solo quello murario ma anche quell’altro
recitato – da tempi immemorabili. Rifuggendo dal postumo carro di Tespi di
taglio paesano – propenso all’erotismo plurimo secondo natura con l’eccezione
di chi vi andava contro – il Di Falco diveniva alla fine degli anni quaranta il
pigmalione della filodrammatica parrocchiale. Nel teatrino che l’encomiabile
arciprete Casuccio – chi l’avrebbe mai pensato – mise a disposizione ebbero
applaudita anche se effimera vita recite come il patetico “Ho ucciso mio
figlio” – con straziante preludio della Traviata – o come l’ilare “Pastorale”
che mi si dice ora essere di un monaco san biagese.
Certi maligni del Circolo Unione
mi ragguagliavano l’altra sera sulla boccaccesca vicenda di tanti arrapati
galantuomini – peraltro noiosamente sposati - finiti in blenorragia per non avere resistito alla tentazione di
godersi a pagamento le grazie di una prima donna caduta con i compagni in
ristrettezze economiche per la latitanza dei locali spettatori dalle recite cui
quella compagnia si cimentava nel nostro
teatro comunale.
Noi rammentiamo una splendida
bionda, che ebbe a turbare peccaminosamente i nostri quasi impuberi sguardi,
una Lia Guazzelli, coniugata o compagna di Renato Pinciroli assurto poi a
gloria cinematografica e pensiamo a benessere economico. E la ricordiamo
intenta a recitare piamente una santa Rita proprio sulle scabre tavole del
teatrino parrocchiale, appunto per guadagnare almeno la pagnotta quotidiana.
Giugiu Di Falco, unico allora a disporre di
uno stipendio, comprò da mio padre la
“musulina” residua per le quinte del teatrino parrocchiale. Non recitava,
neppure in minuscole particine. E noi non possiamo nobilitarlo inventandoci
regie rapsodiche di chi poi fini scrittore famoso.
Ecco il nostro filodrammatico,
nella parte di direttore s’intende. Giovanissimo eppure già grande con i
grandi, uno della triade; gli altri: l’austero arciprete Casuccio ed un serioso
padre Puma, allora semplice cappellano. E poi, il solito presente-assente Lillo
Savatteri, il falso barbuto Guido Picone, ed altri che non ci azzardiamo ad
individuare temendo di sbagliare. Come corre il tempo! Lo giuro: eravamo tutti
racalmutesi autentici e non avevamo schiviltoserie razziste. Eravamo i
migliori.
La troupe eccola tutta qui;
assenti quelli in veste talare e presenti mio fratello Giacomo, il regista Gino
Caprera (più bravo e soprattutto più efficiente
del futuro grande scrittore). Vi notiamo Pino Agrò, attore spumeggiante, Angelo
Morreale. Naturalmente il leader Giugiu Di Falco non può mancare.
E siamo sulla scena: quadri radio
di lusso, sedie e tavolinetto in vimini (prestati da Ernesto di Naro?). Le
parti minori hanno qui eguale risalto, si tratti di un piccolo cameriere o di
un telefonista quasi sosia di Amedeo Nazzari. Di nobile portamento Guido Picone
ed a Cosimo La Rocca non difetta la mimica singolare. Pino Agrò, il bello della
compagnia, disdegna di conferire con un Luigi Giudice, prima degli impegni
ministeriali. Ed Angelo Morreale, bifronte: accetto dai pretenziosi virgulti
della locale crestomazia – che facevano clan e circolo a parte – e presente tra
noi della modesta plebe.
Il lavoro sul teatro comunale
resta comunque prezioso fugando imprecisioni storiche false attribuzioni di
paternità improprie requisizioni regime. Ci piacerà o meno ma la tela dei
Vespri Siciliani (Sciascia precisino li vuole al singolare) non potremo più
toglierla a Giuseppe Carta per
attribuirla magari ai sigg. Tavelli e
Belloni sulla scia dell’impreciso Messana. A Giovanni non dite – mi raccomando
– che le varie tesi sull’attribuibilità del telone a vari artisti (e Sciascia
ed Aldo Scimè ed altri vi ci sono cimentati) potrebbero integrarsi dato che
Carta avrà ricevuto la commissione ma nulla fa pensare che l’abbia
integralmente eseguita di suo pugno. Non vi è dubbio che si sia servito di suoi
discepoli o aiutanti. Non per nulla non sembra che quello sciatto scenario
l’abbia firmato. La vasta dimensione non significa pregio artistico, che invero
è più arduo quanto più vasta è la superficie da colorare.
In altri tempi, con altri intenti
parleremo del lavoro di Giugiu Di Falco sul teatro Margherita e ci permetteremo
qualche licenza critica che qui non sarebbe opportuna. Ci limitiamo a
trasmettere alcune foto ad illustrazione del testo descrittivo del nostro grande
amico Giugiu Di Falco. Ad malora Giovanni!
Una pinacoteca a Racalmuto dedicata a Pietro d’Asaro
L’associazione racalmutese ECCLESIA (presidente padre
PUMA, direttore Calogero TAVERNA) ha organizzato l’inaugurazione della pinacoteca
Pietro d’Asaro aprendo i locali della vecchia chiesa di S. Sebastiano (tra S.
Anna e S. Giovanni di Dio).
E’
stata una manifestazione di grande rilievo – oltre che per la comunità
racalmutese – per l’intera realtà culturale agrigentina e persino regionale, tanto
che non è mancato il patrocinio del Comune e della Provincia.
Nei
locali di S. Sebastiano – dopo i restauri pubblici più o meno condivisibili –
sono già custodite pale d’altare, tutte attribuite a Pietro d’Asaro, ma con
disinvoltura critica, visto che solo le pale firmate sono indubitabilmente del
pittore racalmutese; le altre attengono, ad avviso di alcuni critici, ad una
scuola, non necessariamente racalmutese, cinquecentesca, tutta da studiare
anche per la ricognizione della veridica microstoria locale e provinciale.
Comunque,
la mostra pittorica si è estesa alla pittura dell’Arciprete, pittore
ragguardevole, di notorietà nazionale. Vanta, infatti, varie esposizioni, la
più prestigiosa in Piemonte, Altrove, in questo sito, potrà leggersi una
critica non convenzionale sul Puma pittore.
L’inaugurazione
è stata solennizzata dalle massime autorità religiose della Diocesi, da quelle
militari e civili della Provincia.
Presente per l’intera giornata il Sindaco Restivo.
In
contemporanea, a supporto e ad amplificazione, si è svolta una giornata di
studio, a completamento o a rettifica di quella già svoltasi per il V
centenario della Saga del Monte. Il fulcro è stato la dottissima prolusione del
prof. Mazzarese Fardella, direttore dell’istituto di storia del diritto all’Università
di Palermo, che ha esplicato storia, diritto, araldica e costumi della Sicilia
feudale. Non sono mancati perspicui riferimenti alla microstoria racalmutese
(avendo il professore degnato di attenzione, naturalmente critica, lo studio di
Calogero Taverna sulla “signoria racalmutese dei Del Carretto”); vi sono stati del
pari coinvolgenti relativi alla “vinuta di la Bedda Matri di lu Munti”.
Con
l’occasione il padre Stefano Pirrera ha dato incarico al Taverna di illustrare la
figura del defunto padre Calogero Salvo, personalità poliedrica, sacerdote
integerrimo, uomo di fede profonda (forse persino con tocchi giansenistici),
studioso perspicuo anche delle nostre cose racalmutesi. Appartiene a
quell’olimpo di grandi racalmutesi (pur se in veste talare) che vanno
rievocati, apprezzati, onorati e studiati “a futura memoria”. Non possono
essere per ignavia dei vivi cacciati nelle gore dell’oblio.
Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Una introduzione
è d’obbligo
come
giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio
nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?
Mi impongo uno stile moderato che
invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di
solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso vescovo
agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è
personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta
stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo – catapultato
ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla
morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed in toni
denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena
rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri
giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di
esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri –
che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il
presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e
valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di
citarlo due volte nella Storia della
Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi
Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per
descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi
per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270
(ibidem) allorché ne sintetizza le
traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note
di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per
evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle
sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in
cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari della
città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della
Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869.
Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di
Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in
prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito
che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata
di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate
all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men
che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi
famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente
volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai
consultata?
Il Traina, l’uomo, il vescovo
Ma che vescovo fu codesto
monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con
la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che
non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il
muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo
fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse
ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo
aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere
rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi
meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava
in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti.
Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i
gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei
benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato.
Canonici che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella,
ad esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso.
C’è persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di
difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano
appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente
perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono,
comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate
dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal
Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi,
dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una
delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo
confesso, è lo stesso canonico Picella a
farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare
tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso
la sacra congregazione del Concilio.
Pensate che il Picella fino ad un
certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere
delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.
Codeste visite a Roma erano
diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era
lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti
tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie
per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano
censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà
sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto
predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili
opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati
di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel
sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad
Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di
una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.
Fra le carte che siamo andati a
trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga comparsa
accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di elucubrazione in
diritto, de jure, colma di citazioni
normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era anche qui una
ragione economica.
L’interdetto comminato al vescovo
inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini comportava
anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale che
passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a quel
medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito a
motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra
sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né
particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei
rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese
odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di
illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità
canonicale, converrà con noi su tale assunto.
Vedremo come il canonico Blasco
prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi agrigentina,
nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni dopo si
accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è
incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la
testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito
soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e
per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.
Il Camilleri prende questo
vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo
peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”,
storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia.
Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione
savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel
1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede
vacante per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava
già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non
solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli
arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva
riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel
che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor
Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il
Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide
visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali,
ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri
è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono
l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere
di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti
imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime
tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può
formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza
di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione,
o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?
Lascia che i morti seppelliscano
i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco di essere
vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più praticabile,
l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto clero oggi
totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,), l’arbitrio
episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e faccende
analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che comunque
andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti protesi a
seppellire altri morti?
Cenni biografici del Traina
Per una strana singolarità, nelle
due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo Traina risultano
omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente, il vescovo si era
predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e giorni della sua
umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha riportato il Pirri). E nel fluente
latino del Netino si ha: «in suae
Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum
marmoreum construi curavit, hoc addito epithaphio.» La lapide marmorea fu
rimossa, sostituita da quelle bronzee sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio
che già il presule si era tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni.
Mi sussurra padre Alessi che in effetti il completamento del sacello avvenne
nel Settecento dopo risse e controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a
quale età fosse cessato di vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del
Traina restò misteriosa anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui
emerga l’anno di nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus
consistorialis” celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità
episcopale. (cfr. ASV – Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A
dire il vero neppure i due referenti di fiducia, il messinese don Dario Costa ed il
palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano molto. Entrambi se ne
uscirono, aggirando la domanda, con questa circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in
circa». Diamola per buona; possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello
successivo come l’anno di nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651,
possiamo dire che visse 72 o 73 anni.
Per quel che si vedrà, il medico
Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il Traina
era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si venga a
dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci suggeriscono che la mortalità infantile era
feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso
nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella
barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro
ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte
ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra
senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.
Il certificato medico
dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare
falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali
avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il
Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è
assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere
oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di
sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce
vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per
podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e
soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare
almeno di doverlo sospettare.
Il Traina si proclama nobile e
noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima, di un non meglio
precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus” scrive di sé
nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti hanno di che
storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era poi? Si pensi
che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del Nostro. I
soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore Francesco è
nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città. et de
cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua madre, ho
però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et cattolici
parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della città di
Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non provano, che
siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è fatto in
persona di esso dottor Francesco et
poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è di 48 in 49
anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et dall'aspetto.»;
ed il de Bardis: «Il detto dottor
Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti
cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso
dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto
publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario,
anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio.»
Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina fu
ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in Catania
(S.T.D.) appena due anni dopo.
Il de Bardis ci informa che per
alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo
così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove
dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale
spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta,
meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei
confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di
fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non
denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua
elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico,
attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere
dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante
dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’
dotato di grande dottrina ed è molto
atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento
alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le
sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere
esperimentato di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della
propria coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero
doveva pur esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La
sua trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo
essergli “paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste
affidabilissimo. Sulla fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima
perfettamente con quello del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona
timorata di Dio, integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è
tenuto pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”. Non per nulla il vescovo gli diede licenza di
poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma
qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella
chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si
ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della
sua vita e costumi.»
Nel gennaio del 1627 giunge al
cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo
cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il
vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor
como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala
dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva
quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà
vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione
di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro
utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero
1627”, invita “Y Cardinal Barverino” e firmata
da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul
senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il
semplice taglio burocratico.
Il 10 febbraio il concistoro ha
luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il processo
di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco
Barberini, ex fratre germano nepos
del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il
dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per
suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui
costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e
cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico
di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo
Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,
Il Blasco si dilunga nella
descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la
curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti
“relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe
Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una
testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.
Trascriviamo alcuni passi in
latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.
«Eidem anno,
indictione, mense die, et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D.
Franciscus ad docendum de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit
Privilegium, in publicam formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium
Generalem, et Vice Cancellarium dicti
Almi Studij, et solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi
etc. consignavit tenoris infrascritti videlicet:
In Nome Domini Amen, Nos don
Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et
temporalibus Vicarius Cat. sede vacante
... (solita forma) ... significamus .. et serie fidem facimus,
quod vigore privilegiorum fel. rec. D.
Eugenii Papae 4i et gloriosae mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae
regis quorum auctoritate et potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam
R.P. M. Vincentii de Mainoin defectu
lectoris non doctoris etiam
Compromotoris, et respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris,
stante absentia P.M. Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem
facultatis D. Francisci Traina felicis urbis Panormi habita prius debita
informatione de eiusdem religione, et fidei catholica professione, ac juramento
super sacramentis Dei evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per
venerabile Collegium s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia
exstentium et pro Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis
oraculo ... suffragijs d.d. Franciscus
idoneus, et sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit
judicatus, et approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit
evidenter. Nos igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere,
moribus, virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit,
et illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter
demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta,
dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare
confutando ac solvendo de consilio et
pari voto ad d. collegi magistrorum et
doctorum eundem d. Franciscum nomine
approbavimus
magna cum laude
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum facto
produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum
Panormitanum solito sigillo mun. videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei
et ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque consiliarius etc. ...
notum facimus presente die datae
presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis dilectus nobis in Christo
filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo matrimonio procreatum scholarem
panormitanum clericali carattere insignisse
eidemque hab. primam clericalem tonsuram cum ceremonijs ... etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor temporum nativitatis, D.N. Jesu Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
Ego Odoardus
Tibaldesius clericus Spoletinae..
E dopo tanto latino che pochi dei
miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro pizzico di
pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che consacra Traina
quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della Sicilia.
Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo d.mum d.
Franciscum Traynam dignum esse ut
ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem
Cad. Barberinus
Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card.
Brandinus
Idem censeo ego C. presb. card. Pius
Item censeo ego diac. card. Aldobrandini
Avremmo qui voglia di continuare
con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto di fede del
futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo nella Santa
Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato per
cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata almeno
rispetto al moderno catechismo.
Giunto il Traina ad Agrigento,
inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i canonici
del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per la visita
alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il vescovo che,
nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I canonici attivano
gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a Palermo e presso la
curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante scomunica da cui sarà
assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed altri maggiorenti di
Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche Racalmuto sono pronti a
dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio dell’Arcivescovo di Palermo.
Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la curia vaticana, Ma il re,
titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non ammette simili fellonie.
Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto scottante per Roma. Il Traina
può gongolare. Intanto comincia a provar gusto nell’arricchirsi. Considera
serpi in seno i canonici e si avvale in misura crescente dei propri parenti. Il
Pirri gli fa visita e l’adula nella sua possente storia religiosa della
Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico racalmutese, gli dedica un suo libro di
medicina (il peggiore). Tutto sembra volgere al meglio quando scoppiano i
tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il nostro discorso critico iniziando con
la menzione di quanto, mutando registro, annota nei suoi diari che finiscono
pubblici Rocco Pirri.
L’EPISCOPATO
AGRIGENTINO DEL TRAINA
Dalla cronaca alle pubbliche accuse
Il Pirri, oltre alle sue opere
storiche, ci ha lasciato una sorta di cronaca, un diario dei pubblici eventi
degli anni terminali della sua vita: gli
annales Panormi sub annis d. Ferdinandi
de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo,
netino, ab anno 1646, in bel latino. Noi ci avvaliamo, però, della
traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo. «Ma in Girgenti, - stralciamo
da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città
solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la
plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i
carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli
che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’
plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente
in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però
a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor
dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre
alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu
proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di Girgenti, -
il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina –
non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato
Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore
della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima
carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave
sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la
città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse
dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e
fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano
desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il
prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni
migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era
provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle
armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo,
chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del
popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui,
creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per
darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro
ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer
grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla
stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote
Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul
primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del
vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici,
e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il
promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più
intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde
atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre
luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una
parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di
quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune
fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa
del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote
Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè
intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li
avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli
tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila
scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi
sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua
stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila
scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si
dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed
anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma
del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per
racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché
neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con
molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che
furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto
di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare
con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde
essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di
guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta
sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar
di carcere i loro compagni, e dare indulto pel crimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo
avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e
dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta
con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più
innanzi diremo.
«Frattanto egli, prestando fede
alle lettere de’ Girgentini, avea colà mandato il capitano di campagna co’ suoi
a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a
darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di
quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la
flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido
di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione
per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e
cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al
vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se non la prosa, il
racconto di Camilleri, fino nei minuti particolari, a parte s’intende
l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il
Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella
taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae
avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il
Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda
di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul
Illustrissime», ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva
deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le
vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono tanti gli
estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce
l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio,
suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi
verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato
anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che
nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore ci risulta essere
padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del
vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa.
Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale
ed a tramandare, almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non
sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per quel che concerne i racalmutesi,
ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio
Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera
medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo Trahina, ad ogni modo,
uscì piuttosto bene da quella procella; è lo stesso Pirri che a pag. 223 ci
informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad
occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di
Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il
Napoli, che era il più vecchio»
Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule
agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo
pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano
oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle
grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a
carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco
il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene
proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della
rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per
banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò
molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa
di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a
Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale
fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato
dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi
– in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore
questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del
Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna dunque presenta
l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale,
ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum
laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo,
nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di
marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere
apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei
mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il
pontefice (optimo Rege id enixe
efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente -
e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e
nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Salerno
agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbiamo trovato assiduo nelle
carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un
altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado
Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato? Il papa da
Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è
sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò
vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino,
colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per
complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva
continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia,
naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis causa, adhuc controvertitur».
Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il
Netino.
E finalmente il vescovo si dedica
alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri
avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i
tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con
amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si mette ad ornare la cattedrale
e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e
puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla
costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta
bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri d’argento tra cui
potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea
per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e
fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi,
godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad
insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi,
rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores speactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di
allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il seminario e ciò
meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante
meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il
Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato
all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere
abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a
Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il
cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631,
un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava
a Roma il Trahina.
A Roma il Trahina andò e riuscì a
farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che
sostenga il Pirri. Per quel che si mostrerà dopo a noi risulta qualcosa di
diverso. Per il Netino, comunque, «summo
cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit
Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Sennonché, non molto dopo, il 13
dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica,
Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di
Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di
Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati
a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene
investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di
indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni
di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del
contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia
soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si
impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali,
imponendosi il totale ripristino dell’antica giurisdizione.
A questo punto il giudizio del
Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi
della piaggeria: «noster Antistes
ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in
subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex
humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De
Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina
mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino.
Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni
encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci
industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale
avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle
stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie –
prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di
storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il Trahina fa incidere
sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano,
espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio,
per diciassette anni al servizio dell’invittissimo re di Spagna, Filippo III e
IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto
con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore
dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite
afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi
eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si
addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i
classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le
formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al Mongitore scrivere
l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della
consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu
della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis
S. Francisci.
Un semplice accenno, quindi, ai
moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le
disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non
avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato,
originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente
ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il
vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega
l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di
siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del
titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era
il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige testamento agli atti del
notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1651. I soliti legati alle chiese,
qualche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale
acciò fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania
di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un
occhio particolare per le repentite: soffre d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per la dotazione libraria del
seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato.
Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo
suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito
nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a
mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee:
il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed
edificante vicenda di monsignor
Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio
e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo;
in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del
1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella
monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio
spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere
traslato nella sua impacciata prosa ottocentesca il racconto del Pirri, quello
dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e
celebrate Memorie), ha il destro di
commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la
tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la
cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel
prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto
incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca
d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la
dotazione del Monte di Pietà, nel
quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione
dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la
ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi
alla parte di tramontana (Pirr., Sic.
Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra
chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle
rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo,
larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve
far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi;
il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di
quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso
anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli compra la
città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente
età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque
tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna
all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città
nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue
ricchezze, non dovettero esser pochi».
Ci pare che sia scattata la molla
del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la
congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di
Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile
“inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle cause per
occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla
dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione”
necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non
permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628
(S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano
– in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di
Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio
notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di
Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche
siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di
Racalmuto.
Eppure, ancora nel 1629, il 20
febbraio (ibidem f. 424) il Trahina
costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per
dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il
“vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo
presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dovesse
respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa
recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire
informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa l’aspetti ed ecco
infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio
1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore
commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si
ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini
[si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca
ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per
un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa nota,
ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.]
et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S.
Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et
altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della
medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare
che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si sente protetto
addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto
sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare
è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora
un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del
suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi
cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono
in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o
repubblicane cancellerie.
La pazienza vaticana, ad ogni
modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra congregazione delle immunità
ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in
termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua
Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da
incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del
papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2
settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia
accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il tempo del ravvedimento:
monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e
giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il
sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di
proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre
1630).
Nel terzo registro di quella
sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al
“signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che
finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma
«abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti
impunito ha la S. di N. S. comandato il zelo, et osservanza di V.E. verso
questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis
dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis,
d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in
detta Costitutione di Sisto Quinto de
visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [2]con
procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne
poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3
ff. 24-24).
Per quel che ne sappiamo – e
siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale
gravissima censura non è passata sotto silenzio. Si vedrà alla fine del
presente lavoro l’esito di quella scomunica. Sarà il cardinale di S. Onofrio ad
irrogare le pene e poi ad assolvere il vescovo previa adeguata penitenza
Monsignor De Gregorio ci ha fatto
acutamente notare:
a)
non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi
tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
b)
il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle
accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica
Agrigento;
c)
ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in
fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e
malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel
governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del
presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale
quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua
volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi
– e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano
nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed
egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci
con le prosapie locali poteva vantare solo quelli che gli derivavano
dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di
Lampedusa.
Vero è che la chiesa episcopale
era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo – questa sorta di
senato con diritto di reggenza in tempi di
vacatio – era varia ed i
canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a
condizionarla. Diamo uno sguardo alla
composizione del capitolo: al tempo di monsignor Traina abbiamo un
decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla; divenuto arcivescovo di
Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato
era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a
Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici emergono
l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo Valguarnera ed altri
che gli studi di monsignor De Gregorio hanno riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra
tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce
soprattutto la quantità.
1
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1632
|
FRANCESCO
|
TAGANO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1632
|
SANTO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
|
4
|
1632
|
GIUSEPPE
|
SANFILIPPO
|
BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
|
|
|
|
|
CHIESA DI S. NICOLA
|
5
|
1632
|
LEONARDO
|
D ' AMODEO
|
|
6
|
1632
|
G.BATTISTA
|
ACQUISTA
|
|
7
|
1632
|
FRANCESCO
|
CICIO
|
CAPPELLANO
|
8
|
1632
|
PETRO
|
RAFFAELI
|
CAPPELLANO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1632
|
FRANCESCO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
2
|
1632
|
DOMENICO
|
SFERRAZZA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO 1634
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
|
|
|
|
SO IL 12.3.1635
|
2
|
1634
|
LEONARDO
|
BERTUCCIO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1634
|
PASQUALE
|
MACALUSO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
5
|
1634
|
PIETRO
|
CASUCCI
|
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MARTORELLA
|
CAPPELLANO
|
7
|
1634
|
ANGELO
|
CASUCCI
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
SUDDIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
G.BATTISTA
|
LO BRUTTO
|
CHIERICO
|
2
|
1634
|
ANDREA
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
3
|
1634
|
SIMONE
|
SALVAGGIO
|
CHIERICO
|
4
|
1634
|
PIETRO
|
DI ROSA
|
CHIERICO
|
5
|
1634
|
ANTONINO
|
LO PORTO
|
CHIERICO
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
7
|
1634
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO 1639
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
ECONOMO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
DIACONO
|
2
|
1639
|
GIROLAMO
|
SCIRE'
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
D'ACQUISTA
|
CHIERICO
|
2
|
1639
|
GIUSEPPE
|
CASUCCIO
|
CHIERICO
|
3
|
1639
|
MICHELANGELO
|
D'ASARO
|
CHIERICO
|
4
|
1639
|
G.BATTISTA
|
BAERI
|
CHIERICO
|
5
|
1639
|
GIUSEPPE
|
LA LATTUCA
|
CHIERICO
|
6
|
1639
|
ANTONINO
|
MACALUSO
|
CHIERICO
|
7
|
1639
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CHIERICO
|
8
|
1639
|
MARIO
|
TURRETTA
|
CHIERICO
|
9
|
1639
|
GIOVANNI
|
PITROCELLA
|
CHIERICO
|
10
|
1639
|
GASPARE
|
TROISI
|
CHIERICO
|
11
|
1639
|
VITO
|
BURGIO
|
CHIERICO
|
12
|
1639
|
FILIPPO
|
DI CHIAZZA
|
CHIERICO
|
13
|
1639
|
ANTONINO
|
MUNTILIUNI
|
CHIERICO
|
14
|
1639
|
FRANCESCO
|
GIUSTINIANO
|
CHIERICO
|
15
|
1639
|
PIETRO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
16
|
1639
|
ISIDORO
|
D'AMELLA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ANNO 1645
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE D.S.T.
|
2
|
1645
|
GIUSEPPE
|
TRAJNA
|
ECONOMO
|
3
|
1645
|
FRANCESCO
|
TIGANO
|
|
4
|
1645
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
|
5
|
1645
|
GIUSEPPE
|
D'AGRO'
|
|
6
|
1645
|
PAOLO
|
LA MENDOLA
|
|
7
|
1645
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
|
8
|
1645
|
SALVATORE
|
PITROZZELLA
|
|
9
|
1645
|
MARIANO
|
MALASPINA
|
CON LICENZA DI PARROCO
|
10
|
1645
|
FRANCESCO
|
MACALUSO
|
|
11
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
12
|
1645
|
LEONARDO
|
MORREALE
|
COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
|
13
|
1645
|
GIOVANBATTA
|
D'ACQUISTA
|
|
14
|
1645
|
FEDERICO
|
LA MATTINA
|
CAPPELLANO
|
15
|
1645
|
CALOGERO
|
DI PUMA
|
|
16
|
1645
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
FONDATORE CHIESA S. MICHELE
|
|
|
|
|
|
ANNO 1649
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1649
|
MARIANO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE S. NICOLO'
|
3
|
1649
|
ANTONIO
|
MACALUSO
|
|
4
|
1649
|
SIMONE
|
LO GUASTO
|
COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
LO SARDO
|
CHIERICO
|
2
|
1649
|
NATALE
|
DI ALFANO
|
CHIERICO
|
Ed ai fini di tracciare un
contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella
religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito un excursus su
Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina, che riportiamo in
appendice.
Il Traina dopo
la scomunica
A metà del 1631, il vescovo
Traina sembra essersi rinsaldato nel suo soglio episcopale; non si discute più
la sua autorità; un compromesso con il cardinale Doria appare più che
verosimile. I due prelati sono ora sulla stessa barca nella difesa dei
privilegi penali delle loro rispettive chiese.
Francesco Ferdinando de la Cueva, duca d’Albuquerque è viceré spagnolo
molto fedele al suo sovrano e non tenero verso le usurpazioni dello stato
ecclesiastico siciliano, sempre pronto ad invadere campi alieni e rapace
nell’annessione di poteri e di meri e misti imperi. Il f. 65 v. del reg. n° 3
della Sacra Congregazione delle Immunità ecclesiastiche ci pare che sveli soprattutto preoccupazioni
per l’attacco istituzionale del vicereame palermitano avverso la locale chiesa
e lasci per il momento da parte le grintose grida o le scomuniche contro i
propri vescovi per faccende minori. Là – il 6 maggio 1631 – si tramanda un
invito al Traina e al Doria, in contemporanea: «rinnovandosi da ministri laici
– si puntualizza – l’ingiusta loro pretensione, che gli officiali delle Curie
vescovili non debbano godere il privilegio del foro in tutti li delitti che
essi commettano davanti il loro ufficio in dette curie vescovili … si
compiacciano [i presuli in indirizzo] difendere la giurisditione ecclesiastica
da questo pregiudicio.»
Quindi, per oltre un triennio,
Agrigento scompare dalle attenzioni dell sacra congregazione romana delle
immunità ecclesiastiche. Solo nel dicembre del 1634 (Reg. n° 4 f. 83) si torna
a scrivere al vescovo di Giurgento: «nella causa di Baldassare di Blasius – si
esordisce nella missiva – V.S. lo facci ritenere ben custodito et sicuro …
conforme la Bolla di Gregorio XIV … [e] facci pigliare giustificationi sopra le
qualità di esso con trasmettere poi quanto pertinente alla S.C., acciò si possa
pigliare la risolutione che sarà di giustitia.» Il documento trascende
l’angusto limite delle controversie ecclesiastiche per darci squarci di diritto
penale feudale, con gli annessi risvolti procedurali e con le implicazioni di
una evanescente giustizia carceraria. Quella competenza del foro rivendicata
dalla curia romana per crimini commessi nella lontanissima Agrigento in forza
di una vaga Bolla di Gregorio XIV disorienta alquanto. I modernissimi studiosi
di diritto feudale siciliano – un po’ forse distratti dalle aporie delle
indecifrabilità istituzionali del settore pubblico e del diritto privato - non
pare che per il momento siano sensibili a tali incognite della minuta giustizia
dentro costituzioni atipiche come senza dubbio sono quelle che formalizzate o
modellantisi in forza delle esigenze pragmatiche reggevano e vincolavano le
realtà feudali tarde del Seicento.
Sulla vicenda si torna il 22
maggio 1635 (ibidem f. 100) e così
sappiamo che Baldassare de Blasio veniva perseguito in quanto «si pretese
havesse commesso homicidio proditorio gode[ndo] l’immunità eccelsiastica.» Il
vescovo aveva omesso di uniformarsi agli ordini vaticani, e da Roma gli si
intimava di «avvisare il seguito giustificatamente»
Dal 1635 al 1636 vicerè è Luigi
di Moncada, duca di Montalto. I Moncada hanno da tempo ramificazioni tra i
nobili agrigentini e rientravano in quelle consorterie che in chiusura del XVI
secolo si erano scontrate con il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva ed ora, si è visto, non mancavano di contrapporsi al Traina
che di nobili lombi non ne aveva di perfettissimi. Il duca di Montalto non
gradisce l’autocrazia del vescovo di Agrigento. Lo avversa ed il vescovo si
rivolge a Roma. La congregazione ne prende le difese ed il 25 novembre del 1636
invia una missiva del seguente tenore (ibidem
reg. 4, f. 100):« La fiducia che hanno questi Em. S. nella prudenza ed
integrità di V. S. dà occasione di pregarla a operare, che siano remosse le
molestie che il Vescovo di Giorgento riceve da Ministri del Duca di Mont’alto,
quali essendo trascorsi oltre il dovere meritano non restare impuniti di simili
eccessi, et che con il dovuto pentimento usino quelli atti di riverenze che
sono dovuti al Pastore. Si attenderà dunque l’effetti della prudenza di V.S.
alla quale etc….»
La prudenza e l’integrità cui si
rivolge il vaticano non emergono da documento in esame, ma è certo che viene
coinvolto anche il cardinale Doria, cui spetta difendere l’aborrito vescovo
agrigentino. Si sarà dato da fare? Ne dubitiamo. L’amanuense della
Congregazione romana annotava: “si scrive
per ordine di N.S. e del Sig. Cardinale Barberino”. Sapeva dunque della
riluttanza dell’arcivescovo di Palermo per siffatta incombenza. Certo si è che
il 3 febbraio del 1637 il cardinale Doria non aveva ottenuto (o aveva fatto in
modo che non si ottenesse) alcun risultato apprezzabile: «si avvisa delle
molestie – tornava a ripetere la curia papale – che da Ministri Laici si danno
al vescovo di Giorgenti» (Ibidem reg.
4 f. 236v).
UN VESCOVO INDECIFRABILE – I CANONICI GLI SONO AVVERSI
Monsignor
Traina alla luce delle sue “relationes ad limina”
Quanto fin qui siamo andati
discorrendo, vediamo di riscontrarlo alla luce delle relazioni triennali della
Congregazione Concistoriale quali sono consultabili presso l’Archivio segreto
vaticano. Premettiamo che l’ultima carta precedente l’episcopato del Traina è
datata 4 aprile 1621. La prima del vescovo che ci occupa porta invece la data
apocrifa del 1631 (ASV – S.C. Concistoriale – Relationes reg. 16 – f. 81r).
Trattasi della relatio per la quale
erano state comminate le sanzioni cui si accennava. Risulta firmata dall’«humill.s et
devotiss.mus servus Franciscus episcopus agrigentinus.» Diretta agli “em.mi et
rev.mi D.ni”, la relazione esordisce evocando la costituzione di Sisto V sulla
visita dei sacri limini e delle cattedrali ecclesiastiche cui sono tenuti i
presuli. Si ringrazia la Divina Provvidenza per aver dotato la chiesa di un
papa come Urbano VIII. Si specifica che le visite di rito sono state effettuate
il 21 ottobre del 1631. La visita attiene a quella obbligatoria per il
quattordicesimo triennio. Il povero vescovo aveva lasciato Agrigento già nel febbraio
precosro, ma “tempestatibus maris ac sinistrorum temporum iniurijs” gli era
stato impedito di raggiungere i Sacri Limini. Dobbiamo credergli o è una
pietosa bugia, questa dei mari procellosi e dei tempi infidi, per giustificare
la riottosità agli ordini papali che prima abbiamo in qualche modo significato?
Il testo tradotto della prima
“relativo ad limina” del Traina
Finalmente ci si risolve a
rappresentare lo stato della chiesa agrigentina, “statum ecclesiae meae
referam”. «Si dice che la Chiesa agrigentina – traduciamo – sia suffraganea
della chiesa metropolitana palermitana, ma è lecito pretendere che essa, per i
privilegi apostolici, sia esente e sia immediatamente assoggettata alla Sede
Apostolica”. Si inizia, dunque, con un fendente avverso il non amato cardinale
Doria. Passando allo stato giuridico di
Agrigento, si afferma: «La civitas di
Agrigento sorge nel Regno di Sicilia ultra
Pharum e nelle cose temporali è assoggettata al re Cattolico: un tempo di
rito greco, poi, liberata dalla tirannide saracena dal conte Ruggero, tornata
sotto il rito latino, vi persevera tuttora.» La recente peste ha, tuttavia,
decimato la popolazione. Resta comunque un’ampia diocesi ripartita tra diverse
città, vari paesi e non poche terre. Il vescovo assicura di avere visitato o
fatto visitare tutte le 52 località nel precorso triennio. E, in tali
occasioni, non ha mancato di svolgere la sua missione episcopale «sacramentum
confirmationis administrando, et per me meosque visitatores predicando, monita
salutaria populo dando, nulli labori pro animarum salute pavendo».
«Ho curato che in ogni località
vi fosse la parrocchia con tutto quanto occorre, che i sacramenti venissero
amministrati con la dovuta vigilanza ed accuratezza; ho ingiunto ai parroci di
predicare al popolo ogni domenica e per tutto il tempo quaresimale facessero
loro stessi o altri fruttuose omelie. Ottenni che ogni anno i padri gesuiti
svolgessero le missioni per l’intera diocesi affinché con le esortazioni e le
confessioni si convertissero le anime. Ho istituito le 40 ore nelle chiese
parrocchiali ogni singola domenica per invocare Dio perché ci conceda felicità
per lo Stato e per la Chiesa e sovvenga
alle pubbliche necessità.
«Ho disposto per la riparazione
di tutte le chiese cadenti non mancandosi di dotarle dei paramenti e delle
necessarie suppellettili.
«La diocesi conta 190.000 anime,
di cui atte alla comunione 105.000. Le persone ecclesiastiche sono 3.449; le
chiese secolari e regolari, con curato e semplici 614; monasteri maschili,
collegi, conventi 153; monasteri di monache 22, una casa delle convertite, 6
case per orfane, 20 ospizi per gli infermi, un monte di pietà, chiese madri o
curazie 87, associazioni e confraternite di laici 238.
«La cattedrale è sotto
l’invocazione dell’Assunzione della Beata Maria, di San Giacomo apostolo e di
S. Gerlando, una volta vescovo di questa città ed ora suo protettore e
patrono. La medesima chiesa che
parzialmente minacciava di andare in rovina e necessitava di ripari ho
adeguatamente fatto riparare ed ora ho iniziato ad ornarne le cappelle. In essa
si trovano il sacrario, il coro, l’organo, la sacrestia, il cimitero, il
campanile con molte campane e tutto quanto si addice ad una cattedrale. Ho
ornato in sacrestia gli stipi e le arche di legno che contengono le
suppellettili e gli altri paramenti sacri.
«Ho riparato varie parti della
cattedrale e dell’annesso palazzo episcopale e di recente l’ho ornato con un
giardino ed altri decorazioni. Nella cattedrale ci sono 4 dignità delle quali
il maggiore e il primo dopo il pontificale è il diaconato e 16 canonici e molti
altri presbiteri e chierici che
assistono agli uffici divini ed alle sacre funzioni. Legati e rendite sono
sufficienti per il loro sostentamento.
«Al fine di evitare che vengano
defraudate le volontà dei testatori, espressamente ho ordinato e disposto che
nelle sacrestie della città e della diocesi venga esposta una tabella in cui si
annotino gli oneri per messe e per anniversari. Per di più, ho fatto obbligo ai
notai che sotto pena di scomunica debbano dare notizia al vicario generale o ai
vicari fonanei della diocesi di tutte le disposizioni testamentarie, o d’altra
specie, nonché delle donazioni per causa pia, e ciò entro otto giorni dalla
data della disposizione.
«Nella predetta cattedrale
sussiste la prebenda teologale ma non quella penitenziale. Mi adopero perché
gli oneri penitenziari vengano sopportati da un canonico maestro di teologia.
Ho predisposto un nuovo archivio ove conservare le scritture pubbliche e per
consentire una facile consultazione ove occorra.
«Nella predetta città opera una
pia casa di convertite il cui numero al presente ascende a 20 unità. La qual
casa essendo del tutto priva di rendite viene da me sovvenzionata con le mie
rendite. Ed ho anche dotato 150 vergini orfane per mio debito pastorale acciò
per la loro povertà non finiscano male e si sottraggano al pericolo della loro
pudicizia.
«Nella diocesi non ci sono monti
di pietà, tuttavia vi sono alcune confraternite di laici simili ai monti di
pietà che s’incaricano di seppellire i morti e di sistemare con buoni matrimoni
le orfane povere. Io infatti ho sopperito alle necessità della città con
paterna sollecitudine erigendo il monte di pietà e dotandolo di mille scudi.
«In città vi è pure il seminario
dei fanciulli ecclesiastici da me riformato ed accresciuto in modo tale che
sebbene vi fossero tenui redditi purtuttavia vi trovano alloggio e vi attendono
agli studi ben 18 alunni; e ciò si spiega perché non manco di sopperire alle
spese con contributi tratti dalla mia mensa episcopale.
«Nella chiesa cattedrale si
venera il corpo di s. Gerlando ed il capo di santa Vittoria; a Licata il corpo
di s. Angelo; a Sutera quello di s. Paolino; nella terra di Cammarata i capi di
tre consorelle di s. Orsola sono onorate in vasi di argento; infine diverse
altre reliquie vengono conservate nella stessa città e in diocesi.
«Ho convocato e celebrato secondo
le prescrizioni dei decreti del sacro concilio tridentino il sinodo diocesano a
cui ho deputato giudici ed esaminatori sinodali e ho pubblicato non poche
costituzioni e ordini per la riforma e l’eliminazione di taluni abusi non
mancando di prescrivere norme di vita sia per gli ecclesiastici che per i
secolari che se Dio vuole saranno osservate per la salute dell’anima.
Che si serva il coro delle chiese
in modo decente e con abito decoroso, con la tonsura clericale ho stabilito;
che nei negozi secolari non si immischi il clero si è stabilito; del pari si è
sancito di adoperarsi a che il popolo si mantenga docile, clemente e pieno di
carità, mentre i giovani siano spinti alla debita osservanza dei sacramenti e
rispettino i precetti della chiesa.,
«Mi industrio affinché in
qualunque centro abitato della mia diocesi vi sia un maestro di grammatica e di
musica e dove è possibile un lettore dei casi di coscienza. Ho ordinato che in
qualunque matrice vi sia un maestro di cerimonie il quale abbia costantemente
presso di sé il cerimoniale romano ed il direttorio del coro affinché gli
uffici divini vengano celebrati decentemente.
«Nella diocesi vi sono due terre
in cui permane il rito greco ed i loro sacerdoti sono stati consacrati in città
e in modo specifico dal vescovo di Sant’Atanasio a questo effetto deputato.
Procuro un cappellano addetto alla cura delle anime in quelle località in cui
per povertà non può erigersi la parrocchia.
«In questo esordio della mia
missione episcopale ho rinvenuto, specie per la sede vacante durata un
triennio, nella città e in diocesi vari abusi e molteplici varietà di vizi,
come ad esempio l’usura, l’incontinenza, la trasgressione del precetto festivo,
l’inobbedienza, la sottrazione alla giurisdizione ecclesiastica, l’evasione dai
tributi alla chiesa; di tal che i crediti degli ospizi, delle confraternite e
degli altri pii luoghi ascendono ad oltre 100 mila scudi, né i debitori si
possono facilmente costringere, in particolare perché vengono protetti
iniquamente dai ministri temporali delle singole comunità. Infatti codesti
ministri temporali o i loro domestici o familiari per la maggior parte sono
loro stessi i debitori. Così i predetti luoghi pii soffrono non poco detrimento
e le loro proprietà vengono usurpate da altri. Mi sforzo nel radicare siffati
abusi e difendo con tutte le mie forze la giurisdizione e le libertà
ecclesiastiche.»
La chiusa è di rito: un umile
invito ai potentissimi cardinali di essere solleciti nel redarguirlo nelle
mende in cui involontariemente fosse incorso. Altrettanto rituale la
sottomissione alla volontà della sacra congregazione, ai decreti del sacro
concilio tridentino ed alle sacre costituzioni apostoliche.
Si è visto che il papa ebbe a
considerare adeguate le giustificazioni del vescovo e solo per non fare passare
impunite le varie inadempienze agli ordini vaticani si invita il cardinale
competente a punizioni che ci appaiono esagerate e che, sì, andarono ad effetto
ma subito rientrarono con una solenne confessione ed apparente penitenza. Il
papa ne diede incombenza al confessore del vescovo. Diranno, poi, i canonici
ribelli che fu subito “benedetto”.
Chiose e commenti
La relazione del Traina è abile,
piena di fervore religioso, per i suoi tempi persino provvida. Che mentisse?
Non ci pare. Crediamo che prima delle calamità della metà del Seicento, quando
il presule era ancora piuttosto giovane, l’uomo fosse valido. Invecchiando, con
l’umano raggrinzirsi nelle morse dell’avarizia può essere peggiorato. E così le
indubbie colpevolezze possono spiegarsi.
Il precedente 5 aprile il
cardinale presbitero Roberto Ubaldino titolare di Santa Prassede aveva
attestato l’avvenuta visita dei sacri limini da parte del vescovo agrigentino.
Era stata una visita fatta personalmente per il XV triennio. Il foglio (84r) è
pieno di incisi e monitori squisitamente ecclesiastici. Ma sembra che non sia
servita a molto, se furono comminate (o semplicemente disposte) le sanzioni che
in esordio abbiamo segnalate. Contro il vescovo cospiravano quindi le grandi
famiglie dell’aristocrazia agrigentina; per quel che ne emerge trattavasi dei
Gioeni di Giuliana, del conte di Burgio,
dei signori di Cammarata e di San Giovanni. Non può parlarsi del conte Giovanni
del Carretto di Racalmuto, essendo costui appena un dodicenne.
Troppe formalità per una delega –
Una seconda scarna “relativo”
Non passa neppure un anno ed il
travaglio del Trayna con la curia papale riprende: altra visita troppo onerosa
per farla davvero, altre giustificazioni da accampare, altri atti formali da
redigere Tre pagine fitte fitte vengono stilate dal notaio agrigentino (si
ammira un sigillo disegnato a penna con un ingenuo logo notarile), Gaspar Quaglia apostolica et regia et
potestate judex ordinarius atque
publicus notarius agrigentinus, per
una banale procura del vescovo Francesco Traina al proprio canonico S.T.D.
Lorenzo Merenda. Chiamati a testimoniare due dottori in sacra teologia, don
Cesare Malagrida e don Vincenzo Babbilonia, nonchè il n.h. Giovanni Games. Ci
pare che per il momento il nepotismo non fosse piega molto estesa presso la
curia di S. Gerlando.
Laurentius Merenda Canonicus Cathedralis Ecclesiae Agrigentinae ad
Urbem specialiter transmissus ab episcopo suo agrigentino qui ob corporis
indispositionem, et senilis aetatis ac longi itineris difficultates Sacra
Apostolorum limina personaliter visitare nequit absque evidenti vitae periculo
ac gregis sibi commissi detrimento attento … etc. etc. Anche se dette in
latino – peraltro non cospicuo – le lamentele e gli inconvenienti paiono
digressioni furbette. La sintesi della relazione – che segue – è troppo scarna
e insoddisfacente; non è atta neppure a fornire la conferma dei paragrafi della
precedente rappresentazione, ma non era passato, come già detto, neppure un
anno: siamo infatti in data 21 gennaio 1632.
La terza relazione ai sacri limini
Il tempo scorre veloce e si è già
nel 1634: altra rognosa scadenza con Roma. Altri tre fogli fitti per la delega,
le giustificazioni, gli arabeschi notarili. Urbano ottavo lo si segnala papa
per dono della “divina provvidenza”, ma per Filippo IV gli orpelli non
finiscono mai. “regnante preminentissimo
et invictissimo ac catholico domino nostro domino Philippo quarto Dei gratia rege Castellae, Aragomum,
utriusque Siciliae, Hierusalem, Partugalli, Ungariae, Dalmatiae, Croatiae,
Navarrae, Granatae, Toleti, Valentiae,
Hijspali, Sardiniae, Corsicae, Murtiae, Algarbij, Algezeris, Gibiltaris,
Insularum Canariae, et Terrae Fermae, el aliorum Regnorum feliciter Amen ..” e tutto ciò per attestare, da parte del
notaio Ludovico Sciortino, che monsignor Francesco Traina delegava il canonico
don Filippo Picella a rappresentarlo nella visita triennale a Roma e nelle connesse
incombenze. Qui dunque il canonico Picella gode della fiducia del Traina, Un
dodicennio dopo lo scenario cambierà e Picella diverrà astioso accusatore e
denigratore del suo vescovo. Emergono
dal documento personaggi del tempo come Vincenzo Gibilaro, don Cesare
Malapegna, Bartolomeo Cardilicchia, don Gerlando Tabbone, Antonio Barba
avalla con la sua autorità regia estesa
per l’intera Val di Mazzara e appone il proprio logo a forma di lambiccato
ostensorio. E poi una firma illeggibile, quella di Nicola Antonio Pancucci e di
Giovan Battista De Labiso. E’ il 13 febbraio 1634.
La relazione presentata dal
Picella è quasi una copia conforme della paginetta di due anni prima. Ma
l’attestazione liberatoria – chissà quanto costata – è tutta lì stilata con malcerta grafia, la prima parte,
ed in bel corsivo la seconda. “Fidem
facio ego infrascriptus qualiter r. d.
Philippus Picella Canonicus Cathedralis
Ecclesiae Agrigentinae pro ill.mo et Rev.mo D. Francisco Episcopo Agrigentino
visitavit Sacra apostolorum limina “. … Scripsi et subscripsi hac die 20
Martii 1634 – Gabriel Mancinus Basilicae Sac.;
don Graziano Casarovius , monaco cassianense e sacrista di S. Paolo
attesta la visita del delegato della basilica sopraddetta.
Le adempienze del 1638
Nel 1638 il rito deve ripetersi.
Stavolta tocca al giudice della reggia curia stilare l’attestazione legale di
delega: vi riscontriamo l’intrusione a vario titolo di diversi personaggi
agrigentini. Iniziamo dal giudice: trattasi del dottore in entrambi i diritti
(U.J.D.) Giuseppe Ugo, “iudex Reggiae
Curiae causarum civilium huius magistraturae civitatis agrigentinae”. E’
assistito dal chierico Antonio Barba della medesima magistratura civile di
Agrigento. Attesta che il Traina “sponte et solemniter” costituisce suo procuratore
speciale (fecit, costituit, creavit et
solemniter ordinavit et ordinat eius verum legitimum, et indubitatum
procuratorem attorem fattorem nuntium specialem et ad infrascriptam omnia et
singula generalem et generalissimum itaque specialitas generaralitati non
deroget nec e converso sed unam per aliam confirmatus et corroboretur” don
Lorenzo Merenda di cui si è già detto.
Abbiamo riportato per esteso la
formula apparentemente ripetitiva e rituale. In atto, anche la più prestigiosa
scienza della storia del diritto italiano reputa del tutto scissa dal diritto
romano la cultura giuridica di quello che noi ellitticamente denominiamo
diritto feudale aragonese (e nel ‘600, essa è in Sicilia al suo acme). La
suestesa formula di per sé non manca di forza demolitrice di siffatte tesi
alquanto apodittiche. Le carte del vaticano vanno quindi studiate anche sotto
tale profilo. Non può essere compito nostro; limitate peraltro sono le nostre
forze.
Appunti per un quadro
prosopografico agrigentino del ‘600
Suggellano l’importante atto da
esibire alla lontana curia vaticana, il notaio Stefano Palumbo; Vincenzo
Bichetta canonico agrigentino; il notaio Francesco Giardina; il S.t.d. Don
Cesare Malagrida, canonico agrigentino; il notaio Mariano Cumbo; Giacomo Gonzales.
Conclude la sfilza delle firme di avvaloramento Antonio Barba, regius et apostolicus notarius agrigentinus,
che sottoscrive e certifica e per di più appone il suo solito sigillo “signavi
meoqe solito signo”.
L’indispensabile quadro
prosopografico della diocesi di Girgenti nei tempi del feudalesimo aragonese
del 600 non è sinora disponibile. Accontentiamoci, pertanto, dell’abbozzo del
compianto Gibilaro (v. Giovanni Gibilaro,
i giurati e i sindaci di Agrigento degli
ultimi sei secoli – AICS 1993). L’empedoclino ci informa che i giurati di
Girgenti al tempo di Traina erano:
1626-27: Geronimo LA SITA; Gaspare GIARDINA ; Gaspare
DE FIDE e don Annibale CAPUTI; capitano giustiziere: don Giovanni ALVARADO e
dopo di lui Giovanni PERONA;
1627-28:
Don Giuseppe MONREALE; don Gaspare VALGUARNERA; don Giuseppe MONTAPERTO e
Geronimo LO IUDICI;
1628-29: Bernardo BELGUARDO; don Gaspare GIARDINA; Gaspare
Gamez e Francesco LA SITA; capitano giustiziere: don Antonio de NARO;
1629-30: Bernardo
BELGUARDO; Gaspare GIARDINA; Geronimo GAMEZ e Francesco LA SITA; capitano
giustiziere: don Geronimo LA PEDRA (sino al 1633)
1630-31: Don Andrea
LO PORTO; Giovanni GAMEZ; don Francesco Maria MONTAPERTO; Nicolantonio
PANCUCCI;
1631-32: Don
Giuseppe MONTAPERTO; don Stefano MONREALE; Gaspare De Fide; Geronimo LO IUDICI;
1633-34: Don Andrea
LO PORTO; Geronimo LA SITA; Nicolantonio PANCUCCI; GASPARE de FIDE; capitano
giustiziere: Diodato RAMIREZ;
1634 Don Francesco MONTAPERTO; don Pietro LO
PORTO; Bernardo BELGUARDO; Don Gaspare VALGUARNERA;
1635-36: Don Stefano MONREALE; Don Giuseppe MONTAPERTO; Antonino de
FIDE; Bernardo BELGUARDO; capitano giustiziere: don Geronimo De Castro; dopo
Giacinto LA VEGA
1636-37: Geronimo
LO IUDICI; don Andrea LO PORTO; Don Stefano MONREALE; Giovanni GAMEZ; captano
giustiziere: don Francesco de VALDIVIA;
1637-38: Giov. Battista de ALBANO; Gaspare de Fide;
Ippolito PIAMONTESE; Antonino de FIDE; capitano giustiziere: don Jachino de
LUNAR;
1638-39: Ippolito PIAMONTESE;
Antonino de FIDE; Giov. Battista ALBANO; Gaspare de FIDE;
1639-40: Giovanni GAMEZ; don Francesco VALGUARNERA;
Don Stefano MONREALE; Lorenzo Cavallo; capitano giustiziere: Geronimo LA SITA e
dopo don Francesco Maria MONTAPERTO;
1641-42: Pietro Mallia; don Corrado MONTAPERTO;
Antonino de FIDE; Nicola Antonio PANCUCCI; capitano giustizier: Geronimo LA
SITA;
1643-44: Don Andrea LO PORTO; Don Francesco Maria
MONTAPERTO; Gaspare Giardina; Don Francesco LA SITA; capitano giustiziere:
Vincenzo SANCHEZ;
1644-45: Don Francesco Maria MONTAPERTO; Antonio de FIDE;
GIOVANNI GAMEZ; Don Michele LA SITA; capitano giustiziere: Nicolò Antonio
PANCUCCI, e dopo don Stefano MONTEREGALE (quindi un salto sino al 1663)
1645-46: Girolamo LA SITA; Giuseppe Babilonia; Don
Corrado MONTAPERTO; Don Giuseppe de FIDE;
1647
Gerardo SALA; Francesco MONASTRA; Fabrizio TOMASINO
1649 Andrea LO PORTO; Antonino de FIDE; Corrado
MONTAPERTO; Francesco BRUNELLI;
1652 Corrado MONTAPERTO;
Joseph BABILONIA; Francesco BRUNELLI; Gaspare GIARDINA
Notisi il salto significativo dal
1649 al 1652. Pensiamo che i dati prima da noi forniti possano colmare alcune
lacune prosopografiche.
La relazione per il 18° triennio
Abbiamo quattro fogli riempiti ad
Agrigento per la relazione a Roma sulla diocesi agrigentina valevole per il 18°
triennio (firmata nel 1638 dall’umilissimo e devotissimo servo Francesco
vescovo agrigentino). Dice il presule che era suo ardente desiderio visitare di
persona i sacri limini ma era talmente malconcio che tanto gli era proprio
impossibile (cum serio sit poene
confectus, adversaque valetudine laboret, arduum et longum iter sine vitae
dispensio peragere non valet). Ma
vi penserà il suo delegato don Lorenzo Merenda ad essere esaustivo sullo stato
della diocesi. Da parte sua, specifica che stando sul posto vigila sulla salute
delle anime, punisce i crimini dei sudditi; li spinge sulla retta via; cura con
la massima sollecitudine che fioriscano le virtù e non trascura alcunché per
quanto attiene al culto divino. Non lascia in pace coloro che sono tenuti a
dare tributi alla chiesa; contro di loro
agisce con il massimo rigore sia in forza dei sacri canoni e delle norme del
Sacro Concilio di Trento sia avvalendosi della prescrizione della recentissima
bolla del signor nostro Urbano VIII.
La massima vigilanza viene del
pari esplicata al fine di far rispettare la volontà dei defunti testatori in
favore delle fanciulle povere da dotare, o volta alla beneficenza per
alimentare i poveri, non ammettendosi dolo alcuno né frode: e così viene
approntato un libro in cui i nomi dei pii testatori e quanto da loro lasciato
viene scrupolosamente annotato; tale libro va conservato nell’archivio
pubblico. Vigile è egli pure sul suo monte di pietà, sugli ospedali, sugli
altri luoghi pii; rettamente e con correttezza vanno tali istituzioni amministrate;
se non personalmente almeno per il tramite di canonici debitamente delegati
viene chiesto il rendiconto degli introiti e delle spese.
Esposta al pubblico, dentro la
sacrestia delle chiese, è la tabella delle messe, perché non si ometta il
suffragio delle anime dei defunti. Sia in Cattedrale sia nelle altre collegiate
ecclesiastiche della diocesi sono recitati gli uffici divini con modestia ed
attenzione a maggior gloria di Dio. Ha disposto a che venissero decorati con
varie pitture la predetta cattedrale e la relativa cappella maggiore,
unitamente a quella del santissimo sacramento ed all’altra di s. Francesco, non
mancando di provvedere all’occorrente restauro.
Ha iniziato i lavori della
cappella in onore di S. Gerlando patrono della cattedrale; del pari ha ordinato
un’arca argentea del valore di tre mila ducati ove deporre più decorosamente le
reliquie del Santo. Ha disposto per l’astensione dai commerci secolari da parte
dei chierici. Ha a cuore la modestia e l’onestà del clero, l’osservanza del digiuno
da parte dei laici ed il rispetto del precetto festivo.
Il seminario, in cui un tempo non
c’erano più di 10 seminaristi, è stato ampliato, riordinato, e meglio sistemato
nell’antica sede; al presente conta oltre trenta alunni (oltre ai lettori ed ai
ministri); oltre la grammatica, le lettere umanistiche, vi si insegnano
filosofia, teologia, diritto canonico, musica e contabilità; è dotato di una
splendida biblioteca fornita di libri, di tal che in tutta la diocesi non v’è
altro luogo di studi che gli possa competere. Ho stabilito che ogni giorno sia
accessibile ai sacerdoti e a quanti dovessero essere interessati
all’insegnamento dei sacri canoni e della teologia morale che si svolge durante
le ore pomeridiane nel seminario stesso.
Vigila sulla clausura delle
monache e su quanto attiene alle istituzioni religiose; e se occorre innovare in alcunché non si può
procedere senza l’ausilio dei preposti e degli eminentissimi patri regolari, di
cui si chiede l’illuminato parere sui casi ardui e più difficili..
Purtroppo non è adeguatamente
dotata di beni e di redditi la pia casa delle convertite che ascendono al
presente a ben venti e pertanto ricade sul vescovo provvedervi a sue spese.
La libertà e la giurisdizione
ecclesiasticche sono state perturbate in varie occasioni. Non pochi
potenti laici, figli delle tenebre, non
si peritano di violarle, ma il vescovo non consente loro di infrangere le norme
della giustizia e commina le sanzioni canoniche, ricorrendo anche alla massima
censura. Certo è da deplorare la calamità dei tempi correnti. La suprema
potestà laicale spesso impedisce di fatto la giurisdizione ecclesiastica,
destituendo la famiglia armata del vescovo e degli altri prelati, proibendo
allo stesso vescovo di perseguire i debitori laici delle chiese e delle
istituzioni ecclesiastiche, pur essendo tutto ciò di competenza del vescovo
medesimo per antica consuetudine. Viene contrapposto il principio in base al
quale detta materia viene trattata come se riguardasse beni esclusivamente
laici. Il vescovo ricorre pertanto alle Signorie Illustrissime per avere
l’occorrente ausilio speciale. Del pari l’obbligo della visita non può
assolvere appieno, impedito com’è dal potere laico ed a tal riguardo invoca
analogo aiuto. E tanto è da dire sullo
stato della chiesa.
Due note di commento
Il velo del gergo burocratico e
l’asettico ragguaglio cui indulgono i funzionari della curia non devono trarre
in inganno: non è corretto giudicare il vescovo dallo stile e dal tenore della
relazione che abbiamo liberamente tradotto da un latino striminzito e poco
espressivo. Eppure ci pare che trasudi una sensibilità diversa da quella del
decennio precedente: il Traina non si preoccupa più delle cose eminentemente
religiose e spirituali; l’assilla la faccenda della giurisdizione; soffre per
il controllo del potere laico. La generosità verso i poveri, i derelitti è ora
solo un inciso senza sentita partecipazione. Il seminario, la biblioteca, i
corredi argentei, l’appariscenza insomma sono ormai in cima ai pensieri del
vescovo. In dieci anni sembra essersi indurito l’animo e pare scemato il
fervore mistico. Invecchiando il Traina peggiora – o almeno così a noi appare.
L’INTERLUDIO
Alla vigilia
della grande crisi
«Non potendo io – scrive di suo
pugno il vescovo Traina il 1° ottobre 1645 a giustificazione del non andare a
Roma per la visita triennale – per l’età decrepita, et continue indispositioni
venire alli piedi di Nostro S.re et complire la visita de sacri limini, secondo
l’obligo, che impongono le Bolle Pontificie, mando D. Francesco Mazzullo
canonico capitulare di questa mia Cathedrale a questo effetto. Supplico l’Em.
VV. Rev.me humilissamente à degnarsi d’ammetterlo. Et à darli credito di quanto
le rappresentarà à nome mio circa lo stato di questa chiesa, et Diocesi, et somministrarmi
quegli aggiuti, che faranno di bisogno, massime per la diffesa della
giurisditione ecclesiastica, che in questo Regno va cadendo. Et all’Em. VV.
RR.me m’inchino, et bacio le sacre vesti. Di Girgenti li 1. Ottobre 1645 –
Humil.mo et dev.mo servo Franciscus di Girgenti episcopo.»
Va sottolineato che per la prima
volta il vescovo Traina ha l’ardire di indisporre il vaticano non solo non
recandosi di persona a baciare li sacri limini, non solo di dare ampia e
liberatoria delega al suo canonico Mazzullo, ma addirittura usando il volgare
ed omettendo tutte le solennità curiali e notarili che abbiamo riscontrato in
precedenza. Si vede che ormai il vecchio lupo si sente sicuro di sé ed acquista
tracotanza e supponenza. La pagherà cara.
Non solo, ma anche la relazione
da rassegnare alla grintosa congregazione concistoriale, a superbi ed altezzosi
cardinali – che peraltro si avvalevano di colti prelati, tutti agghindati nel
loro alato latino – viene stilato, neghittosamente e con tanta aria di
sufficienza, in una lingua italiana periferica, quale si poteva scrivere nella
prima metà del Seicento nella irraggiungibile Agrigento. «Che volete – sembra
sussurrare sornionamente il presule agrigentino – signori cardinali miei? La
mia età è “decrepita”, le mie “indisposizioni tante” e non ho voglia alcuna di
sobbarcarmi a tanti sacrifici per vedere le vostre belle facce. Accontentatevi
di un canonico, di codesto mio Mazzullo. Siate caritatevoli, accoglietelo
“humilissimamente” ma s’intende lui, il canonico, non me, “ortus ex senatoria
gente”, “amicus regis hispaniae”. Aria secentesca, senza dubbio. Degnatelo di
consigli, ma non esagerate, limitatesi a darmi man forte nella mia lotta per la
“mia giustizia” contro viceré palermitani e ministri laici di quell’odiosa città.
In fin dei conti la mia guerra intestina collima con gli interessi di quella
vostra congregazione concistoriale delle “immunità ecclesiastiche”.»
Una relazione tutta in volgare. Il
preludio della tragedia
Non basta; scorriamo la sua
sorprendente “relatio ad limina” in volgarissimo eloquio:
«La lunghezza della diocesi di Girgento l’è di
sessanta miglia in circa, et di lunghezza cinquanta, fa d’anime n. diecendue
mila, et di communione n. quindici mila; li luoghi d’essa sono cinquantadue,
cioè otto chiamati Città Regie, Principati sei, ducati cinque, marchisati otto,
contee otto, baronie con vassallaggi undici, dominio di vassalli otto, baronie
feudi cinquanta, chiese seicentoquatordici; cioè nella città e terre n.
quattrocentocinquantanove, et fuori d’esse n. centocinquantacinque, monasteri
di monache n. 24, case d’orfane cinque, di reparate n. 2, hospitali d’orfani n.
undici, chiese matrici n. quarantanove, parochie n. 5, sacramentali n. undici,
arcipretati n. ventisei, capellani curati n. trentatrè, vicarij foranei n.
quarant’otto, confraternità et compagnie di laici n. dugento trent’otto.
«Don Francesco Traina moderno
vescovo di Girgento diede principio alla sua Cura Pastorale dell’anno 1627 con
una visita generale di tutta la diocesi, la quale ha poi rinnovata secondo la
dispositione del sac. Concilio Trid. complendo con le sue obligatione di
Prelato con la Crisma, con l’ordinatione, recognitione di conti delle chiese di
legati pij et corretioni di costumi depravati, et nell’anno 1630 alli 3 ottobre
convocò il sinodo diocesano, nel quale dispose tutto quello che conobbe esser
di bisogno pel retto governo et amministratione della justitia et doversi
osservare dal clero e suoi sudditi diocesani secondo la dispositione de sacri
canoni, et sacro concilio tridentino, et si diede alle publiche stampe per
Palermo appresso Decio Cirillo.
«E’ stato in ogni tempo acerrimo
difensore della giurisditione ecclesiastica, come ben consta alla Santa Sede
Apostolica poiché particolarmente nell’anno 1631 a 25 febraro fu chiamato ad
istanza di alcuni di detta Diocesi per tal causa, et vista poi la sua
integrità, et il suo zelo fu mandato alla sua chiesa precompenzato col titolo
d’acerrimo defensore della giurisditione ecclesiastica, et contenuando poi nel
medesimo zelo, giornalmente stà constrastando con chi procura conculcar la sua
chiesa, non perdonando né a fatica né a spesa , essendo andato in Palermo più
volte per simili difensioni avanti delli SS. Vicerè, et delli Ministri Regij,
hà similmente portato li suoi ecclesiastici diverse volte davanti dei Delegati
della Monarchia, et indicibili travagli, tutte per difesa della sua chiesa, et
al presente procurando li giurati di quella città di collettare li feudi del
suo vescovato, et li beni patrimoniali dei suoi ecclesiastici con l’impositione
di due tarì per ogni salma di furmento, che si raccoglie, gagliardamente s’ha
opposto procedendo a monitorij, mantenendosi et dalla Monarchia et dalla
potenza dei tribunali laici turbata la sua giustizia, et per così dire legate
le mani dalla violenza di coloro, supplica per il consiglio et aiuto.
«Da che ritornò da Roma tutto
s’applica agli ornamenti della Cathedrale, et primeramente abbellì di stucchi,
et pitture la capella maggiore, et poi fabricò altre tre magnifiche capelle,
l’una del santissimo Sacramento, e l’altra di San Gerlando primo Vescovo et
Patrone della Diocesi, fece sei candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et
due statue, cioè l’una di detto glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa
Vittoria, fabricò un organo magnificentissimo di spesa quattro mila scudi , il
quale poi rovinò con più della metà della chiesa, et tutto il choro, onde
rivoltando esso monsignore vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et
resarcimento con più di venti mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere
di prima, et hoggi si sta fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un
miserabile incendio l’anno 1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove
traslato il corpo, et ossa d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi
quattromila. Rifece il palazzo vescovile con aggiungersi un delizioso giardino;
fondò il monte di pietà in sussidio di tutti i poveri et bisognosi non solo di
Girgento, ma della diocesi. Spese da 12 mila scudi nell’ampliamento del
seminario, accrescendo lo numero degli alunni a sessanta dove prima potevano
essere ventidue, sostentandoli del proprio per qualche manca delle rendite
d’esso seminario, et accrescendo alle scuole della Grammatica et della humanità
la filosofia et theologia, la legge civile et canonica, casi di coscienza, et
la musica con ogni sorte di strumenti, ornandolo, et arrichendolo d’una
copiosissima libraria, provedendosi de’ libri anche da parte lontana, fece di
più donatione di scudi settemila a fine di comprare tante rendite per salario
delli ministri del seminario, quali vuole che siano Capellani di San Gerlando,
et per mantenimento della libraria; et finalmente fondò due monasterij l’uno
della terra della Favara, et l’altro nella terra di Racalmuto, et un altro
nella città di Naro.»
Una tragedia annunciata
Prima di
Zosimo, prima del re di Girgenti, quando monsignor Reina si chiamava Francesco
Traina oriundo di Cammarata
Siamo nel 1645 (ad essere
precisi, sotto la data del primo ottobre): da li a meno di 20 mesi, pare nella
primavera del 1647, s’infiamma lo scenario; il popolo si ribella, la moderata
Agrigento esplode; non sarà il tempo di
Zosimo, il re di Girgenti di Camilleri perché costui appartiene ad un’altra
rivolta, quella settecentesca ai tempi dei
savoiardi. È solo la truculenta ribellione di un popolo affamato
proiettatosi, piromane ed omicida, contro le torri dell’altura di S. Gerlando,
da poco corroborate dallo stucchevole Traina, un presule decrepito a suo dire, e non solo per età aggiungiamo noi.
Stralciamo da uno storico, in vena
di marxismo o di avanzata dottrina sociale della chiesa, Santi Correnti (Storia della Sicilia, Longanesi 1982,
pag. 152 e passim). «Le tristi
condizioni generali dell’isola nel Seicento spiegano a sufficienza i motivi
delle sanguinose sommosse, che frequentemente travagliarono la Sicilia in
questo secolo, e di cui taluna ebbe carattere veramente rivoluzionario. ….
Nella primavera del 1647 la situazione divenne insostenibile, sia perché sfumò
la speranza di un buon raccolto, sia perché da Madrid arrivò l’ordine di
ridurre di due once il peso del pane.» Scoppiano i moti a Palermo (il 16 agosto
il d’Alesi “rimane padrone della situazione”) ed essi «non rimasero isolati,
perché anche Catania, Randazzo, Patti, Bronte, Siracusa, Modica, Castelvetrano,
Mazara, Agrigento e Sciacca insorsero con una consonanza di ideali veramente
notevole, poiché i moti non ebbero carattere antispagnolo neppure in questi
centri, ma squisitamente classista.» Circa l’insussistenza di antispagnolismo
l’A. ci sembra piuttosto disinvolto; quanto all’insorgere di un ideale
classista, beh! sarebbe tutto da dimostrare.
Di lì a poco sarà giustiziato
l’infelice conte di Racalmuto, Giovanni V del Carretto, decapitato nel suo
palazzo il 26 febbraio 1650. L’anno
dopo, una pira s’accenderà per bruciare vivo l’altro racalmutese, fra Diego La
Matina, che giovanissimo ed insofferente delle privazioni del convento di S.
Giuliano a Racalmuto emigra, con pressoché certezza, in Palermo facendo ciurma
con ben 80 scherani, tutti del paese di Sciascia, sotto l’egida del Conte della
loro natia terra. Sbandati, il frate diventa ladro di passo; viene acchiappato;
egli viene in primo momento risparmiato per avere ricevuto il secondo degli
ordini minori; sarà lui stesso ad affidarsi al più comprensivo Tribunale del
Sant’Officio. Per tanti anni l’Inquisizione lo mantiene in vita, nelle galere o
chiuso in carcere sì ma con carne e brodo di gallina e con sangria, fino a
quando il nerboruto giovanottone, in un momento in cui era stato liberato dalle
muffole per parlare serenamente con l’inquisitore, non lo uccide in preda ad
irrefrenabili empiti di collera esistenziale. Sciascia ha un bel ricamarci
sopra, ma persino i suoi accoliti, alla Russi Sciuti sono da tempo inclini a
dargli di voce.
Resta improbo giudicare con gli
occhi, diciamolo francamente, da intellettuale post-comunista (ma imbrattati
sempre di marxismo) un personaggio del Seicento e per giunta vescovo e per di
più siciliano sino all’osso, palermitano per fuga dall’angusta Cammarata di più
o meno antichi avi. Noi non l’abbiamo in simpatia; l’abbiamo subito confessato;
abbiamo così pagato il nostro obolo all’avalutatività delle scienze sociali,
secondo i teoremi del nostro tempo. Altri – e sono storici ponderosi della
locale storia della chiesa agrigentina – tendono ad esaltazioni ed
encomiastiche valutazioni. Una via di mezzo, come scelta assennata?- Facile a
dirsi. Questo vescovo che all’alba di una sanguinosa rivoluzione, di una
rabbiosa rivolta sociale, non sa dire altro al Sommo Pontefice che quelle banalità,
quelle scempiaggini, quelle reiterative autoesaltazioni d’indole penosamente
materialistica come giudicarlo? – e non si può non giudicarlo. Sarà del
Seicento, ma per un uomo di chiesa codesta assenza di umanità e di religiosità,
codesta micragnosa voracità di beni mondani, codesta vanagloria, codesta
ostentazione di ricchezza come si fa a dire che era solo un vezzo del suo
tempo, una venialità, un paludamento ingenuo ma non colpevole?
Già quell’esordio pieno di
lunghezze e di larghezze, di cifre statistiche, di stanche enumerazioni di
ducati e di marchesati, di contee e di baronie e di baronie con vassalli e di
baronie con feudi, con chiese e chiese dentro città e dentro terre, fuori città
e fuori delle terre, con rosari di monasteri, ospedali, parrocchie, chiese
sacramentali, arcipretati, cappellani, curati, vicari confraternite, compagnie
laiche e con quel “dugento trent’otto”, tutto ciò non ha il fascino di un’aria
mozartiana anche se ne evoca il numerare in crescendo. Tutto ciò sa di potere
temporale, di burbanza sopraffattrice, di militaresco passare in rassegna, di
vacuità mondana, di sacrilego inorgoglirsi.
Si vede subito che il vescovo non
ha niente da dire, di nuovo di importante. Incombe uno sgradevole obbligo e lo
si assolve straccamente. Alla curia romana relaziona che "don Francesco
Traina (sic e senza acca ora che scrive in volgare) modermo vescovo di Girgento
diede principio alla sua Cura Pastorale dell’anno 1627”. E sono quindi diciotto anni, ci suggerisce
subito il nostro spiritello laico. Troppi per un despota o per chi – magari un
tempo alquanto alacre di spirito – ha aduggiato con un crescente satrapismo
episcopale. Inoppugnabile, dunque, contrappuntare che erano cose ben note al
Vaticano; erano stati atti anche romani e la curia d’oltretevere ha memoria
d’elefante (ed archivi che non si inceneriscono per una banale rivoluzione come
quella che da lì a poco scoppierà ad Agrigento, portando distruzione dentro i
nuovi armadi del vescovo Traina).
Rammentare la visita d’esordio
lungo tutta la diocesi a che serve, ora che è passato quasi un ventennio? Ha
somministrato cresime e ha ordinato preti: ordinaria amministrazione per un
vescovo, che peraltro spesso e volentieri usava darne incombenza al suo vicario
generale. Dice che ha corretto i “costumi depravati”. E chi gli crede? Sì è
vero, nel 1630 ha ispirato il sinodo diocesano. Ma son passati quindici anni. E
poi, è cosa di poco merito per un presule: è tutta opera dei collaboratori,
degli arcipreti della periferia, magari dei pretenziosi canonici ….. ed in quel
tempo non erano ancora a maggioranza parenti del vescovo.
Una diatriba secentesca tra vescovi e nobili
Anche
Racalmuto nella querelle
E giungiamo al punctum dolens, la diatriba con nobili, arcivescovo di Palermo,
tribunali laici, giurisdizione ecclesiastica dilatata oltre misura con
l’istituto dei monitorij, ed altro del 1631 ed anno successivo. In esordio
abbiamo dato le coordinate di tali controversie basandoci sulle carte della
Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche. L’esteso arco di tempo
trascorso non ha del tutto emarginato la ferita episcopale: brucia ancora ed il
presule se ne lamenta con Roma con
empiti di orgoglio di burbanza: “fu mandato alla sua chiesa preconizzato
col titolo di acerrimo defensore della giurisditione ecclesiastica”. Non era
vero; non fosse stato per l’intrigo regale, Cammarata, S. Giovanni, Chiusa,
Giuliana, Racalmuto sarebbero state piazze (remunerative sotto il profilo degli
alterchi giudiziari) sottratte al Traina ed assegnate al cardinale Doria e suoi
successori; noi sappiammo d’altronde come è andato a finire quell’interdetto
infamante delegato all’ostile porporato panormitano. Vi sarà stato un
compromesso, ed a scorno dell’oriundo cammaratese, questi dovette
inginocchiarsi pubblicamente dinanzi il suo confessore e fare penitenza per
essere ribenedetto. Gongolarono i suoi canonici avversi e se ne ricordarono nel
processo che in definitiva imposero alla congregazione romana. Non fosse nel
frattempo morto, il Traina avrebbe avuto sanzioni cocentissime per essere un
recidivo.
Su vede bene comunque che ancora,
nel 1645, le acque non si erano del tutto quietate: «continuando nel medesimo zelo, giornalmente stà contrastando con chi
procura conculcar la sua chiesa, non perdonando ne a fatica ne a spesa, essendo
andato in Palermo più volte per simili defensioni avanti delli SS. Viceré e
delli Ministri Regij.» Già – avranno pensato a Roma – guarda sto’ vecchio
per venire a Roma e assolvere il suo debito “sta decrepito”; per contrastare
caparbiamente i richiami alla moderazione nella gestione della giustizia, sia
pure da parte laica, ha forze fisiche, ardimento e tracotanza e fa la spola tra
Agrigento e Palermo, sia pure per via mare – sicura – anziché per via terra
temendo i valichi interni tanto minacciosi.
Eppure non ottiene molto:
continua a patire «con li suoi
ecclesiastici diverse volte invasione di Delegati della Monarchia, et
indicibili travagli».Roma giammai era stata tenera con tale istituto
monarchico, sfaccettatura della Legazia Apostolica, invenzione del XII secolo
su manipolazioni di falsi diplomi, non c’era dubbio. Il Traina tenta qui la captatio benevolentiae, ma non ci
riesce. Diversamente dal solito il passo non è neppure degnato di un segno
particolare, di un memorandum per il
seguito di competenza. Pare che i curiali romani non abbiano neppure dato uno
sguardo all’informale – e tutto sommato, irriguardoso – documento vescovile.
Fa capolino la
tormentata faccenda delle gabelle comunali
Vi è ora un passo nodale: «al
presente procura[no] li giurati di quella Città (Agrigento) di collettare li
feudi del suo vescovato, et li beni patrimoniali dei suoi ecclesiastici con
l’impositione di due tarì ogni salma di frumento, che si raccoglie». Egli
«gagliardamente s’ha opposto procedendo a monitorij, mantenendosi et dalla
Monarchia, et dalla potenza dei Tribunali Laici turbata la sua giustizia». E
tutto ciò definisce un insopportabile legar le mani, una intollerabile
violenza.
Crediamo che quei due tarì non
siano stati corrisposti, né dal vescovo né dai suoi ecclesiastici, e quanto ai
feudi del vescovado e ai beni patrimoniali degli ecclesiastici agrigentini
latitudine, lunghezza e larghezza dovevano avere ubicazioni, dimensioni e
titolarità dominicale indefinibili; immunità per ogni dove, dunque; scarsezza
di gettito per la locale giurazia. La ristrettezza delle finanze locali avrà
impedito l’acquisto cautelativo di grano in annata propizia; poi, la siccità,
un’incipiente peste, una rarificazione dei suoli a frumento tassabili hanno dato
il colpo letale alle giacenze ed alle riserve dei monti frumentari della città
e la fame, il sottopeso della pagnotta, il deterioramento del pane presso i
fornai sono stati micce che hanno fatto deflagrare una rivolta popolare rimasta
memorabile accanto alle più celebrate di Palermo (d’Alesi) e di Napoli
(Masaniello).
E d’improvviso ecco far capolino
la finanza locale del ‘600. Non è materia molto arata dagli studiosi. Poche
annotazioni, tanti luoghi comuni ed un aspetto della grama vita dei popoli si
appanna sino a sparire, come se non si fosse trattato di un dramma quotidiano,
già del “pane quotidiano”. Abbiamo visto come i vescovi non si fanno troppo
carico di quello che è un passo inquietante del “pater noster” che pur recitano
all’infinito in un salmodiare con preti monaci, monache bigotte e popolino.
Tralasciando i testi paludati delle nostre moderne università – tanta
presunzione, poco costrutto – qualcosa troviamo in Francesco De Stefano (Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo
– Laterna UL, p.34 e ss.). E’ questo un campo in cui non possiamo asserire
furbescamente che siamo semplici dilettanti e quindi esonerati da
approfondimenti e pronunciamenti anche malevoli. Questa è finanza locale e per
rispetto ai nostri tanti padroni pubblici che ci hanno profumatamente pagato,
dobbiamo dire la nostra. Contro la feluca universitaria siamo costretti ad
opporre la puntigliosità della politica economica della Banca Centrale ed il
presuntuoso suppore e presupporre fiscale del sapere minesteriale.
Dice dunque il De Stefano che
metodi finanziari del governo e metodi delle amministrazioni locali si
equivalevano. Quando abbiamo seguito la tassazione comunale della Racalmuto del
‘Cinquecento abbiamo notato differenze sostanziali, procedure accertative molto
sagge, equilibri nel riparto del carico tributario. I giurati saranno stati
eletti dal conte o da lui proposti al vicerè (dipende dai tempi) ma erano tutti
presi da una saggezza amministrativa e da un localismo umanitario davvero
edificanti. L’imposizione palermitana era di certo becera, proporzionalista,
vessatoria; l’imposizione comitale si trasmutava di valore e si intrideva di
irrazionalità con quel trasferire ai soggiogatari gettiti e prelievi (soluto pro insoluto); ma
il radunarsi, al suono della campanella, nella chiesetta della Nunciata (a
Racalmuto) con i maggiorenti a capo ma non discordi dai capi-famiglia e tutti
assieme procedere al migliore e più equo riparto di quelle calamità che erano
le tasse spagnole, vicereali, ecclesiastiche, comitali e quindi comunali desta
ancora ammirazione e plauso.
Soggiunge il De Stefano che erano
«in mano dei baroni le feudali, spadroneggiate da gruppi o clientele quelle
demaniali; quasi tutte mal dirette e in gran disordine» e ciò perché così
annotava, ad esempio, il presidente del regno nel 1575. Noi, nel nostro
piluccare tra diplomi, processi d’investitura, carte dell’archivio palermitano
o in quelle del vaticano o presso quelle stesse che ancora si custodiscono in
Curia o nelle parrocchie dell’agrigentino penseremmo il contrario. I baroni o
conti tutto vendevano, tutto cercavano di monetizzare subito e ogni cosa
andavano a scialacquarla tra la burbanza nobiliare della Capitale
(palermitana). Ma gli esattori trovavano poi ostacoli e legittime difese in loco e difficilmente la spuntavano. E
bisogna dirlo: il clero locale era caritatevole, amico del proprio popolo e là
dove i vescovi o disertavano o tradivano o addirittura infierivano con il loro
carico di ingiustizia e di nequizie il locale arciprete, il parroco di campagna
(meno, il vicario foraneo, colluso con il suo superiore-fiduciante in rosso) il
modesto sacerdote e i francescani, i carmelitani, gli agostiniani centuripini
supplivano, correggevano, lottavano succubi anche loro della prepotenza
vescovile o abbaziale o del provinciale. Non eroi – sia chiaro – ma neppure
impacciati don abbondii; e d’altra parte di cardinali Borromei neppure l’ombra.
Non c’erano i fra Cristofori ma neppure i Don Rodrigo. Si vuol descrivere tale,
ad esempio, Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, ma è fandonia
popolaresca, nobilitata dal solito sommo ingegno localistico.
«L’abitudine spendereccia, - dice
sempre il Nostro - la mancanza di controlli efficaci, la catena di loschi
interessi tra amministratori e debitori nei comuni demaniali caratterizzano la
storia della finanza locale». Agrigento fu comune demaniale, almeno fino a
quando non venne al Traina l’uzzolo di feudalizzarlo (ma durò poco, la residua
vita del decrepito vescovo; e non per generosità come vorrebbe il Picone, ma
per le ferree e forse meno riprovevoli di quel che non si pensi leggi feudali).
E la vicenda della rivolta popolare, e quella presa di posizione dei giurati
che tanto fastidio dà al presule, e quanto abbiamo già detto e quanto non
mancheremo di aggiungere tratteggiano un quadro del tutto opposto alla
pessimistica visione del De Stefano: i giurati ad Agrigento (e quelli di
Racalmuto), quelli feudali ed ancor più quelli demaniali – anche perché vigeva
un democratico principio di rotazione – ci risultano più dalla parte dei loro
concittadini o compaesani che da quella del lontano principe, marchese, conte,
barone o inaccessibile viceré e suoi accoliti. Quello del De Stefano può
chiamarsi erudita aporia senza riscontro storico, senza approfondimento, senza
la debita avalutatività delle moderne scienze sociali.
Non possiamo non essere d’accordo
sul fatto che «le casse comunali erano sempre esauste, nonostante le
alienazioni di terre e gabelle, i prestiti ed altrettali operazioni.» Ma ciò dice poco. E le cause? Il mito del
bilancio in pareggio crediamo che sia ingenuità ottocentesca finita nel museo
degli orrori economicistici. Anche, oggi, a dire il vero sta vigile la Banca
d’Italia di Fazio, grintosa nella difesa di non si sa più quale moneta, vista
la fine della lira. Una illuminata politica della spesa pubblica può venire
censurata da certi arcigni liberali o liberisti ma fa onore alla saggezza di
siffatti governanti. Ed all’epoca i giurati trasudavano più saggezza che
propensioni sperperatrici. Anche allora c’era chi credeva nella privatizzazione
dei beni demaniali il toccasana degli equilibri di cassa, il risanamento
dell’erario. Non si andava allora – come ora – di là di una cocente
disillusione. E salvo i re spagnoli, non era facile trovare un pubblico
amministratore che fosse lì pronto a venderti una defensa o un solacium (i castra appartenevano al re) o un viridarium o altro bene demaniale. Discorso diverso
erano le usurpazioni, allora come ora.
Le immunità
ecclesiastiche al limite dell’invadenza giurisdizionale
Il guaio erano le “immunitates”
tutte arrogate da santa romana chiesa (cioè alto clero e porporati e quasi
sempre stranieri): emblematico – si direbbe – quello che va lamentando il
Traina nientemeno che a papa Urbano VIII. Se davvero «il parlamento fece
sentire la sua voce, e il governo talvolta intervenne per far riassettare le
finanze locali» fu intervento spurio e soprattutto inconcludente. Gridano i
cittadini racalmutesi che, dopo la peste e la fame ed il dimezzamento della
popolazione del 1575 non ce la fanno più a pagare tande ed imposte al signor re spagnolo, ai suoi burocrati di
Palermo ma è vox clamantis in deserto:
si indebitino ancor di più, l’esattore è lì pronto a sovvenirli nei donativi
regali e se dopo è ancor più miseria e fame e morte, pazienza, gli inviati di
Palermo, con diarie da nababbi, non hanno orecchie, non sentono pietà. Sanno
essere inflessibili. Ottengono quel che spetta al re (o a loro) e se lasciano
ondate di miseria e fame e morte ed odio questo le carte non possono dire; la censura,
il santo ufficio, i tribunali laici, il vescovo, la curia tacciono ed in fin
dei conti sono annuenti. Solo il basso clero dovrà poi lenire le ferite,
attivare gli ospedali, benedire i morti. Ed i giurati non stanno dalla parte
dei carnefici. Anzi: convocano l’intero popolo, al suono della campanella, e
trovano acconce soluzioni, vie d’uscita. Il panizzo si mantiene per merito
loro. La fame può venire lenita. La sopravvivenza assicurata, i paesani
resistono “come erba abbarbicata alla roccia” scrive poeticamente ma con tanta
veridicità Leonardo Sciascia.
Se Messina, Polizzi, Alcamo e
Patti lamentano le incrostazioni e l’immobilismo nel carico tributario ed
invocano che siano gli stessi maestri razionali del regno a prodursi in equi
aggiornamenti, non è per fiducia verso quella istituzione centralizzata, vorace
quanto una moderna famiglia di appaltanti delle imposte in Sicilia, ma per
trovare un espediente legale capace di rastremare le parti più inique
dell’intollerabile carico tributario che viene da lontano, dalla Spagna (e ci
dispiace per chi oggi vuole attenuare le tinte dell’atavico antispagnolismo,
radicatissimo almeno nel popolo).
Non basta una prammatica (ci riferiamo a quella citata del 1650) «per
sapersi … da chi ha processo il mancamento delle università»; quanto ad
Agrigento, le fibule episcopali ed il viola delle mitre canonicali vi hanno
molto contribuito con la pretesa di una diffusa esenzione dai tributi locali.
Non sono poi soluzioni pertinenti «ridurre gli interessi troppo onerosi delle
soggiogazioni … costringere alle
contribuzioni quei facoltosi cittadini che sfuggivano alle tasse sugli affari ‘facendo trapassare
in vari titoli, tutti, o la maggior parte dei loro beni’.» Erano codeste
neppure manovre tributarie ma “grida manzoniane” sia pure d’indole fiscale e
tutto si poteva raggiungere ma non certo “la perequazione del carico
tributario”. Il De Stefano ne trae questa sconsolata inferenza: «la soluzione
del problema della finanza locale urtava negli ostacoli medesimi contro i quali
cozzava quello della ripartizione del gravame fiscale. Anche in questo campo si
ergeva, con tutta la sua rigidezza, il privilegio. In forza di questo, infatti,
non tutte le città erano sottoposte ai tributi generali, o, se lo erano, come
il donativo, l’aggravio era sproporzionato, perché i censimenti erano poco
veritieri e non aggiornati, e la ripartizione era fatta in parti uguali tra
comuni feudali e demaniali.»
C’è del vero; ma l’ordito ci
risulta lasco. Un esempio a chiarimento: abbiamo studiato Racalmuto, e ne
abbiamo scritto … col cuore ed in modo
alluvionale, ci viene autorevolmente rimproverato. Ma lì i censimenti – tanti,
troppi quelli da noi seguiti - sono accuratissimi. Quattro quartieri con
quattro soprintendenti agli ordini della giurazia, tutte personalità assennate
e patriottiche, redigono diligenti e competenti numerazioni dei fuochi e dei
componenti con specifica della capacità contributiva. Commissioni tributarie
raccolgono le dichiarazioni dei redditi, dei patrimoni, delle gravezze e delle
esenzioni. Ne fanno poi una verifica da fare invidia alle moderne agenzie delle
entrate. Ci hanno incuriosito le rettifiche delle elusive postulazioni di oneri
detraibili, ad esempio da parte del furbo pittore racalmutese del Seicento
Pietro D’Asaro. Non era lì il marcio: era nella bolsa macchina tributaria di
ispirazione spagnola. Non riguardava la finanza locale il disequilibrio
impositivo sibbene, appunto, il riparto dei donativi. Era l’imposta capitaria
che colpiva dissennatamente a favore del re, del papa, del vescovo, del lontano
convento che con abilità avvocatesca era riuscito ad impossessarsi delle
rendite di un conte il cui antenato non aveva rispettato il diritto di paragio
di una malevola sorella, virgo in
capillis, e questa aveva a dispetto lasciato, come nel caso di donna
Aldonza del Carretto, il calpestato diritto in eredità ad un istituendo
monastero di Santa Rosalia a Palermo. Dopo cinquant’anni, accondiscendenti
tribunali davano ragione all’abate palermitano che requisiva capitali (pochi)
ed interusurij (dieci, venti volte il
capitale) distraendo dalla lontana contea (in questo caso, Racalmuto)
preziosissima liquidità a vantaggio di monache ricche e preti damerini
dell’opulenta Palermo. A ciò si aggiunga che “il peso dal quale erano esonerate
le città privilegiate si riversava sulle altre», ma non osiamo seguire fino in
fondo l’autorevole A. quando scrive: «allo stesso modo, nell’ambito di ciascun
municipio i ceti privilegiati facevano valere nella tassazione la loro
condizione particolare; e quando sopraggiungevano carichi ai quali nessuno
avrebbe dovuto sottrarsi, cercavano di scaricarli sugli altri.» Abbiamo visto
il Traina e i suoi più fidi ecclesiastici contrastare la giurazia quanto
all’indifferibile soprattassa di due tarì per ogni salma di frumento. L’abbiamo
visto lanciare i suoi micidiali momitorij, di cui parleremo dopo. Non ci
risulta che i nobili agrigentini abbiano seguito la stessa strada; oltretutto
non avevano monitorij da scoccare. A Racalmuto, non ci consta un solo caso di
sottrazione alle imposte comunali – ed erano tante e sorprendentemente moderne
– da parte di “ceti privilegiati”. In un centro agricolo di seimila abitanti,
di ceti privilegiati non ce ne stavano, salvo qualche ricco prete, di norma
locupletatosi con la peccaminosa usura.
E tale categoria, quella degli usurai, era per tradizione e per istinto
odiata e perseguitata. Un tal Sabia di Palermo, alla fine del Quattrocento, era
stato crudelmente lapidato e bruciato. Ed allora l’antisemitismo allignava
persino nelle più lontane plaghe paesane.
«La finanza comunale – per il De
Stefano – si fondava, come la statale, più sulle imposte che sulle tasse, e gli
aumenti più forti avvenivano proprio nel campo dei tributi indiretti: sicché in
tutte le sollevazioni delle plebi uno solo fu sempre il grido “fora le
gabelle”, perché “le gabelle per lo più li pagano li poveri et no li ricchi”».
La vicenda impositiva locale aveva risvolti che mi sembra non possano ridursi a
categorie piuttosto fruste quali le imposte distinte dalle tasse, residuati di
una scienza delle finanze che oggi lascia il tempo che trova. Analizziamo
quello che a fine ‘Cinquecento erano le imposte locali di Racalmuto.
La finanza locale
a chiusura del XVI secolo
Stabili e gravezze, introiti ed
esiti, struttura di un bilancio comunale del XVI secolo eccoli secondo una
testimonianza preziosa e piuttosto completa quale ce la fornisce un Rivelo del 1593 di Racalmuto:
« [f. n.° 807] Praesentant Ragalmuti die XI Julij V ind. 1593 [...]
Rivelo Ragalmuto .. presentato allo
spettabile Natalitio Buscello in virtù di bando promulgato d’ordine di detto
spettabile delegato.
Stabili
In
primis la gabella dello pane et foglie: lo pilo, vino, formaggio, panno, la
ligname, pesci e sono affittate questo
anno onze quattrocento sesanta che a ragione de dieci per cento sono onze
quattromiliaseicento...............................................................................................................-/
4.600
stabili onze
quattromilia sei cento
........................................................................................
-/ 4.600
Gravezze
Nota: Paga ognie anno alli Sindicaturi onze quindici; il capitale sono onze
centocinquanta: a dieci per
cento................................................................................................................................
-/ 150
Paga ognie anno
per salario dello orloggio, oglio et
conci onze dodici:
il capitale sono
centovinte....................................................................................................
-/ 120
e
anno per salario dello mastro notaro et carta per le ocurentie onze dieci: il
capitale
son onze
cento
.....................................................................................................................
-/ 100
Paga ognie anno
per spese de bagaglie de cumpagnia onze trenta:
il capitale son onze
tricento...................................................................................................-/ 300
Paga ognie anno
per salario di procuratori per occorentia apresso la Corte onze dudici:
il capitale sono
cento vinte
...................................................................................................
-/ 120
Paga ognie anno
alla Regia Corte onze tricentosettantaquattro, tarì tridici e grana quattro a
dieci per cento sono onze tremila setticento quaranta quattro
............................................................ -/ 3.744
Paga ognie anno
onze sei per lo pagamento della Regia Corte in tre tande onze sei; il capitale
sono onze sesanta
...........................................................................................................................
-/ 60
Paga ognie anno a
don Loise Mastro-Antonio di Palermo onze
vinteotto e tarì dicidotto a ragione de dieci per cento: il capitale sono onze
duecentoottantasei ................................................ -/ 286
GRAVEZZE
QUATTROMILIA OTTO CENTO OTTANTA .........................................
-/ 4.880
INTROITO ONZE QUATTROCENTO
SESANTA.......................................................... -/ 460
ESITO ONZE QUATTROCENTO
OTTANTA OTTO TARI' UNO E GRANA QUATTRO………………………………………………………………..... -/ 488.1.4
RESTA DI GRAVEZZE
OGNIE ANNO ONZE VINTE OTTO TARI' UNO E GRANA
QUATTRO.......................................................................................................................-/ 280.1.4
che a dieci per
cento dette onze vinte otto tarì uno e grana quattro a dieci per cento sono il
capitale onze
duecento ottanta tarì undici
..................................................................... -/ 280.11.0
------------
+ cola macaluso. J[uratus]
+ joseppi cachaturi. [Juratus]
+ antonino vilardo J:[uratus]
+ notar giseppi sauro e grillo __ J[uratus].
Una realtà locale come Racalmuto,
con le sue cinque-sei mila anime ed uno
“stato” feudale pari alla metà dell’attuale territorio (l’altra metà costituiva
lo stato di Gibillini con un bel castrum
su al Castelluccio) veniva tributariamente inventariata: valore patrimoniale,
onze 4.600 (noi calcoliamo 350 euro ad onza, pari quindi ad euro 1.610.000,
circa 3.117 milioni delle vecchie lire).
Tale posta patrimoniale si calcolava capitalizzando gli introiti dalle gabelle
comunali pari ad onze annue 460 (euro: 161.000; £. 311 milioni) con un tasso di
patrimonializzazione pari al 10%. Non sarà un sistema altamente sofisticato,
non è il non plus ultra della scienza
delle finanze, non è sottile come un modello econometrico, ma ha grossa
efficacia rappresentativa. Sugli “stabili” insistono poi le “gravezze”: sono
pari ad onze 4.880 (pari ad euro 1.708 mila o a vecchie lire £. 3.307 milioni)
e rappresentano la patrimonializzazione sempre al 10% di spese correnti puntigliosamente
elencate. E tornando ai fattori reddituali, abbiamo solo onze 460 annue di
introiti (euro: 161.000; £. 311.739 mila) non sufficienti a fronteggiare gli
esiti pari ad onze 488.1.4 (euro: 170.800; £. 330.715 mila).
Ogni anno il deficit ascende
dunque ad onze 20, tarì 1 e grana 4 (euro: 7.000; circa £. 13 milioni e mezzo).
|
|
|
Rivengono gli incassi comunali
dalle gabelle soprattutto del pane e delle foglie, e poi da quelle del pilo,
del formaggio, del panno, della ligname dei pesci. Sono gabelle date in
affitto; non consentono gettito superiore ad appena 311 milioni delle vecchie
lire. Non si può dire dunque che siano aggravi intollerabili (72.396,53 delle vecchie lire pro
capite). Ma era proprio un onere indifferente per quell’epoca? A distanza di un
mezzo millennio e con i salti quantitativi e qualitativi della moderna economia
monetaria è difficile dirlo. La ristrettezza delle spese e soprattutto
l’assoluta assenza di spese d’investimento comunale fanno pensare ad una
economia curtense saggia ma oltremodo sparagnina. In ogni caso non era il
gettito comunale a salassare l’industre centro agricolo: re e preti; vescovo
arcipreti, notai e soprattutto gli esattori del conte segnavano poste ben più
gravose.
Per un qualche ragguaglio sulle singole specie di
gabelle, ci avvaliamo delle note del prof. Enrico Mazzarese Fardella al testo
di Giovan Luca Barberi (J. Luca de Barberis – Liber de secretis – a cura di Enrico
Mazzarese Fardella, Giuffré Milano 1966, passim):
1. Gabella dei panni: «Tale gabella gravava sui panni importati, e in minor misura
su quelli stessi provenienti dall’Isola. Rappresentava una considerevole fonte
di reddito per il fisco giacché “li denari di lo Regno, ut plurimum, nexino per
li vestimenti di panni e siti … “ – Capitula Regni Siciliae, cap. XCI. (cfr.
pag. 9).» Ci sorge il dubbio che per i pochi e non pregevoli tessuti immessi
nello stato feudale di Racalmuto scattasse la doppia imposizione, alla fonte ed
al consumo (tassa comunale).
2. Gabella del pilo: « E’ una delle gabelle ‘nuove’ del secolo XIV, così dette per
distinguerle da quelle contenute in precedenti pandette. Essa riguardava
cotone, formaggi, lana, cuoio, pelli, burro, strutto, miele, sego, esclusi
restando i derivati della macellazione. – pag. 10»
3. Gabella della piscaria: riguarda il pesce venduto in “piscaria”.
4. Gabella della ligname: Riguardava la legna consumata per forni ed altre funzioni.
Dobbiamo restare, però, subito
avvertiti che l’elenco del Rivelo è molto sbrigativo e non può considerasi in
alcun modo esaustivo; non per nulla non v’è dato fiscale specifico. Peraltro,
le vere gabelle erano quelle del conte, o meglio quelle che il conte affittava
a sua volta. La ragnatela è lì minuziosa, capillare, fantasiosa,
asfissiante. A titolo esemplificativo
riportiamo questa sfilza di tasse e gravami, variamente definibili:
1) La gabella del giardino della Fontana di Gian
Ventura;
2) Item la gabella della grana;
3) Item la gabella della bocceria;
4) Item la gabella del fundaco;
5) Item la gabella dello zagato dell’oglio;
6) Item la gabella del zagato del salume;
7) Item la gabella della mercia;
8) Item la gabella del molino di suso;
9) Item la gabella del molino d’immenzo;
10) Item la gabella gabella del molino di Archi;
11) Item la gabella del molino novo;
12) Item la gabella del molino della Botte con sue
terre;
13)Item la gabella del molino di Garamoli con sue
terre;
14) Item la gabella dell’arangi e nocille;
15) Item la gabella delle tre mesi della vendita del
vino;
16) Item la gabella del molino di Ercole con sue
terre;
17) Item la gabella del mastro notaro del capitano;
18) Item la gabella della baglia;
19) Item la gabella delle vigne di Garamuli con la
dispenza;
20) Item la gabella delle chiuse di Garamuli;
21) Item la gabella dell’orto Menzi Arati;
22) Item la gabella dell’altro menzo tratto;
23) Item li terragioli dentro e fuori.
Ma qui si esula dalla tassazione
comunale, dalla finanza locale ed in questa sede soprassediamo. Con gravezze si
indicano le poste di spesa che stranamente vengono capitalizzate. Una innocua
superfetazione: quel che conta è l’ordito degli esiti. Quindici onze all’anno
(5.250 euro o 10/milioni circa di vecchie lire) vanno ai “sindicaturi”
l’equivalente dell’attuale sindaco e della sua giunta. Il salario per tenere in
efficienza l’orologio pubblico fissato nella torre comunale al centro del paese
comporta un esborso di 12 onze l’anno (420 euro per otto milioni circa di
vecchie lire) Vi sono compresi l’oglio ed i conci (olio e riparazioni). Dieci
onze al notaio (350 euro per oltre sei
milioni e mezzo di lire), comprensive di salario, spese di cancelleria et
“ocurentie” varie.
Noi, però, siamo propensi a
pensare che vi erano forme succedanee di tassazione comunale che in qualche
modo erano atte a sopperire ai buchi di bilancio. Analizziamo, ad esempio, la
transazione del 15 gennaio del 1580 tra il conte Girolamo del Carretto e
l’università di Racalmuto. Una clausola impressionò il Garufi[3] e lo
indusse a credere che tanta solerzia spingesse il lontano padrone racalmutese
ad imporre misure per la salvaguardia dell’igiene del suo popolo ed in tale
ottica avesse vietato l’uso delle acque della Fontana per un deleterio lordare
la fonte da parte delle caratteristiche lavandaie locali. Se scandagliamo il
testo di quell’articolato cinquecentesco difficilmente giungiamo alle medesime
conclusioni del grande storico. Vi troviamo invece i germi di una tassazione
surrettizia a vantaggio della finanza locale sia pure sotto le mentite spoglie
di contravvenzioni comitali. Guardiamo insieme il testo:
1).
2) Item perché è antica consuetudine
ed osservanza, et prohibizione potersi lavare nello loco d’undi currino li
canali di la funtana di lo loco nominato lo fonti e la bivatura, e quelli che
in tali lochi proibiti hanno lavato su stati incorsi in pena di onze 4.7.10
applicata detta pena le onze 4 allo barone che pro tempore sù stati ed al presente
al Conte, e li tt. 7.10 a li baglij, per tanto stante la nuova convenzione et
accordio si patta e statuisce che ogn’anno s’abbia di promulgare bando per
ordine di detto illustrissimo Signor Conte e suoi successori; lo detto bando di
proibizione di lavarsi in detti lochi per lo quale si proibiscono tutti e
qualsivoglia persone che siano in detta terra di Racalmuto di qualsivoglia
stato grado e condizione che siano altro non eccettuato ne escluso eccetto che
li genti di casa per uso di detto signor Conti, suo castello e casa, ma che
tutti l’altri incorrono alla predetta pena delle onze 4.7.10 applicati del modo
infrascritto, cioè delli tt. 7.10 alli
Baglij tt. 3.15 e l’altri 3.15 abbiano d’entrare in potere delli magnifici
giurati della detta terra, e cossì similmente pagandosi le dette onze 4 si
debbano di partiri onze 2 à detto Conti ed onze 2 in potiri delli jurati, delli
quali dinari di pena che intriranno à
detti jurati s’abbiano da fare tutte le spese e tutti consi e cosi necessarij
di detta fontana ed aquedutti, nello quali loco si concede facoltà ad ogn’uno
dell’università putiri denunciari la pena di quella persona che ci incorrirà,
ita che li lavandari di detto illustrissimo signor conte lavando altre robbe di
casa di detto illustre conte siano nella medesima pena nell’esazione, della
quale pena sia data l’autorità e potestà
alli giurati presenti et qui pro tempore saranno di potere creare una persona
deputata ogn’anno la quale habbia potestà d’esigeri auctoritate propria le
sudette pene e pigliare in pena qualsivoglia persona che controverrà, la quale
in fine anni aggia di rendiri alli giurati di detta terra justo e legali cunto
della sua amministrazione e lo illustre conti non pozza impedire in cosa
nessuna si non tantum et dumtaxat in la porzione che compatisce ad esso le
quale pene ch’entriranno ut supra d’erogarsi e spendiri tanto in la predetta
fontana come in l’orologio ed altre cose in beneficio dell’università, ed in
quanto alla pena di onze 4 relasciandoci il conte la sua parte, in tutto ò in
parte s’intenda relaxata la parte competente alli jurati.
La contorsione sintattica, il
rovello impositivo, l’inverosimiglianza delle infrazioni ed altro non ci
consentono una percezione esaustiva del fenomeno; non possiamo ammettere che
ogni lavandaia che avesse osato portare i panni a sciacquarli nel deflusso
delle acque della Fontana fosse in grado di corrispondere la multa di quattro
onze (circa 2.800.000 di vecchie lire); sarebbe stata una imposizione
impossibile; et ad impossibilia nemo tenetur
anche allora. Siamo indotti quindi a pensare che bastasse pagare alcuni
picciuli per usufruire del diritto di lavaggio nelle acque comitali della
Fontana; per l’accordo, la metà degli introiti annui andava al conte l’altra ai
giurati per le opere pubbliche di manutenzione della fontana stessa e per la
riparazione dell’orologio «ed altre cose in beneficio dell’università»
Le commissioni tributarie locali, a dire del De Stefano
Ripigliamo il De Stefano: «il
governo intervenne perché le commissioni per la tassazione fossero costituite non solo di “facultosi”, ma anche
di “mediocri” e “infimi” in numero uguale, e ordinò che ogni anno si convocasse
il consiglio generale. Ma la equa ripartizione e il riassetto finanziario
restarono sempre un mito. Nonostante i continui espedienti e le operazioni
finanziarie di molti comuni […] la finanza locale fu sempre “exausta”,
“pauperrima”, e lo stesso Filippo II se ne preoccupò; i bilanci furono sempre
dissestati per le spese della stessa amministrazione, per i bisogni
dell’annona, per gli interessi su debiti – “per cui sono continuamente vessati
da commissari et delegati quali veramente consumano et rovinano”, tanto che
alcuni comuni furono costretti a chiedere anche moratoria – per le
fortificazioni e mura cittadine, per i diritti di posata e di alloggiamento
delle truppe, dei capitan d’armi, dei loro provisionati.»
Non difetta l’informazione; ma
l’acume critico non sempre soddisfa. Abbiamo riportato un esempio concreto,
quello di Racalmuto. Piccolo centro si dirà per essere significativo. Là,
comunque, le spese per l’annona sono molto contratte, per l’equità tributaria
non pare vi siano dati per preoccuparsene, ma le spese militari risultano
sovrabbondanti, gli squilibri sono perniciosi soprattutto per pompaggi di liquidità,
forieri di ristrettezze e di malessere sociale. La genesi della mala politica
tributaria va ricercata altrove; diciamolo pure, nella sudditanza da un re
straniero, da un governo spagnolo, da una nequizia palermitana con il suo
parlamento, con le arroganze dei tre bracci egemoni, con l’insensibilità verso
la periferia, il comune agricolo, il paesino in cui questo distinguo tra
‘facultusi’, ‘mediocri’ ed ‘infimi’ non è rilevante, non è barriera sociale e
non consente furbizie impositive. I rappresentanti dei quartieri appartengono
quasi tutti ad un minuscolo ceto medio, a mastri più svegli di li jurnatari ma
rispettosi e sostanzialmente assimilabili ai pochi ‘allittrati’, ai magnifici
che fanno il notaio nel piccolo centro, o il capitano, o il nobil uomo addetto
al governatore del castello, o il prete (l’arciprete, quasi sempre, viene da
fuori, prescelto da un vescovo che raramente mette piede in paese). Non vi è
molta acredine tra le classi sociali; queste non sempre si distinguono con
steccati insormontabili. Qualche tendenza a fare matrimoni separati per il
mantenimento del patrimonio familiare conquistato con tenacia e sacrificio
(talora invero con la deprecabile usura) la si registra. Pullulano però le
confraternite; là l’interclassismo è fisiologico: gestire i sottosuoli delle
chiese di proprietà per la “buona morte”, per la sepoltura dignitosa – sperando
che sia ‘immarcescibile’ - accomuna, smussa le differenze: con rotazioni
persino semestrali si diventa governatori, sindaci, priori, membri del consiglio
di amministrazione, diremmo oggi. E la scelta ricade indistintamente tra i più
apprezzati confrati, e non sempre sono i ‘magnifici’ a spuntarla, pur numerosi
e pur validi. Vi è anzi una rappresentanza interclassista che ancor oggi
sorprende e favorevolmente. ‘Monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li
rini’ si diceva, ma senza malanimo o anticlericalismo; il motto stava a
significare che tolta la parte religiosa – per questo c’era il cappellano
– poi l’amministrazione e la gestione
competevano ai laici. I rolli che si conservano in matrice a Racalmuto
testimoniano ancora una corretta e
valente gestione.
I monitorij
Nella “relatio” in volgare del
Traina che abbiamo tralasciato forse da troppo tempo ecco sbucare l’accenno ad
un istituto tutto particolare del ‘600 episcopale agrigentino: i monitorrj.
Dice il Traina che la sua arma contro giurati sopraffattori, a suo favore ed a
favore dei privilegi degli ecclesiastici suoi amici ha usato (e noi pensiamo:
abusato) l’arma dei monitorij. Un’arma che doveva essere religiosa e diviene
invece una sopraffazione ecclesiastica contro la giusta richiesta di contributi
alla locale finanza, non solo disastrata ma soprattutto necessaria di fondi
appunto per l’annona, per dare il pane quotidiano di cui parla il pater noster al popolo affamato. Si
tratta in parole povere di uno snaturamento della giurisdizione ecclesiastica.
L’andazzo avrà ulteriori risvolti perniciosi fino a degenerare nella arcinota
controversia liparitana, concretatasi ad Agrigento in una crisi politica e
religiosa nei primi decenni del Settecento, quale nella sostanza è mirabilmente
rappresentata nel Re di Girgenti di
Camilleri.
Un quarto dei registri dei
vescovi di quell’epoca è costituito, ad Agrigento, da codeste sanzioni,
apparentemente di natura religiosa, in sostanza espressione di un potere
usurpato, quello giudiziario in materia civile. Studi negli anni ‘Sessanta del
Collura ne forniscono significati ed ingerenze antigiuridiche. In mancanza
ancora di codici e di separazione tra i vari poteri vigeva una sorta di
costituzione materiale, donde codesto potere giudiziario del vescovo nel campo
dei diritti civili, ed anche purtroppo in quello delle pressioni
giuspubblicistiche. I giurati non potevano tassare per le finalità della locale
finanza, bloccati e braccati com’erano allorché
andavano a toccare pretesi privilegi della chiesa agrigentina. Si
beccavano una scomunica, subivano intollerabili ‘monitoij’.
Per un orientamento ci avvaliamo
di un vecchio testo di diritto ecclesiastico[4] e ne
stralciamo un paragrafo:
XXIV de literis
monitorialibus.
Praeterea quascumque monitoriales, poenalesque literas in
forma significavit, consueta, contra occultos, et ignotos malefactores,
satisfacere, conscios vero revelare differentes, servata tamen forma Concilii
Tridentini, nec non constitutionis Pii Papae V, praedecessoris nostri, super
haec editae, concedendi.
Trattavasi dunque di lettere monitorie contro
malfattori ignoti ed occulti, con l’obbligo di chi sapeva qualcosa di renderla
nota, ovviamente nel rispetto della forma voluta dal Concilio Tridentino e con
l’osservanza delle costituzioni di Pio V. Il Gallo, avvocato siciliano del XIX
secolo segnalava
a pag. 131
un dispaccio borbonico che precisava contorni ed abusi dei monitori.
Non ostante che il Concilio di
Trento con un suo provvido Stabilimento avesse dichiarato (98
), che i monitorii i quali si spedivano dalle curie vescovili ad finem
revelationis pro deperditis seu subtractis rebus, fossero contrari alla sacra
dottrina della Chiesa, e che in questi casi i soli vescovi per se stessi e per
motivi urgentissimi potessero spedirli, pure l'esperienza costante dal dì che
fu pubblicato il concilio di Trento, ha dimostrato sì in questo regno, come in
altri luoghi, che gli abusi de' monitorj per i motivi additati eransi resi
insoffribili, in grave pregiudizio non meno della giustizia, che in aperto
disprezzo delle censure ecclesiastiche, le quali non debbono mai fulminarsi che
per gli soli motivi canonici, di pubblico scandalo, di peccatori ostinati e di
altri simili eccessi, ma non mai per causa meramente temporale, e per cui le
parti offese, per essere ristorati de' loro danni, o per recuperare le robe
perdute, o per impedire gli effetti delle false testimonianze, hanno aperto la
strada ne' tribunali ordinarj dove per lo appunto queste materie debbono
trattare colla dovuta imparzialità ed esattezza. Cotesti monitorj provvidamente
furono anni sono proibiti in questo regno (99
S.M. ora non trova ragionevole motivo per recedere da una cotanto salutare disposizione
uniforme a' sacri canoni ed all'utilità delle censure, le quali, per essere
proficue, non debbano vagare sopra di oggetti estranei, e contrarj al fine per
cui sono state inculcate.
Leonardo Sciascia s’imbatté in un atto giudiziale del vescovo Traina.
Non ne capì molto, a dire il vero. Del resto il documento gli era stato fornito
dall’allora sacerdote Di Giovanna. Il Racalmutese a quel tempo s’industriava
nel rendere storico il romanzo di William Galt Fra Diego La Matina ma aveva poca materia per le mani. «Per
scrupolo, per non trascurare niente – annotava malinconicamente nella Morte dell’Inquisitore – vogliam
aggiungere che può darsi vi sia un fondo di verità […] nella romanzesca
invenzione del Natoli […] e vien fuori da un documento che si trova
nell’Archivio della Curia Vescovile di Agrigento [Registro Visite, 1643-164].
Da tale documento si rileva che il 6 novembre del 1643 il vescovo di Girgenti
ordinava, presumibilmente ad un magistrato della Curia vescovile, di recarsi
nella terra di Racalmuto, per scomunicare (servatis
servandis), arrestare, tradurre a Girgenti con ogni precauzione, don
Federico La Matina. …».
Abbiamo rintracciato quella disposizione e vi abbiamo notato solo
certi aspetti procedurali; ovviamente vi era stata prima una lettera monitoria;
si erano scoperte talune inadempienze (che noi supponiamo riguardare il
patrimonio di quel prete che nulla ebbe a che vedere con il monaco agostiniano
ribelle e che fu poi un probo sacerdote molto più assiduo di quel confessare
suor Maria Maddalena Camalleri, come s’intigna lo Sciascia); erano scattate le
sanzioni di cui parla lo Scrittore.
I monitori secenteschi della
Racalmuto di Sciascia
Ben più significativi sono i monitorij che donna Beatrice del Carretto
ed altri racalmutesi riuscirono a farsi concedere, a dire il vero alcuni anni
prima dell’avvento del Traina ad Agrigento. Stralciamo da un nostro precedente
lavoro sulla storia della Racalmuto del Seicento.
Non erano passati molti
mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo III che dei ladri audaci si
erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine
pubblico a Racalmuto era veramente precario: furti, abigeato, rapine nelle
campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono
ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino
Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali
(una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia
vescovile accorda di buon grado. La
curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di
Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta
quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe,
stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte
malandrinerie, dall’altro c’è la
piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto
benessere in diffusi strati della popolazione
racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine
pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre
gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata
ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622
altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don
Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “Semo stati significati da
parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il monitorio
vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo
Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo
Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et
defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi
bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati
scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino
di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come
di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del
Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata
che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica
per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben
volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei
processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621
(vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo
settembre 1621). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo
spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo III del
Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi
quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna
Beatrice Del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che
l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta
racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche
fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe
fuorviante.
La vedova riaffiora
dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime
desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche
reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a Racalmuto.
Riemerge la più generale
questione della latitudine della giurisdizione episcopale. L’istituto del
monitorio affiora con contorni che non ci pare che gli accademici paludati
abbiano del tutto sviscerato; francamente, a nostro avviso, non l’hanno neppure
sfiorato. Sempre pronti comunque a chiedere venia per questa nostra arrogante
affermazione. Da dilettanti, manteniamoci entro limiti di furba modestia.
Gli anni del tramonto
L’età decrepita
L’alacrità del Traina di ritorno da
Roma
«Da che ritornò da Roma tutto
s’applica agli ornamenti della Cattedrale» abbiamo visto come il presule
reagisce alla scoppola dell’inchiesta pontificia, dedicandosi agli orpelli,
alla “fabbrica”, ad indorare cattedrale e cappelle. Dimostra un’angustia
mentale e soprattutto una mancanza di spirito pastorale, di religiosità che
francamente ci turba in un vescovo. “Tutto s’applica” ormai, ma a che cosa?
Alle vanità ed alle pompe di questo mondo. Francesco d’Assisi era passato invano,
e dire che Traina ne porta il nome. Egli innanzitutto … ma lasciamo a lui la
parola: «et primeramente abbellì di stucchi, et pitture la capella maggiore, et
poi fabricò altre tre magnifiche capelle, l’una del santissimo Sacramento, e
l’altra di San Gerlando primo Vescovo et Patrone della Diocesi, fece sei
candeleri d’argento, due veroforarij grandi, et due statue, cioè l’una di detto
glorioso san Gerlando, et l’altra di Santa Vittoria, fabricò un organo
magnificentissimo di spesa quattro mila scudi, il quale poi rovinò con più
della metà della chiesa, et tutto il choro, onde rivoltando esso monsignore
vescovo tutte le sue forze alla riedificatione et resarcimento con più di venti
mila scudi, l’ha quasi ridotta a miglior essere di prima, et hoggi si sta
fabricando lo titolo della Chiesa abbruciato da un miserabile incendio l’anno
1640. Fece similmente la cassa d’argento, dove traslato il corpo, et ossa
d’esso venerabile santo di spesa d’altri scudi quattromila. Rifece il palazzo
vescovile con aggiungersi un delizioso giardino.»
Qualche empito di generosità a
dire il vero non manca e neppure difetta una certa sensibilità alla cultura ed
alla formazione dei suoi sacerdoti. Il seminario, soprattutto: «fondò il monte
di pietà – si vanta e qui a ragione - in
sussidio di tutti i poveri et bisognosi non solo di Girgento, ma della
diocesi.» Non bada a spese per il suo seminario: «spese da 12 mila scudi
nell’ampliamento del seminario, accrescendo lo numero degli alunni a sessanta
dove prima potevano essere ventidue, sostentandoli del proprio per quel che
manca delle rendite d’esso seminario, et accrescendo alle scuole della
Grammatica et della humanità la filosofia et theologia, la legge civile et
canonica, casi di coscienza, et la musica con ogni sorte di strumenti,
ornandolo, et arrichendolo d’una copiosissima libraria, provedendosi de’ libri
anche da parte lontana, fece di più donatione di scudi settemila a fine di
comprare tante rendite per salario delli ministri del seminario, quali vuole
che siano Capellani di San Gerlando, et per mantenimento della libraria.» Ma
per il bene delle anime?: nulla ci risulta. E per il resto della diocesi?
Nessun commento:
Posta un commento